Mancanza di lavoro retribuito. Quella dovuta a cause indipendenti dalla volontà del soggetto privo di occupazione è la d. involontaria e, a determinati effetti, è presa in considerazione dall’ordinamento giuridico; a essa fa riscontro la d. volontaria, nella quale peraltro non rientrano tutti i casi in cui la mancanza di occupazione dipenda da un atto di volontà, ma più propriamente quelli di coloro che non accettino un lavoro adeguato alle proprie condizioni fisiche, sociali e morali.
Se la d. volontaria è la più importante differenziazione agli effetti giuridici, da un punto di vista economico sono numerose le distinzioni che si possono indicare: per es., d. totale e d. parziale (o sottoccupazione), intendendosi per quest’ultima la condizione di coloro che sono occupati per un numero di ore e di giornate lavorative inferiore al normale; d. cronica o di fondo, derivante da squilibri del mercato a carattere duraturo; d. frizionale, provocata da insufficiente mobilità della mano d’opera da un lavoro all’altro o da una zona all’altra; d. tecnologica, causata da trasformazioni della tecnica produttiva e d. da ridimensionamento; d. ciclica o congiunturale, legata alla fase discendente del ciclo; d. stagionale, che di solito ha carattere di d. parziale; d. palese e d. nascosta, intendendosi per quest’ultima una situazione in cui parte dei lavoratori occupati ha produttività nulla e potrebbe quindi essere allontanata dal processo produttivo senza conseguenze per l’ammontare del prodotto e senza mutare tecnica e capitale impiegato, come può avvenire, per es., nell’agricoltura a conduzione familiare.
Il problema della d., o, almeno, della ricerca delle possibili vie percorribili per ridurne l’entità e le cause, è stato sempre considerato uno dei temi centrali della politica economica.
L’ottica classico-marxiana.
Nella tradizione di pensiero classico-marxiana il mercato del lavoro è rappresentato come il punto di incontro fra la classe dei lavoratori, che non possiede i mezzi di produzione, e la classe dei capitalisti che invece controlla il processo produttivo. Per autori come A. Smith e D. Ricardo la crescita economica era governata dalle risorse secondo un modello di offerta e non aveva limite, a meno che non si presentasse una scarsità delle risorse stesse. Gli effetti del progresso tecnico sul mercato del lavoro, inoltre, avrebbero potuto determinare soltanto una d. temporanea; l’introduzione delle macchine avrebbe infatti generato un aumento della produttività del lavoro e quindi della produzione di beni. Secondo la legge di Say o degli sbocchi (➔ Say, Jean-Baptiste) l’accresciuta offerta avrebbe creato nuova domanda e la d. sarebbe stata riassorbita, seppure da altre industrie. Soltanto Ricardo ammise la possibilità di una d. tecnologica, dovuta al fatto che gli aumenti tendenziali dei salari monetari spingono i capitalisti a sostituire i lavoratori con le macchine. K. Marx, invece, considerò lo sviluppo della d. un aspetto inevitabile dell’accumulazione capitalistica, e attribuì il verificarsi ciclico della d. nel lungo periodo all’aumento del rapporto fra capitale fisso e capitale variabile. Fra gli economisti classici, soltanto T.R. Malthus ammetteva che l’insufficienza dal lato della domanda potesse porre un freno all’attività produttiva e quindi creare disoccupazione.
L’impostazione keynesiana.
La revisione critica dell’economia neoclassica operata da J.M. Keynes, sotto la pressione della situazione economica del primo dopoguerra che mal si adattava al modello teorico allora dominante, dimostrò, mediante una ricostruzione completa del modo di operare del sistema economico, che le forze automatiche del mercato non erano in grado di ricondurre l’economia in condizione di pieno utilizzo delle risorse materiali e umane disponibili. In tale prospettiva Keynes indicò i rimedi per la d. in provvedimenti atti a stimolare la domanda effettiva sia in via indiretta, attraverso un miglioramento delle aspettative degli imprenditori (per es., diminuzione dei tassi di interesse ecc.), sia attraverso l’intervento diretto dello Stato con investimenti in opere pubbliche.
