Scienza del linguaggio. Secondo F. de Saussure i compiti primari della l. sono: a) descrivere il maggior numero possibile di lingue storico-naturali e famiglie di lingue sia nella loro funzionalità in un dato momento, sia nel loro divenire attraverso il tempo; sia da un punto di vista interno sia da un punto di vista psico-sociologico, culturale, storico e, in generale, esterno; b) individuare i fattori normalmente in gioco nel funzionamento e nel divenire di tutte le lingue; c) definire e delimitare i propri metodi di indagine, le proprie nozioni fondamentali. In conformità a tali compiti, la l. si è venuta articolando in diverse direzioni di ricerca (➔ glottologia).
Le origini. - Prodromi della moderna l. possono rintracciarsi nel mondo indiano e greco, e più generalmente dovunque abbia agito l’interesse per la descrizione di una lingua particolare o per l’elaborazione di una teoria generale del linguaggio. Linguistico è l’interesse di Dante, quando (De vulgari eloquentia I, 8) tenta una classificazione delle lingue europee; tentativi di l. sono le discussioni sulle origini delle lingue neolatine fiorite fra il 16° e il 18° sec. (in Italia con P. Bembo, P.F. Giambullari, B. Varchi, L. Castelvetro, G. Ruscelli, G. Bartoli, L. Salviati, più tardi con L.A. Muratori; e, prima di tutti, con C. Tolomei).
Il 19° secolo. - Di studio scientifico si può parlare a partire dal principio del 19° sec., quando cominciano a essere utilizzate le conoscenze linguistiche accumulate nel 18° (le ricerche di G.W. Leibniz, il glossario universale petropolitano, le testimonianze di W. Jones e poi di F. Schlegel sul sanscrito), talora sotto la spinta di necessità pratiche (missioni, colonizzazione, commerci). Fondamenti teorici alla nuova scienza sono posti soprattutto da K.W. von Humboldt, che vede nelle lingue lo spirito dei vari popoli; da R.K. Rask, che individua i criteri per stabilire la parentela fra più lingue nelle corrispondenze morfologiche e fonologiche; da F. Bopp che, comparando tra loro gli elementi costitutivi (radice e suffissi) di nomi e soprattutto di verbi, pone su basi solide il riconoscimento della parentela fra il sanscrito, le lingue classiche e le germaniche e fonda la glottologia indoeuropea, e da J. Grimm, che indica lo sviluppo organico del tedesco dal periodo germanico comune alla lingua moderna e così innesta sul metodo comparativo la ricostruzione interna alle singole lingue. Una salda metodologia della giovane scienza, che andava rapidamente accrescendo i suoi campi di ricerca e le sue scoperte, è stata però fornita da A. Schleicher che, partendo dalla concezione delle lingue come organismi naturali, strutturati secondo il modello botanico di Linneo, concludeva che nella l. devono valere i principi delle scienze biologiche, a partire da quello dell’evoluzione ciclica mutuato da C. Darwin. Abbandonata, in seguito, l’idea delle lingue come organismi naturali, restarono della sua opera due acquisizioni metodologiche: a) il principio che in una famiglia linguistica le somiglianze più strette fra certe lingue si spiegano ammettendo l’esistenza di rapporti di parentela, a partire da un antenato comune (albero genealogico); b) la ricostruzione, su tali basi, delle fasi scomparse.
Un opuscolo di J. Schmidt sui rapporti di parentela fra le lingue indoeuropee aprì una breccia in questo sistema. Schmidt osservò che le rassomiglianze più strette erano per lo più fra lingue vicine, e ne concluse che esse erano dovute al diffondersi di innovazioni da diversi centri, innovazioni che di volta in volta avevano abbracciato diverse porzioni di territorio: con ciò non solo si poneva in discussione l’idea della ricostruzione di fasi linguistiche intermedie fra l’indoeuropeo e le lingue storiche, ma l’immagine di Schleicher di un indoeuropeo rigidamente unitario lasciava il campo a quella di un insieme di dialetti, o meglio di isoglosse. Questa teoria ebbe successo solo fra i dialettologi e romanisti, poi tra i geolinguisti; e anzi la scuola che si disse dei neogrammatici pervenne ad affermare che le leggi fonetiche non soffrono eccezioni, salvo quelle dovute all’azione dell’analogia: anzi leggi fonetiche e analogia furono da essi considerate come i fattori essenziali del divenire linguistico.
