L’equivalente in unità monetarie di una unità di bene o servizio; più in generale, valore di scambio di un bene in termini di qualsiasi altro bene.
Secondo la definizione recepita dal diritto privato, il p. è il corrispettivo, generalmente in denaro, per l’acquisto di un bene o per il godimento di una prestazione o di un servizio. I corrispettivi per i servizi che le amministrazioni rendono a chi vuole usufruirne e per ciò che attiene allo svolgimento di una funzione pubblica, sono stabiliti dalla pubblica autorità. Si parla in questi casi di tariffe, anziché di p., poiché l’entità di tali corrispettivi è disposta secondo criteri diversi da quelli che connotano i rapporti fra privati, in ragione dell’interesse pubblico che permea quei servizi e quelle prestazioni. Categorie a sé sono invece i corrispettivi delle tariffe professionali che stabiliscono l’entità dei compensi per coloro che esercitano una professione intellettuale. In presenza di interessi pubblici la cui tutela sia ritenuta un valore superiore a quello del libero funzionamento del mercato, l’autorità pubblica può determinare autoritativamente i p. dei beni e servizi erogati dai privati. Ciò trova conferma nella normativa, che prevede, per es., l’imposizione di un p. da parte dell’autorità, oppure la configurazione di reato per inosservanza del p. imposto.
In ambito nazionale, conclusasi negli anni 1970 la rigida fase del blocco dei p., il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) ne ha riorganizzato la disciplina demandando al CIP (Comitato Interministeriale dei Prezzi) la determinazione degli stessi nei settori riguardanti le fonti di energia e i prodotti industriali, fissando per alcuni il regime dei p. amministrati e per altri quello di sorveglianza (nel quale era fatto obbligo ai venditori di comunicare i listini alle autorità competenti). Con riferimento alla natura giuridica di tali provvedimenti autoritativi, la dottrina, dopo un vivace dibattito, è approdata alla qualificazione delle delibere del Comitato come atti amministrativi generali a contenuto non normativo, anziché come regolamenti, ossia atti normativi di secondo grado, in ragione del fatto che tali atti impongono per alcuni beni, servizi e prestazioni un p. in rapporto a un interesse pubblico che lo richiede, sostituendolo a un p. di mercato in corso. Si tratta, dunque, non tanto di regolazione normativa, quanto piuttosto di attività amministrativa regolata da legge.
Con decreto del ministero dell’Industria (d.m. 24 settembre 1992) è stato ripristinato l’Osservatorio dei prezzi. Le funzioni di coordinamento e disciplina dei p. del soppresso CIP, ivi compreso il potere di determinare in via autoritativa i p. e le tariffe delle prestazioni dei servizi pubblici offerti ai consumatori-utenti e soggetti a regolamentazione amministrativa, sono state devolute al CIPE e al ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato con la l. 537/1993 (d.p.r. 373/1994). Parallelamente ai processi di liberalizzazione dei mercati di pubblica utilità, la disciplina dei p. nel tempo ha perso il suo carattere di contingenza, per assumere la connotazione di regolazione della domanda e dell’offerta in alcuni comparti del mercato, al fine di imprimere uno stimolo a determinati settori produttivi. Di fatto lo Stato, dismessi i panni dell’imprenditore, ha indossato quelli del regolatore divenendo garante del funzionamento del mercato mediante l’istituzione di Autorità amministrative indipendenti (es. del mercato e della concorrenza e dei servizi pubblici essenziali) per il controllo delle condotte degli operatori e assolvendo a una funzione di garanzia e vigilanza rispetto alla determinazione di p. del mercato secondo principi concorrenziali. Spetta, inoltre, alle autorità di settore, in presenza di servizi di interesse economico generale, prevedere un corrispettivo definito per la componente di servizio erogato dall’operatore in concessione, ossia fuori dai consueti meccanismi concorrenziali.
