scuola Istituzione sociale, pubblica o privata, preposta all’istruzione, quale trasmissione del patrimonio di conoscenze proprio della cultura d’appartenenza, o alla trasmissione di una formazione specifica in una determinata disciplina, arte, tecnica, professione, mediante un’attività didattica organizzata secondo regole condivise.
Al di là delle differenze, pur notevoli tra paese e paese, l’elemento che accomuna tutte le forme di s. è che in esse la formazione e il consolidamento dei saperi avvengono attraverso la strutturazione formale delle prestazioni richieste agli allievi, mediante l’indicazione di obiettivi di apprendimento, di mezzi adeguati per realizzarli, di un sistema di incentivi e disincentivi diretto a valutarne positivamente o negativamente il raggiungimento con eventuali conseguenti prassi sanzionatorie.
Altro elemento comune a tutte le forme di s. è che in esse il giovane affronta sin dall’inizio la complessità della vita sociale: ciò consente di assumere consapevolezza dei contenuti di ruolo adulti, preparando all’esercizio sostanziale della cittadinanza. In questo senso, la s. è un’agenzia di socializzazione secondaria, in cui si acquisiscono pratiche di comportamento adeguate alla costruzione del vivere sociale, sia entro relazioni asimmetriche, focalizzate sulla dimensione dell’autorità dell’insegnante, sia entro interazioni paritarie, definite da meccanismi di competizione o cooperazione con il gruppo dei compagni.
Le più antiche civiltà orientali conoscono solo una s. sacerdotale, che ha finalità religiose. È soltanto in Grecia (già nel 6° e ancor più nel 5° sec. a.C.) che la s. diventa strumento di un’educazione liberale. Ad Atene l’organizzazione scolastica assume un notevole grado di specificazione e articolazione. I giovani erano guidati (dal settimo al diciottesimo anno) prima dal grammatista (che insegnava a leggere e scrivere e a far di calcolo), poi dal citarista (che insegnava a suonare la cetra e li indirizzava all’apprendimento della poesia melica) e dal pedotriba (che presiedeva all’educazione fisica). Nella seconda metà del 5° sec., per opera dei sofisti, si presenta l’ideale della paideia, della formazione mediante la cultura. Si determinano quindi, nell’ambito dell’educazione superiore, indirizzi diversi, l’uno rivolto prevalentemente alla formazione filosofica e politica (quello di Platone), l’altro a quella retorica (quello di Isocrate); essi preannunciano la costituzione, che si realizzerà solo in epoca alessandrina, di istituti di alta cultura paragonabili alle università. In età ellenistica si diffonde la s. pubblica; la s. è fisicamente individuabile in un solo edificio (il ginnasio).
A Roma, per il prevalere dell’interesse pratico-politico, l’educazione rimane a lungo nell’ambito familiare e con destinazione eminentemente pratica. Una vera e propria s. pubblica si sviluppa solo sotto l’influsso greco, a cominciare dal 3°-2° secolo. Le nozioni elementari erano impartite dai ludimagistri o litteratores, la varia cultura dai grammatici, nelle s. di grammatica; in un secondo tempo si costituirono le più elevate s. di retorica. Il processo di statizzazione, che iniziò alla fine della repubblica, può dirsi interamente compiuto al principio del 4° sec. d.C.
Nel Medioevo le istituzioni educative avevano principalmente finalità morali e religiose. Troviamo, al principio del 6° sec., s. parrocchiali, s. cattedrali (per la preparazione alla vita ecclesiastica) e s. claustrali o cenobiali. Notevole fu l’impulso che impresse alle istituzioni educative Carlomagno al principio del 9° sec., ma si trattò di un’opera destinata a vanificarsi già nel 10° secolo. In seguito, tuttavia, con il fiorire della vita sociale ed economica, non tardò a farsi sentire presso i ceti più abbienti il bisogno di una s. che obbedisse a finalità mondane e non più religiose ed ecclesiastiche. Si assiste così a una fioritura di s. private delle quali la Chiesa tuttavia conserva un controllo, ma che con l’affermarsi, specialmente nei comuni italiani, dello spirito laico, dovettero rispondere sempre più all’esigenza di dare ai figli della borghesia la preparazione necessaria alla vita pratica e agli affari. Di conseguenza si moltiplicarono da principio le s. private laiche e successivamente, nel 14° sec., le vere e proprie s. comunali (con o senza latino o con poco latino) diffuse in tutti i centri di intensa vita economica e politica.