Se per il rigore metodologico che introdussero, i neogrammatici rappresentarono un indirizzo fondamentale della l., dal punto di vista concreto i loro principi non sempre trovavano rispondenza nella realtà viva dell’evoluzione linguistica. Così, dopo i neogrammatici, l’attenzione si spostò sullo studio dei modi in cui le lingue mutano. Con G.I. Ascoli, per es., la discussione sulle cause dei mutamenti, al di là della ‘spiegazione’ schematica dei neogrammatici, si soffermò soprattutto sull’azione dei sostrati, specie in rapporto con la formazione delle lingue e dei dialetti romanzi. In tal modo si dava maggiore risalto all’elemento spazio nell’evoluzione delle lingue: ne derivò la geografia linguistica di J. Gilliéron, di J. Jud, di K. Jaberg, e soprattutto di M. Bartoli. La considerazione delle lingue nello spazio geografico conduceva alla questione se esistano o no dialetti, suscitata già dagli Schizzi franco-provenzali di Ascoli (1878), criticati da quanti – a torto – negavano potersi determinare limiti dialettali nell’interno del territorio neolatino. Le discussioni che seguirono, vivaci anche nel secolo successivo, cercarono poi di individuare un concetto univoco di dialetto.
La l. del Novecento. - Oltre a proseguire con importanti risultati le ricerche in campo diacronico, sul versante teorico la l. è dominata nel 20° sec. sia dallo strutturalismo (➔), sia dalla grammatica generativo-trasformazionale (➔ generativismo). La seconda metà del secolo si è caratterizzata per la ricca articolazione specialistica, vieppiù accentuatasi negli ultimi decenni. Pur tenendo conto della varietà di temi e metodi, alcune grandi linee di tendenza sembrano comunque individuabili. In primo luogo si pone il rapido progresso dell’informatica e lo sviluppo di applicazioni nel campo dell’ingegneria delle comunicazioni, che hanno dato vigore ad alcuni settori (per es., i sistemi perfezionati di trascrizione automatica del parlato, di riconoscimento della voce e del parlante, in parte anche di traduzione automatica).
La l. storica, dopo aver vissuto momenti di minore popolarità all’interno delle scienze del linguaggio, è tornata stabilmente al centro dell’interesse teorico attraverso vari filoni d’indagine. Per es., l’interesse per la natura e la dinamica interna dei sistemi linguistici ha portato alla sintesi di problematiche prima nettamente separate, come la ricostruzione di fasi linguistiche preistoriche e l’indagine sociolinguistica su situazioni presenti, in un indirizzo denominabile come ‘sociolinguistica diacronica’. Un altro problema assai dibattuto è quello della sede originaria degli Indoeuropei, problema che era stato accantonato alla metà del 20° sec. in seguito al fallimento della ricostruzione lessicalistica e che, dalla fine degli anni 1960 in poi, è tornato di moda, coinvolgendo nel campo linguistico il lavoro ricognitivo di importanti archeologi. Accanto al tradizionale confronto con l’archeologia, la l. storica ha visto aprirsi, a partire dalla metà degli anni 1980, un analogo confronto con la genetica delle popolazioni, dopo che i risultati di alcuni studi di genetica hanno posto in primo piano tematiche che sembravano abbandonate, come l’origine del linguaggio e delle lingue, la cronologia e la geografia della diffusione delle lingue umane sulla Terra, il rapporto tra geografia antropica e geografia linguistica, il rapporto fra trasmissione biologica e trasmissione linguistica e culturale.