L’istituzione della CEE nel 1957 e l’applicazione degli interventi comunitari in materia di disciplina dei p. hanno sempre più inciso sulla determinazione autoritativa effettuata dall’Italia e dagli altri paesi membri, parallelamente all’instaurazione di un mercato comune che ha comportato l’abolizione dei dazi doganali sostituiti da tariffe comuni e l’impegno a garantire una concorrenza nel mercato non falsata. La preminenza delle disposizioni in materia di p. emesse dalle autorità dell’attuale Unione Europea, nonché quelle risultanti dall’inosservanza di alcuni pertinenti articoli del trattato di Maastricht, radica il suo fondamento nell’art. 11 della Carta Costituzionale ove si consentono limitazioni alla sovranità nazionale se derivanti da organizzazioni internazionali volte ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni. Ne consegue che gli organi competenti alla determinazione dei prezzi sono obbligate ad applicare ove occorra i regolamenti UE al punto che la loro disapplicazione o erronea interpretazione può invalidare e rendere impugnabili i provvedimenti che ne risultino carenti. I giudici aditi, a loro volta, sono tenuti a conoscere di tali violazioni e possono, in taluni casi devono, chiedere alla Corte di giustizia l’interpretazione dei provvedimenti comunitari che sono tenuti ad applicare. I provvedimenti comunitari relativi alla determinazione dei p. o incidenti su quella determinazione sono direttamente impugnabili dai soggetti interessati davanti alla Corte di giustizia, le cui sentenze anche in questa materia hanno effetto vincolante nell’ambito dell’ordinamento nazionale.
Nel 2008, in attuazione della Legge finanziaria, è stata istituita la figura del Garante per la sorveglianza dei prezzi.
Sono i p. che invece di essere determinati dal meccanismo di mercato sono fissati secondo criteri prestabiliti da un’impresa monopolistica o oligopolistica, da un cartello di imprese o, nella maggior parte dei casi, dalla pubblica amministrazione (consumi di energia elettrica, tariffe telefoniche ecc.).
Quelli la cui determinazione è rimessa al venditore, ma con la vigilanza della pubblica amministrazione.
Il p. che per una determinata quantità di un bene o di un servizio, rispettivamente i compratori sono disposti a pagare e gli offerenti a praticare.
Rispettivamente il livello di p. che costringe imprese già operanti sul mercato a uscirne e quello che impedisce l’entrata di nuove imprese sul mercato; quest’ultimo deve essere inferiore anche di poco a quello che consentirebbe di ottenere un profitto minimo, mentre il primo deve essere inferiore, in breve periodo, al costo variabile delle imprese che si vogliono eliminare.
P. al quale domanda e offerta si eguagliano. P. imposto P. stabilito dal produttore e che il venditore è obbligato a praticare.
P. che non si forma sul mercato, ma è calcolato in base a un modello economico; nell’ambito di un’economia pianificata è il p. calcolato secondo criteri economici pur in assenza di reali atti di scambio; nell’ambito di un’economia di mercato è il p. che un’impresa calcola per vari motivi, per es. per misurare lo scarto del p. di mercato dal p. che si sarebbe voluto o dovuto realizzare o per contabilizzare gli scambi che avvengono all’interno di un complesso aziendale.
A seconda del termine in cui deve aver luogo il pagamento.
A seconda che il p. risulti da scambi tra produttori e commercianti o tra commercianti e consumatori.
A seconda che il rapporto di scambio sia o no uno solo per tutte le unità identiche del bene scambiato nello stesso mercato e nello stesso tempo.
