ragione
Nelle pagine di M. l’esame degli eventi politici e militari, antichi e moderni, non si affida mai a categorie morali o a griglie teoriche precostituite, com’era usuale nella letteratura umanistica, ma si fa guidare da un rigoroso criterio utilitaristico. Come l’autore dichiara in una famosa massima del Principe, autentico manifesto della sua rivoluzione metodologica, «sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa» (xv 3). In nome della fondamentale funzione didattica di queste pagine (insegnare agli ‘intendenti’ le regole della politica) si rinuncia insomma alle idealizzazioni della filosofia per concentrarsi sull’essenza concreta della materia in discussione, com’è radicata nella realtà dei fatti. I fatti, allora, sono ogni volta presentati con estrema precisione, scomposti nei loro elementi costitutivi, nelle diverse motivazioni che li determinano, nelle loro cause oggettive e soggettive. E l’argomentazione segue da vicino lo svolgersi degli eventi presentati, ne illumina gli svincoli e le connessioni, con una straordinaria e appassionata capacità di analisi che forma il fascino principale della scrittura di Machiavelli.
Il termine ragione può indicare ovviamente l’intelletto («a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità», «la ragione mostrava loro una cosa doversi fare, nonostante che gli auspicii fossero avversi», Discorsi I vi 34 e xiv 5), ma anche una categoria o un tipo («il duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo», «quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia», Principe vii 21 e 24).
M. lo impiega spesso nel suo altro significato generico di ‘causa’ o ‘motivo’ («questa ci essalta, questa ci disface, / sanza pietà, sanza legge o ragione», “Di Fortuna”, vv. 38-39) e qualche volta come termine tecnico, sinonimo di diritti o prerogative legali («che il Duca se ne andasse, con i suoi e sue cose, salvo; e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze renunziasse», «il conte, non veggendo altro rimedio, cedé la terra e tutte le sue ragioni a’ Fiorentini», Ist. fior. II xxxvii 22 e V xxxv 11). Ma ragione o ragioni è anche parola strettamente legata ai processi argomentativi di cui dicevamo, allo scavo conoscitivo che cerca di ritrovare le origini o le componenti profonde di un evento pubblico o di una scelta politica: r. coincide allora con gli argomenti e le dimostrazioni ogni volta presentati e discussi, ma anche con la movenza della stessa prosa machiavelliana, animata com’è da una fortissima tensione conoscitiva e (appunto) da un razionalismo che non teme di scavare nelle zone più oscure della psicologia individuale e collettiva.
La r. può essere fornita da un personaggio storico («intra le altre ragioni che dal padre di Fabio erano assegnate contro alla ostinazione del dittatore», «Ma Nicia [...] la maggiore ragione, che nel concionare al popolo perché gli fusse prestato fede adducesse, fu questa...», Discorsi I xxxi 16 e III xvi 5) oppure da uno scrittore («Tito Livio prudentissimamente rende la ragione donde questo nasceva», «Plutarco, gravissimo scrittore, [...] intra le altre ragioni che ne adduce dice che...», Discorsi I xlvi 4 e II i 2-3). Altre volte è riferita a un interlocutore generico, spesso con intenti polemici («ne ho sentito addurre ragioni da ogni parte», «Le quali ragioni sono di quelle che paiono e non sono vere», Discorsi II xii 2 e xxiii 17). E naturalmente lo stesso M. elenca le sue r. per svolgere una dimostrazione: «Pertanto è necessario esaminare quale di queste republiche avesse migliore elezione. E se si andasse dietro alle ragioni ci è che dire da ogni parte», «La ragione che io ne dico è che quel che si difende o egli è dentro a una terra o egli è in sui campi dentro a uno steccato» (Discorsi I v 5-6 e II xvii 8).
