I mezzi (patrimonio, reddito, credito) di cui si dispone per raggiungere i propri fini e, più specificamente e comunemente, i mezzi (beni in natura, servizi personali e soprattutto denaro) di cui dispongono lo Stato e gli altri enti pubblici. Anche il complesso dei fatti o atti con cui un soggetto economico (imprenditore, società, banche ecc.), e in particolare lo Stato e gli enti pubblici, si procurano i mezzi per la realizzazione dei loro fini.
La f. pubblica comprende l’insieme delle attività con cui Stato, Regioni ed enti locali reperiscono le entrate necessarie a sostenere la spesa per l’erogazione dei servizi alla collettività (sanità, trasporti, scuola, pensioni). I mezzi finanziari possono derivare dai proventi dell’amministrazione del patrimonio statale (opere d’arte, sfruttamento beni demaniali, affitto di beni patrimoniali) o dalle entrate tributarie. Sul versante delle spese pubbliche vanno annoverate le erogazioni di spese per servizi gratuiti o semigratuiti per fini sociali o economici, i pagamenti per interessi, i rimborsi, nonché l’acquisto di titoli relativi alle operazioni di debito pubblico. Fra le entrate rientrano invece i tributi a carattere generale e quelli speciali - raccolti in relazione a particolari benefici goduti dal contribuente - e tariffe e tasse derivanti da operazioni di mercato. Mediante la gestione delle entrate percepite, lo Stato svolge un’azione di stabilizzazione dei prezzi e dell’occupazione e di compensazione e redistribuzione del reddito (attraverso, per esempio, le erogazioni integrative al sistema pensionistico e il finanziamento del servizio sanitario nazionale).
La f. statale o pubblica può distinguersi in fiscale ed extrafiscale, a seconda che si limiti a prelevare dal reddito nazionale le quote sufficienti a coprire le spese ritenute necessarie o si proponga il raggiungimento diretto dei fini dello Stato, considerato nella pienezza della sua personalità e dei suoi compiti attinenti alla politica economica sociale e demografica e all’ordine pubblico; si parla anche di f. neutrale, in contrapposto a f. funzionale o fiscal policy, qualora lo Stato si limiti a prelevare tributi per poter svolgere la sua attività, o si valga invece espressamente dello strumento fiscale oltre che per soddisfare i bisogni pubblici, anche per correggere la distribuzione della ricchezza nazionale e per influire sulla situazione economica stabilizzandola, evitando pericoli d’inflazione, o promuovendo lo sviluppo del reddito nazionale. Si può distinguere inoltre la f. ordinaria (attività connessa alle entrate e spese ordinarie) da quella straordinaria (ricorso al debito pubblico, all’emissione di carta moneta, a tributi straordinari, all’alienazione di beni patrimoniali ecc., al fine di fronteggiare spese straordinarie).
La scienza delle f., detta anche economia pubblica o economia finanziaria, è la disciplina che studia l’attività economica del settore pubblico di uno Stato. Storicamente, la scienza economica nasce nel Settecento con l’affermarsi del principio della ‘mano invisibile’ di A. Smith, per il quale l’azione egoistica di ciascun individuo conduce a un’allocazione efficiente delle risorse, tale che non è possibile migliorare la condizione di un individuo senza peggiorare quella di almeno un altro. Conseguentemente, per lungo tempo gli economisti hanno valutato negativamente l’intervento pubblico nell’economia, sopportandolo soltanto come una interferenza necessaria in quei settori in cui non è possibile l’attività privata, senza auspicarne l’espansione.
Dalla seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, il desiderio sociale di una maggiore equità nella distribuzione del reddito e della ricchezza, l’approfondimento dello studio delle condizioni necessarie per il buon funzionamento del libero mercato e la crescente fiducia nella capacità dello Stato di contribuire a determinare il livello del reddito di una nazione hanno provocato una imponente crescita del settore pubblico nelle economie occidentali.
