Movimento di pensiero e di azione politica che riconosce all’individuo un valore autonomo e tende a limitare l’azione statale in base a una costante distinzione di pubblico e di privato.
Le premesse del pensiero liberale si trovano nella storia europea a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, cioè nella lotta per la libertà religiosa; nella competizione fra la nobiltà inglese e l’assolutismo degli Stuart, che strappò al potere della Corona garanzie sul piano giudiziario e politico; nella dottrina della divisione e dell’equilibrio dei poteri ispirata al modello inglese e teorizzata da C.-L.-S. de Montesquieu; nella concezione di un diritto naturale, fondamento di ogni costruzione giuridica, che da H. van Groot approda al contrattualismo di J.-J. Rousseau.
Altrettanto essenziale è l’individualismo economico dei fisiocratici e della scuola classica inglese, per cui la massima utilità generale è garantita dalla libera competizione, intesa all’utile particolare e svincolata da ogni disciplina (individualismo comune a F. Quesnay, R.-J. Turgot, A. Smith). Le dichiarazioni dei diritti americana (1776) e francese (1789) si pongono al vertice di un processo storico, riassumendone i tratti essenziali: libertà di coscienza e di pensiero, di espressione e di associazione; eguaglianza di fronte alla legge, diritto di concorrere alla formazione della legge stessa, diritto di proprietà.
Il l. ottocentesco si individua nella doppia opposizione contro l’assolutismo dinastico e la democrazia giacobina, nel confronto con l’esperienza storica della Rivoluzione francese e con la realtà della trasformazione industriale. Nel corso del secolo il l. penetra all’interno dei sistemi differenti, dando origine a indirizzi di pensiero in cui la tradizione si incontra con la modernità.
Francia. - Il l. francese nasce istituendo una netta opposizione fra la libertà com’era concepita dall’antichità classica fino a G. Mably e J.-J. Rousseau, e la libertà moderna: la prima rivolta alla divisione del potere sociale fra i cittadini, la seconda alla «sécurité dans les jouissances privées», fra cui essenziale è il diritto di disporre e perfino di abusare della proprietà (B.-H. Constant, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes, 1819). C.-A.-H.-C. de Tocqueville accetta il dato ineluttabile della democrazia, intesa quale tendenza a lungo termine operante nella storia occidentale. Il suo pensiero oscilla fra l’accettazione della democrazia con riserve sugli effetti del livellamento e del centralismo e il ricorso a un sistema sociale di modello inglese.
Gran Bretagna. - Altrettanto evidente risulta, nel l. inglese, la connessione del movimento delle idee con la realtà sociale da cui scaturisce; il l. della scuola di Manchester è espressione della nuova classe in ascesa per l’espansione commerciale e industriale del paese. I principi del l. classico sono ribaditi da J. Stuart Mill: intorno a ciascun individuo c’è una sfera di assoluta libertà, su cui né altri individui, né la collettività possono esercitare un controllo (Principles of political economy, 1848); contro l’arbitrio di una pretesa volontà popolare sono necessarie precauzioni e garanzie, che impediscano la tirannide della maggioranza. Tra le voci discordanti, T.B. Macaulay ammette alcune forme di intervento pubblico e respinge l’atomismo degli utilitaristi; più tardi, L.T. Hobhouse (Liberalism, 1911) ammette alcune forme di tutela delle classi povere.
Germania e Italia. - Dopo il saggio di W. von Humboldt (Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit eines Staates zu bestimmen, 1792, pubblicato postumo nel 1851), che lo pone come uno dei primi teorici del l., il l. ebbe in Prussia un’intensa stagione con i progetti di riforma di K.A. Hardenberg e H.F.K. von Stein (1807). Nella seconda metà del secolo il pensiero giuridico tedesco si accostò ai principi liberali attraverso la concezione dello Stato di diritto (R. Gneist, G. Jellineck).
In Italia negli ultimi anni dell’Ottocento il l. trovò una formulazione teorica nelle opere di G. Mosca, che volse gradualmente a un l. moderato, per difendere in seguito coerentemente la sua teoria delle classi medie contro i tentativi di ristrutturazione sindacalcorporativa (Il problema sindacale, 1925). B. Croce elaborò dopo la Prima guerra mondiale una versione filosofica del l., importante punto di riferimento per gli intellettuali che non si riconoscevano nel fascismo.
Stati Uniti. - La democrazia di T. Jefferson sostenne che «il governo migliore è quello che governa di meno», ma con l’ascesa della società industriale la tradizione liberal-democratica americana auspicò l’intervento dei poteri pubblici nei contrasti sociali. Intorno al 1920, il nuovo liberalism si configurò nell’interventismo di T. Veblen e nel democratismo di J. Dewey, con la sua fiducia nella razionalità creativa dell’uomo e quindi nell’efficacia della programmazione sociale.
