strumento Nome generico di qualunque arnese necessario per compiere determinate operazioni o per svolgere un’attività.
Nel linguaggio scientifico e tecnico, il termine, accompagnato spesso da opportune qualificazioni, indica apparecchi o dispositivi per l’osservazione o per il controllo di fenomeni, di eventi o di processi, o, più specificamente, per la misurazione di grandezze fisiche. Fra gli s. di osservazione si annoverano tutti quegli s. che sono atti a rilevare la presenza di una grandezza, a descriverla qualitativamente, ma non quantitativamente. Tali sono, per es., numerosi s. ottici. La misura di una grandezza è invece affidata agli s. di misurazione.
Uno s. ottico è un dispositivo che raccoglie raggi luminosi da sorgenti di luce oppure da oggetti illuminati e li devia, per riflessione o rifrazione, in modo adatto al raggiungimento di un determinato scopo (generalmente la formazione di un’immagine reale o virtuale della sorgente o dell’oggetto illuminato) oppure li sottopone a particolari processi a fine di misurazione. Negli s. ottici rientrano dispositivi di natura e fattura diversissime, variamente classificabili. Una classificazione può essere fatta in base allo scopo principale del dispositivo: a) s. per la visione, destinati ad aiutare l’occhio nella visione degli oggetti, sia correggendo difetti dell’occhio medesimo (occhiali), sia determinando, di oggetti piccoli o molto distanti, immagini retiniche più estese di quelle ottenibili nella visione diretta (microscopi, telescopi, e anche oculari); b) s. per la formazione di immagini reali, sia per la successiva osservazione oculare (per es., obiettivi di microscopi e telescopi), sia a scopo di proiezione su schermo per osservazioni collettive, sia per altri scopi (per es., macchine fotografiche e cinematografiche); c) s. per misurazioni ottiche, per misurare caratteristiche fisiche (lunghezza d’onda, stato di polarizzazione ecc.) o fotometriche (flusso luminoso, illuminamento prodotto ecc.) della luce raccolta (spettroscopi, interferometri ecc.; fotometri, illuminometri ecc.).
Dispositivi che hanno lo scopo di fornire la misura di una grandezza, rilevandola, elaborandola e presentandola su un’opportuna scala o display per la lettura (➔ misura). La classificazione degli s. può essere fatta in maniera diversa a seconda della caratteristica che si vuol mettere in evidenza. Poiché ogni operazione di misurazione comporta un confronto con un campione della grandezza da misurare, si può ricorrere a un campione esterno, oppure memorizzare una volta per tutte il campione stesso. Nel primo caso si ha a che fare con s. di zero (si stabilisce un equilibrio tra grandezza e campione) o s. a lettura diretta; sono s. di questo tipo le bilance, i ponti, i potenziometri. Nel secondo caso si ha a che fare con s. tarati che si basano su una curva di graduazione rispondente a una data legge fisica, e forniscono in uscita il valore della grandezza da misurare, espressa in unità della grandezza stessa o in suoi multipli o sottomultipli; gli s. tarati sono i più diffusi in tutte le applicazioni. In base al tipo di presentazione della grandezza misurata si possono avere s. analogici o s. indicatori, nei quali un indice si sposta rispetto a una scala graduata, e s. digitali o s. numerici, nei quali un numero compare su un display. A seconda della grandezza da rilevare o, anche, da elaborare e presentare, si possono avere s. meccanici, s. acustici, s. termici, s. elettrici, s. ottici ecc.; nel caso in cui le operazioni elettriche vengano effettuate mediante dispositivi utilizzanti transistori, circuiti integrati, amplificatori operazionali, convertitori analogici o digitali, microprocessori ecc. si parla più propriamente di s. elettronici. Con riferimento all’andamento temporale della grandezza da misurare si possono avere s. statici o s. dinamici; questi ultimi possono essere s. registratori, se forniscono, direttamente o dopo acquisizione e memorizzazione, il diagramma temporale della grandezza, o s. integratori, se integrano la grandezza stessa in un certo intervallo di tempo.