Le funzioni attribuite allo Stato. -Nell’ambito degli studi che, nel Novecento, con una ben diversa consapevolezza rispetto al passato, hanno avuto per oggetto il ruolo dello Stato nell’economia, la dottrina prevalente ha finito per individuare tre funzioni che debbono essere svolte dal settore pubblico: quella allocativa, quella redistributiva e quella di stabilizzazione. La funzione allocativa era stata peraltro descritta già dagli economisti classici del 18° sec., i quali avevano chiara la necessità che lo Stato, l’unico agente economico che può finanziarsi esigendo coattivamente tributi, provvedesse quei beni e servizi per i quali è impossibile, o estremamente costoso o comunque inefficiente, individuare i consumatori e richiedere loro il pagamento di un prezzo. L’esempio più frequentemente citato per indicare tali beni, detti pubblici, è quello di un faro, ma molti altri beni e servizi possiedono almeno parzialmente quelle caratteristiche: in quasi tutti gli Stati moderni la gestione della giustizia, della difesa e di molti altri servizi nazionali è demandata allo Stato. Studi successivi a quelli degli economisti classici hanno suggerito altre possibili cause del fallimento del mercato: impossibilità di raccogliere informazioni a costo nullo; costi delle transazioni che impediscono lo svolgersi di tutti gli scambi che sarebbero vantaggiosi; inesistenza del mercato per alcuni beni; caratteristiche della produzione o del consumo di particolari beni che facilitano il realizzarsi di strutture monopolistiche o monopsonistiche, o comunque esistenza di mercati con un basso numero di agenti, che quindi possono influenzare il prezzo anziché assumerlo parametricamente; esternalità, ossia situazioni nelle quali l’azione di un individuo, consumatore o produttore, produce effetti su di un altro agente economico, senza che chi controlla l’azione ne tenga conto. In tutti questi casi il libero mercato non raggiunge un’allocazione efficiente e l’intervento pubblico consente, potenzialmente, di correggere questa carenza. La funzione redistributiva cominciò a essere rivendicata nella seconda metà dell’Ottocento; essa è finalizzata a realizzare la distribuzione del reddito e della ricchezza che la società, attraverso il processo democratico, individua come la più equa. I suoi fondamenti sono meglio rinvenibili in scelte politiche o sociali che in principi economici, ma la scienza delle f. ha il compito fondamentale di studiare le modalità per il suo perseguimento, compatibilmente agli altri obiettivi fissati. La funzione di stabilizzazione (o funzione congiunturale) è svolta in quasi tutte le economie sviluppate dalla prima metà del Novecento: essa è stata praticata in modo sempre più intenso parallelamente all’affermarsi del pensiero economico di J.M. Keynes. La teoria della politica fiscale dell’economista inglese consiste, infatti, nella politica di governo del ciclo economico per conseguire certi obiettivi macroeconomici, quali il mantenimento di soddisfacenti livelli di occupazione, di sviluppo e di stabilità dei prezzi. Così, mentre per la precedente teoria della f. neutrale lo Stato deve finanziarsi soltanto per soddisfare i bisogni pubblici e le esigenze redistributive, secondo la teoria keynesiana della spesa pubblica, lo Stato deve integrare la domanda del mercato per orientare le attività produttive secondo obiettivi prioritari, per es., di riequilibrio territoriale, e per l’avvicinamento del reddito e dell’occupazione effettivi a quelli potenzialmente raggiungibili, per cui il livello della spesa e quello del prelievo sono determinati endogenamente (➔ deficit; moltiplicatore).