Un’altra caratteristica della l. alla fine del 20° sec. è la presenza di una dialettica tra la l. formale (nomologico-deduttiva, theory-oriented) e quella empirico-descrittiva (induttiva, data-oriented). Al primo filone fanno capo gli sviluppi dipendenti dalla grammatica generativa di N. Chomsky. Nel secondo sono rubricabili, per es., la l. tipologica, la l. pragmatica, la grammatica funzionale, la fonologia e la morfologia ‘naturali’, la l. e, in particolare, la semantica cognitive. Una differenza fondamentale tra i due orientamenti riguarda notoriamente la natura stessa dei dati linguistici che costituiscono i protocolli fattuali su cui basare l’analisi. Secondo una concezione che Chomsky ha sostenuto fin dalla nascita della teoria generativa, ribadendola più volte negli ultimi lavori, l’oggetto di studio della l. è rappresentato dalla conoscenza che il parlante ha della propria lingua nativa, conoscenza che si evince dai giudizi di grammaticalità che il parlante stesso dà sulle produzioni linguistiche reali. Gli altri quadri concettuali si rifanno invece a una concezione più tradizionale del dato linguistico, inteso come una collezione di testi (di qualunque natura ed estensione) prodotti grazie alla conoscenza di una lingua.
Un altro contrasto teorico netto riguarda la natura stessa del linguaggio e di conseguenza l’iter dell’acquisizione linguistica. Su questo problema si è consolidata, negli anni 1990, la distinzione fra approcci autonomisti e approcci non-autonomisti. I primi (generativisti) sostengono che il linguaggio è un sistema autonomo e dotato di caratteristiche indipendenti da elementi extralinguistici o pragmatici; secondo i generativisti, in particolare, la facoltà di acquisire la lingua materna è una caratteristica innata, autonoma rispetto ad altre abilità cognitive e specifica dell’essere umano, poiché il nucleo di tale facoltà è costituito dagli aspetti computazionali del linguaggio, vale a dire dalle regole che generano le costruzioni sintattiche alle quali sono poi assegnate una forma fonica e un’interpretazione semantica. I secondi (cognitivisti, funzionalisti) sostengono invece che il funzionamento del linguaggio dipende da elementi esterni al linguaggio stesso.
Se, nonostante questa varietà di orientamenti, si volesse comunque tracciare un bilancio sintetico della l. teorica dagli anni 1950 agli inizi del 21° sec., si dovrebbe dire che la grammatica generativa si è inizialmente affermata in misura maggiore rispetto agli altri indirizzi, con abbondanza di descrizioni linguistiche di stampo generativo e la larga diffusione di concetti e termini originariamente elaborati in tale ambito di studi; negli anni più recenti, a un parziale ripiegamento del generativismo su sé stesso (➔ minimalismo) ha fatto riscontro una crescente fortuna della tipologia e della l. cognitiva.
Fonologia. - Sono senza dubbio di matrice generativa alcune delle teorie fonologiche più stimolanti degli ultimi decenni del 20° secolo. La fonologia autosegmentale (o fonologia non lineare) è stata elaborata rispondendo a una duplice esigenza descrittiva: da una parte lo studio delle lingue a toni, nelle quali la diversa intonazione delle vocali distingue parole altrimenti identiche (per es., il cinese); dall’altra lo studio delle lingue semitiche (come l’arabo o l’ebraico), dotate di una struttura morfologica per cui gli elementi fonici costitutivi di uno stesso morfema non sono necessariamente contigui all’interno della parola. Ancor più strettamente connessa con gli sviluppi recenti della grammatica generativa è la fonologia della reggenza. In questa teoria il livello fonologico è formato da rappresentazioni attraverso le quali le proprietà di un elemento lessicale vengono analizzate in costituenti sillabici e prosodici; su questi componenti agiscono in seguito restrizioni di localizzazione e di prominenza gerarchica. La parametrizzazione è connessa quindi con le differenze possibili nelle rappresentazioni lessicali, data una base di principi universali. Nella cosiddetta teoria dell’ottimalità (optimality theory), infine, le rappresentazioni fonologiche sono determinate dall’azione non più di principi ma di restrizioni universali.
Morfologia. - Nel quadro generativo i fenomeni tradizionalmente assegnati alla morfologia vengono in parte redistribuiti tra la fonologia e la sintassi. In particolare, vi sono approcci fonologici, come la fonologia lessicale, che sviluppano un’analisi in termini di regole ordinate dei fenomeni morfofonologici, dovuti alla composizione ciclica dei morfemi in costituenti più ampi. Più significativo appare il trattamento del rapporto tra morfologia e sintassi.
