In senso ampio, sistema imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività che non possono essere soddisfatti per iniziativa dei singoli (in tal senso è detto anche liberalismo o individualismo economico); in senso specifico, libertà del commercio internazionale o libero scambio, contrapposto a protezionismo.
Furono i fisiocrati che per primi, nel 18° sec., elevarono il l. economico a sistema, considerandolo come logica conseguenza dei principi del giusnaturalismo, mentre fino ad allora i sostenitori di particolari libertà (di commercio con l’estero, di navigazione, di mestiere, di mercato dei grani ecc.) avevano mirato soltanto all’abolizione di alcuni privilegi o vincoli statali nell’interesse di alcune categorie economiche; del resto, anche su molti scrittori fisiocratici, in particolare quelli provenienti dalla politica, le necessità del momento e gli interessi dell’agricoltura ebbero indubbiamente notevole peso. Il passo decisivo nella formulazione organica del l. fu compiuto però da A. Smith, il quale dedusse la necessità della libertà di produzione e di scambi interni e internazionali dalla constatazione dei vantaggi economici derivanti dalla divisione del lavoro, e insieme dalla convinzione che l’individuo lasciato libero sia in grado di scegliere la via che assicuri a lui e quindi alla collettività il massimo beneficio.
Il principio smithiano della divisione del lavoro fu poi affinato dai maggiori rappresentanti della scuola classica, soprattutto da D. Ricardo e J. Stuart Mill, che diedero alla teoria del commercio internazionale un fondamento scientifico con la legge dei costi comparati, e in qualche decennio il l. riportò un trionfo completo nel campo teorico – non soltanto in Gran Bretagna, ma anche in Francia, Germania e Italia – fino a identificarsi con la stessa scienza economica: tanto che anche i sostenitori di un’economia nazionale in opposizione all’individualismo (il più noto fu F. List) riconoscevano come fine ultimo il libero scambio universale tra nazioni che avessero già raggiunto il loro pieno sviluppo.
La pratica seguì invece con notevole ritardo la teoria e ancora cinquant’anni dopo la pubblicazione di An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations di Smith (1776) la politica di tutti gli Stati era condotta secondo il più rigido protezionismo. Soltanto dopo che il diffuso sviluppo della grande industria specializzata, l’aumento rapidissimo della popolazione, l’esigenza di crescenti importazioni di derrate alimentari da paesi lontani e la rivoluzione dei mezzi di trasporto ebbero mostrato l’utilità di un maggior interscambio tra i vari paesi, le dottrine degli economisti poterono rapidamente realizzarsi; nel 1850 il libero scambio poteva dirsi completamente raggiunto in Inghilterra e di là si diffuse nel decennio successivo nel continente europeo.
Anche in questo periodo di massimo trionfo del l. economico, lo Stato disponeva sempre di strumenti efficaci per la direzione dell’attività economica nazionale, quali la politica monetaria e bancaria, i trattati di commercio e la politica dei trasporti e delle comunicazioni; non si può quindi parlare di attuazione di quel l. integrale auspicato da molti economisti della scuola classica (e sostenuto in Italia, sebbene da posizioni teoriche generali differenti, da F. Ferrara), ma è indubbio che tra il 1850 e il 1880 popoli e individui abbiano goduto di una libertà economica senza confronti.
Fondamentalmente liberale rimase in complesso il sistema economico fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, benché dopo il 1880 la rapida industrializzazione di molti Stati del continente europeo e il diminuito costo dei trasporti (che favoriva le importazioni) avessero imposto quasi dovunque (a eccezione che negli Stati nordici, e in Gran Bretagna) il ritorno a dazi protettivi. Il moltiplicarsi delle leggi sociali rese necessarie dalla crescita del movimento operaio, inoltre, e la concentrazione industriale, che determinava in alcuni casi situazioni simili a quelle monopolistiche, apparivano a molti come la condanna del liberismo.
Nonostante questo notevole indebolimento delle posizioni liberistiche e nonostante le critiche dei socialisti e della cosiddetta scuola storica, la scienza economica era rimasta tuttavia in gran parte fedele alle concezioni classiche, avvalorate anzi nel frattempo dalla scuola psicologico-matematica. Di qui il contrasto tra teoria e pratica che è andato sempre più approfondendosi man mano che, per le esigenze belliche e postbelliche, cresceva l’intervento statale nella vita economica nei paesi che ancora si dicevano a economia basata sull’iniziativa individuale, mentre in quelli a economia centralizzata e totalmente pianificata teoria e pratica erano entrambe orientate verso la negazione del liberismo.
Oggi si suole distinguere l’economia liberista da quella d’intervento a seconda che le determinanti del processo economico nel campo della produzione e della distribuzione siano prevalentemente private o dipendano soprattutto da decisioni pubbliche, sempre ammettendo che in entrambe la proprietà dei mezzi di produzione resti in gran parte privata e si possa parlare della permanenza di un libero mercato. La linea di demarcazione tra i due tipi di economia resta necessariamente assai sfumata, tanto più che di fronte ai grossi problemi di politica anticongiunturale, di sviluppo, di correzione degli squilibri nella distribuzione del reddito ecc., non mancano richieste di interventi dello Stato anche da parte dei sostenitori del liberismo. Del resto la necessità crescente di scelte sul piano nazionale e anche internazionale va sempre più accentuando l’importanza della cosiddetta macroeconomia e induce a impostare i problemi in termini globali con conseguente inevitabile trasformazione della posizione dell’individuo.
Alla fine degli anni 1960 M. Friedmann e i suoi seguaci della scuola monetarista hanno adottato una visione del processo economico detta neoliberista, in quanto si fonda sull’idea che l’operare delle forze di mercato, in assenza di intervento pubblico, assicuri stabilità al sistema economico. Esiste infatti, per i monetaristi, una tendenza naturale dell’economia al conseguimento del pieno impiego e di una crescita stabile. Il ruolo della politica economica è perciò quello di accompagnare la tendenza all’equilibrio insita nel sistema capitalistico con regole automatiche (e non discrezionali, come suggerisce la scuola keynesiana) di gestione. A fronte di questa visione vi è però la constatazione che regole automatiche presuppongano una costanza nel modo di funzionare del sistema economico. Questa costanza non si riscontra nella realtà, in presenza di urti congiunturali e cambiamenti strutturali.