L’Umanesimo contribuì al processo di laicizzazione della scuola. Sorsero numerose le s. che si ispiravano alle istituzioni di Guarino Veronese e di Vittorino da Feltre, e si diffuse particolarmente il tipo di s.-convitto o s.-famiglia. Tali strutture, fino al 19° sec., nei paesi non interessati dalla Riforma, rimasero sotto il controllo ecclesiastico. In Italia l’indirizzo scolastico prevalente si mantenne su basi umanistiche. Tutta la s. secondaria era rappresentata da collegi e licei fondati da ordini religiosi: il corso di studi era ordinato (e tale restò, senza sostanziali mutamenti, fino al 1859) in 6 classi, numerate a rovescio, secondo il sistema tedesco. In Germania il ginnasio fu poi profondamente riformato dal movimento neoumanistico: si introdusse l’insegnamento obbligatorio del greco e si diede più spazio agli insegnamenti moderni e scientifici; in Italia con la legge Casati del 1859 si costituì il liceo-ginnasio in 8 anni, fondendo l’organismo tradizionale italiano con quello del ginnasio tedesco.
L’offensiva contro l’indirizzo umanistico della s., a favore di quello realistico (tecnico-scientifico), era cominciata dal 17° sec., condotta da varie parti (da Comenio, dai portorealisti, dagli oratoriani ecc.), partendo da premesse anche diversissime. Si fece quindi posto gradatamente, nei programmi d’insegnamento, alla geografia, alle scienze naturali, alla fisica, alla storia moderna, alle lingue moderne; ma le esigenze della nuova scienza e della tecnica non poterono trovar soddisfazione nei vecchi schemi scolastici. Così in Inghilterra, per influenza di J. Milton, e poi in America sorsero, dopo il 1662, le accademie, che pur non escludendo le lingue classiche davano largo spazio alle discipline realistiche.
L’ordinamento della s. italiana rimase sostanzialmente, per parecchi decenni ancora, quello delineato dalla legge Casati del 1859, nonostante modifiche parziali apportate con leggi successive. Una vasta riforma di strutture e di ordinamenti fu attuata solo nel 1923-24 a opera del filosofo G. Gentile, chiamato da Mussolini a far parte del suo primo governo; con una serie di provvedimenti, Gentile (che si avvalse della collaborazione di G. Lombardo Radice e di E. Codignola) diede un’organica disciplina sullo stato giuridico e il trattamento economico e di carriera dei maestri, degli insegnanti e dei presidi, con cui mirò soprattutto a rinvigorire l’autorità morale e disciplinare dei capi di istituto e a riqualificare la figura dell’insegnante e la funzione docente. Con altri regi decreti pose mano alla riorganizzazione amministrativa, che prevedeva, tra l’altro, una nuova normativa dei rapporti tra Stato ed enti locali in materia scolastica. Il maggiore impegno fu tuttavia messo nella riforma degli ordinamenti e dei programmi. Al riordinamento della s. primaria provvide il r.d. 2185/1° ottobre 1923: al grado preparatorio, della durata di 3 anni, seguiva la s. elementare vera e propria, distinta in un grado inferiore di 3 anni e in un grado superiore di 2 anni; dopo il corso elementare poteva seguire un corso integrativo di avviamento professionale destinato al completamento dell’obbligo scolastico. L’istruzione secondaria, con r.d. 1054/6 maggio 1923, fu differenziata secondo le diverse finalità formative attribuite ai singoli istituti: era privilegiato il ginnasio-liceo che doveva continuare a costituire «il vivaio principale delle classi superiori della nazione», come Gentile stesso dichiarò; si istituiva il liceo scientifico, dopo il quale si poteva accedere alle facoltà scientifiche; con il nuovo istituto magistrale, di 7 anni, si voleva assicurare anche ai futuri maestri una formazione generale umanistica e filosofica più che specificamente tecnico-pedagogica; l’istituto tecnico veniva riordinato in 8 anni, e articolato nelle due sezioni di commercio-ragioneria e di agrimensura; infine, si istituiva la s. complementare come un più modesto tipo di s. media inferiore, destinata ai ceti popolari cittadini. Tra i punti caratterizzanti della riforma (in gran parte discendenti dalla visione spiritualistica e aristocratica che Gentile aveva della s.) sono da ascrivere: il rilancio della s. privata; l’introduzione dell’esame di Stato con lo scopo di porre sullo stesso piano gli alunni dell’una e dell’altra s.; l’accentuazione delle finalità formative su quella meramente informativa; l’introduzione dell’insegnamento della religione cattolica nella s. elementare e la prevalenza accordata alla cultura umanistico-letteraria nella s. media. L’intento conservatore della riforma del 1923 risultava dall’espresso proposito di contenimento della scolarità, dall’adozione di un rigido sistema di selezione interna, dall’accentuata separazione tra s. destinate alla formazione dei ceti dirigenti e s. con specifici compiti professionali, dalla sopravvalutazione formativa delle discipline letterarie rispetto a quelle scientifiche e tecniche, dallo scarso collegamento delle strutture scolastiche alle esigenze sociali ed economiche del paese. Pur con tali limiti, la riforma di Gentile rivela una delle più elevate concezioni moderne della s. e dell’unità del sapere di cui l’istruzione deve farsi tramite.