Ogni s. di misurazione è caratterizzato dalle sue proprietà metrologiche. Tali proprietà sono: il campo di misurazione, intervallo in cui la grandezza può essere misurata, coincidente con la portata nel caso che l’intervallo vada da zero a un valore massimo che lo s. può misurare (detto anche valore di fondo scala); la sensibilità, proprietà dello s. di apprezzare variazioni minime della grandezza da misurare; la precisione, tanto più elevata quanto più piccolo è l’errore, ovvero l’intervallo di incertezza della misura; la finezza, proprietà dello s. di non perturbare la grandezza misurata, quantificabile mediante l’errore di inserzione; la prontezza (o rapidità), tanto più elevata quanto più l’andamento temporale della grandezza fornita dallo s. è prossimo a quello della grandezza misurata; la prontezza può essere caratterizzata dal tempo di risposta, ottenibile studiando la risposta dello s. a un ingresso a gradino, o dalla banda passante, ottenibile studiando la risposta dello s. a un ingresso sinusoidale.
Malattie da s. vibranti In medicina del lavoro, denominazione di alcune manifestazioni morbose conseguenti all’uso di particolari utensili (martelli pneumatici, macchine ribattitrici ecc.) adoperati con le mani. Le vibrazioni trasmesse agli arti superiori inducono alcuni disturbi caratteristici: per es., spasmi vascolari, manifestazioni osteoarticolari, nervose e muscolari.
S. musicali Arnesi per la produzione di suoni utilizzati musicalmente. La grande varietà di tradizioni musicali esistenti nel mondo ha fatto sì che molte siano le modalità con cui l’uomo è riuscito a produrre suoni attraverso gli oggetti. Il suono viene prodotto dalla vibrazione dell’aria e la sua qualità dipende dal modo in cui tale vibrazione viene messa in atto ma anche dal modo in cui essa risuona nella struttura dello strumento.
In ogni civiltà esistono criteri per distinguere gli s. musicali. L’organologia, disciplina che si occupa dello studio e della classificazione degli s. musicali, considera di primaria importanza il modo in cui si origina il suono. Nella maggior parte dei casi il suono di uno s. musicale dipende dalla combinazione di tre diversi fattori: l’elemento di vibrazione principale; il modo in cui questo è messo in vibrazione; la struttura dello strumento.
L’elemento di vibrazione. È ciò su cui l’esecutore agisce – direttamente o in maniera mediata – per produrre il suono. Si distinguono quattro tipi di materia vibrante e cinque gruppi di s.: negli idiofoni l’elemento di vibrazione principale è un corpo rigido (è il caso, per es., delle claves sudamericane, due barrette di legno percosse tra loro); nei membranofoni viene messa in vibrazione una membrana in tensione (come, per es., la pelle di un tamburo); nei cordofoni la vibrazione è prodotta sollecitando una corda in tensione (come avviene, per es., per la chitarra); negli aerofoni la materia vibrante è l’aria (come nel flauto e nella tromba); negli elettrofoni – qual è per esempio il sintetizzatore – la vibrazione si ottiene per mezzo di dispositivi elettronici.
Il modo della vibrazione. I diversi modi per ottenere una vibrazione sono determinati talvolta dal gesto dell’esecutore, altre volte dalle caratteristiche costruttive dello strumento. Così un corpo rigido può essere pizzicato (nello scacciapensieri il suonatore pizzica una lamella di metallo), percosso con la mano o con una bacchetta (come accade per i piatti in metallo della batteria). Una membrana generalmente è percossa da una mano o attraverso un battente, ma in alcuni tamburi, detti a frizione, il musicista strofina un bastoncino che trasmette la vibrazione alla pelle. Una corda in tensione può essere pizzicata, sfregata (come accade nel violino per mezzo dell’archetto) o percossa (così agiscono i martelletti all’interno del pianoforte). Anche la vibrazione dell’aria si può generare in molti modi: nei flauti si produce quando il soffio del musicista si infrange su uno spigolo tagliente dell’imboccatura; negli strumenti ad ancia il musicista immette l’aria attraverso lamelle flessibili che possono essere singole (l’ancia semplice del clarinetto) o a coppie (l’ancia doppia dell’oboe). Infine nelle trombe la vibrazione è prodotta direttamente dalle labbra del musicista che premono contro l’imboccatura dello strumento.