I p. dei beni e servizi prodotti dalla pubblica amministrazione vengono classificati secondo la loro maggiore o minore somiglianza con i p. che si formano sul mercato: p. di mercato (o p. privato) è quello praticato dall’ente pubblico per beni o servizi prodotti in concorrenza con il settore privato; p. sociale (o p. quasi privato) è quello praticato dall’ente pubblico per beni o servizi prodotti, oltre che per conseguire un reddito, per conseguire finalità pubbliche e sociali; p. pubblico è il p. di quei beni che l’ente pubblico produce in situazione di monopolio e cede a un p. diverso a categorie diverse di consumatori, ma sempre in modo tale che il ricavo complessivo copra il costo complessivo; perché ciò avvenga, alcuni consumatori pagano un p. superiore al costo medio e altri un p. inferiore; l’energia elettrica per uso industriale, e talvolta anche quella per uso domestico, per es., generalmente è venduta a un p. pubblico; lo stesso si dica dei servizi ferroviari; p. politico si ha quando il ricavo complessivo della vendita del bene o servizio è inferiore al costo complessivo, e alla copertura della differenza tra costo e ricavo si provvede normalmente mediante imposte o forme di finanza straordinaria (p. per i servizi postali, per i servizi scolastici, p. per i servizi di trasporto urbano ecc.). Lo stesso termine di p. politico si usa anche tutte le volte che l’intervento dello Stato renda i p. più bassi o più alti di quelli che si formerebbero liberamente sul mercato e cioè: sia che lo Stato obblighi i produttori (e si parla per questo anche di p. d’imperio o di p. legale) a vendere a p. inferiori, imponendo un calmiere, sia che si faccia intermediario tra i produttori e i consumatori, rivendendo a questi ultimi a un p. inferiore a quello pagato ai primi (per es., p. politico del grano) e conteggiando la differenza tra le spese del bilancio, sia che per incoraggiare determinate produzioni ricorra a dazi protettivi, o intervenga sul mercato con acquisti di sostegno, sia ancora che per ragioni fiscali imponga imposte sulla produzione o sull’importazione o assuma il monopolio dell’offerta. Infine per livello dei p. si intende, oltre al livello generale dei p. dei beni e servizi dell’intero sistema economico, anche quello di un particolare mercato di volta in volta specificato: il livello dei p. agricoli, il livello dei p. all’importazione ecc.
Si dice p. relativo di un bene il p. di un qualsivoglia bene in termini di un altro bene. Si supponga un sistema economico nel quale esistano soltanto tre beni, per es. grano, ferro e carbone. Se il p. del grano relativamente al ferro è 10, significa che 10 kg di grano equivalgono a 1 kg di ferro. Allo stesso modo, se il p. del grano relativamente al carbone è 2 significa che 2 kg di grano si scambiano o equivalgono a 1 kg di carbone. Da questi p. si ricavano il p. del ferro relativamente al grano, che risulta 1/10 (cioè 100 g di ferro per 1 kg di grano) e il p. del carbone relativamente al grano, che risulta 1/2 (500 g di carbone contro 1 kg di grano), ma anche il p. del carbone rispetto al ferro e il p. del ferro rispetto al carbone: il primo è 5 (5 kg di carbone per 1 kg di ferro) e il secondo è 1/5 (200 g di ferro contro 1 kg di carbone). Questi p. non sono indipendenti fra loro, potendo uno di essi, come si è visto, essere ricavato dagli altri; essi formano pertanto un sistema che si dice appunto sistema dei prezzi. Se si ha scambio di grano contro carbone, di sale contro grano ecc., si è nella forma più elementare di baratto, perché ogni bene si scambia direttamente contro tutti gli altri e funge da misura di valore. Se solo un determinato bene funge da misura di valore e da intermediario degli scambi, tale bene in pratica svolge la funzione di moneta: se chi vende ferro riceve in cambio grano e chi vende carbone riceve in cambio grano, tutti i p. sono espressi soltanto in grano e sarà 10 il p. del ferro relativamente al grano e 2 il p. del carbone relativamente al grano; il p. del grano in termini di grano è evidentemente 1 (cosiddetto numerario). Dato questo sistema di p. relativi, si supponga che invece del grano come intermediario degli scambi si usino dei sassi tutti della stessa forma e dimensione o dei biglietti di carta stampati appositamente per adempiere alla funzione di intermediari degli scambi, e si supponga inoltre che 1 kg di grano si scambi, per es., con 2 sassi o 2 biglietti di carta; i p. delle altre merci rispetto al grano saranno immutati, cioè il sistema dei p. relativi (1, 10 e 2) resta lo stesso, ma ora vi sono anche dei p. assoluti, perché a partire dal sistema dei p. relativi si può esprimere ciascun p. in termini dell’intermediario degli scambi, sia esso costituito da sassi o da biglietti di carta. In base ai dati già noti, abbiamo dunque che il p. del grano è 2 sassi, il p. del ferro è 20 sassi e il p. del carbone è 4 sassi: 2, 20 e 4 si chiamano p. assoluti. Più in generale diciamo che i p. assoluti sono ottenuti dal sistema dei p. relativi, una volta introdotto un intermediario degli scambi, cioè la moneta. Se 1 kg di grano invece che a 2 sassi fosse uguale a 5 sassi, il sistema dei p. relativi rimarrebbe sempre lo stesso, ma muterebbe il livello dei p. assoluti, e diverrebbe 5 il p. del grano, 50 il p. del ferro e 10 il p. del carbone. Più in generale può dirsi che se il p. del grano, cioè del bene assunto come unità di misura dei p. relativi, raddoppia o si dimezza, raddoppiano o si dimezzano i p. assoluti di tutti gli altri beni, mentre restano sempre invariati i p. relativi.