Negli anni successivi la riforma del 1923 fu variamente ritoccata, in parte elusa in alcuni suoi punti significativi o resa più rispondente agli scopi del regime.
Nel dopoguerra, segnatamente dai primi anni 1950, i processi di istruzione in molti paesi hanno avuto uno sviluppo inusitato e hanno richiesto la definizione di politiche di intervento ad ampio spettro.
L’analfabetismo. Il primo problema postosi all’attenzione di tutti i governi è stato quello dell’analfabetismo. In Italia, l’ampia gamma di iniziative di s. popolare, nel giro di un ventennio, dal 1951 al 1971, ha fatto scendere dal 13% al 5% l’incidenza del numero di analfabeti sulla popolazione di età superiore ai 6 anni. Sono stati poi realizzati corsi sperimentali di s. media e di s. secondaria superiore per lavoratori (➔ popolare). Il tasso di analfabetismo registrato nel censimento del 2001 era dell’1,5%.
In altre zone del mondo, grazie agli sforzi fatti da molti governi nonché all’aiuto e all’assistenza forniti da organismi internazionali, il tasso di analfabetismo è sceso dal 32,9% del 1970 (quando sono iniziate le rilevazioni dell’UNESCO) al 16% negli anni 2000-06. A questo proposito, si sono distinti per la loro efficacia i programmi di alfabetizzazione messi in atto in India e in Cina. Oggi il fenomeno dell’analfabetismo, benché quasi del tutto superato nei paesi di più avanzate condizioni economiche e sociali, rimane ancora consistente in altre aree geografiche e continuerà a richiedere misure finanziarie e organizzative di ampia portata, nel quadro comunque di più organiche politiche sociali a sostegno delle popolazioni deboli e degli strati emarginati.
La scolarizzazione di massa. Con più diretto riferimento all’istruzione nelle sedi educative istituzionali, le tradizionali strutture scolastiche, nell’anteguerra quasi ovunque caratterizzate da limitate capacità espansive, sono state investite, a partire dal 1950, dal fenomeno della scolarizzazione di massa. Si è trattato di un evento di larghe proporzioni prodottosi naturalmente, nei paesi industrializzati o in via di industrializzazione, per effetto di una serie di fattori concomitanti, che vanno dall’accresciuto tenore di vita della popolazione all’incremento delle leve demografiche, dallo sviluppo crescente dei settori produttivi dell’industria e del commercio ai conseguenti bisogni formativi di nuovi strati sociali, indotti a lasciare il lavoro agricolo e ad affrontare processi di migrazione interna, di inurbamento, di qualificazione culturale e professionale. La scolarizzazione di tali strati sociali, iniziata nel corso degli anni 1950 e proseguita negli anni 1960-70, ha riguardato inizialmente i primi livelli dell’istruzione formale e successivamente via via anche i gradi superiori degli studi. Di fronte all’espansione della domanda di formazione, realizzatasi in termini non solo di aumento del numero di scolarizzati ma anche di allungamento dei tempi individuali di fruizione dell’istruzione, si è posto ovviamente il problema di un vasto adeguamento delle strutture scolastiche e formative, del reperimento del personale necessario, della destinazione di forti risorse finanziarie. Lo sforzo finanziario sostenuto non sempre è riuscito a corrispondere ai bisogni, persino nei paesi più progrediti.
