Dall’originario significato di dischetto di metallo coniato per le necessità degli scambi, avente lega, titolo, peso e valore stabiliti, per estensione tutto ciò che, nei vari periodi e paesi, funge da intermediario degli scambi e da comune misura dei valori.
Lo studio antropologico della m. si è a lungo concentrato sull’esistenza di m. ‘primitive’, prevalentemente in società extraeuropee, e sul confronto tra le funzioni della m. nella società occidentale (riserva di valore, unità di misura, mezzo di scambio anonimo e impersonale) e in altri contesti sociali. Alcuni tipi di m., quali i grandi dischi di pietra di Yap in Micronesia, le m. di sale dei Baruya della Nuova Guinea, i cauri (tipi di conchiglie) in molte società africane sono esempi celebri di m. primitive. Gli studi di F. Boas sulle feste potlatch dei nativi americani e sulle celebri m. wampum, l’analisi etnografica di B. Malinowski sul commercio kula delle isole Trobriand e sull’uso di bracciali e collane di conchiglia (vaygu’a) possono essere considerati come tentativi pionieristici di fondare un’antropologia della moneta. Essi contribuirono a orientare lo studio antropologico su forme di scambio rituale e cerimoniale piuttosto che sugli usi quotidiani dei mezzi di scambio. L’approfondimento delle conoscenze etnografiche relative alle economie di altre società ha messo in luce molti aspetti problematici nell’uso dell’idea stessa di moneta. L’esistenza di sfere di scambio in cui circolano soltanto alcuni tipi di beni, il legame tra l’oggetto m. e il suo proprietario, la personalizzazione della m. di contro alla prevalente nozione occidentale di mezzo di scambio impersonale, il frequente impiego della m. in scambi di tipo rituale piuttosto che quotidiano rendono problematico un uso universale della nozione di moneta.
Gli antropologi si sono poi dedicati allo studio dei significati del denaro occidentale in altri contesti. In molte società della Melanesia il denaro è oggi utilizzato negli scambi rituali in occasione delle cerimonie del ciclo di vita: in questi contesti esso cessa di essere unità di misura di valore e oggetto da tesorizzare per divenire simbolo di legame sociale. La m. occidentale, che ha soppiantato un po’ ovunque le m. locali, è spesso oggetto di processi di risemantizzazione: incorporata in altre forme di organizzazione politica, economica e sociale, la m. occidentale può rivestirsi di significati altri rispetto a quelli originari.
Il termine m. individua un’entità, concreta o astratta, a cui, in un sistema economico, vengono riconosciute funzioni di strumento di pagamento, di unità di conto, di riserva di valore. La m., priva di valore intrinseco, viene definita legale o a corso legale quando il riconoscimento della sua funzione di mezzo di pagamento è garantito dalla legge. Con il termine m. si designa anche l’insieme delle monete coniate e delle banconote emesse (m. circolante), vale a dire di tutto ciò che in un sistema è per legge atto a soddisfare obbligazioni di pagamento; un concetto ancor più ampio di m. (base monetaria) – proprio dell’analisi economica e finalizzato al governo della m. – è rappresentato dall’insieme del circolante e di altre attività prontamente liquidabili quali depositi in conto corrente o con scadenza entro 2 anni, pronti contro termine, quote di fondi comuni monetari, titoli di mercato monetario e obbligazioni con scadenza originaria fino a due anni. In ragione della sua origine storica la m. viene ancora oggi identificata, come oggetto materiale, nei pezzi di metallo a forma di disco coniati – in lega, titolo, peso e valore stabiliti – appositamente per essere usati nei pagamenti in cambio di beni e servizi. L’evoluzione storica ha peraltro da tempo reso irrilevante il materiale utilizzato per esternare il segno monetario, come attesta, attualmente, la ben più ampia diffusione, come strumenti fisici di pagamento, delle banconote in luogo delle monete. Funzione principale di una m. è quella di rappresentare il ‘metro’ per la misura del valore di altri beni e servizi (il ‘prezzo’: cfr. art. 1470, 1498 e 1515 c.c.).
Oltre alla funzione di unità di conto la m. adempie a quella di essere un mezzo di pagamento, vale a dire un mezzo di estinzione delle obbligazioni pecuniarie che non può essere rifiutato dal destinatario del pagamento. In Italia il valore ‘liberatorio’ del pagamento in m. è stabilito dall’art. 1277 c.c. ed è rafforzato dall’art. 693 c.p., che prevede la sanzione amministrativa per chiunque rifiuti di ricevere, per il loro valore, m. aventi corso legale nello Stato.
L’evoluzione tecnologica, unitamente alle esigenze collegate a una regolazione sempre più veloce e sicura delle transazioni economiche, fanno sì che i pagamenti e i trasferimenti di ricchezza avvengano sempre più frequentemente mediante movimentazioni contabili dei saldi di conti detenuti presso banche e altri intermediari finanziari. In relazione al disposto dell’art. 1277 c.c., un consolidato orientamento riteneva che tali forme di trasferimento potessero rappresentare un valido modo di estinzione delle obbligazioni pecuniarie solo nei limiti della libera accettazione da parte del creditore; attualmente, però, larga parte della dottrina e della giurisprudenza è propensa ad attribuire diretta efficacia solutoria anche ai pagamenti scritturali effettuati con la cosiddetta m. bancaria, vale a dire attraverso crediti a vista trasferibili mediante assegni e/o bancogiri, per i quali una banca abbia assunto l’impegno ad eseguire incarichi di pagamento.
Il modo odierno di considerare la m. e i fenomeni monetari è il risultato di un’evoluzione secolare che appare dominata dalla ricerca spontanea di soluzioni idonee ad agevolare gli scambi tra gli operatori economici. Lo scambio diretto di beni contro beni, o baratto, presentava comprensibili inconvenienti per l’eventuale non coincidenza nell’apprezzamento dei beni potenzialmente scambiabili e per altre analoghe complicazioni pratiche. Di qui lo scindersi dell’atto di scambio in due operazioni distinte: cessione di un bene o servizio contro un bene intermedio, che l’esperienza dimostrava essere largamente richiesto e accettato dal pubblico; e impiego di questo bene intermedio per l’ottenimento degli altri beni e servizi desiderati. Quale strumento intermedio degli scambi vennero adoperate, nella più lontana antichità, le cose più disparate: pietre, conchiglie, sale, capi di bestiame, tabacco, metalli vari e infine metalli preziosi (oro, argento), che si adattavano bene alla funzione in virtù delle loro peculiari caratteristiche, prime fra tutte il valore intrinseco e la non deperibilità, che li rendevano accettabili da chiunque e adatti alla tesaurizzazione. Questa spinta evolutiva dettata dalla comodità e dalla convenienza degli scambi la si ritrova anche nell’ulteriore passaggio dalla m. con un effettivo contenuto intrinseco in metalli preziosi a una m. puramente cartacea o scritturale, né il processo è da ritenersi concluso. Da un lato, come possibilità legata agli sviluppi delle contabilizzazioni elettroniche, si profilano sistemi che tenderebbero a rendere ancora più immateriale lo strumento monetario, in quanto risulterebbe virtualmente non necessaria persino la sua esistenza come segno cartaceo; dall’altro lato, la diffusione delle cosiddette carte di credito richiama l’attenzione sulla concreta maggiore complessità e molteplicità della creazione di mezzi monetari. Del resto, a conferire carattere di m. a un determinato mezzo usato come intermediario degli scambi di beni e servizi o, più generalmente, come strumento regolatore dei rapporti di debito non concorre necessariamente l’utilità intrinseca del mezzo stesso, bensì la fiducia nella sua generale accettazione. Tuttavia, il concetto di m. non si presta a una definizione che si basi soltanto su una sua caratteristica. Come intermediario negli scambi, la m. costituisce un mezzo di pagamento. Ma questa funzione implica che una qualche disponibilità monetaria sia trattenuta, nel corso del tempo, da chi ne fa uso; le consuetudini di pagamento dei sistemi economici moderni comportano, di norma, il decorso di intervalli più o meno prolungati tra gli incassi e gli esborsi. Oltre che mezzo di pagamento, la m. è, dunque, riserva di valore: vale a dire uno dei possibili modi in cui gli operatori economici possono mantenere la ricchezza di cui dispongono. Meno strettamente connesse con quelle sinora menzionate sono le funzioni della m. come misura dei valori e come termine di riferimento nei pagamenti differiti, aspetti che possono anche non coesistere nel mezzo che operi come mezzo di pagamento e riserva di valore. Conviene, inoltre, sottolineare la mancanza di ogni necessaria connessione tra il contenuto intrinseco della m. e la solidità del sistema monetario.