Una sistemazione coerente dei problemi economici e politici fu riproposta negli anni della Seconda guerra mondiale da W. Röpke, la cui opera è un attacco radicale al collettivismo, inteso come filosofia sociale che amplia al massimo le competenze e il potere costrittivo dello Stato; ogni forma di economia controllata e di pianificazione, anche nei limiti e nelle forme prospettate da J. Keynes o da J.A. Schumpeter, equivale al collettivismo. L’affermazione dei movimenti di massa e l’accentuarsi delle pressioni sulla sfera del governo hanno evidenziato già dai primi del Novecento il forte ruolo che si attendeva dall’intervento statale nell’economia e in altri campi; l’edificazione degli Stati totalitari e la necessità della lotta all’inflazione e alla disoccupazione – che sancì, con Keynes, la fine del laissez faire – aumentarono l’operatività statale sul mercato.
Nel secondo dopoguerra ripresero forza le idee del l. sia per una diffusa avversione al totalitarismo sia per la riconosciuta responsabilità della rigidità degli scambi nel determinare la crisi. Negli ultimi decenni del 20° sec. la cultura liberale ha ricevuto nuovo impulso, anche in seguito alla crisi del ‘socialismo reale‘, delle ideologie di ispirazione marxista e dei modelli di welfare State, divenendo nel mondo occidentale cultura politica egemone.
A rinnovare l’interesse per il l. hanno contribuito sia i processi economici e sociali legati alla globalizzazione dei mercati sia l’affermazione di teorie volte a esaltare la razionalità di questi ultimi e la logica della competizione. Un ruolo significativo ha assunto la diffusione delle tesi più recenti di F.A. von Hayek (The fatal conceit. The errors of socialism, 1988) e K.R. Popper (Alles Leben ist Problemlösen, 1994), che sostengono la superiorità del l. rispetto alle ideologie collettivistiche, anche in relazione alla sua capacità di evolversi nel tempo. Se le tesi politiche di Popper hanno contribuito a svecchiare la dottrina liberale, connettendola ancora più con la democrazia, Hayek ha teorizzato il l. come la teoria e la pratica politica più adatta alle rinnovate società di mercato. In una società moderna fondata sulla divisione del lavoro e sul mercato, la maggior parte delle nuove forme d’azione sorge nell’ambito economico. Di qui il nesso inscindibile fra l. politico e l. economico. I due l. sono assolutamente inseparabili, e qualunque distinzione fra essi deve, secondo Hayek, essere respinta. In tale prospettiva il l. deve preoccuparsi, per Hayek, della giustizia commutativa, ma non della giustizia distributiva, ovvero della giustizia sociale (che è invece la preoccupazione del socialismo). Il motivo per cui l’ideale della giustizia distributiva deve essere rifiutato dai liberali coerenti è, secondo Hayek, duplice: per un verso non esistono principi generali di giustizia distributiva universalmente riconosciuti e accettati, né è possibile dedurli razionalmente; per un altro verso, anche se fosse possibile raggiungere un accordo su principi del genere, essi non potrebbero trovare applicazione in una società in cui gli individui siano liberi di impiegare le loro cognizioni e le loro capacità per il conseguimento di fini privati. Per Hayek il l. esige dunque soltanto che lo Stato, nel determinare le condizioni entro le quali gli individui agiscono, fissi le medesime norme formali per tutti. Eventuali correttivi devono essere assai circoscritti, tali da non inceppare il meccanismo.
Sui problemi impostati da Hayek si è aperto, senza essere giunto a conclusione, un dibattito nel pensiero etico-politico di ispirazione liberale, con esiti radicalmente diversi tra loro. J. Rawls (Political liberalism, 1993) ha espresso preoccupazioni di giustizia sociale, ed è partito nella sua riflessione da due principi: il primo di ispirazione liberale («ciascun individuo possiede un eguale diritto a una libertà di base la più estesa possibile, compatibile con altrettanta libertà per gli altri»); il secondo ispirato a ideali di giustizia distributiva. R.E. Nozick, invece, ha teorizzato lo «Stato minimo» (Anarchy, State and utopia, 1974) e, interessato solo alla giustizia commutativa, fondata sui contratti fra privati (la cui tutela è l’unico compito dello Stato), ha criticato aspramente qualunque forma di giustizia distributiva. Le posizioni di Rawls e di Nozick attestano una profonda lacerazione nel pensiero liberale contemporaneo, che si differenzia in una pluralità di interpretazioni spesso contrastanti che ha reso difficile l’aggregazione di un’area politica omogenea intorno a comuni principi di riferimento culturale.