Problema centrale della scienza economica è spiegare da che cosa dipende il sistema dei p. relativi – o sistema dei p. tout-court – e da che cosa dipende il livello generale dei prezzi. L’importanza di una teoria del livello generale dei p. è abbastanza evidente: i movimenti del livello generale dei p., che, a seconda che siano in ascesa o in discesa, vanno sotto il nome di inflazione e di deflazione, hanno effetti sul livello di occupazione, sull’equilibrio della bilancia dei pagamenti, sul tasso di sviluppo, in altri termini influenzano ogni aspetto della vita economica; sulla base della spiegazione teorica che si fornisce del livello generale dei p., si prendono le decisioni di politica economica ai fini della stabilità dei prezzi. Poiché il livello generale dei p. è connesso all’introduzione della moneta, il suo studio è parte della teoria della moneta. L’indagine sugli elementi che determinano il sistema dei p., o più propriamente la teoria dei p., ha una posizione centrale nell’economia, tanto che la scienza economica è stata detta anche scienza dei prezzi. Il p. di una merce è detto anche valore; molti preferiscono usare l’espressione ‘valore di scambio’. Sul terreno strettamente economico, cioè sul piano quantitativo, tutte queste espressioni sono identiche. L’indagine teorica sugli elementi che determinano il p. viene svolta nell’ipotesi che sul mercato esistano le condizioni della concorrenza perfetta, una forma di mercato che però non è dato riscontrare storicamente, sul che sono concordi anche i massimi teorici di essa, come V. Pareto. Tuttavia soltanto attraverso il principio della concorrenza perfetta, come esplicitamente affermò J.S. Mill, l’economia politica può pervenire a proposizioni scientifiche. Se si esce dall’ipotesi della concorrenza perfetta, diventa impossibile tentare una spiegazione teorica, cioè generale, degli elementi che determinano il p. di una merce; fuori da tale ipotesi il p. di una data merce può essere spiegato in base a elementi extra-economici, come una protezione doganale, o in base a categorie economiche che vanno a loro volta spiegate. Queste ultime, quando siano state spiegate, o appaiono generalizzabili (per es. una posizione temporanea di monopolio dovuta alla scoperta di una tecnologia produttiva che sarà adottata da tutte le altre imprese) e allora riportano il problema nell’ambito della concorrenza perfetta, o non appaiono generalizzabili (come il monopolio naturale) e allora costituiscono uno strumento inefficace per spiegare un fenomeno generale, in quanto comune a tutte le merci, come il prezzo.