La struttura dello strumento. Nella maggior parte degli s. l’elemento di vibrazione principale è inserito o appoggiato su una cassa di risonanza. Quest’ultima influisce sulla qualità sonora dello s. – il timbro – e ne caratterizza anche l’aspetto esteriore. Altre componenti invece, come il manico negli s. a corda o i fori disposti sul corpo degli s. a fiato, possono servire a modificare l’altezza della nota prodotta. Infine alcuni s. sono dotati di una tastiera che permette facilmente all’esecutore di produrre più note contemporaneamente: è il caso dell’organo, un aerofono, e del pianoforte, un cordofono.
Già tra gli Egizi, i Cinesi, gli Indiani, gli Assiro-Babilonesi, gli Ebrei erano in uso s. di vario tipo: arpe, liuti, cetre, flauti (diritti e traversi), oboi, cornamuse, corni, trombe, timpani, tamburi, tamburelli, sistri, castagnette, xilofoni, campane (sole o in serie accordata) e consimili. Tra i Greci troviamo s. dei tipi precedenti, ma perfezionati a fini artistici, tra i quali si preferivano la lira, la citara (in varie sottospecie), l’aulòs (semplice e doppio) e, per uso militare, la tromba. Diffusa era anche la siringa (flauto di Pan). Anche i Romani usarono gli s. greci, sviluppando però i fiati d’uso militare, dei tipi tromba, trombone, cornetto, corno.
Con l’affermarsi del cristianesimo si diffonde l’organo, s. già sviluppato dai Greci come organo idraulico; dalla fine del primo millennio cristiano in poi esso si diffonde largamente, per uso specialmente, ma non esclusivamente, liturgico, in forme e dimensioni diverse, dal grande organo positivo ai piccoli portativi da camera. Nello stesso periodo si cominciarono a usare s. a corde suonate con l’arco, del tipo viola, e a corde toccate o pizzicate artificialmente, dei tipi clavicordo e clavicembalo. Il perfezionamento di questi s., come dell’organo, continuò fino al 18° secolo. Crotta (Hroth), tromba marina, viola (viella, ribeca ecc.) avviano la famiglia degli s. ad arco, che tra il 16° sec. e la fine del 17° raggiungono l’assestamento ancor oggi vigente, nei tipi violino, viola, violoncello, contrabbasso, per sviluppo specialmente della viola medievale. In questo assestamento si manifesta la tendenza, propria della storia organologica, a produrre per ogni specie di s. una serie di sottospecie di diversa estensione fonica, come si ha nel campo degli s. a corde pizzicate (la specie liuto ha il suo basso nell’arciliuto, tiorba, chitarra ecc.; il mandolino nella mandola ecc.), a fiato (flauti piccoli e grossi del Medioevo e di oggi, oboi e bombarde o fagotti ecc.), a percussione (timpani alti e bassi, tamburi, casse ecc.).
Nel corso del 18° sec. si assiste alla diffusione di un nuovo s. a fiato, il clarinetto, e di uno a corde percosse, il pianoforte, che subisce, con il tempo, sempre nuovi perfezionamenti. Lo stesso accade a tutti gli s., tranne gli archi: specialmente i fiati, sia i legni (flauti, oboi, clarinetti, fagotti), sia gli ottoni (corni, trombe, tromboni). Questi perfezionamenti sono generalmente intesi a ottenere completezza di scala fonica, intonazione esatta, bellezza di suono. A queste esigenze, in tutto o in parte, giova l’applicazione delle chiavi (specie ai legni, ma anche agli ottoni) e dei pistoni (agli ottoni). Contemporaneamente, di ogni tipo di s. si diffondono le sottospecie e i tagli diversi, per dotare appunto il dato mezzo fonico di due, tre, quattro registri analoghi alle voci umane. Così si giunge all’insieme orchestrale dei nostri giorni, che annovera tra i legni i flauti (flauto normale e ottavino, scomparsi ormai gli altri tagli), gli oboi (oboe, corno inglese, Heckelphon), i clarinetti (normali in si-bemolle, in la e in do, piccolo in do, bassi in si-bemolle e in fa), e i loro affini, i sassofoni, i fagotti (normale e controfagotto, oltre il sarrusofono, che nei suoi vari tagli affianca oboi e fagotti); tra gli ottoni: i corni (corni normali e tube, le quali affiancano tutta la famiglia degli ottoni dai corni ai tromboni), le trombe (poco usate le trombe alte e le basse) e i tromboni (a tiro e a pistoni), alle fonti degli ottoni aggiungendosi talvolta la cornetta e i pistoni; tra le percussioni: i tamburi chiari e oscuri (cioè alti e gravi), i timpani, la grancassa, i piatti, il tam-tam, il tamburello, il triangolo, le castagnette; a tale famiglia si suole aggiungere l’insieme orchestrale dei campanelli, campane tubolari, celesta, pianoforte, organo, armonium; tra le corde: l’arpa (a pedali e cromatica) e gli archi (violino, viola, violoncello, contrabbasso); alla famiglia delle corde si aggiungono le varie corde pizzicate dei tipi chitarra, mandolino ecc.