Distinte dal principio di autorità come garanzia di un libero giudizio individuale («Ancoraché sanza le autorità ce ne sia ragioni manifeste», Discorsi II xviii 7) e a volte difficili a intendersi («sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere ad altrui», Discorsi I xi 11), le r. si oppongono all’‘opinione’ perché questa ha bisogno di quelle per essere confermata razionalmente: «io non giudico né giudicherò mai essere difetto difendere alcuna opinione con le ragioni, sanza volervi usare o l’autorità o la forza» (Discorsi I lviii 7), «intendeva la opinione loro, diceva la sua, corroboravala con le ragioni» (Principe xiv 13). Priva di questo fondamento l’‘opinione’, individuale oppure più spesso, collettiva, è quasi sempre falsa: «La quale cosa non fu bene, da colui che tiene questa opinione, esaminata, e fu fuori d’ogni ragione creduta», «quel popolo giudicava questo partito vile e non vi vedeva dentro quella utilità vi era, né Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro. E tanto sono i popoli accecati in queste opinioni gagliarde, che...» (Discorsi I xxxiv 3 e I liii 13-14). Contro queste ‘opinioni’ che elaborano quasi sempre delle r. a loro volta errate («Ha questa opinione certe ragioni che discosto paiono vere, ma sono al tutto aliene dalla verità», Discorsi II xxii 13), M. sviluppa le sue argomentazioni, come quando capovolge il giudizio corrente sulla Chiesa di Roma:
E perché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono, e ne allegherò due potentissime le quali secondo me non hanno repugnanzia (Discorsi I xii 15).
O quando, per bocca di Fabrizio Colonna, respinge le critiche sull’ordinanza con il suo arruolamento di massa:
Sanza dubbio egli è migliore e più necessario il numero grosso che il piccolo; anzi, a dire meglio, dove non se ne può ordinare gran quantità, non si può ordinare una ordinanza perfetta; e facilmente io vi annullerò tutte le ragioni assegnate da cotestoro (Arte della guerra I 222).
In queste serrate sequenze argomentative la r. può allora associarsi agli esempi, in un rapporto di reciproca verifica fra ratio ed exempla ben noto alla tradizione retorica («Verificasi questa ragione con lo esemplo di Toscana», «E si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare», Discorsi I lv 24 e II xviii 2). Si spiega così la funzione centrale degli esempi antichi e moderni nel discorso machiavelliano, abilmente organizzati in sequenze o disposti in parallelismi raffinati, ma sempre subordinati a un rigoroso ragionamento, anche se qualche volta la loro evidenza dimostrativa scavalca addirittura le r. e a esse si sostituisce:
E perché questo è un termine che merita considerazione, ingannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e con danno dello stato loro, e’ mi pare da dimostrarlo particularmente, con esempli antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così distintamente dimostrare (Discorsi II xxvii 4).
Nell’argomentazione machiavelliana, come abbiamo detto, un ruolo centrale possiede la ricerca delle ‘cause’ ovvero ‘cagioni’ (che è parola molto più comune). Individuare i motivi di una scelta, risalire lungo la catena delle cause all’origine di un evento, è lo scopo ultimo di chi aspira a rifondare la politica su nuove basi, meditando sugli esempi della storia antica e moderna. Non a caso molti capitoli dei Discorsi prendono titolo da questa esigenza: Quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare, o chi vuole mantenere, Quali cagioni comunemente faccino nascere le guerre intra i potenti, La cagione perché i popoli si partono de’ luoghi patrii, ed inondano il paese altrui (I v 1, II ix 1, II viii 1). Non a caso il termine – frequentissimo – sottolinea spesso l’impegno conoscitivo dello scrittore, quando esamina, per es., il valore della religione:
Pensando dunque donde possa nascere che in quegli tempi antichi i popoli fossero più amatori della libertà che in questi, credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti, la quale credo sia la diversità della educazione nostra dall’antica, fondata dalla diversità della religione nostra dalla antica (Discorsi II ii 26);
o quando chiarisce le sottili sfumature di un consenso:
E poiché la materia lo ricerca, non voglio lasciare indrieto ricordare alli principi che hanno preso uno stato di nuovo, mediante e’ favori intrinseci di quello, che considerino bene qual cagione abbi mosso quegli che lo hanno favorito a favorirlo [...] E discorrendo bene, con quelli esempli che dalle cose antiche e moderne si traggono, la cagione di questo, vedrà essergli molto più facile guadagnarsi amici quegli uomini che dello stato innanzi si contentavano, e però erano sua inimici, che quelli che, per non se ne contentare, gli diventorono amici e favorironlo a occuparlo (Principe xx 21 e 23).