L’altro fattore di particolare rilievo conseguente allo sviluppo della scolarità ha riguardato il personale docente. La programmazione del fabbisogno in questo settore non è stata dovunque tempestiva e adeguata. In una prima fase si è dovuto provvedere al reclutamento di personale non di ruolo, non sempre qualificato ed esperto. In un secondo tempo si è cercato di attuare dei programmi nazionali, regionali o locali di formazione e aggiornamento in collegamento con le istituzioni universitarie o con specifici centri di ricerca educativa. In Italia vennero istituiti nel 1974 gli Istituti Regionali di Ricerca, Sperimentazione e Aggiornamento Educativi (IRRSAE), nonché la Biblioteca di documentazione pedagogica con sede a Firenze e il Centro europeo dell’educazione con sede a Frascati. Le iniziative di aggiornamento hanno certamente contribuito alla diffusione delle nuove pratiche educative e promosso una più diffusa qualificazione tecnico-didattica del personale insegnante. Non hanno potuto, invece, migliorare la preparazione culturale disciplinare, che rimase in gran parte affidata alla formazione universitaria la quale, per effetto delle accresciute dimensioni degli atenei e per le trasformazioni che ha subito l’università tradizionale, è apparsa talvolta meno incisiva e provveduta di quella assicurata in passato dai corsi accademici.
La contestazione studentesca. Proprio nella fase di maggiore espansione dei sistemi di istruzione, si è aperta una crisi di lunga durata che ha coinvolto le componenti essenziali del mondo educativo: gli atteggiamenti e le attese giovanili, il ruolo professionale degli insegnanti, la stessa funzione educativa della scuola. La contestazione studentesca, diffusasi dalla metà degli anni 1960 negli Stati Uniti, poi in Europa, in Giappone e in altri paesi, ha evidenziato drammaticamente uno stato di disagio giovanile che si è riflesso principalmente nelle istituzioni scolastiche ma che ha tratto motivo anche dalla crisi educativa delle famiglie e dalle divisioni interne del mondo politico. Il movimento è valso anche a individuare alcune forme di autoritarismo annidatesi nelle strutture educative, nonché a denunciare l’urgenza di profondi rinnovamenti per aprire la s. ai problemi e alle esigenze della nuova realtà delle società complesse. Largo peso ha avuto, nella contestazione studentesca, l’orientamento volto a improntare l’azione delle istituzioni educative alle istanze egualitarie, di socializzazione, di orientamento e di partecipazione. In aderenza al criterio della promozione delle ‘pari opportunità formative’ si sono messi in cantiere nuovi servizi e si è cercato di arricchire la gamma delle offerte formative. Sono stati attuati così notevoli interventi organizzativi e finanziari per dare concretezza al diritto allo studio, specie con riguardo ai primi gradi dell’istruzione (gratuità dei corsi, borse di studio, servizi-mensa, doposcuola ecc.); si è provveduto ad allungare i tempi-s. e a prevedere forme di assistenza agli studenti per l’espletamento dei compiti didattici; si sono previste forme d’integrazione di alunni con disabilità nelle normali strutture scolastiche; si è curata l’organizzazione di servizi e strutture per attività integrative, sportive, culturali; si è provveduto a sviluppare i servizi di orientamento scolastico e professionale. Gli stessi curricoli scolastici hanno risentito del nuovo clima ideologico, aprendosi alle sollecitazioni dell’ambiente e particolarmente alle istanze del mondo giovanile, migliorando le tecniche d’insegnamento e del lavoro didattico, proporzionando i criteri di verifica dell’apprendimento e di valutazione alle potenzialità reali degli alunni. Non sempre, naturalmente, e non dovunque, tali misure hanno trovato le condizioni adatte per dispiegarsi o per riuscire proficue. Sono venute affiorando riserve e perplessità circa l’efficacia dell’istruzione impartita dalle s., a partire dalla metà degli anni 1980, in molti ambienti nazionali, specie là dove l’intervento educativo è risultato troppo sbilanciato sul versante della semplificazione delle procedure didattiche, e si è lasciato invece sullo sfondo l’impegno relativo ai contenuti basilari dell’istruzione, alla padronanza delle strutture conoscitive e operative dei diversi saperi, alla formazione specifica dei corsi di studio. Alla necessità, sottolineata da più parti, di abbandonare le spinte sessantotesche, giudicate negativamente, e di riscoprire l’efficacia dei metodi tradizionali, si è andato sostituendo, a partire dalla fine del secolo, il bisogno di conciliare le esigenze innovative della s. attuale con la necessità di un’istruzione centrata sull’apprendimento sistematico delle strutture di base del sapere.