La ripartizione fin qui seguita applica la classificazione più comune degli s. in s. a percussione, a fiato e a corda. Si può però anche assumere come criterio di classificazione il loro mezzo fonico, per cui tra i fiati si distinguono quelli a imboccatura naturale (per es., i flauti, in cui la vibrazione è data direttamente dal soffio del suonatore) da quelli ad ancia semplice (clarinetti dell’ancia), categoria quest’ultima in cui possono rientrare gli ottoni, nei quali la vibrazione è data dal vibrare delle labbra del suonatore a guisa di ancia doppia. Tale criterio non si può applicare sistematicamente alle percussioni, le quali possono distinguersi secondo la determinatezza (timpani ecc.), o l’indeterminatezza (grancassa ecc.) del suono, né alle corde, per le quali si può ritornare alla distinzione tra corde pizzicate (chitarra, arpa, clavicembalo ecc.) e sfregate (archi).
Un discorso a parte meritano gli s. elettrofoni, ai quali appartengono gli s. musicali elettronici dalle caratteristiche morfologiche e sonore assimilabili a quelle degli s. sopra citati (per es., quelli a tastiera e tutti quelli che producono altezze temperate, intervalli ed estensioni tradizionali), nonché tutte le apparecchiature elettroniche per musica (inclusi i calcolatori, gli strumenti programmabili, i generatori di effetti basati sulla trasformazione di segnali elettrici, e in generale le apparecchiature in grado di produrre altezze microtonali, particolari forme d’onda ecc.).
Vari s. elettronici sperimentali apparvero nei primi trent’anni del 20° sec.: il capostipite Telharmonium (o dynamophone) fu costruito negli USA attorno al 1900 con l’intenzione, all’epoca inattuabile, di produrre elettricamente musica da distribuire via cavo. Nel 1916 fu brevettato l’oscillatore, un circuito elettronico in grado di generare suoni ad altezza determinata, componente base dei futuri s. elettronici. Nel 1920 apparve in Russia una prima macchina basata su due oscillatori, denominata Theremin dal nome francesizzato del suo inventore (lo scienziato russo L. Termen), che funzionava avvicinando le mani a due antenne, producendo solo suoni glissati. Dopo altre realizzazioni intermedie, nel 1928 apparve il primo s. elettrofono a tastiera, ancora monofonico, che dal nome dell’inventore francese fu chiamato onde Martenot, e che fu utilizzato in composizioni di D. Milhaud, A. Honegger, O. Messiaen e E. Varèse. Negli anni 1930 furono depositati numerosi brevetti, fra cui il Trautonium inventato dal tedesco F. Trautwein, impiegato da P. Hindemith assieme a un’orchestra di archi in un Concertino del 1931 e poi da R. Strauss e P. Dessau; l’eterofono (simile al Theremin), usato in Ecuatorial di E. Varèse (1934) e Fantasia per eterofono, oboe, quartetto d’archi e pianoforte di B. Martinú (1945), poi in musica da film e negli anni 1960 da gruppi pop-rock come i Beach Boys e i Led Zeppelin; e altri direttamente costruiti da musicisti statunitensi (H. Cowell, N. Slonimsky).