Per altro verso, sono stati elaborati modelli che rafforzano l’autonomia del livello morfologico rispetto a quello fonologico e a quello sintattico. M. Aronoff (1994) ha individuato un’entità, il cosiddetto morfoma (morphome), che costituirebbe una caratteristica esclusivamente morfologica: essa non è definibile né in termini fonologici né in termini semantico-funzionali, poiché risulta priva al tempo stesso di forma fonologica concreta e di significato extramorfologico. Ne sono un esempio gli elementi radicali latini come script- o tons- (cfr. i participi passati scriptus «scritto», tonsus «rasato»), che differiscono sia dal radicale perfettivo (scrips-i «ho scritto», totond-i «ho rasato») sia dal radicale imperfettivo (scrib-o «scrivo», tond-e-o «rado»). Le forme verbali basate sulla prima serie di radicali (participio passato, participio futuro, supino, iterativo, nomi d’agente, astratti deverbali) non hanno in comune né l’aspetto fonologico né la funzione né il significato, ma se quel radicale appare in una di esse, allora appare in tutte le altre: scriptus scripturus scriptum scriptito scriptor scriptura scriptio, tonsus tonsurus tonsum tonsito tonsor tonsura tonsio ecc. Nozioni analoghe a quelle di morfoma sono state applicate proficuamente a diversi problemi di l. storica romanza, rivelandosi particolarmente utili nel dimostrare il ruolo di grande importanza che entità esclusivamente morfologiche possono giocare nel determinare il mutamento morfologico.
In alternativa agli orientamenti generativisti si pone la morfologia naturale, secondo la quale la grammatica di una lingua, e in particolare la sua morfologia, obbediscono a principi generali di economia semiotica (trasparenza, diagrammaticità, iconicità) che tendono a rendere ottimale il rapporto tra forma e contenuto. In quest’ottica, per es., un nome d’agente come mangiatore, facilmente analizzato dal parlante nei suoi componenti mangia- e -tore, ciascuno dei quali corrisponde a un elemento del significato di «persona che mangia», risulterebbe più motivato (cioè inseribile in paradigmi più facilmente gestibili) rispetto a una parola come fabbro, nella quale non è possibile individuare dei segmenti che corrispondano agli elementi del significato «persona che lavora il ferro».
Sintassi. - Soprattutto in campo sintattico la l. generativa è quella che ha prodotto alla fine del 1900 i risultati più rilevanti. La concezione chomskyana ha continuato a evolversi nel tempo e alcune delle ultime proposte innovano in maniera radicale rispetto alle posizioni iniziali di Chomsky (1957, 1965). Le tappe più significative della sintassi generativa dagli anni 1980 a oggi sono costituite dalla teoria della reggenza e del legamento, dalla teoria dei principi e parametri e, infine, dall’approccio minimalista. Nel percorso segnato da queste tappe si può individuare una tendenza a ridurre sempre più i livelli di rappresentazione necessari alla teoria, e insieme il tentativo di sottolineare il ruolo delle caratteristiche universali del linguaggio umano, alle quali si cercano di attribuire non solo le analogie tra le varie lingue, ma anche le differenze tra di esse e in definitiva la variazione linguistica.
La teoria della reggenza e del legamento (government and bind;ing) conserva la distinzione tra un livello di struttura profonda (deep structure), che agisce sulle entrate lessicali, e uno di struttura superficiale (surface structure), che assume come proprio input l’output del livello precedente e lo fornisce a sua volta come input alla rappresentazione fonetica e a quella semantica. L’ordine degli elementi all’interno della struttura sintattica e i rapporti reciproci di dipendenza assumono così in questa teoria un ruolo ancora più importante che nelle fasi precedenti, anche attraverso l’integrazione nella sintassi generativa di alcuni importanti concetti di carattere logico-semantico, come, per es., la categoria di caso profondo (C.J. Fillmore, 1968), che è alla base della teoria dei ruoli tematici. Il principio di legamento regolerà le differenze tra anafore, pronomi ed espressioni referenziali. Per es., nella frase «Luca ama sé stesso» il pronome anaforico «sé stesso» può riferirsi solo a «Luca», mentre nella frase «Luca ama lui» il pronome «lui» deve obbligatoriamente riferirsi a qualcuno diverso da «Luca». La teoria della reggenza descrive e spiega le differenze tra frasi apparentemente molto simili nella struttura ma molto diverse nel significato, come per es., «Luca ha dormito dentro la tenda» (dove «dentro» regge «ha dormito») e «Luca ha portato dentro la tenda» dove «dentro» non regge «ha portato»).