I livelli di istruzione. Al di là dell’analisi dei singoli ordinamenti, è opportuno indicare le principali linee di tendenza affermatesi negli ultimi decenni del 20° sec. riguardo ai differenti livelli di istruzione. Riguardo alla s. preprimaria o materna, la ricerca psicopedagogica contemporanea è riuscita a individuare in questa s. uno dei fattori più efficaci per combattere le situazioni di svantaggio socioculturale che condizionano la prosecuzione degli studi. Condizioni ambientali come il lavoro femminile e il carattere mononucleare delle famiglie servirono a incrementare sensibilmente la domanda di asili nido e s. materne. Quest’ultime, da luoghi prevalentemente di custodia e di assistenza, si configurarono progressivamente come istituti di educazione con proprie modalità. L’obiettivo comune è di garantire l’armonico sviluppo fisico, affettivo e intellettivo mediante giochi e altre attività suffragate da un’aggiornata esperienza pedagogica ma non irrigidita in schemi formalizzati di comportamento.
La s. primaria e quella secondaria di primo grado rappresentano una fascia d’istruzione in forte espansione, favorite in ciò da una vasta politica di sostegno espressasi in varie forme: localizzazione capillare delle istituzioni, interventi di diritto allo studio, allargamento dei piani di studio, innovazioni nell’insegnamento ecc. L’ordinamento della s. primaria, di durata varia tra i 4 e i 6 anni, non presenta novità sostanziali riguardo sia alla struttura dei corsi che ai suoi obiettivi, che mirano a promuovere l’armonico sviluppo dei bambini, a curare la formazione morale, a fare acquisire nozioni elementari in campo linguistico, matematico-scientifico, artistico-espressivo. La s. secondaria di primo grado, invece, è stata per lo più rivista negli ordinamenti e nelle finalità per renderla comune a tutti gli scolari, specie là dove è stata oggetto di riforme incisive (in Italia nel 1962 e 1977, nei Paesi Bassi nel 1968, in Svezia e Norvegia nel 1969, in Gran Bretagna dal 1965 al 1976, in Francia nel 1975).
L’istruzione secondaria di secondo grado è il settore scolastico che ha fatto registrare le maggiori divergenze di vedute, anche perché in esse si accentuano le differenze di tradizione culturale e politica dei singoli paesi. In generale, la prospettiva più raccomandabile sembra quella volta a promuovere una formazione secondaria di buon livello attraverso corsi lunghi, ciascuno centrato su una grande area del sapere, tale da consentire gli approfondimenti necessari e la padronanza dei saperi studiati (➔ istruzione).
Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, la spesa pubblica per il sistema scolastico ha subito un progressivo aumento nel corso degli ultimi anni, passando dai 49.422 milioni di euro del 1996 ai 57.136 del 2006 (valori reali). La spesa per studente in rapporto al PIL procapite si colloca nel 2004 al 26,6% nella scuola primaria, a fronte di una media dei paesi europei pari al 21,7%, mentre nella scuola secondaria il rapporto è del 28,3% contro una media europea del 26,5%. Anche la popolazione scolastica ha subito un progressivo aumento, sebbene nel breve periodo si sia registrato un calo. Nella scuola dell’infanzia gli alunni sono passati da 1.578.000 nel 1996 a 1.653.000 nel 2006. In quest’ultimo anno, però, è emerso un calo complessivo dello 0,6% sul dato dell’anno precedente, con punte del 2,8% nel Mezzogiorno d’Italia. Per quanto riguarda la scuola primaria e secondaria, gli alunni nel 1996 erano 7.311.000, mentre nel 2006 il dato si attestava su 7.279.000. In calo anche il dato delle scuole private dove a fronte di 423.000 alunni frequentanti nel 1996 si passava ai 398.000 del 2006. In forte aumento il numero degli alunni stranieri che passavano dai 59.389 del 1996 ai 501.420 del 2006.