È sempre una «cagione intrinseca o estrinseca» (Discorsi I xxxiii 4), infatti, a fornire la chiave degli eventi storici se debitamente «discorsa e interpretata» (Discorsi I lvi 8). Lo studio delle motivazioni costituisce dunque una parte rilevante della rilettura machiavelliana del passato e del presente, intrecciando egli mirabilmente lo scavo psicologico, le considerazioni antropologiche e il commento politico. Le cause dell’agire umano sono allora sempre ricondotte alle passioni e agli interessi primari, il desiderio e il timore, l’ambizione e l’utile, eliminando ogni velo di retorica: «satisfannosi e’ sudditi del ricorso propinquo al principe, donde hanno più cagione di amarlo, volendo essere buoni, e, volendo essere altrimenti, di temerlo», «quando e’ non si obbligano per arte e per cagione ambiziosa, è segno come e’ pensano più a sé che a te» (Principe iii 13 e ix 13). E in alcuni casi la cagione tende addirittura a soggettivizzarsi ulteriormente, confondendo i moventi con i pretesti, poiché «mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la inosservanzia» e «le cagioni del tòrre la roba non mancano mai, e, sempre, colui che comincia a vivere per rapina, truova cagione di occupare quello di altri» (Principe xviii 9 e xvii 14). M. dipana allora ogni volta il groviglio delle false e delle vere cagioni, cercando di coglierne tutte le sfumature e tutte le conseguenze; questo è il compito del buon politico, che a differenza dei non intendenti riesce a illuminare le ‘occulte cagioni’ anticipando (per così dire) l’opera inesorabile del tempo:
quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta cagione, che per non si essere veduta esperienza del contrario, non si conosce; ma la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre d’ogni verità (Discorsi I iii 2).
L’uomo politico, negli scritti machiavelliani, dev’essere ‘buono’ cioè pensare al bene comune e non al proprio individuale interesse, ma anche ‘savio’ cioè prudente e capace di vedere «assai discosto» (Discorsi I xviii 24): come afferma il Principe, «colui che in uno principato non conosce e’ mali quando nascono, non è veramente savio» (xiii 24). Se dunque l’espressione «savio e prudente» (M. a Francesco Vettori, 29 apr. 1513, Lettere, p. 255) replica la medesima qualità, quella «savio e buono» corrisponde all’altra coppia machiavelliana «prudente e virtuoso» (Discorsi I ix 8 e Principe xxvi 1) ed evoca il modello perfetto di comportamento. Se i «Romani [...] furono savi e buoni» (Arte della guerra I 85), possiamo allora avere un «uomo savio e buono» e un «savio e buono cittadino» (Ist. fior. VIII ix 10 e IV x 2), ma anche «uno buono capitano e savio» (Discorsi III xxxiii 9) e «un principe savio e buono» (Discorsi II xxiv 16). In qualche caso M. separa i due attributi, quando, per es., esamina le opposte strategie degli ottimati fiorentini per «diminuire la potenzia de’ Medici» (una moderata e l’altra violenta) e dichiara che la prima «era da uomini buoni», la seconda «da uomini savi» (Ist. fior. VII xiii 2 e 9); o quando accenna agli Stati che mancano di buone leggi e ordini distinguendo ancora fra «buoni» e «savi»:
Di simili leggi e ordini [...] sono mancate e mancano tutte quelle [scil. republiche] che spesso i loro governi da lo stato tirannico a licenzioso, e da questo a quell’altro, hanno variato e variano [...] l’uno non piace agli uomini buoni, l’altro dispiace a’ savi; l’uno può fare male facilmente, l’altro può fare bene con difficultà; nell’uno hanno troppa autorità gli uomini insolenti, nell’altro gli sciocchi (Ist. fior. IV i 4-5).