Attualmente sono dominanti tre teorie dei p.: a) la teoria del valore-lavoro (o teoria classica, che si rifà ad A. Smith e D. Ricardo), secondo la quale il rapporto di scambio fra due merci, cioè il p. di una merce espresso in termini della seconda merce, dipende dalle quantità di lavoro che direttamente e indirettamente sono occorse per porre in essere le due merci; b) la teoria del valore-utilità, secondo la quale lo stesso rapporto è determinato dal grado di utilità e di scarsità di ciascuna merce (teoria neoclassica o marginalista: ➔ marginalismo); c) quella che viene detta teoria neoricardiana, elaborata da P. Sraffa, secondo la quale i p. relativi dipendono esclusivamente dalle tecniche di produzione adottate per produrre i beni e dalla distribuzione del sovrappiù, che si forma nell’ambito del processo di produzione grazie alle stesse tecniche, tra salari e profitti. La teoria del valore-lavoro e la teoria del valore-utilità sono tra loro inconciliabili. La prima presuppone che esista come unico fattore produttivo il lavoro, la seconda che esista una pluralità di fattori produttivi. Secondo la teoria del valore-lavoro, nell’ambito del processo produttivo si realizza un sovrappiù che si risolve in profitto e rendita; essendo il sovrappiù prodotto dal lavoro, queste due categorie di reddito si configurano come deduzioni del prodotto del lavoro. Secondo la teoria del valore-utilità, nell’ambito del processo produttivo non esiste sovrappiù, ogni parte della ricchezza prodotta ha dietro di sé un contributo produttivo specifico e il profitto e la rendita non sono altro che il p. dei servizi produttivi del capitale e della terra. La teoria del valore-lavoro ha dominato il pensiero scientifico dalla fine del Settecento alla fine dell’Ottocento; la teoria del valore-utilità dalla fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento. La teoria contemporanea, esplicitamente nella formulazione datane da Sraffa, implicitamente nelle formulazioni datane da J. von Neumann e da W. Leontief, ripropone il concetto di sovrappiù alla base dell’analisi economica e quindi alla base dell’analisi dei prezzi. Il concetto di sovrappiù che si trova nella teoria contemporanea è diverso da quello proprio dell’economia classica; il sovrappiù, secondo il modello di Sraffa, scaturisce unicamente dalle tecniche di produzione adottate e non ha alcuna connessione con la teoria del valore-lavoro.
È da osservare che nelle forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta, la spiegazione teorica del p. differisce a seconda della forma di mercato. Infatti, variando la forma di mercato varia il potere di mercato dei venditori e dei compratori, e le decisioni degli uni hanno un diverso effetto sulle decisioni degli altri. Data la dipendenza del comportamento dei venditori e del comportamento dei compratori dalla forma del mercato, la teoria del p. è connessa a tre altre teorie: alla teoria del comportamento dei compratori, o teoria della domanda, alla teoria del comportamento dei venditori, o teoria dell’offerta, nella quale a sua volta svolge un ruolo centrale la teoria dell’impresa, e infine alla teoria del comportamento del mercato, che analizza in qual modo l’azione reciproca dei venditori e dei compratori determini i p. in condizione di concorrenza imperfetta, di concorrenza monopolistica, di monopolio, di monopsonio, di oligopolio.
Il sistema di p., in qualsiasi forma di mercato, costituisce il meccanismo mediante il quale si coordinano e vengono rese fra loro compatibili le decisioni di consumo, di risparmio, di investimento ecc., prese autonomamente dai soggetti economici; in altri termini, il sistema dei p. è il meccanismo mediante il quale si risolve il problema dell’allocazione delle risorse. Questa affermazione vale anche per un’economia pianificata: l’autorità pianificatrice, in vista del conseguimento di alcuni obiettivi, può decidere in dettaglio la struttura produttiva e assegnare obiettivi specifici a ciascuna unità di produzione; poiché però a ogni struttura produttiva, come si dimostra nella programmazione lineare, corrisponde uno e un solo sistema dei p., e viceversa a ogni sistema dei p. corrisponde una e una sola configurazione produttiva, essa può fissare un dato sistema dei p.; in questo caso sarà il sistema dei p. a determinare l’allocazione delle risorse in modo da consentire il conseguimento degli obiettivi prefissati.