Se la m. fu incontestabilmente creazione dell’economia mercantile, e non già dello Stato, fu tuttavia la prima delle creazioni dell’economia mercantile di cui i governi appresero a impossessarsi per effetto della coniazione, imprimendo sui pezzi metallici figure o iscrizioni, che finirono per far apparire la m. come un’espressione della sovranità dei pubblici reggitori. Questi non tardarono a individuare nella creazione di m. un mezzo per procurare entrate all’erario. Nel tempo, si è osservato che l’influenza dei governi poteva esercitarsi più liberamente sulle m. con circolazione limitata a circoscritte aree statali, nell’ambito delle quali era possibile salvaguardare l’accettazione dei pezzi metallici deprezzati, conferendo loro il carattere di m. legale. Nei riguardi, invece, delle m. estesamente usate nei traffici internazionali, l’accettazione dipendeva dall’apprezzamento dei mercanti. Essi non avrebbero mancato di sospendere l’invio dei metalli preziosi verso i paesi le cui zecche si fossero rese responsabili di alterazioni monetarie.
Un aspetto interessante delle antiche vicissitudini monetarie è costituito dalle cosiddette m. immaginarie o ideali o numerarie o di conto, che, a differenza di quelle reali le quali soltanto potevano essere impiegate nei pagamenti effettivi, servivano per fini di contrattazione e di contabilizzazione. Questo dualismo tra m. astratta e m. effettiva esaurì la sua funzione alla fine del 18° secolo. Ma le variazioni – disposte dalle autorità pubbliche – del rapporto delle m. immaginarie rispetto alle m. reali realizzavano quegli stessi effetti che oggi si attendono da un processo inflazionistico o deflazionistico. La cosiddetta m. immaginaria costituiva già un esempio di m.-segno, sprovvista cioè di un effettivo contenuto intrinseco in metalli preziosi. Con il volgere del tempo, la circolazione di mezzi di pagamento cartacei, rappresentativi di determinati quantitativi di metalli preziosi e trasformabili nei medesimi a richiesta dei detentori si andò affermando per ragioni di convenienza. Anziché conservare direttamente e con notevoli rischi i metalli preziosi, risultò vantaggioso depositarli presso persone che godevano di larga fiducia (orefici, mercanti e simili) e che rilasciavano di norma attestazioni del loro impegno alla pronta riconsegna dei metalli. Queste attestazioni divennero a loro volta utilizzabili per effettuare pagamenti. Su queste basi sorse l’attività bancaria, divenuta particolarmente significativa per i fenomeni monetari, allorché il banchiere si rese conto della possibilità pratica di far fronte alle richieste di conversione in metalli dei segni cartacei da lui rilasciati, senza che questi fossero integralmente coperti da metalli preziosi. A fronte delle attestazioni rilasciate era infatti sufficiente la conservazione di una prudenziale ‘riserva parziale’, la differenza potendo essere utilizzata per effettuare operazioni di prestito. Così, mentre l’accettazione dei mezzi cartacei continuava a basarsi sulla fiducia, il sistema ammetteva una creazione di mezzi cartacei multipla rispetto alla disponibilità metallica mantenuta come riserva: da una funzione di semplice intermediazione, il sistema bancario evolveva verso una funzione di partecipazione diretta alla creazione di mezzi monetari.
Fino a che la circolazione monetaria fu costituita esclusivamente da m. metalliche, l’unità monetaria, o m. base di un sistema monetario cui tutte le altre m. del sistema stesso venivano riferite, quando era effettivamente coniata (alle volte infatti l’unità monetaria serviva unicamente da strumento contabile, m. di conto, e la circolazione era composta soltanto di multipli e sottomultipli) doveva essere una m. perfetta e così pure i suoi multipli. I sottomultipli, invece (o m. divisionali, divisionarie, sussidiarie, spicciole), impiegati per piccoli pagamenti e coniati in metalli o leghe di metalli non nobili, nascevano in genere come m. imperfette; si dava cioè loro un valore legale superiore a quello del metallo in esse contenuto (il che era reso necessario anche dal fatto che la coincidenza dei due valori, dato lo scarso prezzo dei metalli non nobili, avrebbe richiesto la coniazione di m. troppo grandi e troppo pesanti) e conseguentemente, al contrario di quel che avveniva per le m. perfette, si attribuiva loro soltanto un potere liberatorio limitato e non si ammetteva per esse libertà di coniazione. Ogni sistema monetario risultava così costituito dall’unità monetaria, coniata o ideale, avente un valore corrispondente a un dato peso di metallo fino, da m. dello stesso metallo di valore multiplo dell’unità, anch’esse di pieno peso e valore, e da m. divisionali, di valore superiore al valore intrinseco, che erano accettate in pagamento in quanto convertibili nelle precedenti (e furono dette perciò anche m. fiduciarie).
Un sistema monetario poteva essere monometallico o bimetallico a seconda che la m. legale con potere liberatorio illimitato (unità monetaria e suoi multipli) fosse di un solo metallo, oro o argento, o dell’uno e dell’altro metallo. Perché il monometallismo aureo o argenteo funzionasse in modo perfetto occorreva però che i privati avessero facoltà di portare senza limiti di sorta metallo alla zecca per ottenerne m. e viceversa (libertà di coniazione e di fusione) e di far uscire ed entrare metallo dalle frontiere (libertà di esportazione e di importazione); soltanto l’esistenza di queste due libertà permetteva infatti un automatico processo di adeguamento del valore di scambio delle m. alle variazioni del valore commerciale del metallo in esse contenuto. Attraverso la sua libera trasferibilità in corrispettivo dei saldi passivi delle bilance dei pagamenti il metallo tendeva inoltre a distribuirsi tra i vari paesi in reciproche relazioni d’affari in modo da avere in tutti lo stesso prezzo, e i rapporti tra i livelli dei prezzi esistenti nei vari paesi, ossia tra i poteri d’acquisto delle relative m., tendevano a ritornare automaticamente su posizioni di equilibrio, qualora temporaneamente se ne fossero allontanati. Nel bimetallismo, oltre al verificarsi delle suddette condizioni per le m. sia d’oro sia d’argento, occorreva poi che venisse fissato il rapporto legale tra le une e le altre in base al rapporto tra i valori commerciali dei due metalli. Al sistema bimetallico si ricorse nel 19° sec. nella speranza che potesse assicurare meglio del sistema monometallico la stabilità del valore della m. attraverso processi compensatori: questi potevano però funzionare soltanto quando le deviazioni del rapporto commerciale tra i valori dei due metalli dal rapporto legale erano di lieve entità e non valevano a riportare i due rapporti alla coincidenza in caso contrario. Di fronte alle forti fluttuazioni del prezzo dell’oro, e soprattutto dell’argento, verificatesi negli ultimi decenni del 19° sec., il bimetallismo doveva perciò in breve tempo rivelare la sua inadeguatezza a raggiungere il fine che si proponeva. Per la legge di Gresham, secondo la quale la m. cattiva scaccia la buona, esso era infatti avviato a trasformarsi in un sistema monometallico a tipo alternato, in seguito all’uscita dalla circolazione delle m. coniate nel metallo a favore del quale si era mutato il rapporto tra i valori; e l’Unione (o Lega) monetaria latina che aveva adottato il sistema bimetallico, dovette a un certo punto sospendere la libera coniazione dell’argento, che si era deprezzato, per rompere il circolo attraverso il quale l’oro tendeva a smonetarsi. Ne risultò, nei paesi membri dell’Unione, un sistema monetario detto bimetallismo zoppo o incompleto (in quanto soltanto le m. d’oro conservarono in esso carattere di m. perfette e quelle d’argento furono automaticamente ridotte a m. divisionarie, ammettendosi che il loro valore legale potesse superare quello commerciale) assai vicino al monometallismo. Per la progressiva smonetazione dell’argento, andò poi sempre più prevalendo il monometallismo aureo.