La teoria dei principi e parametri si applica specialmente alla sintassi, ma è in realtà di ambito molto più generale. Secondo questa teoria, che si integra strettamente con quella della reggenza e del legamento, i principi grammaticali sono universali e rappresentano l’elemento comune a tutte le lingue, mentre i parametri consistono in una serie di scelte binarie che provocano le differenze tra una lingua e l’altra. In quest’ottica, per es., la differenza tra l’italiano «Mangio una mela» (senza soggetto pronominale obbligatoriamente espresso) e l’inglese «I eat an apple» (con soggetto obbligatoriamente espresso) non dipenderebbe più dall’applicazione di regole facenti capo a grammatiche diverse, ma dall’attivazione di uno o dell’altro valore del parametro «caduta del pronome» (o «del soggetto nullo», o pro-drop). Ciò conduce evidentemente a una nuova concezione dell’acquisizione linguistica: nell’ipotesi che anche i parametri siano di natura universale e che la differenza tra le lingue dipenda solo dai valori parametrici di volta in volta fissati, anche la variazione linguistica potrebbe connettersi con fattori biologici e innati.
Nella proposta minimalista, infine, Chomsky (1995) arriva a concepire la grammatica come una procedura computazionale che opera direttamente su elementi del lessico, componendoli in costituenti. Una delle più importanti innovazioni del modello consiste nell’abbandono dei livelli di rappresentazione interni alla sintassi che caratterizzano invece tutti i modelli precedenti. In particolare, non si postula più la separazione tra struttura profonda e struttura superficiale, poiché si può dimostrare che entrambi questi livelli di rappresentazione sono privi di proprietà specifiche e non svolgono funzioni che non possano essere svolte da altri componenti. Per es., non essendovi più la formazione di una struttura di base cui si applicano trasformazioni che producono una struttura di superficie, una frase passiva e la corrispondente attiva sono generate attraverso due derivazioni diverse, senza che una sia alla base dell’altra. Rispetto alle precedenti, la teoria minimalista accentua pertanto la centralità del lessico: derivazioni diverse infatti non dipenderanno dall’applicazione di regole diverse allo stesso materiale lessicale, bensì da scelte lessicali anche solo leggermente diverse.
Solo in parte collegata con la sintassi generativa è una teoria che ha avuto fortuna a partire dagli anni 1970, denominata comunemente grammatica relazionale: alle regole generativo-trasformazionali si sostituisce, come elemento centrale, una rete di relazioni grammaticali scandite su più livelli, in ciascuno dei quali uno stesso elemento può esser portatore di una diversa relazione grammaticale (per es., di soggetto nel primo livello e di oggetto nel secondo livello).
La l. del testo (cui hanno lavorato soprattutto R. Harweg, E. Coseriu, W. Dressler, J.S. Petöfi) si occupa di definire i procedimenti e i requisiti necessari perché una serie di frasi divenga appunto un ‘testo’, cioè un insieme coerente. Tra questi figurano, per es., la coesione semantica tra le varie parti, lo sviluppo di un’informazione nuova rispetto a quella già data, i rimandi tra gli elementi del testo ecc. La l. del testo usa risultati e osservazioni di quasi tutte le discipline linguistiche in una sintesi per molti versi originale; si ricollega alla retorica classica e per alcuni suoi interessi si sovrappone alla critica stilistica, all’analisi del racconto, all’ermeneutica.