Il numero dei docenti è aumentato progressivamente dal 1998 al 2006, passando da 791.000 a 852.000 insegnanti; dal 2008 però è diminuito rapidamente per effetto del Piano Programmatico di cui all’art. 64 del d.l. 112/2008, convertito dalla l. 133/2008 (Riforma Gelmini). Il Piano prevedeva una riduzione di organico nell’ordine di 87.400 insegnanti in tre anni. Per raggiungere tale cifra, per l’anno scolastico 2011-12 è prevista la decurtazione di 19.700 cattedre. La riduzione del personale docente disposta dal Piano programmatico sta avvenendo tramite una serie di misure che hanno determinato la cancellazione del sistema dei moduli nella scuola primaria e la riconduzione a 18 ore delle cattedre delle secondarie, con relativa cancellazione delle ore a disposizione e delle compresenze. A ciò va aggiunta la riduzione del numero delle ore di lezione, introdotta nella scuola secondaria di primo grado per effetto dell’entrata a regime della riforma introdotta con il d. legisl. 59/2004, che ha confermato l’attuale ordinamento sostanziale, ma ha diminuito il peso del quadro orario delle discipline, in ciò determinando un’ulteriore riduzione del numero delle cattedre in organico.
È stata varata una riforma degli assetti ordinamentali delle scuole secondarie superiori. La riforma doveva andare a regime già dal 2009, ma è stata rimandata al 2011, salvo ulteriori rinvii. Il nuovo assetto prevede 6 tipologie di licei: artistico (6 indirizzi: arti figurative; grafica; architettura e ambiente; design; audiovisivo, multimedia; scenografia); classico; linguistico; musicale e coreutico (con 2 sezioni, una musicale e una coreutica); scientifico; delle scienze umane. Gli istituti tecnici nel nuovo impianto sono compresi in 2 settori e si articolano in 11 indirizzi. Per il settore economico: amministrazione, finanza e marketing; turismo. Per il settore tecnologico: meccanica, meccatronica ed energia; trasporti e logistica; elettronica ed elettrotecnica; informatica e telecomunicazioni; grafica e comunicazione; chimica, materiali e biotecnologie; tessile, abbigliamento e moda; agraria e agroindustria; costruzioni, ambiente e territorio. Tutti i vecchi indirizzi dell’istruzione tecnica sono compresi nei nuovi. Il monte ore è di 1056 ore annue, corrispondente a 32 ore settimanali (contro le precedenti 35-36) e è articolato in un’area di istruzione generale comune e un’area di indirizzo. Nel gennaio del 2011 è entrata in vigore la legge 240/10 di riforma del sistema universitario. Anche in questo caso l’obiettivo è ridurre i costi razionalizzando le risorse; l’accorpamento e la cancellazione dei corsi di laurea, il blocco delle assunzioni e i numerosi tagli hanno scatenato la protesta di studenti, professori e ricercatori che sul finire del 2010 hanno occupato atenei e monumenti cittadini.
Sono state introdotte anche alcune novità nelle condizioni di lavoro del personale scolastico. La l. 15/2009 (legge Brunetta) e il relativo d. legisl. di attuazione 150/2009 hanno parzialmente rilegificato le materie del rapporto di lavoro, tradizionalmente devolute alla contrattazione collettiva. In particolare è stata sottratta al tavolo negoziale la materia delle assenze per malattia e delle sanzioni disciplinari, con l’introduzione di penalizzazioni retributive per chi si assenta dal lavoro e forti riduzioni del regime contrattuale delle tutele. È prevista inoltre l’introduzione di meccanismi retributivi premiali.
Linee generali. Nel primo decennio del 2000 la situazione internazionale, nelle sue linee generali, ha evidenziato una stasi degli impulsi innovativi che avevano caratterizzato gli anni 1970 e 1980. Un intervento di rilievo ha riguardato l’introduzione dell’autonomia (➔) organizzativa e didattica delle singole istituzioni scolastiche, giustificata con la necessità di accrescere l’efficienza e la reattività delle istituzioni direttamente interessate, nonché di tenere conto anche delle specifiche esigenze dell’ambiente locale (in Italia, prevista dal legislatore nel 1997, è divenuta operativa dal settembre 2000).