Nel 19° sec. accanto alle m. metalliche si era diffusa però in misura crescente la circolazione di surrogati, sotto forma di biglietti di banca o di Stato convertibili in m., a corso fiduciario o legale (m. fiduciaria), e poi anche di assegni, sempre a corso fiduciario (m. bancaria). Questi titoli di credito, quando riscuotevano la fiducia del pubblico, erano perfettamente in grado di adempiere come la m. metallica alla funzione d’intermediazione negli scambi e non impedivano che la m. da loro rappresentata seguitasse a esplicare l’altra sua importante funzione di misura comune dei valori, permettendo che ogni bene esistente nel mercato avesse un solo prezzo, espresso in m., anziché tanti prezzi quanti sono gli altri beni con cui può scambiarsi, come avverrebbe se la m. non ci fosse. I biglietti a corso legale avevano inoltre potere liberatorio nei pagamenti come le m. metalliche e come queste potevano, in condizioni di stabilità dei prezzi, permettere di accumulare valori per il futuro, attraverso il risparmio, o di trasportarli nello spazio (mediante, per es., vendita di immobili in un luogo e acquisto con il ricavato di altri immobili in luogo diverso). Soltanto le funzioni di riserva metallica delle banche, ossia di copertura della circolazione cartacea, non potevano ovviamente essere svolte dai biglietti emessi dalle banche stesse, che per il resto erano in grado di rappresentare pienamente le m. propriamente dette, e, con qualche limitazione, gli assegni potevano a loro volta rappresentare i biglietti a corso legale. Il monometallismo aureo (gold standard) andò pertanto sempre più trasformandosi in un sistema in cui accanto e in luogo delle m. d’oro circolavano i biglietti di banca o di Stato a corso legale in esse convertibili, e questo sistema fu largamente attuato nella sua forma classica fino alla Prima guerra mondiale.
Dopo il conflitto, che aveva costretto a sospendere il regime aureo per adottare il corso forzoso, e in seguito alla grande depressione del 1929-31, sorse l’esigenza di un sistema monetario internazionale che disciplinasse: i rapporti di cambio tra le m. nei differenti paesi (regime dei cambi); le modalità per effettuare transazioni con l’estero (regime valutario); le caratteristiche degli strumenti che in ogni momento vengono universalmente accettati come mezzo di pagamento e fungono da m. di riserva (regime di riserva); le modalità per correggere situazioni di squilibrio nei pagamenti internazionali. Con gli accordi di Bretton Woods del 1944 il sistema aureo fu quindi ripristinato sotto forma di gold exchange standard (in cui i biglietti sono convertibili in divise estere equiparate, cioè a loro volta convertibili in oro in altri paesi), preferito al gold bullion standard (in cui i biglietti sono convertibili in verghe d’oro se vengono presentati per valori superiori a un minimo fissato dalla legge) e alla forma mista (in cui è lasciata all’istituto di emissione la scelta tra convertire in oro o in divise estere i biglietti presentatigli a questo scopo). Nel 1973, dopo la crisi del sistema di Bretton Woods, si instaurò un sistema ibrido basato sulla fluttuazione dei cambi e in cui coesistono una pluralità di strumenti di riserva (multicurrency reserve system) e, soprattutto dal 1985, una gestione più attiva e coordinata dei cambi da parte delle autorità dei principali paesi (managed floating). Un tale sistema, consentendo con una certa flessibilità l’adeguamento ai mutamenti delle condizioni economiche e degli equilibri politici e sociali, tendeva verso tassi di cambio più stabili grazie a una sorveglianza multilaterale dei tassi e all’istituzione di zone obiettivo, cioè di bande di fluttuazione di ampiezza predeterminata, di cui un esempio è stato il Sistema monetario europeo. Tuttavia questo sistema è stato oggetto di numerose controversie in quanto necessitava di una limitazione della sovranità monetaria nazionale per il dovuto coordinamento delle politiche economiche.
Va ricordato che qualora venga sospesa la convertibilità e proclamato il corso forzoso dei biglietti, questi da surrogati della m. si trasformano in vera e propria m. (carta m., o moneta cartacea) e, se la loro circolazione fosse contenuta entro i limiti del fabbisogno nazionale di mezzi di pagamento, potrebbero a rigore seguitare ad assolvere le funzioni della m. senza gravi disturbi. Ciò però non avviene perché al corso forzoso si ricorre proprio o per salvare, accollandone le passività allo Stato, istituti bancari pericolanti in conseguenza di eccessive immobilizzazioni, o per salvaguardare lo stesso istituto di emissione dalle conseguenze di un imprudente allargamento della circolazione o di una contrazione delle sue riserve, o soprattutto per fornire un’entrata straordinaria allo Stato il cui deficit di bilancio non sia altrimenti sanabile o appaia destinato ad allargarsi, come avviene, per es., all’inizio di una guerra. L’inflazione, in tal caso, attraverso la svalutazione dei biglietti, pone a disposizione dello Stato una parte del potere d’acquisto prima goduto dai cittadini e permette così di far fronte alle spese eccezionali in atto o previste. Man mano che cresce la quantità di biglietti in circolazione diminuisce però la fiducia del pubblico che, per quanto obbligato ad accettarli in pagamento, cerca di disfarsene al più presto, rinunciando a servirsene come mezzo di accumulazione e finanche, a inflazione avanzatissima, come mezzo di scambio, tanto è vero che si verifica in qualche caso il fenomeno della fuga dalla m. e si torna al baratto. Non essendo più possibile allora restaurare la fiducia del pubblico nella m. così svalutata, non resta che cambiarla con una nuova m. (cambio della m.); ma può succedere invece che ci si arresti in tempo sulla via dell’inflazione e che si possa, a poco a poco, arrivare, grazie anche allo sviluppo dell’attività economica che riassorbe l’eccedenza di m., alla stabilizzazione dei prezzi e dei cambi su nuovi livelli.
Mentre gli economisti classici erano concordi nel considerare la m. come un velo, dietro cui si nasconde la sostanza del fenomeno economico e cioè le relazioni tra i beni e tra questi e i soggetti economici, molti economisti moderni danno alla m. una posizione centrale tra gli elementi determinanti il funzionamento dell’intero sistema economico. Non vi è teoria economica che prescinda ormai dalla considerazione delle influenze monetarie, e lo stesso indirizzo di politica monetaria detto della m. neutrale (mirante a neutralizzare gli effetti della m., di modo che i rapporti economici vengano a svolgersi come se la m. non esistesse) riconosce implicitamente l’importanza della moneta. Di qui la tendenza della teoria monetaria a identificarsi con la teoria economica generale. Ciò non toglie però che si seguiti a parlare di teorie monetarie distinte dalla teoria generale, miranti cioè a illustrare essenza, funzione e valore della m. facendo il più possibile astrazione dal resto della scienza economica. Più particolarmente teorie monetarie, in senso stretto, oltre alle varie elaborazioni dottrinali relative ai sistemi monetari, sono dette quelle che riguardano il fondamento del valore della m. e le sue variazioni in rapporto alle merci e ai servizi di cui facilita lo scambio. In senso più ampio tra le teorie monetarie rientrano anche quelle relative al fenomeno dell’interesse e dello sconto, ossia al valore della m. vista in rapporto con sé stessa in momenti successivi, e quelle che hanno per oggetto i rapporti con le m. degli altri paesi, ossia il valore di scambio nei confronti dell’estero.
