razionalità Facoltà propria degli esseri dotati di ragione.
La r. è una caratteristica dell’homo oeconomicus. Nella teoria economica tradizionale e moderna si distinguono due approcci alla r.: il primo definisce la scelta razionale in base alla coerenza interna che rispetta le condizioni di completezza e transitività. Esposto da economisti quali K.J. Arrow, M.K. Richter, A.K. Sen, H. Herzberger, tale approccio è alla base della teoria delle preferenze rivelate. Il secondo, introdotto da A. Smith, determina la scelta razionale in base al perseguimento del proprio interesse. Tale impostazione, fondamento dell’economia del benessere, spiega tra l’altro la corrispondenza che esiste tra un equilibrio competitivo (in cui i consumatori e i produttori massimizzano rispettivamente la loro utilità e il loro profitto) e un ottimo paretiano (in cui l’utilità di uno non può essere incrementata senza nuocere all’utilità degli altri). Numerosi economisti hanno però rilevato come questo approccio fosse eccessivamente restrittivo. H. Simon ha sostenuto che l’uomo economico tende a una determinata soglia di soddisfacimento in cui si interessa alla risoluzione di microdecisioni spesso caratterizzate da una informazione non perfetta. Gli studi di Simon hanno portato a un indebolimento del concetto di r. individuale, passando da una r. in senso forte, quella della tradizione neoclassica, a una debole o limitata, dove la conoscenza delle leggi che governano l’economia è «confusa» (fuzzy) e non consente agli individui di raggiungere posizioni ottimali. Le applicazioni della matematica del caos hanno inoltre evidenziato come la complessità dell’economia si ponga come naturale spiegazione di una r. limitata.
Il concetto di r. attraversa vari settori d’indagine culturale del Novecento e acquisisce significati diversi nelle varie discipline in cui viene studiato. Si parla generalmente di tre tipi di r.: la r. dell’azione, la r. della credenza, la r. scientifica. Per quanto riguarda la r. dell’azione umana, il termine deriva dalla teoria economica, dove è stato introdotto per designare il comportamento tipico dell’agente che calcola i rischi e i profitti di una certa azione economica al fine di conseguire i migliori risultati. Tale significato è stato poi generalizzato da M. Weber fino a ricomprendervi il comportamento umano in quanto orientato verso uno scopo. Riprendendo nozioni metodologiche elaborate originariamente nella scuola austriaca di economia, Weber definì razionale quell’azione che, basata su una valutazione delle sue possibili conseguenze, si presenti come la più adeguata al conseguimento dello scopo desiderato. A questa r. strumentale e strategica è stato obiettato di riflettere essenzialmente il tipo di organizzazione sociale e industriale capitalistica: H. Marcuse e, soprattutto, J. Habermas ne hanno ridimensionato le pretese antropologiche. D’altra parte va rilevato come il concetto strumentale-strategico della r. dell’azione abbia ricevuto ampie elaborazioni nei modelli matematico-probabilistici della teoria delle decisioni e di quella dei giochi.
Nelle teorie sociologiche di orientamento individualistico si tende comunque a preferire concetti più deboli di r.; in questa direzione vanno soprattutto le ricerche del sociologo R. Boudon, che ha posto nella individuazione di «buone ragioni» (cioè motivazioni soggettive plausibili) a fondamento del comportamento la possibilità di spiegarlo in termini di r. o, meglio, di ragionevolezza. Il concetto di r. è stato ampiamente dibattuto anche in filosofia, in particolare nella tradizione analitica, sia relativamente all’azione sia relativamente alla credenza. Sul piano dell’azione, si tende solitamente a considerare razionali quelle azioni che si presentino appropriate o adeguate, per il conseguimento di certi scopi, rispetto alle credenze dell’agente, arrivando a concepire la r. in questo senso come un criterio mediante cui non solo si spiega o comprende il comportamento umano, ma si definisce la natura stessa dell’agire umano.
Quanto alla r. della credenza, nella filosofia analitica essa è stata caratterizzata attraverso i due requisiti della coerenza e della fondatezza. Con il primo requisito s’intende la caratteristica che una credenza o un insieme di credenze deve possedere perché sia razionale, di non implicare contraddizioni ed essere in accordo almeno con i principi fondamentali della logica elementare. Per quanto riguarda il secondo requisito, si considera razionale una credenza se è sostenuta sulla base di prove, ragioni e giustificazioni di tipo empirico o teorico. Da parte sociologica e antropologica, si contesta talvolta l’eccessiva ristrettezza di questo concetto di r.; ma anche in ambito filosofico se ne sono notati i limiti, per es., da parte di concezioni relativistiche che tendono a relativizzare le credenze e gli stessi criteri per la loro accettazione ai contesti storico-culturali entro cui le credenze e i criteri sorgono e si tramandano.
Un discorso a parte merita il problema della r. scientifica, che si identifica con l’esistenza di oggettivi criteri e metodi in grado di garantire la fondatezza e l’accrescimento della conoscenza. Implicitamente già presente in P. Duhem, una vera e propria discussione sulla r. scientifica sorge solo nella filosofia della scienza della seconda metà del Novecento, in seguito alle tesi storico-epistemologiche di T. Kuhn e P. Feyerabend, che hanno messo in evidenza come nella ricerca scientifica spesso abbiano svolto un ruolo rilevante fattori propagandistici e fideistici. Alle tesi di Kuhn, in particolare, è stata mossa l’accusa di fornire un quadro della storia della scienza da cui emergerebbe l’irrazionalità, piuttosto che la r., dell’impresa scientifica. D’altra parte, con il falsificazionismo di K.R. Popper si assiste all’ultimo grande tentativo volto a una formulazione del metodo scientifico razionale, fondato sull’atteggiamento critico che ogni ricercatore dotato di r. dovrebbe avere nei confronti delle proprie ipotesi e teorie.