Aumento progressivo del livello medio generale dei prezzi, o anche diminuzione progressiva del potere di acquisto (cioè del valore) della moneta. Il fenomeno può avere molteplici cause, sia reali sia monetarie, e assumere forme differenti. Per es., si definisce i. strisciante un aumento modesto (inferiore al 10%), ma prolungato dei prezzi; i. galoppante un aumento rapido e irrefrenabile degli stessi e iper-i. un aumento particolarmente sostenuto (superiore al 50% al mese).
La scuola monetarista. - Gli economisti della scuola monetarista sostengono che l’i. è generata da un aumento della quantità di moneta eccessivo rispetto all’aumento della produzione di merci. La moneta immessa nel sistema economico, finendo nelle mani degli individui, prima o poi verrà da costoro spesa nell’acquisto di merci. Se la produzione di queste non può essere espansa perché il sistema economico è in una situazione di piena occupazione (cioè gli impianti e i macchinari sono pienamente utilizzati e non vi sono lavoratori disoccupati), si avrà una domanda di merci superiore all’offerta e un conseguente aumento dei prezzi delle stesse, cioè del livello generale dei prezzi.
Gli esempi portati per dimostrare la validità di tale teoria sono gli avvenimenti monetari successivi alla scoperta dell’America e quelli che si verificarono in Germania alla fine della Prima guerra mondiale e subito dopo la Seconda. Nel 16° sec. furono importate in Europa dalle Americhe grandi quantità di oro e di argento. Vigendo allora negli Stati europei un sistema bimetallico (➔ bimetallismo), si determinò un forte aumento della quantità di moneta in circolazione e una notevole crescita dei prezzi. Un fenomeno analogo si verificò in Germania alla fine della Prima guerra mondiale, quando il governo tedesco, per finanziare le spese di guerra, stampò grandi quantità di cartamoneta, generando un forte aumento dei prezzi. I monetaristi sostengono che si ha i. ogni volta che il governo (o la banca centrale) per esigenze di diverso tipo (finanziamento del bilancio pubblico, politica creditizia ecc.) aumenta la quantità di moneta in circolazione. Questa teoria dell’economia classica forma la base di ragionamento per quella che viene definita la teoria quantitativa della moneta o equazione di Fisher (➔ equazione).
La teoria keynesiana. - Secondo J.M. Keynes invece è l’eccesso della domanda globale sull’offerta globale in una situazione di piena occupazione a generare l’i., a prescindere dalla quantità di moneta immessa nel sistema economico. La domanda può aumentare infatti, secondo la sua teoria, anche se non aumenta la quantità di moneta in circolazione, per effetto dell’aumento della velocità di circolazione della moneta (cioè del numero di volte che la moneta passa di mano in mano). Per descrivere la differen;za fra il livello della domanda e quello dell’offerta, Keynes propose nel 1940 l’espressione inflationary gap («divario inflazionistico»): se la domanda è superiore all’offerta, questo gap innesca un processo di inflazione.
La teoria sull’i. da costi. - L’esperienza vissuta in molti paesi dell’Europa occidentale negli anni 1960-70 ha indotto la teoria economica a occuparsi dell’i. da costi, quando l’aumento dei prezzi da parte delle imprese è dovuto agli aumenti dei costi di produzione (per es. salari e materie prime); in tal caso l’aumento dei prezzi può generare una spirale inflazionistica per cui all’incremento dei prezzi segue un aumento dei salari che determina un ulteriore incremento dei prezzi. In particolare si è parlato infatti di i. salariale per definire il fenomeno inflazionistico verificatosi negli anni 1960 (quando furono concessi dalle imprese forti aumenti salariali), mentre negli anni 1970 la principale causa dell’i. è stata rinvenuta nell’aumento dei prezzi internazionali delle materie prime (crisi petrolifera).