Gli strumenti di politica economica. -Tra i principali strumenti di cui lo Stato dispone per svolgere le sue funzioni vi sono: la politica di spesa, quella di prelievo dei tributi (imposte e tasse) e di riscossione degli introiti delle imprese pubbliche, l’esercizio di controlli diretti, la regolamentazione dei livelli o delle modalità di produzione e di consumo di certi beni e servizi, la determinazione dei loro prezzi. Tradizionalmente la scienza delle f. approfondisce soprattutto gli aspetti positivi e quelli normativi relativi ai primi due strumenti, che maggiormente concorrono alla determinazione del bilancio del settore pubblico; l’economia industriale e altri rami dell’economia approfondiscono le altre problematiche economiche, e il diritto finanziario studia le norme giuridiche più idonee a realizzare gli obiettivi fissati. Per quanto riguarda l’attività di prelievo fiscale, una buona struttura tributaria dovrebbe essere equa, chiara e amministrabile a costi ragionevoli; dovrebbe inoltre minimizzare l’intervento nei mercati in cui non esistono altri impedimenti al conseguimento di una allocazione efficiente, e agevolare il conseguimento degli obiettivi macroeconomici, inclusi quelli di crescita nel medio e lungo periodo. Ma la realizzazione di un sistema con tali requisiti implica che sia stato scelto il criterio di ripartizione del carico fiscale tra i diversi individui, che siano note le possibilità di traslazione dei vari tipi di imposte nelle diverse forme di mercato, e che si conoscano tutti gli effetti che derivano dall’introduzione di un tributo, da intendersi in particolare quali effetti distorsivi sulle scelte dei consumatori e dei prestatori di lavoro e sulla creazione di risparmio e di investimenti. La traslazione e gli effetti dei tributi sono l’oggetto d’indagine principale della f. pura, cui hanno contribuito in modo fondamentale economisti italiani come M. Pantaleoni e L. Einaudi: obiettivo importante di tali studi è quello di prevedere in che misura colui che è obbligato dalla legge al pagamento dell’imposta può trasferirne l’onere su altri agenti economici con i quali ha rapporti di scambio; i risultati conseguiti dall’analisi di statica comparata consentono previsioni piuttosto precise riguardo gli effetti dell’imposta nel mercato in cui essa è applicata. La determinazione di una struttura fiscale ‘equa’ coinvolge, invece, opinioni filosofiche e politiche: un principio di equità comunemente accettato è che i tributi non devono essere commisurati soltanto al beneficio che si riceve dal consumo dei beni pubblici, ma debbono tener conto della capacità contributiva dei diversi individui; tuttavia, economisti e filosofi non hanno stabilito univocamente se il trattamento equo di individui con diversa capacità contributiva – equità verticale – debba intendersi come uguale sacrificio assoluto, uguale sacrificio proporzionale o uguale sacrificio marginale. Per i problemi inerenti la politica di spesa, la teoria keynesiana della politica fiscale ha fornito gli strumenti per ridurre la disoccupazione e garantire un elevato tasso di crescita; ma dagli anni 1970 la presenza di inflazione acuta ha vivacizzato il dibattito teorico sugli strumenti di politica economica, causando una maggiore articolazione degli orientamenti scientifici macroeconomici.
Altri filoni di studio. - Altri contributi fondamentali provengono dall’ economia del benessere e dall’ analisi costi-benefici; questi indirizzi hanno sviluppato tecniche raffinate per valutare la convenienza sociale di certi investimenti pubblici e hanno proposto alcuni criteri per comparare le variazioni di utilità di diversi individui che normalmente derivano da ogni intervento pubblico. Il fatto stesso che gli economisti suggeriscano scelte in merito alla distribuzione equa del reddito e della ricchezza, ovvero svolgano comparazioni interpersonali di utilità, è però questione sulla cui opportunità si è molto dibattuto, senza che una data posizione si sia affermata in modo netto.
L'incremento degli studi sul bilancio pubblico riflette la notevole crescita della spesa e delle entrate, come percentuale del prodotto interno lordo, in tutte le economie sviluppatesi nel corso del 20° secolo. A partire dagli anni 1960, infatti, l’evoluzione dello studio della scienza delle f. si è manifestata con lo svilupparsi di due nuove teorie, quella delle scelte pubbliche e quella della tassazione ottimale, fondamentali per l’intera scienza economica contemporanea. La teoria delle scelte pubbliche ha i suoi fondamenti nelle opere di K.S. Arrow, A. Downs, D. Black, J.M. Buchanan e G. Tullock, riguardanti la teoria dello Stato, le regole di votazione, il comportamento degli elettori, dei partiti politici, dei gruppi di pressione e della burocrazia. Dei suoi vari filoni, quello più vicino alla scienza delle f. classica è quello della scuola della public choice, che si ispira ai contributi della eccellente scuola italiana di scienza delle f., cioè all’opera di studiosi come A. De Viti De Marco, A. Puviani e M. Fasiani, oltreché