La fiducia nelle riforme sembra essersi attenuata, dopo gli sforzi compiuti nei decenni precedenti per rinnovare i percorsi di studio, i curricoli, le didattiche ecc., essendo forse subentrato un certo disincanto circa l’efficacia di innovazioni patrocinate da una pedagogia che negli ultimi tempi è apparsa molto poco disposta a fermare l’attenzione sui contenuti basilari dell’istruzione, sui saperi trasmessi dalla s. e sulla loro progressiva specificazione, e invece assai sensibile ai messaggi delle ‘molte educazioni’ e ai processi riguardanti la formazione generale (intesa come l’apprendere di tutto un po’), la parificazione dei percorsi di studio, la non selettività, la comunicazione, socializzazione, creatività e spontaneità degli allievi. Anche sulla base delle prime e sia pure incerte misurazioni internazionali, interessate ai livelli di effettiva preparazione conseguita a s. dai giovani, si è potuto constatare che una parte consistente di costoro, pur avendo conseguito il diploma di s. secondaria superiore, mostra di non aver raggiunto di fatto livelli di preparazione adeguati persino nelle competenze di base. E ciò rappresenta, naturalmente, un fattore di preoccupazione per i governi, anche in relazione alle ripercussioni che un tale deficit formativo finisce per avere sugli studi superiori e universitari, per non dire sulle prospettive di rinnovamento dei quadri necessari alla ricerca scientifica e tecnologica, alle professioni superiori, alla dirigenza economica e amministrativa.
Il problema che si poneva già tra la fine degli anni 1980 e i primi anni 1990 (quello cioè di trovare un nuovo punto di equilibrio fra le esigenze socioeducative diffuse e quelle dell’impegno sui contenuti forti dell’istruzione) non è stato risolto, e anzi le soluzioni prospettate in alcuni paesi sono apparse ancor più orientate verso la semplificazione dei percorsi di studio, la riduzione dei saperi da trasmettere, la facilitazione dei passaggi e dei criteri di valutazione di merito.
Lo sfondo socioeconomico dei processi di formazione. La necessità di sostenere lo sviluppo delle economie nella fase di accelerazione imposta dalle più avanzate tecnologie e dai processi di globalizzazione dei mercati ha indotto oggi a dare centralità allo sfondo socioeconomico dei processi di formazione (➔) e ad allargare anche i suoi tradizionali campi di riferimento. L’attenzione dei governi nazionali e degli organismi internazionali intorno al nesso, sempre più evidente, tra le capacità innovative del sistema economico e la disponibilità di consistenti risorse umane qualificate sembra indirizzarsi non più solo verso la formazione dei giovani (e quindi l’istruzione in senso proprio, compresa quella universitaria), ma anche verso l’incremento generalizzato della formazione professionale, scientifica e, in senso lato, culturale della popolazione adulta, persino di quella non inserita in attività produttive.
È evidente che una buona formazione è un investimento utile per il benessere degli individui e della società. Ma l’allargamento di prospettiva si è imposto, già nei paesi a economia avanzata, in considerazione del pericolo che frange più o meno consistenti di popolazione adulta rimangano emarginate nel nuovo tessuto sociale largamente coinvolto nei processi di riconversione dei modelli di produzione e di riorganizzazione del lavoro, nell’informatizzazione dei servizi sociali, negli stessi sistemi di comunicazione collettiva. Di fronte a tali fenomeni, infatti, il rischio è quello di una alfabetizzazione insufficiente per anziani che si sono fermati all’istruzione di base acquisita in anni giovanili e non più rinnovata, incrementata, aggiornata, e di un livello di istruzione non più adeguato per quella percentuale della popolazione che non ha conseguito il livello di istruzione secondaria superiore, considerata ormai la soglia indispensabile per essere parte attiva nella nuova realtà sociale. In questo scenario, le politiche educative si sono indirizzate verso l’ampliamento e la diversificazione del ventaglio dell’offerta (➔) formativa, agendo in più direzioni e cercando di definire interventi più flessibili o meno formalizzati dell’istruzione tradizionale. Al di là delle pur necessarie strategie da mettere a punto, colmare i gap riscontrati nella popolazione adulta non è facile, e molto dipende dalla disponibilità di risorse da investire e soprattutto dalle condizioni di partenza delle diverse realtà nazionali.