Del valore della m. si parla in più sensi, ora riferendosi al valore attribuito dallo Stato alla m. che in esso circola (valore legale), ora a quello del metallo fino contenuto nella m. (valore intrinseco), ora, e soprattutto, avendo riguardo alla quantità di beni e servizi che possono acquistarsi in un dato paese con l’unità monetaria (valore di scambio). Più precisamente, dato che la m. si scambia contro tutti i beni e servizi che circolano all’interno del paese, questo suo valore di scambio risulta dalla media dei poteri d’acquisto che la m. ha in confronto dei singoli beni, così come il livello generale dei prezzi dei beni in m. risulta dalla media dei prezzi stessi: valore di scambio o potere d’acquisto della m. e livello generale dei prezzi sono quindi espressioni reciproche. Circa il fondamento del valore della m. sono state elaborate due opposte tesi, la teoria metallica o metallista, e la teoria nominalista, cartalista o statale. Secondo la prima, dominante nel 19° sec., il valore di scambio della m. sarebbe determinato dal valore del metallo in essa contenuto e lo Stato, all’atto della coniazione, non farebbe che riconoscere il valore intrinseco della merce-m. e attestarlo. La seconda teoria invece ha rinnovato, perfezionandola, la vecchia teoria della m.-segno, per cui la m. non sarebbe che un segno convenzionale e lo Stato avrebbe la possibilità di fissarne il valore legale a suo arbitrio, illusione da cui derivarono molti abusi e gravi disordini monetari nel Medioevo e nella prima parte dell’età moderna. Ripresa alla fine del 19° sec. da F.A. Walker negli USA e approfondita quindi da G.F. Knapp in Germania, la teoria statale sostiene che la m., metallica o cartacea, perfetta o imperfetta, circola sempre per forza di legge e trae il suo valore dall’autorità dello Stato. E ciò non si può negare, dato che l’esperienza prova come non sia necessario che la m. abbia un valore intrinseco; si deve d’altra parte riconoscere che l’arbitrio dello Stato in materia monetaria trova dei limiti, sia per il fatto che l’autorità dello Stato non si estende oltre i suoi confini sia ancora perché nella stessa circolazione interna lo Stato, pur potendo dare valore di m. anche a un pezzo di carta, deve assicurare mediante controlli sulla quantità dei segni monetari in circolazione la stabilità del valore della m. stessa, se vuole che il pubblico conservi la fiducia in essa. Qualora infatti questa venga meno, il pubblico si affretta a spendere la m. appena ricevuta, nel timore di una sua ulteriore svalutazione, e contribuisce così ad accelerarne il crollo che l’autorità dello Stato non riesce allora a evitare. La lunga disputa tra metallisti e cartalisti si spiega con l’unilateralità delle due tesi, la prima che, accentuando la funzione di porta-valori nel tempo della m., non credeva di poterla riconoscere alla m. di carta, e la seconda che, concentrando l’attenzione sulla sua funzione d’intermediazione degli scambi, insisteva sulla capacità della m.-segno di servire da strumento di scambio. In realtà le due funzioni sono strettamente connesse e quindi le due tesi non sono del tutto incompatibili tra loro.
L’importanza per un sistema economico delle variazioni di valore della sua m. è evidente quando si ricordi che tutti i prezzi sono espressi in m. e variano in senso inverso al variare del valore della m., ma che non tutti aumentano o diminuiscono contemporaneamente quando la m. si svaluta o cresce di valore. I prezzi sono infatti determinati dall’incontro della domanda di beni da parte di chi offre m. e dell’offerta di beni da parte di chi desidera m. (ossia dall’offerta e dalla domanda di m.), ma questo contatto tra domanda e offerta avviene settore per settore e può crescere la quantità di m. che vuole scambiarsi con determinati beni, e quindi il prezzo di questi ultimi, mentre non cresce ancora quella scambiabile con altri e viceversa. Tutti i rapporti economici risultano pertanto sconvolti dall’alterazione del valore della m. e la ricchezza ne risulta ridistribuita a vantaggio dei percettori di redditi variabili e dei debitori, se la m. perde valore e i prezzi salgono, a favore dei percettori di redditi fissi e dei creditori, se i prezzi invece diminuiscono e il potere d’acquisto della m. cresce.
Circa gli elementi che determinano la misura del valore della m., circa cioè le cause da cui derivano le variazioni del suo potere d’acquisto (rilevabili indirettamente a mezzo dei numeri indici dei prezzi) sono state elaborate nel tempo 3 teorie principali: due concernenti soltanto la m. metallica e la terza estensibile invece a qualsiasi m., anche cartacea. Secondo la teoria del costo di produzione, che, seguendo il principio classico della formazione del prezzo in regime di libera concorrenza, dà una spiegazione oggettivistica del fenomeno, il valore normale di scambio della m. sarebbe uguale a quello del metallo prezioso in essa contenuto, a sua volta determinato dal costo marginale di produzione del metallo stesso. Se il valore corrente della m. salisse al di sopra di questo costo, o scendesse al di sotto di esso, i proprietari di miniere avrebbero convenienza rispettivamente ad accrescere o a restringere la produzione del metallo e l’aumentata o diminuita offerta di questo farebbe scendere o salire di nuovo il valore della m., ristabilendo la parità tra valore di questa e costo di produzione del metallo (o costo di importazione per i paesi che essendo sprovvisti di miniere si procurano il metallo esportando beni e servizi). In realtà però la produzione dei metalli preziosi è in gran parte dovuta al caso e a essi non si applica il principio generale del livellamento del valore al costo di produzione. I metalli stessi inoltre, per la loro inalterabilità chimica e per l’uso prevalente cui sono destinati, si conservano nei secoli e la grande massa risultante dalle vecchie produzioni supera di gran lunga la produzione corrente con cui concorre a formare l’offerta complessiva in un dato momento; variazioni notevoli della produzione in corso, anche se potessero essere determinate dalla volontà dei proprietari di miniere, avrebbero perciò effetti insignificanti sulla quantità disponibile del metallo prezioso e non influirebbero granché sul suo valore, e quindi su quello della moneta.
Una spiegazione soggettivistica del valore della m. si propose invece la cosiddetta teoria della utilità marginale, alla cui elaborazione contribuirono in particolare gli economisti della scuola austriaca. Questa teoria ha avuto diverse formulazioni, distinguibili a seconda che riferissero il valore della m.: all’utilità marginale del metallo-merce; all’utilità marginale della m., derivante a sua volta dall’utilità marginale dei beni che la m. permette di acquistare; all’utilità marginale della m. risultante dallo scambio marginale che essa permette di effettuare. La prima formulazione di questa teoria si basava sul fatto che il mercato del metallo per usi industriali e quello del metallo per usi monetari sono comunicanti, per dedurne che le variazioni del valore del metallo, derivanti dal mutare della utilità e quindi della domanda del metallo-merce, provocherebbero variazioni analoghe nel valore della moneta. A parte il fatto che l’impiego dei metalli sotto forma di gioielli e altri oggetti non è così rilevante di fronte a quello monetario da permettere di ritenere valida questa teoria, anche questa spiegazione, come quella del costo di produzione del metallo, non potrebbe valere che per la m. metallica. Di scarso interesse è pure la terza formulazione della teoria soggettivistica (D. Kinley), che tutt’al più potrebbe dare un’idea del valore sociale della m., cioè del servizio che essa rende al sistema economico uscito dalla fase del baratto. Vale la pena invece di ricordare la seconda formulazione (sostenuta soprattutto da F. von Wieser), la quale parte dalla constatazione che l’utilità della m., non essendo diretta, vada ricercata nell’utilità dei beni con essa acquistabili, ma da questa uguaglianza vuole derivare la spiegazione del valore della moneta. Si oppone però il fatto che l’utilità marginale dei beni e conseguentemente della m. non può essere determinata che in base ai prezzi in m. dei beni stessi: ma conoscere i prezzi significa conoscere già anche il valore della m. che è il reciproco del loro livello medio.