La l. matematica è un ambito di ricerca che ha per oggetto l’applicazione di metodi matematici alla l., in cui non ci si limita alle lingue naturali, ma si includono anche le lingue artificiali (linguaggi formalizzati, linguaggi di programmazione ecc.). Questo indirizzo nelle scienze di linguaggio, inaugurato nel 1935 da K. Ajdukiewicz, ha avuto un notevole sviluppo, consentendo considerevoli progressi nella creazione di linguaggi di programmazione e negli studi sull’intelligenza artificiale. Dall’inizio degli anni 1960, a seguito dell’impiego dei calcolatori negli studi per la traduzione automatica, la l. matematica (talvolta designata come l. formale o applicata) ha avuto un notevole sviluppo. Tra gli studi più significativi, quelli di N. Chomsky, che hanno fornito le definizioni matematiche di alcuni tipi di grammatiche e delle loro proprietà matematiche. Ultimamente la l. matematica ha trovato applicazione anche a problemi di l. storica, per es. nella realizzazione di cladogrammi che descrivano relazioni di parentela o affinità linguistica sulla base di parametri espressi in termini numerici.
Con l’espressione l. pragmatica lo statunitense C. Morris indicava quella branca della scienza generale dei segni che studia «l’origine, gli usi e gli effetti» dei segni stessi (1949). A lungo trascurata, la pragmatica è in seguito divenuta un punto di notevole interesse: numerosi sono gli studi dedicati all’analisi di come effettivamente avvenga la comunicazione linguistica e di quale sia il rapporto tra i segni a livello virtuale, di sistema, e la loro effettiva produzione e ricezione, sotto l’influenza di fattori variabili come gli interlocutori, il contesto immediato e quello culturale e remoto ecc.
La l. storica, che fino a non molto tempo fa era la l. per eccellenza, ha visto mutare il suo campo d’indagine, che si è esteso a un arco di lingue e famiglie linguistiche superiore a quello di una volta. I metodi della ricostruzione in senso stretto elaborati per l’indoeuropeo hanno mantenuto la loro piena validità; piuttosto, il rinnovamento c’è stato nel modo di guardare alla storia complessiva di una lingua, giacché molti metodi di analisi nati per lo studio sincronico possono essere utilmente proiettati in una dimensione diacronica, contribuendo a rendere più ricco e articolato il quadro dei fatti linguistici ricostruiti.
La l. tipologica s’interessa soprattutto della ricerca di principi di organizzazione dei sistemi linguistici che rendano conto della variazione delle lingue, nonché della classificazione di queste in termini di proprietà universali, assolute o possibili all’interno di una gamma definita di realizzazioni, con l’esclusione di quelle possibili sul piano logico ma non attestate. A partire dagli anni 1960 la l. tipologica ha condotto un vasto lavoro di analisi e di classificazione di dati, producendo una serie d’importanti acquisizioni, per es., in tema di definizione di categorie problematiche come quella di «soggetto», a partire dall’esame di tradizioni linguistiche diverse da quelle europee, o in tema di generalità e incidenza di tratti semantici come l’animatezza (determinatezza) e del loro ruolo nel funzionamento della morfosintassi. Inizialmente, sulle orme di J.H. Greenberg, il lavoro si è concentrato sulla ricerca empirica di principi linguistici universali e delle implicazioni tra tali principi: per es., se una lingua ha preposizioni e verbo iniziale o finale di frase, allora avrà probabilmente anche la sequenza nome-aggettivo, che a sua volta implica la sequenza nome-genitivo. La notevole produttività degli studi tipologici è dimostrata dal fatto che alla base di molte problematiche discusse nella l. teorica recente si trovano proprio considerazioni tipologiche: per es. nell’applicazione di metodi fonologici all’analisi dei sistemi semplificati (pidgin e creoli) e di quelli in via di formazione (processi di apprendimento di lingue seconde).