Nel 19° sec., in conseguenza del diffondersi delle idee liberali, si registrò in alcuni ambienti lo sforzo di adeguare il cattolicesimo alle esigenze di libertà individuale e nazionale (cattolicesimo liberale), mentre nei paesi di cultura tedesca nasceva una nuova teologia che riaffermava e accentuava il valore del libero esame (protestantesimo liberale).
Il cattolicesimo liberale fu caratterizzato, più che da una concezione teorica unitaria, da un atteggiamento di accettazione più o meno ampia delle dottrine politiche proprie del liberalismo. L’esigenza di un incontro tra il l. e il cattolicesimo fu formulata prima in Belgio (É.-C. de Gerlache nel 1825) e poi, con ben maggiore consapevolezza teorica, in Francia (F.-R. de La Mennais, 1829). Accolte con entusiasmo in circoli ristretti del clero francese e da alcuni storici, economisti e politici, queste idee suscitarono forte opposizione nella maggior parte dell’episcopato, del clero e degli stessi fedeli, provocando infine nel 1832 l’enciclica di condanna di Gregorio XVI, Mirari vos. Dopo il 1832 i più insigni rappresentanti del cattolicesimo liberale in Francia furono, con C. de Montalembert e J.-B.-H. Lacordaire, A. Cochin e A.-F. Ozanam. Questo gruppo, favorevole anche alla rivoluzione parigina del 1848, ebbe notevole peso nelle vicende interne del paese, finché la morte dei suoi più alti esponenti e il Sillabo (1864) posero fine al cattolicesimo liberale in Francia. Il cattolicesimo liberale italiano, molto più di quello francese, si risolse nell’azione e nel pensiero di alcune grandi personalità, tra cui vanno ricordate A. Rosmini (sia per i consigli dati alla curia, sia per alcuni suoi scritti e specialmente Le cinque piaghe della Chiesa del 1848), A. Manzoni (che vagheggiò un cattolicesimo aperto alle esigenze del l. politico e del movimento nazionale), R. Lambruschini (che più di tutti tentò di conciliare in una nuova sintesi cattolicesimo e libertà, non senza aspirazioni di profonda riforma della Chiesa), N. Tommaseo (profondamente cattolico, eppure severo verso l’arretratezza della curia), M. Minghetti (ministro di Pio IX ma anche, più tardi, presidente del Consiglio del Regno d’Italia e sostenitore della separazione fra Chiesa e Stato). Più complesso, il cattolicesimo liberale inglese, che ebbe nel campo del pensiero politico la sua figura più rappresentativa in lord J. Acton e combatté, ai margini del concilio Vaticano I (1869-70), il dogma della infallibilità pontificia. Il rifiuto di questo dogma portò invece un rappresentante del cattolicesimo liberale tedesco, I. von Döllinger, a promuovere lo scisma cosiddetto dei vecchi cattolici (Altkatholiken). In realtà anche in Italia, in Gran Bretagna e in Germania il Sillabo, il concilio Vaticano e la proclamazione della infallibilità pontificia, insieme ai mutati problemi della realtà politica e sociale, segnarono la fine del cattolicesimo liberale come movimento organizzato. Tuttavia i suoi motivi più vitali rimasero operanti negli ultimi decenni dell’Ottocento, permeando di sé le discussioni teologiche che dovevano condurre al modernismo, mentre sul piano politico, attraverso la maturazione nella dottrina cattolica dei problemi sociali, e l’interesse ufficialmente dichiarato a quei problemi dalla Curia romana con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), si andarono formando, ovunque in Europa, i movimenti di democrazia cristiana.
Il protestantesimo liberale si sviluppò in particolar modo in ambito luterano, sostenendo che il cristianesimo dovesse essere studiato e interpretato, in piena indipendenza da fattori soprannaturali e prescindendo da ogni dichiarazione di fede, solo come fatto storico e con metodo esclusivamente storico, come ogni altro fatto umano. Suoi primi grandi rappresentanti furono gli storici e teologi tedeschi radicali della prima metà dell’Ottocento (D.F. Strauss, F.C. Baur, B. Bauer), seguiti nella seconda metà dell’Ottocento e nel primo Novecento, dalla scuola di A. Ritschl e dei suoi più insigni continuatori (E. Troeltsch e A. Harnack). Legate alle posizioni del protestantesimo liberale sono anche varie correnti più recenti, come l’escatologismo di A. Schweitzer, la Formgeschichtliche Schule di M. Dibelius nonché le posizioni di R. Bultmann e di H. Gunkel.