La teoria di Phillips. - Alla teoria dell’i. da costi si ricollega quella dell’economista inglese A.W. Phillips, secondo cui le cause del fenomeno vanno ricercate essenzialmente nel mercato del lavoro. Esaminando la realtà dell’Inghilterra dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, Phillips rilevò che, quando vi era nel sistema economico un elevato numero di disoccupati, i salari crescevano lentamente, mentre quando la disoccupazione scendeva i salari crescevano più rapidamente, determinando un aumento nei costi di produzione e quindi nei prezzi di vendita dei prodotti finiti. Le spiegazioni del fenomeno possono essere individuate sia nel maggior potere contrattuale dei sindacati in presenza di bassi livelli di disoccupazione sia nel fatto che le imprese, quando il sistema è vicino alla piena occupazione e la forza lavoro quindi è scarsa, offrono ai lavoratori salari più elevati per accaparrarseli. L’esperienza degli anni recenti tuttavia appare confutare la teoria di Phillips, in quanto i salari sono aumentati considerevolmente anche in presenza di un’elevata disoccupazione. Ciò si determina essenzialmente in quanto le imprese che operano in situazione di oligopolio, e quindi possono influire sul prezzo del prodotto finito, concedono spesso aumenti salariali per diminuire la conflittualità sindacale anche in presenza di disoccupazione elevata e poi scaricano tali aumenti sui prezzi della merce venduta. La coesistenza dei due fenomeni, antitetici secondo la teoria di Phillips, i. dei prezzi e stagnazione (ristagno produttivo), dà luogo all’i. recessiva o stagflazione. Nella stagflazione degli anni 1970 indotta sia dagli shocks petroliferi che causarono l’impennata dei prezzi delle materie prime, traslati dalle imprese sui prezzi finali, sia dalle rigidità del mercato del lavoro e dei beni, la teoria economica monetarista vedeva in un rigido controllo della quantità di moneta l’unico strumento valido di controllo.
L’i. importata. - Paesi che hanno un notevole grado di interdipendenza possono importare l’i.: particolarmente esposti a tale fenomeno sono i paesi trasformatori di materie prime, come l’Italia, per i quali un aumento dei prezzi internazionali delle stesse determina i. da costi. L’i. può essere inoltre importata dai paesi che hanno un avanzo nella bilancia dei pagamenti, perché questo si traduce in un aumento della circolazione monetaria interna. L’i. può infine essere importata attraverso la svalutazione del cambio che rende più costoso reperire la valuta per pagare le importazioni dall’estero e quindi determina un aumento dei costi delle imprese importatrici di materie prime
L’i. produce numerosi effetti negativi. Poiché il potere d’acquisto della moneta diminuisce a causa dell’aumento dei prezzi delle merci, gli individui, non volendo detenere il risparmio sotto forma monetaria (e nemmeno obbligazionaria, dato che le obbligazioni, fruttando una somma di denaro fissa e venendo rimborsate alla fine della loro vita a un valore nominale fisso, seguono la sorte del contante), si orienteranno verso l’acquisto di beni-rifugio come oro, immobili ecc., i cui prezzi aumentano e che pertanto sono in grado di preservare il loro valore. In un’economia aperta l’aumento dei prezzi fa diminuire la competitività internazionale delle merci e quindi le esportazioni. Perché le merci di un paese conservino competitività sui mercati internazionali, bisogna che i prezzi delle merci di quel paese non crescano più rapidamente dei prezzi delle merci di altri paesi con cui sono in concorrenza. Qualora il paese i cui prezzi aumentano più velocemente attui una svalutazione allo scopo di accrescere la competitività delle proprie merci, si può creare una spirale i.-svalutazione. Il paese che attua la svalutazione infatti può causare, ricorrendo a questo provvedimento, una crescita dell’i. interna come conseguenza dell’aumento del prezzo delle importazioni, per cui è costretto a svalutare ulteriormente il cambio, e così via.
Dalla fine del millennio, si osserva una significativa convergenza fra i tassi d’i. nelle diverse aree geografiche. Questa tendenza è riconducibile a un insieme complesso e articolato di fattori, innanzi tutto le politiche fiscali e monetarie meno inflazionistiche che in passato. Gran parte delle banche centrali ha operato avendo come obiettivo primario la stabilità dei prezzi e in condizioni di autonomia dai governi. A ciò ha contribuito anche la crescente integrazione dell’economia mondiale e, in particolare, la progressiva eliminazione dei controlli e vincoli ai movimenti di capitale. Per effetto di questa liberalizzazione, i mercati finanziari internazionali esercitano un’influenza crescente sulle politiche economiche nazionali. La relazione tra le decisioni di politica economica e le variazioni del tasso di cambio (apprezzamenti o deprezzamenti) è divenuta sempre più stretta e immediata, implicando di fatto un giudizio positivo o negativo sulle politiche stesse. Queste ultime tendono a essere all’origine dei movimenti di capitale in entrata o in uscita dai diversi paesi, quando le misure adottate risultino gradite o sgradite ai mercati, ovvero siano considerate rafforzative o lesive della stabilità monetaria.