Negli anni 1980-90 le ricerche sulla produzione, comprensione e acquisizione del linguaggio sono proseguite attivamente, estendendosi ad altri fenomeni del linguaggio e accrescendo la loro sofisticazione metodologica, ma senza introdurre novità veramente significative e senza risolvere il conflitto tra due posizioni teoriche opposte: quella chomskyana dell’autonomia del linguaggio dalla cognizione, secondo la quale il linguaggio è una capacità cognitiva distinta, indipendente dalle altre capacità cognitive e basata su facoltà innate; e l’altra, secondo la quale non vi è un modulo mentale separato per il linguaggio e non vi è una base innata specifica per le strutture linguistiche, ma il linguaggio emerge utilizzando varie capacità cognitive di per sé non linguistiche. Alcuni aspetti innovativi della psicolinguistica (➔) della fine del 20° sec. hanno riguardato un maggiore interesse per la morfologia e il lessico, oltre che per il linguaggio parlato rispetto a quello scritto, per la produzione rispetto alla comprensione linguistica e per la variabilità tra le diverse lingue. Inoltre, molte ricerche sono state dedicate a chiarire la natura della sperimentazione usata nella disciplina, raffinando le metodologie di ricerca e scoprendone le possibilità e i limiti; ma il fattore più innovativo è stato l’emergere del connessionismo, cioè di un sistema teorico che usa modelli simulati al calcolatore ispirati alla struttura e al modo di funzionare del sistema nervoso (reti neurali). La rete neurale è in grado di leggere correttamente non solo le parole sulle quali è stata addestrata, ma anche parole nuove, mai incontrate durante l’addestramento. Analoghe ricerche condotte sull’apprendimento da parte di una rete neurale hanno mostrato che non è necessario postulare l’esistenza, la scoperta e l’incorporamento di regole per spiegare come i bambini apprendano la lingua materna. Il comportamento linguistico del bambino nelle diverse fasi dello sviluppo rifletterebbe semplicemente l’accumularsi dell’esperienza, la frequenza delle varie classi di verbi incontrati in tale esperienza, il grado di somiglianza fisica (fonologica) tra i verbi appartenenti alle varie classi, e l’organizzazione interna che di norma si sviluppa in un sistema del tipo rete neurale (il sistema nervoso del bambino) come risultato di tale esperienza. I settori di ricerca che maggiormente si orientano verso l’analisi delle attività neuronali a livello cerebrale sono spesso indicati con il nome di neurolinguistica (➔).
La sociolinguistica
Negli ultimi decenni del 20° sec. hanno conosciuto un rapido sviluppo le ricerche di sociolinguistica (➔), con il formarsi di una pluralità di approcci e correnti metodologiche. La sociolinguistica detta variazionistica, o correlativa, o quantitativa, rappresentata da W. Labov e dalla sua scuola, si basa sull’analisi di repertori di parlato autentico effettuata mediante raffinati metodi statistici. La sociolinguistica interazionale e interpretativa ha il proprio capofila in J. Gumperz ed è volta a ricostruire le strategie e i meccanismi mediante i quali i parlanti attribuiscono significato alle produzioni linguistiche, contestualizzandole. L’etnografia del parlare di D. Hymes inquadra l’attività verbale nella trama delle relazioni sociali proprie di una cultura: in tal senso, si collega anche alla l. antropologica e all’etnolinguistica (➔). Nonostante le differenze di impostazione e di metodo tra le correnti sociolinguistiche, è opinione comune che la sociolinguistica rientri tra le scienze del linguaggio piuttosto che tra quelle sociali. Anche i sociolinguisti più inclini a cercare le fondazioni scientifiche della sociolinguistica nella teoria generale del comportamento e dell’interazione sociale, piuttosto che nell’attenzione per il dato reale e nel ricorso alla statistica per l’analisi empirica, si servono comunque per il proprio lavoro innanzitutto di concetti e metodi propri della linguistica. L’etnolinguistica, da parte sua, si concentra sulle finalità e differenze culturali manifestate nella lingua e sul rapporto tra lingua e cultura proprie di una determinata società (in particolare, di società prive di scrittura), ponendo particolare attenzione alla semantica lessicale e alla tipologia testuale. Proprio a causa dell’eterogeneità del suo ambito d’azione e della sua posizione interdisciplinare, la sociolinguistica, a fronte di una quantità rilevante di ricerche empiriche, non dispone ancora di una formalizzazione teorica comparabile ad altri settori della linguistica. Nel corso degli ultimi decenni