Fin dal 19° sec., cioè nel periodo in cui il liberismo economico aveva il suo massimo dispiegamento, l’autorità politica ha fissato il p. di alcuni beni in vista di conseguire determinati fini, di volta in volta fiscali, redistributivi, protezionistici ecc. In situazioni di emergenza, come durante le due ultime guerre mondiali, a causa della generale scarsità di merci e del connesso aumento dei p., è stata perseguita una politica di razionamento e di fissazione dei p. dei principali generi alimentari e delle principali materie prime. Oggi per controllo dei p. si intende uno strumento di intervento pubblico in un’economia di mercato, cui si può ricorrere per ottenere risultati di vario tipo: il contenimento di una pressione inflazionistica, la regolazione di specifici settori di mercato, il sostegno di particolari categorie di reddito ecc. Esso può concretarsi nella fissazione di p. massimi, p. minimi, p. imposti, e nell’indicazione dei criteri cui i venditori devono attenersi nello stabilire i p.; può essere o meno generalizzato, esteso cioè a tutte le merci ma, in generale, è assai raro che abbia luogo e, se utilizzato, si preferisce di solito limitarlo a talune categorie di beni, selettivamente individuate. La fissazione di un p. massimo, o calmiere, viene intesa soprattutto come una misura antinflazionistica (ma molti economisti dubitano della sua efficacia). Inoltre, risponde allo scopo di tutelare l’acquirente di una merce o l’utente di un servizio nei confronti di possibili abusi da parte di venditori in grado di esercitare potere di mercato. La fissazione di un p. minimo può invece essere motivata dalla volontà di sostenere i redditi di produttori operanti in settori insufficientemente remunerativi, o di indurre l’offerta di beni e servizi di particolare rilevanza sociale, o di difendere il produttore di fronte al potere di mercato di cui dispongono gli intermediari (per es., le grandi catene di distribuzione) o gli acquirenti finali, o di evitare, infine, che un’eccessiva concorrenza tra i venditori di una merce si traduca in ribassi dei p. tali da indurre i produttori a ricostituire margini adeguati di profitto peggiorando la qualità del prodotto.
L’attuazione di una politica di controllo dei p. può generare effetti non desiderabili, che andrebbero evitati coordinando la disciplina dei p. con interventi di altro tipo. Tra gli inconvenienti da prevenire va ricordata anzitutto la tendenza al verificarsi di squilibri tra la domanda e l’offerta, sotto forma di eccessi di domanda in presenza di calmieri e gli eccessi di offerta nell’opposto caso di un sostegno dei prezzi. L’eccesso di domanda può essere evitato con un’appropriata politica di sovvenzioni alle imprese, volta a impedire riduzioni dell’offerta dei beni i cui p. sono sottoposti a controllo oppure affiancando al controllo dei p. un razionamento, allo scopo di assicurare un’equa distribuzione del bene scarso tra coloro che lo richiedono. Un eccesso di offerta va invece riassorbito attraverso acquisti effettuati dallo Stato o da altri enti pubblici. Spesso si giunge a distruggere, in assenza di sblocchi remunerativi, il prodotto eccedente: situazione paradossale, indicativa degli sprechi di risorse determinati dai meccanismi di intervento cui si affida il compito di assorbire quei quantitativi di prodotto che risultano eccedenti non rispetto ai bisogni della popolazione, bensì rispetto a quanto risulta possibile collocare sul mercato a p. fissati d’autorità. Gli inconvenienti forse maggiori si hanno quando il controllo assume l’aspetto di un blocco dei p. ai livelli vigenti, in presenza di un processo inflazionistico. In tali condizioni, gli investimenti e la produzione nell’ambito dei settori interessati a tale blocco si riducono drasticamente, e d’altra parte la domanda risulta continuamente eccedente rispetto all’offerta, cosicché la pressione inflazionistica riprende con maggior vigore. Altri inconvenienti ancora si verificano per l’attenuarsi della concorrenza tra le imprese (cui ogni forma di disciplina dei p. tende a dar luogo) e per le distorsioni strutturali che si manifestano quando il controllo dei p. o non è generalizzato o comunque non è ugualmente efficace nei diversi settori.
In grammatica, complemento di p., il complemento che esprime il p. di acquisto o di vendita di qualche cosa: in italiano, quando è retto dai verbi costare e pagare non è preceduto da preposizione; negli altri casi (specie se retto da verbi come affittare, vendere, comprare ecc.) è introdotto dalle preposizioni a o per.
Editto di Diocleziano (Edictum Diocletiani de pretiis rerum venalium, secondo il titolo datogli da T. Mommsen), emanato nel 301 e destinato a tutto l’impero, che stabiliva le tariffe massimali per la vendita di merci (alimentari, pelli, legname, capi di vestiario, tessuti ecc.) e di schiavi, nonché la prestazione di servizi (da parte di operai, artigiani, tessitori ecc., o riguardanti i trasporti terrestri e marittimi ecc.; erano comprese anche le prestazioni liberali, come quelle degli avvocati e dei medici). L’editto era inteso a porre rimedio agli effetti di una crisi economica e finanziaria troppo grave per poter essere superata con un semplice calmiere.