Negli anni successivi, gli economisti hanno elaborato differenti teorie sulla d., verificando che il salario è una variabile che muta in risposta agli squilibri presenti nel mercato del lavoro, senza essere né totalmente rigida né completamente flessibile. Se c’è d. i salari tendono a diminuire, mentre se esiste sovraoccupazione i salari tendono a crescere (A.W. Phillips). Alla fine degli anni 1950 si è tentato di individuare dei nessi fra d. e inflazione (curva di Phillips), evidenziando come, a mano a mano che cresce la domanda globale e si riduce la d., i salari e i prezzi crescono piuttosto velocemente. Tuttavia i tentativi di combattere, durante gli anni 1970, la persistente inflazione, associata a depressione dell’attività economica e quindi a d., hanno mostrato come il processo inflazionistico sia molto più complesso di quanto suggerito da Phillips.
La scuola monetarista.
Economisti della scuola monetarista quali M. Friedman edE.S. Phelps hanno osservato che nel lungo periodo il sistema economico muove verso il tasso di d. naturale indipendentemente dal tasso di variazione dei salari e dei prezzi; in corrispondenza di tale tasso, detto NAIRU (Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment), l’economia è in equilibrio e l’inflazione non accelera né decelera. Per Friedman e Phelps, i lavoratori sono interessati al salario reale, pretendendo salari nominali più elevati ogniqualvolta si preveda inflazione. In quest’ottica, secondo la scuola delle ‘aspettative razionali’, i cui principali esponenti sono R. Lucas, T. Sargent e N. Fallace, che ha avuto particolare fortuna negli anni 1970, non esisterebbe d. involontaria, perché chiunque si trovi a essere disoccupato e desideri lavorare potrebbe trovare un impiego a un salario inferiore a quello corrente. Nel corso degli anni 1980 il dibattito si è concentrato sul concetto di tasso naturale di d., determinato dall’interagire, sul mercato del lavoro, di domanda e offerta.
Nuovi approcci.
L’attenzione al fatto che i salari e i prezzi si muovono lentamente, caratterizzati da elementi di rigidità, ha stimolato la formazione di nuove teorie, note con il nome di ‘teorie del disequilibrio’: autori come R. Barro, A. Grossman ed E. Malinvaud hanno messo in evidenza la coesistenza, nelle economie di mercato, di d. e di eccesso di domanda di beni, ovvero la contemporanea manifestazione di squilibri nel mercato del lavoro e in quello dei beni. In questi modelli né gli individui né le imprese possono, dato il sistema dei prezzi, effettuare liberamente le loro scelte, ma devono rispettare vincoli quantitativi che rendono i mercati fra loro interdipendenti (per es., le imprese pur in presenza di un eccesso di domanda di beni potrebbero trovare non conveniente espandere la produzione, e quindi ridurre la d., a causa di vincoli di liquidità esistenti sul mercato monetario).
Successivamente la teoria economica ha unito la visione keynesiana della disoccupazione con quella liberista-neoclassica. In tale contesto le imprese operano come massimizzatori del profitto sul mercato dei beni concorrenziali ma subiscono una contrattazione salariale sul mercato del lavoro. Ne scaturisce un saggio salariale, ovverosia una remunerazione del lavoro, più elevato di quello che si sarebbe avuto con un mercato del lavoro flessibile e quindi una minore occupazione come risposta razionale delle imprese. In questa letteratura particolare importanza hanno le teorie del sindacato monopolistico e quelle del right to manage, che lasciano al sindacato la scelta del saggio salariale e alle imprese la determinazione della quantità ottima di occupazione. La d. origina quindi, come sottolineava Keynes, da una rigidità nominale dei saggi salariali.