del 20° sec. si è assistito tuttavia al nascere e al consolidarsi di una serie di concetti cardine, che possono considerarsi largamente condivisi all’interno della comunità scientifica. Il primo di tali concetti è quello di variabile sociolinguistica. In funzione dei principali fattori sociali con cui sono correlate e che ne costituiscono le dimensioni di variazione, si riconoscono tre classi fondamentali di varietà di lingua: le varietà diatopiche (o geografiche, in cui il criterio di riconoscimento è la distribuzione territoriale, geopolitica dei parlanti), le varietà diastratiche (o sociali, in cui il criterio di riconoscimento è la posizione sociale, lo strato o gruppo sociale di appartenenza dei parlanti) e le varietà diafasiche (o situazionali, in cui il criterio di riconoscimento è la diversità delle situazioni comunicative). Ogni parlante membro di una certa comunità usa una determinata varietà diatopica e diastratica di lingua, quella propria della sua regione di origine e dello strato o gruppo sociale a cui appartiene, e ha a disposizione alcune varietà diafasiche diverse adeguate ai caratteri più o meno formali o tecnici delle situazioni comunicative contingenti. Per certi fenomeni e certe manifestazioni del rapporto fra lingua e società, e per spiegare la diffusione delle innovazioni linguistiche, il mantenimento di forme censurate o la presenza, presso certi parlanti, di tratti non congruenti con la varietà sociogeografica tipica del loro strato e gruppo sociale, è risultato di notevole importanza il ricorso a una nozione proveniente dall’antropologia sociale, quella di rete sociale (social network). Attraverso la ricostruzione della rete sociale di appartenenza si può capire perché parlanti di uno stesso gruppo, che hanno la stessa posizione sociale (e per i quali quindi le differenze non sono spiegabili nei tradizionali termini correlativi di classe sociale, sesso, età ecc.), parlino in modo differente, utilizzando diversamente le varianti di determinate variabili. In generale, reti sociali chiuse, dense e molteplici, territorialmente accentrate, con legami fitti tra poche persone, hanno l’effetto di rafforzare le norme interne al gruppo, e dunque, dal punto di vista linguistico, favoriscono l’adesione a una norma linguistica locale (non standard), e il suo mantenimento; reti sociali aperte e poco dense, con scarsi legami fra persone numerose, e aventi confini non ben delimitati, sono correlate con l’adozione di forme non locali e della norma standard. Quello di commutazione di codice è un altro concetto molto usato nella sociolinguistica: si definisce così il passaggio, nel corso della conversazione, da una lingua a un’altra lingua o varietà di lingua, che si verifica, nei parlanti di comunità con repertori bilingui o plurilingui, in seguito a un cambiamento in uno dei fattori o componenti che intervengono nell’evento comunicativo. Il fenomeno, che rappresenta uno degli aspetti più interessanti nello studio del plurilinguismo, non è semplicemente il risultato di una mescolanza di sistemi linguistici, dovuta all’incapacità del parlante bilingue di padroneggiare i due codici, ma avviene secondo regole precise e ben descrivibili. Inoltre, esso non costituisce un fattore di disturbo nella comunicazione, ma si configura come una risorsa ulteriore nella gamma di varietà e modi comunicativi a disposizione del parlante.
La corrente di studi sociolinguistici che va sotto il nome di analisi della conversazione, nata negli anni 1960 nell’area delle scienze sociali, si fonda sull’assunto che oggetto d’indagine devono essere le tecniche che i membri di una società usano per interagire all’interno del contesto sociale in cui operano. Su base rigorosamente empirica, si è mostrato come la conversazione abbia una precisa struttura con regole che conferiscono all’interscambio comunicativo, al di là di un’apparente caoticità e banalità superficiale, una complessa tessitura. Anche l’alternanza di interlocuzione fra i partecipanti di una conversazione obbedisce a principi ben definiti, secondo un meccanismo di cambiamento di turno che prevede un insieme limitato di regole e opzioni.
In sociolinguistica con l’espressione barriera linguistica si indicano sia il ritardo linguistico (cioè la netta discrepanza tra il quoziente d’intelligenza verbale e quello non-verbale) sia, e soprattutto, le connessioni tra le caratteristiche del linguaggio e il rendimento scolastico. U. Oevermann (1969) parla di «barriera selettiva linguistica», individuando nel linguaggio una variante che blocca la mobilità sociale.