La teoria che, pur avendo dato luogo anch’essa a critiche e discussioni, ha avuto maggiore diffusione è la cosiddetta teoria quantitativa, già affiorante nelle opere di J. Bodin, B. Davanzati, D. Hume, J. Locke, G. Montanari, F. Galiani ecc., e più precisamente formulata da D. Ricardo in riferimento alla circolazione metallica, ma estensibile anche ai casi di circolazione mista e totalmente cartacea. Sul suo nucleo originario, secondo il quale il potere d’acquisto della m. dipenderebbe dalla quantità del metallo prezioso destinata a uso monetario (prescindendo dalla possibilità che una parte di questa venga tesoreggiata) e dalla quantità dei beni scambiati, si sono infatti sviluppate la formula dell’equazione degli scambi (➔ equazione) elaborata da I. Fisher e quella più complessa della scuola di Cambridge (soprattutto D.H. Robertson e J.M. Keynes), da cui è facile rilevare le correlazioni tra potere d’acquisto della m., quantità e velocità di circolazione dei vari mezzi di pagamento (o massa effettivamente circolante, ossia quantità complessiva dei mezzi monetari in circolazione, ridotta delle scorte monetarie inattive presso i privati e presso le banche), volume degli affari a livello generale dei prezzi. Se ne può dedurre cioè facilmente come il valore di scambio della m. aumenti con l’aumentare della massa di beni scambiati e diminuisca con l’aumentare della massa e della velocità di circolazione dei mezzi di pagamento. Il che equivale ad ammettere, contrariamente alla prima rigida formulazione, che il valore della m. possa mutare anche restando immutata la quantità dei mezzi monetari in circolazione, purché mutino gli altri termini dell’equazione (che in realtà è un’identità), ossia la velocità di circolazione (fattore inverso al fenomeno delle scorte monetarie) e la domanda di m. derivante dall’attività del mercato. La massa di m. non va considerata cioè come una variabile indipendente, perché dipende in realtà dalle condizioni del mercato e quindi anche dal livello dei prezzi, e il potere d’acquisto della m. espresso da tale livello non è pertanto un elemento passivo ma contribuisce a sua volta a determinare la quantità di m. circolante. L’aumento dei prezzi a volte precede infatti e non segue l’aumento della massa circolante, in quanto basta la previsione di questo fatto per determinare effetti speculativi. All’aumento di quantità di m. in circolazione corrisponde inoltre una diminuzione del potere d’acquisto soltanto se, essendo già impiegati tutti i fattori di produzione, la quantità complessiva dei beni disponibili non può crescere.
Non sono mancate inoltre critiche circa la possibilità di considerare le variazioni del potere d’acquisto reciproche di quelle del livello dei prezzi e misurabili quindi attraverso i numeri indici di questi ultimi. Significativa la posizione di G. von Haberler, che all’obiettivo livello dei prezzi ha sostituito una valutazione soggettiva collegata alla teoria delle scelte (il livello dei prezzi risulterebbe aumentato o diminuito per un dato individuo entro un dato periodo soltanto quando, rimasti immutati nel frattempo i gusti e il reddito monetario dell’individuo stesso, questi possa comprare alla fine del periodo un complesso di beni che lo soddisfi meno o più di quello che comperava prima), e quella di F. Divisia, che ha elaborato un complesso indice monetario di carattere oggettivo. Il ricorso d’altra parte al livello generale dei prezzi, anche se ammissibile, sarebbe sempre molto meno utile del ricorso ai livelli dei prezzi settoriali (dei beni di consumo, delle materie prime, dei prodotti agricoli ecc.) che risultano assai più significativi; si può anzi dire che il livello generale dei prezzi nasconda in parte le fluttuazioni dei livelli settoriali che tanta importanza hanno in certe teorie del ciclo economico (F.A. von Hayek) e per la dinamica monetaria di Keynes. Lo sviluppo della scienza economica ha del resto spostato il fuoco della ricerca verso i rapporti tra la m. e la produzione o meglio, mettendo in luce le connessioni tra m. e reddito, ha indagato sulle interazioni tra le variazioni del valore della m. e quelle dell’intera struttura produttiva.
L’inserimento della m. nella teoria generale della produzione e dello sviluppo economico, iniziato da K. Wicksell alla fine del 19° sec., è proseguito per vie diverse e si possono distinguere 3 correnti principali: una svedese (G. Myrdal, E.R. Lindhal ecc.), una austriaca (von Hayek ecc.) e una facente capo a Keynes, le quali, pur non rinnegando la validità del principio quantitativo, mirano tutte a superarlo e danno luogo ciascuna a un particolare orientamento di politica monetaria.
In particolare la teoria di Keynes, in contrasto con tutti coloro che vedevano nella m. soprattutto un mezzo di scambio, ha richiamato l’attenzione sulla funzione della m. come riserva di valori e come forma di detenzione della ricchezza alternativa ad altri possibili impieghi. Le scorte monetarie considerate nella ‘equazione di Cambridge’ rispondevano unicamente all’esigenza di tener conto della generale mancanza di sincronismo tra incassi e pagamenti sia delle famiglie sia delle imprese, mentre Keynes, accanto a questo movente delle transazioni, individuò altri due motivi per detenere m. (ossia di quella che tecnicamente si chiama domanda di m.): quello precauzionale e soprattutto quello speculativo, che spinge alla temporanea conservazione della ricchezza in forma liquida in attesa dell’impiego più conveniente. La conservazione della liquidità, come l’acquisto di titoli, risulta pertanto influenzata dalle aspettative degli operatori circa il livello futuro dei tassi di interesse (trappola della liquidità; ➔ macroeconomia). La teoria keynesiana prospetta, inoltre, un comportamento delle famiglie e delle imprese di fronte a un’eventuale eccedenza o insufficienza di m. diverso da quello prospettato dalla teoria quantitativa, arrivando alla conclusione che le variazioni dell’offerta di m. provocano direttamente variazioni del saggio di interesse e non della domanda globale e agiscono su questa indirettamente, soltanto nei limiti in cui la spesa per l’investimento o il consumo risponde alle variazioni del tasso di interesse.
Partendo dall’analisi delle variazioni del valore reale o potere d’acquisto delle scorte monetarie in dipendenza di variazioni del livello dei prezzi, D. Patinkin è arrivato d’altra parte a un risultato conforme al contenuto classico della teoria quantitativa ma fondato sull’inclusione delle disponibilità liquide dei singoli tra i fattori che influenzano la domanda. La teoria viene pertanto ricondotta a uno schema di equilibrio generale, ma, legata com’è a ipotesi di concorrenza perfetta, di piena flessibilità dei prezzi, di invariabilità dei gusti e della tecnica ecc., è ben lontana dal potersi riferire alla realtà contemporanea, per cui si è perfino detto che Patinkin, volendo restaurare la teoria quantitativa, ne abbia posto in evidenza i limiti e abbia dimostrato l’impossibilità di considerare la m. come neutrale quando si voglia dare carattere più realistico e dinamico allo studio dei fenomeni monetari.