Un secondo importante filone è quello degli efficiency wages, inizialmente sviluppato da J. Stiglitz e C. Shapiro, dove il salario viene commisurato, positivamente, alla produttività (effort) del lavoratore. Se quest’ultima però non è perfettamente osservabile da parte dell’impresa, il lavoratore può trovare conveniente ridurre il suo livello di impegno (‘lavoratore pigro’). Se viene scoperto, verrà licenziato ma il ‘costo’ della d. è tanto più basso quanto più facilmente si può trovare una occupazione alternativa. In altri termini, quanto è più semplice trovare una occupazione alternativa se licenziati, tanto maggiore è l’incentivo a oziare e viceversa. Per indurre il lavoratore a non seguire questi comportamenti opportunistici, le imprese devono rendere il salario più attraente. Quindi, attraverso un problema di osservabilità della produttività, si viene a offrire una visione alternativa alla relazione inversa tra saggio salariale e d. osservata da Phillips.
Il problema della d. negli anni 1990 è stato al centro delle preoccupazioni di gran parte delle economie europee occidentali. Infatti, nell’Unione Europea il tasso di d. è passato da circa l’8% nel 1990 a più del 9% nel 1999. In Italia la d. è rimasta a livelli molto elevati e superiori a quelli degli altri paesi industrializzati e ha continuato a crescere per quasi tutto il decennio (dal 9,1% all’11,5%.). Nello stesso decennio, gli USA sono passati da un tasso di d. del 5,6% (nel 1990) a un tasso del 4,2% nel 1999, con una crescita dunque del tasso medio annuo dell’occupazione pari all’1,5%, contro lo 0,3% nell’Unione Europea. Diversi economisti hanno sostenuto che i risultati più soddisfacenti negli USA si spiegano con la maggiore flessibilità del mercato del lavoro statunitense rispetto a quello europeo e altri ancora che la crescita dell’occupazione, con la conseguente riduzione della d., è solo dovuto all’aumento di posti di lavoro precari e con basse remunerazioni, soprattutto nei settori meno avanzati del terziario. L’occupazione totale è potuta dunque crescere senza forti pressioni inflazionistiche, poiché la forza contrattuale dei lavoratori marginali è assai ridotta.
Il processo di progressiva liberalizzazione o flessibilizzazione del mercato del lavoro si è affermato anche nei paesi europei aderenti alla moneta unica, tanto da diventare uno dei principali punti dell’agenda di politica economica comunitaria. In Italia si è assistito, attraverso la legge Treu (l. 196/1997) prima e la Biagi (l. 30/2003) successivamente, all’introduzione di importanti modifiche nei contratti di lavoro subordinato, con la creazione di forme di ‘lavoro atipico’, quale l’interinale, il collaboratore a progetto e in genere figure lavorative caratterizzate da contratti a tempo determinato e facilmente sostituibili. Anche in seguito a queste misure in Italia il tasso di d. è sceso al 6,1% (2008), a fronte di una media pari all’8% nell’Unione Europea (5,1% negli Stati Uniti). Successivamente, tuttavia, in Italia come in tutto in mondo, la crisi aperta negli Stati Uniti dalla questione dei mutui subprime, poi estesa a coinvolgere le strutture finanziarie ed economiche a livello globale, ha provocato un brusco rialzo dei tassi di d. (8,2%, stima 2009).
La rilevanza del problema della d., dal punto di vista politico e sociologico, ha indotto il legislatore a prevedere un’apposita forma assicurativa diretta a garantire il lavoratore dal rischio della d. involontaria, intesa come evento che incide sulla capacità di guadagno e sul diritto al lavoro riconosciuto dall’art. 4 della Costituzione. Assicuratore è l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, assicurante è il datore di lavoro, assicurato è il lavoratore il quale possa far valere almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione. L’assicurazione dà diritto ai lavoratori, che siano stati licenziati, a una indennità giornaliera di importo corrispondente a una percentuale della retribuzione. Rispetto all’originaria previsione, l’assicurazione è stata estesa anche a categorie inizialmente escluse. Tuttavia, rispetto alla politica di tutela dei lavoratori disoccupati attraverso la corresponsione di indennità di d., si sono sempre più privilegiati altri strumenti, quali la cassa integrazione guadagni, l’inserimento dei lavoratori eccedentari nelle liste di mobilità, lavori socialmente utili.