Denominazione del ramo asiatico di una delle lingue indo-arie, veicolo di molte forme della cultura aria dell’India, dal periodo vedico fino ai nostri giorni. Si distinguono: un s. vedico, ovvero la lingua degli inni del Ṛgveda; un s. classico, il s. per eccellenza, nella forma regolata e codificata dagli stessi brahmani in funzione dell’esegesi religiosa, ma anche dall’opera di grammatici, primo per importanza Pāṇini (5°-4° sec. a.C. ca.); un s. ieratico, ovvero la lingua della letteratura esegetica (Brāḥmana, Āraṇyaka, Upaniṣad), che rappresenta una forma intermedia fra le altre due; un s. epico, vale a dire la lingua di poemi epici quali il Mahābhārata e il Rāmāyana, che precede cronologicamente quella classica; un s. misto (detto anche buddhistico ibrido, o dialetto gatico), denominazione con cui si indica una forma di pracrito mediata attraverso il s., che si ritrova soprattutto in brani poetici (Gāthā) di alcune opere canoniche del buddhismo settentrionale.
La forma che s’impose come lingua di cultura fu quella classica, che si costituì probabilmente intorno al 7° sec. a.C. e che fu una lingua viva fino forse al 9° sec. d.C., per continuare da allora in poi a vivere, oltre che nell’uso religioso, come lingua dotta, con una funzione analoga a quella del latino nella civiltà occidentale in epoca medievale e moderna. Trasmessi per lungo tempo oralmente, i testi sacri furono trascritti dapprima in caratteri brāhmī e kharoṣṭī, alfabeti probabilmente derivati dall’aramaico, poi, a partire dall’8°sec., in devanāgarī. Sono usate inoltre, pur se in misura minore, altre varietà locali, quali il bengali e il telugu.
Per la letteratura in lingua s. ➔ India.