S. attiva L’espressione (che traduce quella fr. école active, introdotta da P. Bovet nel 1917 e diffusa da A. Ferrière insieme con quella equivalente école nouvelle) indica il rinnovamento dei metodi d’insegnamento e dell’organizzazione scolastica che, dalla fine del 19° sec., si è venuto svolgendo nei paesi occidentali; esso riguarda istituzioni che tendono a promuovere, nella pratica educativa, la libertà e la spontaneità del soggetto educando, reagendo decisamente all’intellettualismo e al verbalismo dell’insegnamento tradizionale. Gli esperimenti di s. nuova più notevoli sono: quelli di C. Reddie, J.H. Badley in Inghilterra; A. Manjón in Spagna; E. Demolins, R. Cousinet, C. Freinet in Francia; O. Decroly in Belgio; M. Boschetti Alberti in Svizzera (che ha avuto, nell’Institut J.-J. Rousseau a Ginevra e nell’università della stessa città, i maggiori centri nel mondo di studi di metodologia e psicologia al servizio delle nuove realizzazioni educative); E. Lietz, G. Wyneken, P. Geheeb, G. Kerschensteiner in Germania; J. Dewey, W.H. Kilpatrick, C.W. Washburne, E. Parkhurst negli USA; M. Montessori, R. e C. Agazzi, L. e A. Franchetti, G. Pizzigoni in Italia, dove i principi della s. attiva furono accolti, con notevole indipendenza e impronta nettamente idealistica, dalla rivista L’Educazione nazionale, creata e diretta (1919-33) da G. Lombardo Radice. Dopo la Seconda guerra mondiale sono sorti in Italia diverse ‘città dei ragazzi’ (➔ ragazzi, Città dei), che sperimentano metodi attivi.
Il nuovo metodo, da una parte, dà grande importanza al gioco e al lavoro, dall’altra, ricorre ai dati della psicologia sperimentale ai fini dell’orientamento professionale e della costituzione della scuola su misura (➔ É. Claparède).
S. militari Istituti e organismi mediante i quali si cura la formazione e la specializzazione dei quadri di ogni grado e categoria e la specializzazione della truppa. Il sistema di difesa italiano prevede tre livelli di centri di addestramento e di istruzione a ordinamento militare che provvedono a formare il militare in base al grado da conseguire e al tipo di qualifica al quale ambisce: le accademie militari, volte alla formazione degli ufficiali; le scuole per sottufficiali; i centri di addestramento dei volontari.
S. militari propriamente dette sono istituzioni che propongono un corso di studi corrispondente agli ultimi tre anni di liceo, integrato da attività che ne segnano la peculiarità militare. Al termine dei corsi gli studenti non ricevono alcun grado all’interno della forze armate e possono intraprendere le carriere che preferiscono, sia militari sia civili. Le scuole militari italiane sono 4: la Scuola militare Nunziatella, a Napoli, e la Scuola militare Teuliè, a Milano, per l’Esercito; la Scuola militare navale Morosini, a Venezia; la Scuola militare aeronautica Douhet, a Firenze
Una S. superiore di guerra (dal 1874 S. di guerra) fu fondata a Torino nel 1867 con lo scopo di abilitare al servizio di Stato Maggiore un nucleo scelto di ufficiali delle varie armi. Nel 1935 assunse la denominazione di Istituto superiore di guerra; sospesi i corsi durante la Seconda guerra mondiale, nel 1949 l’Istituto fu ricostituito con sede a Civitavecchia. Dal 2006, cedute alla S. di applicazione ed Istituto di studi militari dell’Esercito di Torino le competenze relative ai Corsi di Stato Maggiore, ha assunto la denominazione di Centro di Simulazione e Validazione dell’Esercito. La Marina militare costituì un’istituzione analoga nel 1908 con la S. navale di guerra con sede a La Spezia, trasformatasi nel 1922 nell’Istituto di guerra marittima con sede presso l’Accademia navale di Livorno, frequentato a turno ogni anno da un gruppo di ufficiali superiori dello Stato Maggiore generale. Nel 1999 è stato trasferito a Venezia e ha mutato il nome in Istituto di studi militari marittimi. Per l’aeronautica esiste a Firenze una S. di guerra aerea.
Nel campo della formazione interforze degli alti ufficiali, a partire dal secondo dopoguerra si è avuto l’ISMI (Istituto Studi Militari Interforze) e successivamente è stato istituito il CASD (Centro Alti Studi Difesa). Il CASD è frequentato annualmente da un gruppo di alti ufficiali delle 3 forze armate, delle forze di polizia e da alti funzionari civili per sessioni di 9 mesi su temi fondamentali di strategia e di politica della difesa nazionale. Al CASD appartiene dal 1989 il CeMiSS (Centro Militare Studi Strategici), il più avanzato centro governativo di studi strategici.
S. superiore della pubblica amministrazione Istituzione di alta cultura e formazione, posta nell’ambito e sotto la vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri e dotata di autonomia organizzativa e contabile nei limiti delle proprie risorse economico-finanziarie (art. 1, d. legisl. 381/2003).