Anche la teoria keynesiana della m. ha registrato a partire dagli anni 1960 un’ampia revisione che ha comportato, alla luce dello sviluppo degli intermediari finanziari e dell’ampia gamma di passività e attività finanziarie che a essi fanno capo, un mutamento nella teoria della preferenza per la liquidità (motivo speculativo) verso uno schema di equilibrio generale, e della teoria dell’offerta di m. che accentua il ruolo svolto dalle banche e dagli intermediari finanziari nella sua determinazione. All’origine di tale evoluzione sono i contributi teorici di J. Gurley e E. Shaw e soprattutto di J. Tobin. In seguito la teoria di Keynes è stata reinterpretata da diversi autori, di cui alcuni hanno evidenziato i suoi fondamenti microeconomici, e quindi i vincoli che la m. e i redditi monetari impongono al consumatore con inevitabili ripercussioni sul livello macroeconomico di attività (R. Clower, A. Leijonhufvud, R. Barro, H. Grossman, E. Malinvaud, J.P. Benassy), e di cui altri hanno evidenziato invece la rilevanza delle scelte in condizione di incertezza e della rete finanziaria, che fa sì che l’andamento ciclico del reddito nazionale sia imputabile all’inasprirsi o all’accentuarsi dei vincoli finanziari cui sia i consumatori sia le imprese sono soggetti (J. Rae, P. Davidson, H. Minsky). Alcuni economisti hanno concentrato la loro attenzione sulla definizione stessa di m., chiedendosi quale aggregato monetario sia in relazione stabile con il reddito, i prezzi e altre variabili reali del sistema economico. Sono stati così introdotti i concetti di base monetaria (➔ base), di quasi moneta e dei diversi aggregati monetari M1, M2, M3 ecc. (➔ liquidità).
A partire dagli anni 1970 alcuni studiosi si sono proposti di risollevare il prestigio della teoria quantitativa e tra questi il più attivo, anche sul piano delle ricerche empiriche, è stato lo statunitense M. Friedman, cui fa capo la scuola di Chicago, detta anche monetarista, così come monetarismo è chiamato l’indirizzo scientifico che da essa discende. Secondo il monetarismo la quantità di m. ha una rilevante influenza sul livello del reddito e sul livello generale dei prezzi. Tale indirizzo, che ha rappresentato la principale alternativa critica alla dominante teoria di determinazione del reddito d’ispirazione keynesiana, non costituisce una teoria economica omogenea (➔ nuova macroeconomia classica). Tuttavia il suo nucleo centrale rimane la riformulazione, dovuta a Friedman, della classica teoria quantitativa della moneta. Quest’ultima analizzava il ruolo della m. attraverso la cosiddetta equazione degli scambi, sintetizzata nella formula MV = Py, dove M è lo stock di moneta, P il livello generale dei prezzi, y il reddito nazionale, V la velocità di circolazione della moneta (numero medio di volte in cui lo stock di moneta esistente è impiegato per pagamento di beni e servizi finali). L’ipotizzata costanza di V (determinata da fattori istituzionali) e di y (fisso al livello di pieno impiego dei fattori produttivi) crea un legame diretto fra le variazioni della quantità di m. e le variazioni del livello dei prezzi che condiziona i risultati delle politiche economiche. Secondo i monetaristi, in base all’evidenza empirica, esiste una relazione stabile di lungo periodo tra m. e livello del reddito, mentre per il breve periodo tale relazione è meno sicura e prevedibile. Ciò implica che l’effetto sul reddito di un impulso monetario si manifesta con ritardi. Inoltre, poiché per i monetaristi esiste una perfetta flessibilità dei prezzi nominali, variazioni dell’offerta di m. si traducono esclusivamente in variazioni proporzionali del livello dei prezzi. In tal modo politiche economiche che perseguono elevata occupazione si traducono in un’accelerazione inflazionistica. Inoltre, secondo Friedman, all’aumentare dell’inflazione si verifica un aumento delle aspettative degli operatori economici tale da rendere nullo il raggiungimento degli obiettivi di politica economica desiderati. L’importanza della quantità di m. per la determinazione del reddito nominale nel lungo periodo, l’esistenza di ritardi lunghi e variabili nella trasmissione al reddito di un impulso monetario e l’impossibilità di ottenere uno scostamento permanente dal tasso naturale di disoccupazione portano alla formulazione della più nota regola monetarista di politica economica: la crescita della quantità nominale di m. costante nel tempo, che assicurerebbe il controllo del tasso d’inflazione nel lungo periodo senza creare nel breve effetti incerti sull’attività reale.
La reimpostazione si discosta tuttavia da quella classica in quanto non presuppone una situazione di pieno impiego e non considera costante la velocità di circolazione. I monetaristi inoltre, più che la funzione di intermediaria degli scambi, sottolineano quella che la m. ha come attività finanziaria, per cui la loro teoria quantitativa diventa sostanzialmente una teoria della domanda di m. ricondotta alla logica delle scelte e il loro apporto si inserisce, con autonomia di impostazione, nel filone contemporaneo della teoria monetaria. Essi affermano, infatti, l’esistenza di una relazione prevedibile tra le variazioni della quantità monetaria e le variazioni del reddito, in conseguenza del fatto che l’offerta di m. è determinata in modo indipendente dalla domanda di m. e che questa è stabile in rapporto alle sue determinanti. Ne risulta assai ridotto il rilievo accordato al tasso di interesse e alle condizioni di ottenimento del credito, e ciò spiega la vivace opposizione di coloro che pongono l’accento su tali fattori anziché sulla semplice dinamica monetaria.
La prima utilizzazione dei metalli preziosi (oro, argento) come mezzo di scambio si ebbe sotto forma di lingotti, che venivano pesati a ogni transazione. In seguito l’apposizione di un marchio sui lingotti a garanzia della qualità del metallo e del peso semplificò le operazioni di pagamento, eliminando la necessità delle pesature, e rappresentò il passaggio alla moneta. La transizione da un metodo (pesatura ripetuta di pezzi di metallo) all’altro (accettazione di pezzi contrassegnati, tagliati in precedenza secondo determinati valori ponderali) non fu rapida né simultanea in tutte le aree interessate. Il passaggio al nuovo strumento monetale avvenne negli ultimi decenni del 7° sec. a.C. a opera dei Lidi, le cui prime serie monetali ebbero forma globulare e notevole spessore; una faccia era adornata da immagini in rilievo (teste di animali), l’altra presentava 2 o 3 incusi, quadrati o rettangoli profondamente impressi. La produzione contemporanea di esemplari di dimensioni diverse, fino a frazioni piccolissime, assicurò alla m. la più larga possibilità di utilizzazione. Queste m., e quelle simili emesse più o meno contemporaneamente da città greche dell’Asia Minore e delle isole dell’Egeo, erano realizzate in elettro, una lega di oro e argento presente in fiumi dell’Asia Minore e della Lidia. In quanto lega naturale, poteva essere varia la proporzione reciproca dei suoi componenti, con conseguente alterazione del valore intrinseco delle m., che erano prodotte sempre nello stesso peso: un inconveniente per cui l’elettro fu abbandonato e sostituito con l’oro e/o con l’argento. Dalla tradizione è attribuita al re Creso (560-540 a.C.) l’introduzione di una regolare monetazione bimetallica: in oro e argento puri, con un rapporto di valore reciproco di 1/20.
Nel passaggio alla Grecia e alle isole, la m. privilegiò l’impiego dell’argento, presente in abbondanza nelle miniere locali. Le prime m. della Grecia furono coniate a Egina con una tecnica simile a quella usata dalle zecche ioniche, con un quadrato incuso su una faccia e l’immagine di una tartaruga in rilievo sull’altra (stemma della città). Per l’intensa attività mercantile degli egineti, questa m. ebbe larga diffusione e il suo standard ponderale fu imitato da altre città della Grecia, di Creta, dell’Asia Minore.