al pensiero di N. Machiavelli, V. Pareto e G. Mosca. Quest’impostazione parte dal presupposto proprio dell’indirizzo di pensiero detto volontaristico, per il quale gli individui massimizzano la propria utilità organizzando lo Stato quale unico possibile strumento tecnico per il soddisfacimento di certi particolari bisogni; ma esso include nell’analisi anche i meccanismi di decisione collettiva, il cui ruolo veniva enfatizzato dagli studiosi dell’indirizzo detto politico-sociologico. L’obiettivo è lo sviluppo di una metodologia per una migliore comprensione degli effetti dell’intervento pubblico, attraverso lo studio endogeno delle variabili istituzionali. La teoria della tassazione ottimale ha il suo iniziatore nel piemontese J. Dupuit, che nel 1844 pose i fondamenti della teoria dell’utilità marginale e introdusse il concetto della perdita netta non compensata (deadweight loss) che discende dall’imposizione di un’imposta. A iniziare dagli anni 1970, questo indirizzo ha offerto un elevato numero di contributi teorici ed empirici: i primi, partendo dalle ipotesi comportamentali della teoria microeconomica e cercando di assimilare ipotetiche funzioni del benessere sociale, cercano di risolvere problemi quali la combinazione ottimale delle imposte dirette e di quelle indirette; l’opportunità di aliquote differenziate delle imposte dirette; la scelta di aliquote che permettano di conseguire, allo stesso tempo, obiettivi di efficienza e di equità; la tassazione ottimale del lavoro e del capitale anche rispetto ai problemi di crescita e a quelli di praticabilità e di consistenza delle scelte dello Stato. Gli studi empirici cercano invece di valutare l’incremento di benessere che deriverebbe da strutture fiscali diverse da quelle esistenti; il limite di queste analisi deriva dal perseguire valutazioni quantitative, dovendo necessariamente descrivere le preferenze dei consumatori e la tecnologia con modelli matematici che semplificano notevolmente il mondo reale, e sono quindi basati su ipotesi talora molto restrittive.
Nell’evoluzione dello studio della scienza delle f. si ricomprendono inoltre: la teoria dell’impresa pubblica, che studia obiettivi e strumenti legittimi per gli enti pubblici; la teoria della sicurezza sociale, nell’ambito della cui applicazione si è esteso sempre più il metodo sociale, per cui i pagamenti dipendono dalla capacità contributiva, a scapito dei metodi assicurativo e mutualistico, in cui vi è semplicemente ripartizione del rischio con onere più o meno proporzionale alla esposizione (➔ sicurezza); la teoria della f. locale, quale schema concettuale di autonomia finanziaria degli enti pubblici minori.
In Italia, sia nella letteratura teorica sia in quella empirica, riferendosi al settore pubblico si intende, di volta in volta, descrivere l’attività di soggetti diversi. Nei conti nazionali, in particolare, si individuano come soggetti: la pubblica amministrazione, quale amministrazione centrale, amministrazione locale ed enti di previdenza; il settore pubblico, che include anche le aziende autonome e gli altri enti decentrati.
L’attività finanziaria dello Stato nel suo complesso è rappresentata dal bilancio annuale di previsione, che registra non solo le entrate e le spese, ma anche le somme che saranno trasferite a enti pubblici nazionali e territoriali e da questi ultimi erogate (➔ bilancio).
L’art. 119 della Costituzione prevede l’autonomia finanziaria regionale e degli enti locali, che è regolata da disposizioni di natura mista, in base a principi di autosufficienza e autonomia finanziaria e a principi di equiparazione e interventismo statale. Sei sono i principi fondanti: l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa; il potere di stabilire e applicare tributi; la creazione statale, senza vincoli di destinazione, di un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale pro capite; l’attribuzione di risorse statali aggiuntive per enti e per scopi determinati; il ricorso all’indebitamento per finanziare spese di investimento; l’autosufficienza delle risorse percepite destinate a finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite. Fino alle pronunce della Corte Costituzionale (sent. 296/2003 e 297/2003) il primo aspetto suscitava ampio dibattito, poiché si riteneva possibile che le Regioni istituissero tributi propri, diversi da quelli previsti dalle leggi statali. Oggi questa ipotesi deve restringersi alla sola possibilità di stabilire l’entità delle aliquote relative a imposte istituite dallo Stato, e sempre entro limiti individuati dalla legge statale. In conclusione, il sistema appare oggi contraddittorio. Infatti, pur essendo riconosciuta alle Regioni dalle norme costituzionali (art. 116, co. 3, e art. 118, co.1) una marcata autonomia finanziaria, con l’articolo 119 viene conferito allo Stato un potere notevolmente condizionante sulla f. regionale e locale, in modo particolare nei periodi di crisi economica, quando le entrate locali tendono a ridursi in parallelo alla diminuzione dei trasferimenti di bilancio.