Mentre in passato tali movimenti, pur se esistenti, non apparivano di dimensione tale da preoccupare le autorità, che potevano controllarli con l’applicazione di misure restrittive efficaci, con l’affermarsi della liberalizzazione nei confronti di tutte le attività finanziarie i movimenti hanno assunto proporzioni tali da risultare difficilmente controllabili dalle sole autorità nazionali. È questo l’effetto della globalizzazione dei mercati (➔ globalizzazione), una novità strutturale che caratterizza l’economia mondiale. I rapporti interni e internazionali tra operatori e tra questi e i policy makers mutano rapidamente, anche grazie al progresso della tecnologia dell’informazione e all’innovazione degli strumenti finanziari. Le informazioni economiche e politiche vengono diffuse con rapidità e uniformità. La notizia che, per es., l’i. in un certo paese è aumentata più che in altri mette in moto meccanismi di sostituzione di tutte le attività espresse nella valuta di quel paese. Così in tutto il mondo finanziario gli ordini di vendita della valuta si succedono, modificando il tasso di cambio e i tassi di interesse dell’economia ‘inflazionista’. Tali effetti, a loro volta, daranno vita a fenomeni che produrranno un tendenziale riallineamento dei tassi di inflazione. Pertanto, il mercato finanziario internazionale assume in modo sempre più evidente un ruolo di supervisore della stabilità dei prezzi, ponendo alle autorità il vincolo di non praticabilità dell’i. come metodo e obiettivo di politica economica. In altri termini, le autorità hanno perso un grado di libertà nella scelta delle loro politiche.
Un altro importante fattore che contribuisce al contenimento dell’i. è il rallentamento della dinamica salariale e del costo del lavoro. Per quanto riguarda le remunerazioni, la relazione con l’andamento dell’i. è di duplice natura: da un lato, la moderazione delle rivendicazioni da parte delle organizzazioni dei lavoratori certamente concorre al rallentamento della crescita del costo del lavoro e, quindi, dei prezzi; dall’altro lato, lo stesso rallentamento dell’i., ingenerando minori aspettative inflazionistiche, modera le rivendicazioni retributive. La dinamica del costo del lavoro dipende ovviamente da quella delle retribuzioni, ma anche dall’andamento della produttività del lavoro. Significativi aumenti di produttività portano al contenimento dei costi del lavoro e, quindi, dell’inflazione.
Il controllo dell’i. è universalmente accettato come priorità delle banche centrali moderne. Tale impegno è esplicitamente indicato nello statuto di alcune importanti banche centrali dei paesi OCSE (Regno Unito, Canada e Australia); anche la Federal Reserve, attraverso il Federal Open Market Committee, comunica regolarmente l’obiettivo di i. programmata. Ove comunque non esplicitamente codificato, l’obiettivo di i. programmata resta comunque un impegno che i banchieri centrali comunicano in maniera aperta e completa ai mercati. Questo tipo di informazione sulla politica monetaria è alla base della teoria dell’inflation targeting, della pratica cioè dei banchieri centrali di annunciare ai mercati un obiettivo programmatico di i. e di impegnarsi (commitment) al suo raggiungimento attraverso gli strumenti monetari, quali gli interventi sui tassi di interesse di riferimento monetario e sulla massa monetaria stessa. Tuttavia viene solitamente privilegiato lo strumento dei tassi di interesse. I mercati quindi incorporano nelle loro decisioni il fatto che la banca centrale innalzerà (ridurrà) il tasso di interesse guida in presenza di aumento (riduzione) dei prezzi. Questo comportamento si giustifica con la presenza di aspettative razionali; se la banca centrale è coerente con le sue politiche, la sua regola di politica monetaria diventa credibile ed entra a far parte del set informativo degli operatori economici. Una critica mossa all’inflation targeting è quella di essere troppo meccanico e rigido e di impegnare eccessivamente la banca centrale, riducendo i suoi spazi di autonomia in presenza di shocks esogeni inattesi.