Con la monetazione ionica presenta qualche somiglianza tipologica la prima produzione di Atene, le cosiddette Wappenmünzen o m. araldiche: didramme che avevano tutte il medesimo quadrato incuso sul rovescio, ma una varietà di immagini sull’altra faccia. Emesse per qualche decennio, a partire dal 560 ca. a.C., queste serie sembra fossero destinate a un’utilizzazione locale, come fanno supporre la ristretta area di circolazione e l’assenza del nome della città. Intorno all’ultimo quarto del 6° sec. le Wappenmünzen furono sostituite da una nuova monetazione che, pur avendo in comune con quelle il sistema ponderale, si basava su un nominale doppio delle Wappenmünzen, cioè un pezzo da 4 dracme (tetradracma), e si qualificava immediatamente come ateniese attraverso le immagini: la testa con elmo di Atena su una faccia, la civetta, uccello sacro ad Atena, sull’altra. Questa coniazione, destinata a diventare la più importante del mondo antico, segnò un passo avanti nella produzione monetale anche sotto il profilo artistico: l’introduzione della doppia immagine, attraverso la sostituzione della civetta alla rozza partizione del quadrato incuso delle serie precedenti, si accompagnò a un notevole livello di resa stilistica. Progettate come strumento per i traffici internazionali, le tetradracme, battute in quantità consistenti, si diffusero rapidamente raggiungendo la Sicilia, l’Egeo e altre regioni lontane. La tipologia rimase costante nel tempo e la m. fu comunemente indicata col nome di civetta.
La m. di Corinto, rivale tradizionale di Atene, cominciò a circolare intorno al 570-560 a.C. e fu fin dall’inizio larga e sottile (diversamente da quelle spesse e globulari delle altre zecche); raffigurava su una faccia un Pegaso, in riferimento al racconto mitologico che collega a Corinto il cavallo alato, e sul rovescio un quadrato incuso scomposto in triangoli, poi sostituito dalla testa con elmo di Atena. In rapporto col particolarismo dell’organizzazione politica, numerose altre zecche furono attive nel mondo greco, ciascuna con proprie immagini e un proprio sistema monetale, legato ai valori ponderali di base e ai modi di frazionamento ora dell’una, ora dell’altra polis più importante.
Le colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia si aprirono all’uso e alla produzione di m. negli ultimi decenni del 6° sec., adeguandosi ai modi della madrepatria nella scelta del metallo e nel taglio dei nominali. Originali rispetto agli esempi delle città di provenienza, e peculiari di quest’area della Magna Grecia, furono gli argenti coniati, secondo una tecnica comune, a Sibari, Crotone, Metaponto e Caulonia: tondelli sottili che ripetevano la stessa immagine (una per ogni polis) su entrambe le facce, in rilievo su una e in incavo sull’altra. Nella Sicilia greca le prime città ad aprire una zecca furono Nasso, Zancle, Imera, Selinunte, che scelsero ciascuna una propria tecnica, con tipologia e, talvolta, metrologia diverse; seguirono Gela, Siracusa, Agrigento. Il 5° sec. segna l’acme nella produzione monetale in Sicilia, in termini di volume e di livello artistico, in concomitanza con la posizione di prestigio assunta dai tiranni locali, soprattutto a Siracusa e Agrigento. Di particolare pregio la m. siracusana, con le immagini della quadriga sul dritto e della testa femminile (la ninfa Aretusa) sul rovescio. Tuttavia, nessuna di queste serie monetali raggiunse l’ampiezza di circolazione della m. della madrepatria greca, e meno che mai quella della valuta ateniese, presente nel 5° sec. a.C. in tutto il mondo greco e oltre.
Un fenomeno analogo, anche se più marcato, di diffusione su vasta scala di una specie monetale si ripeté durante l’ellenismo con le serie di Filippo di Macedonia e più ancora di Alessandro Magno. Questi (336-323 a.C.) modellò la propria monetazione trimetallica sul sistema ponderale e monetale attico, facendola diventare il circolante unico all’interno del vasto impero. Le numerose zecche, impiantate via via nei territori di nuova accessione, coniavano tutte (in Grecia e Asia Minore, a Cipro, in Siria e Fenicia, in Egitto e Babilonia) le medesime m., uguali nel metallo, nel peso, nel nominale, nelle raffigurazioni del pantheon ellenico (Atena, Zeus, Eracle), e con il nome di Alessandro: era superato il particolarismo monetale greco col superamento di quello politico. Il ritratto comparve sulle m. con i successori di Alessandro che, dopo la spartizione dell’impero, apposero la propria immagine sulle nuove emissioni, a cominciare da Tolomeo I in Egitto e Seleuco Nicatore in Asia. Fu così introdotta una sostanziale innovazione: la rappresentazione di un personaggio vivente, prima d’allora vietata sulla m. greca.
Alla m. Roma arrivò tardi rispetto sia alla Grecia sia all’Italia meridionale. Al mondo greco Roma si allineò inizialmente nella tecnica, nello stile e nel peso, per produrre, in parte nella stessa Italia meridionale, alcune serie di argento e di bronzo, poco numerose, sporadiche e non integrate tra loro. Nell’Urbe invece si cominciò fondendo pesanti m. di bronzo, organizzate in un sistema di multipli e sottomultipli di un’unità chiamata as (➔ asse). Una produzione più regolare si ebbe con l’adozione dell’asse contrassegnato sulle facce dalla testa di Giano e dalla prora di una nave. Inizialmente del peso di una libbra, l’asse fu poi raccordato nel valore (di 10:1) alle nuove serie dell’argento, quelle del denaro, m. destinata a rimanere basilare nel sistema romano. L’esatta collocazione cronologica di questi primi passi della politica monetaria di Roma repubblicana, verificatisi tra fine 4°-inizio 3° sec. a.C., è oggetto di discussione a causa della scarsità delle fonti scritte. L’abbondante emissione di serie successive di denari, caratterizzati da immagini varianti continuamente, contrasta con la fissità delle raffigurazioni del bronzo. Quest’ultimo, coniato su larga scala e soprattutto sotto forma di assi, costituisce la massa monetaria circolante a Roma per tutto il periodo repubblicano e oltre, peraltro registrando una progressiva diminuzione di peso. Nei primi tempi, in conformità con la tradizione, si utilizzarono le sole immagini divine per adornare le m.; nella tarda repubblica fu concesso ai magistrati preposti alla coniazione di commemorare sulla m. i propri antenati raffigurati prima secondo modi convenzionali, poi con tratti fortemente realistici. Le teste postume di Silla e Pompeo precedono il caso di Cesare, ritratto vivente (pratica fino allora oggetto di interdizione) su m. del 44 a.C.: i successori di Cesare, i triunviri, non ebbero remore a coniare m. col proprio ritratto, pratica seguita da Ottaviano-Augusto e da tutti gli imperatori.
La riforma di Augusto, nel 23 a.C. circa, stabilì che l’asse, come il suo sottomultiplo semisse, fosse coniato in rame, diversamente dall’altro sottomultiplo (quadrante) e dai due multipli (dupondio e sesterzio), realizzati in oricalco, una lega simile all’ottone. Il provvedimento, mirante a ridare ordine e regolarità alla produzione monetale, stabilizzò il peso di tutte le m., e introdusse un rapporto fisso di valore tra l’oro e l’argento (la cui coniazione era riservata all’imperatore; la produzione di m. in metallo vile restò fino a Gallieno di competenza del Senato), permettendo l’adozione di un sistema bimetallico. La m. aurea, che aveva fatto sporadiche apparizioni durante la Repubblica, divenne parte regolare della monetazione. Il suo peso subì una graduale erosione, corrispondente a quella del denaro, codificata da successivi interventi di riforma del sistema monetale, attuati da Nerone (64 d.C.), Traiano (107 ca.), Caracalla (215). Con quest’ultimo si verificò una ristrutturazione della m. d’argento, che si era progressivamente svilita nella componente di metallo prezioso: al posto del denaro fu introdotto l’antoniniano, dal nome di Caracalla, Antoninus, in lega migliore; con Caracalla fu probabilmente alterato anche il rapporto tra le m. d’oro e d’argento, che fino allora aveva reso l’aureo pari a 25 denari d’argento, come fissato da Augusto. Aureliano, restauratore dell’unità dell’Impero, tentò nel 274 di riportare ordine anche nella monetazione, operando sia sul sistema sia sui singoli nominali che lo componevano: incidendo sul contenuto metallico di questi ultimi, diede nuovamente al pezzo d’oro il valore del suo contenuto metallico e contrassegnò il circolante argenteo (ormai prodotto in una lega al 5% di argento) con il segno di valore. I successivi provvedimenti di Diocleziano (284-305) diedero una base sistematica a queste innovazioni: fu attribuito un valore fisso alle m. d’oro e d’argento, il cui fino fu innalzato a livelli considerevoli; la produzione in metallo vile subì a sua volta una riorganizzazione (abolizione dell’asse e creazione di un nuovo valore, il folle); per la prima volta l’Impero romano, in tutta la sua estensione, fece uso di una m. comune, uniforme nei nominali, nelle immagini, nei modi della circolazione. Molte di queste innovazioni ebbero vita breve: le nuove m. d’argento e di bronzo furono travolte da una progressiva diminuzione di valore rispetto all’oro e alla nuova m. aurea, in un rapporto di causa ed effetto con il marcato processo inflazionistico in atto. L’aureo invece, giunto inalterato a Costantino (307-337) e da questi appena ribassato di peso (4,55 g), fu battuto col nuovo nome di solidus (➔ solido), e rimase il nominale di base di queste e delle successive monetazioni in oro, arrivando con le stesse caratteristiche fino al Medioevo: da esso derivò il tremisse (➔) introdotto da Teodosio, che ne rappresentava il valore di 1/3. Il solido costantiniano si inserì in una globale revisione dei valori monetati e dei loro rapporti reciproci, di cui fece parte anche l’introduzione di due nuovi nominali argentei, la siliqua (➔) e il suo doppio, il miliarense, usato ancora in età bizantina.