Una veloce evoluzione tecnologica rese presto desueti questi primi s. elettrofoni, mentre erano destinati a un duraturo successo gli organi elettromagnetici (come l’Hammond, lanciato nel 1935) e i cordofoni elettrificati, in particolare la chitarra elettrica e uno strumento di nuova concezione, la chitarra-basso. Fin dagli anni 1940 furono avviati i primi tentativi di automazione, con l’uso di nastri scorrevoli perforati, ma la ricerca sulla sintesi elettronica del suono trovò forte impulso solo negli anni 1950 grazie all’attività di musicisti e compositori in vari laboratori di ricerca sulla musica elettronica, come quello di Colonia e lo Studio di fonologia della Rai a Milano, promosso da L. Berio e B. Maderna.
Soluzioni decisive vennero quando la ricerca cominciò a concentrarsi sugli elettrofoni a tastiera, che presero il nome di sintetizzatori per il fatto di adoperare tecniche di sintesi del suono in tempo reale. Il primo risultato funzionale si deve a R.A. Moog, che aveva già commercializzato il Theremin: il suo primo sintetizzatore (noto appunto come Moog) del 1964, ancora monofonico, si basava sul controllo del voltaggio e aveva una struttura modulare. Tra gli apparecchi nati sulla scia del Moog e destinati a un certo successo vi furono i sintetizzatori ARP (1968) ed EMS (1971): quest’ultima ditta, inglese, mise in commercio nel 1975 anche un vocoder, primo apparecchio per la sintesi vocale. Nel frattempo l’interesse verso questi s. era cresciuto enormemente, innanzitutto perché la musica elettronica era uscita dai laboratori con l’avvento della live electronic music, basata sugli elettrofoni utilizzabili dal vivo in tempo reale, anche in associazione a s. tradizionali (‘musica elettroacustica’), e poi per l’utilizzazione degli elettrofoni nella musica rock e leggera.
La prima generazione di sintetizzatori di interesse commerciale e larga diffusione fu sostituita dagli elettrofoni polifonici e politimbrici apparsi negli USA e in Giappone nel 1975-77, e da una terza generazione nel 1982-83, quando la tecnologia analogica fu sostituita da quella digitale. Grazie alla versatilità, alla facilità d’uso e ai prezzi assai competitivi, i nuovi sintetizzatori guadagnarono una diffusione di massa in tutti i generi musicali. Parallelamente si diffusero accessori idonei alla programmazione (sequencer) e a volte dotati di banchi di sonorità sia originali sia imitative (batterie elettroniche). Dal 1982, grazie a una convenzione internazionale, si stabilì un sistema di interfaccia che consentiva la comunicazione operativa fra s. opportunamente predisposti (non più solo a tastiera ma anche a corda, a fiato, a percussione) e banchi di suoni elettronici o campionati.
Dopo l’esperienza della computer music emersa negli anni 1960 con lavori di I. Hiller, J. Cage ecc., si affermò definitivamente l’uso dei computer musicali sia per la programmazione (con programmi facenti funzione di sequencer molto sofisticati), sia per l’esecuzione in tempo reale, accessibile sia agli elettrofoni di uso sperimentale (si ricordano le possibilità virtualmente illimitate del sistema ‘4X’ realizzato da G. Di Giugno all’IRCAM di Parigi) sia a quelli destinati alla musica commerciale.
S. di bordo In aeronautica, dispositivi in grado di fornire al pilota indicazioni per la condotta dell’aereo e per il compimento della missione di volo. Nati con l’aeroplano, gli s. di bordo si sono sviluppati di pari passo con l’evoluzione del mezzo aereo, sia dal punto di vista tecnico sia dell’impiego; nel contempo, con i progressi in campo elettronico (che hanno dato vita a una specifica tecnologia, l’avionica) gli s. di bordo hanno subito notevoli trasformazioni sia nella struttura funzionale sia nei sistemi di presentazione delle informazioni al pilota e quindi nella conformazione del cruscotto del velivolo. L’impiego dell’elaboratore di bordo, unitamente a quello dei tubi a raggi catodici, ha trasformato la rappresentazione fornita dagli s. di bordo e ha dato al cruscotto dei velivoli moderni una forma totalmente diversa da quella del passato (➔ cruscotto). Al pilota è così consentito di ricevere su schermo, anche a colori, tutte le informazioni strumentali necessarie alla condotta del volo; tali informazioni, mediante la sola pressione di un tasto, possono essere selezionate in rapporto alle esigenze del momento.