Dopo l’approvazione del Trattato di Maastricht del 1992, e la connessa perdita della sovranità monetaria, gli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea hanno imposto agli Stati membri di evitare disavanzi pubblici eccessivi. Con il Trattato di Amsterdam del 1997 e le disposizioni del patto di stabilità e di crescita conseguenti l’adozione della moneta unica sono stati quindi introdotti il principio di cooperazione finanziaria tra gli Stati e la Commissione e quello della buona gestione finanziaria (art. 274 Trattato CE), che richiede agli Stati il raggiungimento di un bilancio in pareggio. Più in particolare, l’attività finanziaria nazionale ha risentito dell’applicazione dei principi generali di sussidiarietà, cooperazione e proporzionalità, ed è stata condizionata dal principio della destinazione pubblica delle entrate acquisite tramite il contribuente, o, ancora, da quello relativo alla sostenibilità della situazione della f. pubblica (art. 121 Trattato CE). Sono stati inoltre previsti meccanismi sanzionatori, per promuovere il rispetto del parametro del disavanzo (in base al quale la differenza tra entrate e spese, riferite a un esercizio finanziario, non possa superare il 3% dell’ammontare del prodotto interno lordo, o PIL) e del parametro del debito (in base al quale l’ammontare delle somme prese a prestito dallo Stato per finanziare il disavanzo non deve superare il 60% del PIL). L’attività di sorveglianza sull’attività finanziaria degli Stati, svolta dalla Commissione europea e dal Consiglio dei ministri finanziari (Ecofin), si sostanzia nella valutazione delle misure strutturali (che influiscono sulla f. pubblica per diversi esercizi) e di quelle temporanee (una tantum). La difficoltà dei paesi membri di rispettare i parametri europei ha comportato tuttavia l’adozione di misure più flessibili per i governi, con ricadute positive anche sull’apertura delle procedure di infrazione. In tal modo, la disciplina europea ha finito per influenzare grandemente la f. pubblica.
Per f. etica si intende un insieme di attività finanziarie sviluppate con metodi, strategie e strumenti che, discostandosi dall’ottica del massimo profitto, consentono di perseguire un congruo guadagno anche attraverso l’assunzione di impegni di rilevanza sociale. Allo stato attuale l’espressione è intesa in almeno tre diverse accezioni: indica, infatti, sia gli intermediari finanziari che destinano una parte dei profitti dell’attività svolta a scopi di beneficenza, sia quelli che assumono partecipazioni nelle imprese al fine di orientarne attivamente la gestione verso una maggiore responsabilità sociale, sia quelli che dichiaratamente non investono in imprese che abbiano violato alcuni criteri etici individuati a priori dai loro clienti.
L’esigenza di introdurre principi etici nella gestione degli affari si è posta fin dalla nascita dell’economia mercantile, e in maniera sempre più accentuata con lo sviluppo dell’economia finanziaria. Nell’ambito di tale tendenza, l’applicazione di valori morali alle strategie di impresa è vista come un elemento atto ad aumentarne la competitività. Nel più generale contesto dell’economia e del mercato finanziario si è quindi assistito all’emergere di diverse inziative – ispirate alla solidarietà sociale, al recupero dell’infanzia abbandonata, alla tutela della natura, dell’ambiente, della salute ecc. – la cui realizzazione è per lo più correlata allo sviluppo di specifiche iniziative di supporto al settore non profit.
Nell’ordinamento italiano il crescente sviluppo della f. etica ha indotto il legislatore a intervenire nella regolamentazione del fenomeno, prevedendo, nella Legge per la tutela del risparmio del 2005, obblighi di informazione e rendicontazione in capo a coloro che promuovono prodotti e servizi qualificati come etici o socialmente responsabili. Tra questi, vanno ricordati in particolare la banca etica (➔ banca), che garantisce l’impiego del risparmio raccolto destinandolo al finanziamento di attività volontaristiche, e i cosiddetti fondi etici, che orientano gli investimenti in maniera coerente a determinati valori etico-morali o devolvono una determinata percentuale del rendimento in favore di iniziative di beneficenza e solidarietà.