Ma il tema dominante resta quello della drammatica distanza fra passato e presente, fra i Romani (appunto) e i moderni italiani che di quel modello sono l’esatto contrario. Perciò, se l’antico tribuno Camillo può dimostrare esemplarmente
quello che faccia uno uomo buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile e’ possa fare alla sua patria, quando mediante la sua bontà e virtù egli ha spenta la invidia (Discorsi III xxx 11),
fra i contemporanei «ei sono e sono stati assai principi, e de’ buoni e de’ savi ne sono stati pochi» (Discorsi I lviii 9) e gli «Italiani [...] per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcuno ordine buono» (Arte della guerra VI 229).
Questa svalutazione del presente, tipicamente machiavelliana, si coniuga allora sovente a una feroce ironia per ribaltare il significato stesso di savio, disegnando una sorta di capovolto ritratto del buon politico. Tale uso antifrastico era stato suggerito dalle prediche di «frate Girolamo Savonerola» che, com’è noto, aveva avuto il giovane M. fra i suoi attenti ascoltatori: «prediche [...] piene di accuse de’ savi del mondo e d’invettive contro a loro: perché chiamava così quegli invidi e quegli che si opponevano agli ordini suoi» (Discorsi III xxx 18 e 20). Anche nel Principe e nei Discorsi la polemica colpisce precisamente gli avversari fiorentini, quegli ottimati che ostacolavano il governo del gonfaloniere Piero Soderini richiamandosi alla tradizionale politica della città. Sono loro, dunque, i «savi de’ nostri tempi» sistematicamente contrapposti agli antichi e sistematicamente in errore:
Né piacque mai loro [ai Romani] quello che è tutto dì in bocca de’ savi de’ nostri tempi, di godere el benefizio del tempo, ma sì bene quello della virtù e prudenza loro: perché el tempo si caccia innanzi ogni cosa, e può condurre seco bene come male, e male come bene (Principe iii 30).
Questi «savi» sono i migliori rappresentanti della «debolezza de’ presenti uomini, causata dalla debole educazione loro e dalla poca notizia delle cose». Le «loro moderne opinioni, discosto al tutto dal vero» (Discorsi III xxvii 13-14) sono l’esatto opposto del «giudizio» dei Romani, sempre «prudenti» e (loro sì) «savi in ogni [...] loro ordine» (Discorsi II xxiv 56). Non stupisce allora che nell’Arte della guerra il portavoce di M., Fabrizio Colonna, ironizzi proprio sui savi fiorentini che si opponevano all’istituzione dell’ordinanza:
COSIMO Dunque lodate voi l’ordinanza?
FABRIZIO Perché, volete voi che io la danni?
COSIMO Perché molti savi uomini l’hanno sempre biasimata.
FABRIZIO Voi dite una cosa contraria, a dire che un savio biasimi l’ordinanza; ei può bene essere tenuto savio e essergli fatto torto (I 151-54).
I cattivi politici, nell’inesorabile logica machiavelliana governata dal tempo e dalle passioni umane, potranno diventare «buoni» e «savi» solo dopo aver attraversato la prova della ‘rovina’ e del male, sperimentata direttamente sulla propria pelle:
Vengono per tanto le provincie per questi mezzi alla rovina; dove pervenute, e gli uomini per le battiture diventati savi, ritornono [...] all’ordine, se già da una forza estraordinaria non rimangono suffocati (Ist. fior. V i 6)
oppure indirettamente, mediante l’insegnamento della «istoria», fatti capaci di intendere le r. e le cagioni delle cose umane:
se niuna cosa diletta o insegna, nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione è utile a cittadini che governono le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odi e delle divisioni delle città, acciò che possino, con il pericolo d’altri diventati savi, mantenersi uniti (Ist. fior. proemio 4).
Bibliografia: P. Marolda, Le radici neoplatoniche del ‘savio’ machiavelliano, «La rassegna della letteratura italiana», 1979, 83, pp. 95-116; M.C. Figorilli, La ‘tristizia’ nei Discorsi di Machiavelli, «La rassegna della letteratura italiana», 1986, 100, pp. 39-53; G. Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma 2003.