Parte della teoria economica (detta anche macroanalisi economica) che ha per oggetto l’individuazione dei valori di equilibrio dei grandi aggregati (reddito nazionale, livello dell’occupazione complessiva, livello generale dei prezzi ecc.), e il loro andamento nel tempo, in contrapposizione alla microeconomia, intesa come studio che tiene conto il più possibile anche dei particolari.
La m. studia l’economia attraverso l’analisi delle variabili aggregate, spesso coincidenti con le poste di contabilità nazionale. A differenza della microeconomia, dove al centro dell’analisi viene posto il comportamento del singolo agente economico (consumatore/produttore), nella m. si rinuncia a fondare l’analisi positiva nei comportamenti individuali perché troppo complessi e di difficile rappresentazione mediante un sistema di relazioni matematiche.
La m. ruota intorno al pensiero dell’economista inglese J.M. Keynes , e in particolare alla sua opera Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936). Di Keynes è il concetto di domanda aggregata quale elemento portante della m.; la domanda aggregata esprime il livello totale di risorse ‘assorbite’ dall’economia nel suo complesso attraverso i consumi (pubblici e privati), gli investimenti (pubblici e privati) e il saldo della bilancia commerciale. La domanda aggregata coincide con il conto risorse impieghi della contabilità nazionale. Nella m. il sistema dei prezzi e dei salari non si aggiusta istantaneamente alle variazioni di mercato, contrariamente a ciò che accade nella microeconomia. Questa viscosità di prezzi e salari impedisce all’economia il raggiungimento degli equilibri di mercato, lasciando fattori della produzione (lavoro e capitale) sotto utilizzati.
A ciò va aggiunto il ruolo delle aspettative imprenditoriali, cui Keynes dedica particolare attenzione; gli animal spirits degli imprenditori sono alla base delle loro decisioni di investimento nei mezzi della produzione, e li possono indurre a ritardare tali investimenti anche in presenza di costi di indebitamento (tasso di interesse) particolarmente bassi. È questo il caso della trappola della liquidità, una situazione che caratterizza i mercati finanziari, dove le imprese si finanziano attraverso l’emissione di titoli, quando le aspettative degli operatori sono omogeneamente volte al pessimismo. In questa situazione cessa di fatto la domanda di titoli, il tasso di interesse/rendimento è al minimo e il mercato si trova in stallo, con gli imprenditori che non riescono a finanziare le loro attività produttive. L’economia viene quindi a trovarsi in una situazione recessiva caratterizzata da disoccupazione. Attraverso il meccanismo delle aspettative, la m. keynesiana introduce dunque un elemento forte di instabilità dell’economia non legato al funzionamento del mercato ma ai soli «umori digestivi» degli imprenditori. La caratteristica cardine della m. è il rifiuto del concetto di equilibrio di piena occupazione, caratteristico invece della scuola microeconomica neoclassica.
In un’economia caratterizzata da sottoccupazione dei fattori produttivi, lo Stato gioca un ruolo decisivo. A esso infatti è demandato il compito di risollevare la crescita economica attraverso lo strumento della spesa pubblica. Il reddito generato dagli investimenti pubblici finisce per trasformarsi in consumo addizionale delle famiglie e quindi in maggiore domanda aggregata per le imprese. Esse dovranno adeguare la produzione alla maggiore domanda, anche attraverso un’espansione dell’occupazione. Quest’ultima genera nuovo reddito da salario che si trasformerà in ulteriore consumo, innescando un processo cumulativo di causa-effetto che Keynes definì il «moltiplicatore del reddito». Attraverso quest’ultimo, l’investimento originario effettuato dallo Stato mette in moto un processo cumulativo che porta l’economia fuori dalla fase recessiva. Nella m. quindi, l’intervento dello Stato diventa indispensabile per il raggiungimento della piena occupazione. Attraverso le politiche fiscali, lo Stato interviene nell’economia sia investendo nuove risorse sia ridistribuendo quelle esistenti.
Con la m. nasce quindi anche la teoria della politica economica, quale disciplina che studia gli effetti dell’intervento dello Stato nell’economia, molto ben analizzato nel modello IS-LM proposto dall’economista inglese sir J.R. Hicks come tentativo di fondere l’analisi macroeconomica con i dettami della scuola prekeynesiana. Questo esperimento intellettuale, noto come sintesi neoclassica, riassume i contributi delle due scuole in un semplice diagramma che sintetizza l’economia attraverso due soli grandi mercati: le merci e la moneta. Il raggiungimento simultaneo dell’equilibrio in entrambi i mercati non coincide necessariamente con quello di piena occupazione, così come Keynes ipotizzava, ma la politica fiscale (attraverso la spesa pubblica e la tassazione) e la politica monetaria (attraverso la variazione dello stock di moneta) possono portare l’economia a tale obiettivo.
La m. keynesiana è stata largamente utilizzata negli anni 1970 ma con scarsi risultati; la visione troppo meccanica e semplice dell’economia ha evidenziato il limite maggiore di questa analisi. Inoltre, un intervento massiccio e invasivo dello Stato ha generato forti squilibri di bilancio, generando situazioni di deficit e inflazione elevati in molti paesi industrializzati. Per queste ragioni alcuni economisti statunitensi, in particolare M. Friedman, fondarono la nuova m. classica, che criticava in particolare l’uso della politica monetaria quale modo di intervento nell’economia. La moneta era infatti giudicata un elemento destabilizzante, e in quanto tale doveva essere controllata con estrema cura e parsimonia negli interventi, rendendola il più possibile neutrale nelle scelte degli operatori; si recuperava così in parte l’idea pre-keynesiana di neutralità della moneta, anche se da un’ottica completamente diversa; per i keynesiani la moneta era neutrale per definizione, per i monetaristi invece doveva essere resa neutrale.
Verso la fine degli anni 1980, la m. ha vissuto un nuovo momento di centralità nella ricerca scientifica attraverso quella che è stata definita la nuova economia keynesiana. Questa scuola di pensiero è in realtà un’estensione della microeconomia neoclassica che incorpora alcuni elementi della m. keynesiana, cercando di spiegarli in termini di comportamenti individuali. In particolare questi economisti tentano di dare una microfondazione alla viscosità dei prezzi e dei salari che Keynes ipotizzava nella sua Teoria generale e quindi di spiegare l’origine degli equilibri di sottoccupazione attraverso il comportamento razionale degli agenti economici.