Il sistema monetario in vigore al volgere del 4° sec. appare semplificato: da una parte fu limitato il numero delle zecche attive, e a una sola tra esse (corrispondente alla sede imperiale) fu riservato il diritto di coniare l’oro; dall’altra parte venne ridotto il numero dei nominali in corso a 3 aurei (con preferenza per solido e tremisse), 3 argentei (con predominanza della siliqua) e 4 bronzi (introduzione di un nuovo nominale, il piccolo centennionale, che finì per sostituire il folle, completamente svilito in seguito alle continue riduzioni di peso). Con la morte di Teodosio (395) e la spartizione dell’Impero tra i figli Onorio e Arcadio si accentuò l’indipendenza di ciascuna parte dell’Impero nella scelta dei nominali da coniare e delle immagini da apporvi. Tuttavia, giuridicamente e formalmente il sistema monetario, come tutto l’apparato legislativo e amministrativo, rimase unitario: ogni zecca batté m. al nome di ciascuno degli imperatori, e il numerario prodotto mantenne diritto di pari circolazione nel territorio di tutto l’Impero.
Le popolazioni germaniche che si insediarono nelle province dell’Impero non avevano m. propria e quando iniziarono a coniarne la modellarono su quella romana. Il bronzo di Roma, e le corrispondenti emissioni di Cartagine, aprirono la via alla riforma della monetazione bizantina; i grandi multipli di bronzo contraddistinti dal segno del valore, introdotti da Anastasio I (498), segnarono l’inizio della divaricazione tra le monetazioni d’Oriente e d’Occidente. Tra i Merovingi, intanto, la m. cessò di essere prerogativa esclusiva dello Stato: chiunque avesse disponibilità di oro poteva convertirlo in m.; la monetazione merovingia imitò i tipi imperiali, sostituendo al nome dell’imperatore quello del monetiere o del re; solo i Carolingi riuscirono a restaurare il monopolio statale.
La Britannia, che dopo l’invasione degli Anglosassoni aveva smesso la produzione e la circolazione di m., nel 7° sec. riprese a batterne a opera di privati. In Italia la centralizzazione fu ribadita con forza dal re longobardo Rotari. Nel corso dell’8° sec. la m. aurea sostituì totalmente quella argentea e il denaro d’argento di Carlomagno dominò la circolazione europea per i successivi secoli. Con la frammentazione dell’Impero carolingio i conti cominciarono a emettere m. nel proprio interesse, seguiti da vescovi e monasteri. La parcellizzazione della m. fu seguita da una fase di carenza dell’argento e successivamente della stessa m., che investì gran parte dell’Europa occidentale. L’oro rimase in uso tra i bizantini e tra i musulmani della Spagna e dell’Italia meridionale; in Sicilia i Fatimidi coniarono soprattutto tarì (➔).
Le più significative trasformazioni del sistema monetario europeo si verificarono nel 13° sec.: in Italia una progressiva svalutazione della m. d’argento indusse Venezia a coniare nel 1202 il primo ducato d’argento, noto come grosso o matapan, replicato poi da altre zecche dell’Italia centro-settentrionale, mentre nel Sud Carlo I d’Angiò, re di Napoli, coniò il carlino d’argento e con il carlino d’oro o saluto completò la riforma del 1278, con la quale riordinava un sistema che aveva visto affiancarsi ai denari e ai tareni l’augustale d’oro di Federico II di Svevia (1231) e i reali d’oro o agostani di Carlo I (➔ reale). Anche nel resto dell’Italia comparve in quegli anni la m. d’oro: nel 1252 a Genova col genovino e a Firenze col fiorino, nel 1284 con lo zecchino veneziano. Gli ultimi due influenzarono rispettivamente la successiva monetazione d’Oltralpe e del Mediterraneo orientale. Queste innovazioni si estesero poi a tutto l’Occidente. La Francia emise con Luigi IX (1266) un grosso d’argento fino, ripreso poi in Provenza, Olanda, Renania. Dall’Inghilterra la sterlina si diffuse sul continente nel 13° sec. e trovò largo credito e numerose imitazioni.
Nel 14° sec. le variazioni al rialzo dei metalli preziosi costrinsero a impoverire il contenuto nobile delle monete. In Italia una gran varietà di specie e molti nominali aurei circolavano al Nord e al Centro; al Sud, invece, l’oro praticamente cessò d’essere coniato. Specialmente acquistarono diffusione nel commercio mediterraneo il gigliato, emesso in massicce quantità a Napoli, e il suo omologo siciliano, il pierreale. La Germania risentì tardivamente delle novità introdotte dall’Italia; in Inghilterra invece il grosso (➔ groat) d’argento era fortemente sopravvalutato. Ben presto le esigenze poste dalla guerra dei Cento anni imposero coniazioni auree.
Il 15° sec. segnò il discrimine tra la m. medievale e la m. moderna. In Italia, e in seguito Oltralpe, la lira d’argento andò a rimpiazzare le piccole m. precedenti e ai caratteri gotici della leggenda sostituì le lettere capitali romane; furono coniate serie in rame; sulle nuove m. fu introdotto il ritratto, alta espressione dell’arte rinascimentale. Nel 1484 si ebbero in Tirolo i primi talleri d’argento.
Con l’inizio dell’epoca moderna il campo della storia monetaria si fece più vasto e indeterminato. Il bimetallismo prevalse in quasi tutta l’Europa occidentale; in Oriente, dopo la caduta di Bisanzio e l’avvento degli Arabi, vigeva la m. aurea. La scoperta di nuove miniere d’argento in Europa e l’inizio dei traffici con il Nuovo Mondo portarono a un rivolgimento. Il formarsi di grandi Stati la cui m. acquistava più larga diffusione costringeva i piccoli all’imitazione e alla contraffazione. Il moltiplicarsi delle specie, il variare continuo del titolo e del rapporto fra oro e argento, i fenomeni d’inflazione, portarono a uno stato di cose caotico.
Napoleone fece adottare al suo Impero la m. decimale e il sistema bimetallico, ma in seguito molti Stati tornarono ai sistemi precedenti. Nel 1816 la Gran Bretagna abbandonava il sistema bimetallico, rendendo effettiva la lira sterlina di conto. Alla fine del 18° sec. era comparso il dollaro statunitense d’argento. Dopo la Seconda guerra mondiale la m. circolante in oro e in argento è scomparsa dovunque, se non con finalità numismatiche e collezionistiche.