socialismo Nel senso storicamente più vasto, ogni dottrina, teoria o ideologia che postuli una riorganizzazione della società su basi collettivistiche e secondo principi di uguaglianza sostanziale, contrapponendosi alle concezioni individualistiche della vita umana.
In senso più stretto, e in epoca moderna, sistema generalizzato di idee, valori e credenze, finalizzato a guidare i comportamenti collettivi – e i movimenti, i gruppi, i partiti che li organizzano – verso l’obiettivo di un nuovo ordine politico in grado di eliminare o almeno ridurre le disuguaglianze sociali attraverso una qualche forma di socializzazione dei mezzi di produzione e correttivi applicati al meccanismo di distribuzione delle risorse economiche.
Nonostante quella del s. sia una concezione assai antica (si parla infatti di s. anche con riferimento alla Repubblica di Platone), che specialmente nel Medioevo cristiano trova le sue prime concrete manifestazioni in sette ereticali che predicavano l’uguaglianza totale nella comunione dei beni (e che per questo si definivano piuttosto comunioniste), è soltanto nel 19° sec., con l’avvento della società industriale, che la parola e il fenomeno s. assumono i contenuti propri che comunemente gli si attribuiscono. In Francia il termine s. sembra sia stato coniato da P. Leroux dopo la rivoluzione del 1830, mentre in Inghilterra pare circolasse già qualche anno prima nel gruppo di R. Owen. Ma quel che più conta notare è la diversità dei significati che l’etichetta includeva all’atto stesso della sua invenzione: se per Leroux era una specie di dichiarazione di guerra contro il liberalismo, e una risoluta rivendicazione della priorità dello Stato sull’individuo, per Owen rivestiva contenuti più economici e sociali che politici, ponendo al centro dei suoi interessi la questione operaia.
La prima fase del pensiero socialista è solitamente identificata, sulla scorta di una definizione di K. Marx, nel s. utopistico. È questa, in realtà, una definizione sommaria che serve ad abbracciare diverse tendenze sviluppatesi fra il 1820 e la fine del 19° secolo. È in particolare in Francia che trovano espressione le teorie originarie del movimento socialista, dalle quali traggono alimento in qualche misura le formulazioni posteriori e contemporanee. Gli esponenti più significativi del s. utopistico furono tutti dei militanti, coinvolti più o meno intensamente nella vita politica del loro tempo e del loro paese, con l’intento di modificare l’ordine esistente attraverso la forza della teoria e la coerenza dell’azione pratica. All’interno di questo movimento si possono tuttavia distinguere due diverse interpretazioni del cruciale rapporto fra teoria e prassi: quella di coloro che privilegiarono il momento dell’analisi della realtà sociale, e quella di coloro che considerarono invece prioritario il momento dell’azione, facendone oggetto esclusivo dei loro sforzi intellettuali.
Il comune riferimento è per tutti costituito dalla rivoluzione del 1789, la differente valutazione della quale, in particolare della sua fase giacobina, si può dire che determini l’appartenenza all’uno o all’altro dei due filoni. Troviamo così da una parte la posizione di pensatori – quali C.-H. de Saint-Simon, F.-M.-C. Fourier, R. Owen, J.-J.-C.-L. Blanc, E. Cabet, P.-J. Proudhon – che sono portati a derivare dalle numerose trasformazioni avvenute nel corso della rivoluzione, considerate inadeguate a risolvere i mali della società, un profondo scetticismo nei confronti della politica e dei suoi strumenti di violenza. Nelle loro dottrine prevalgono dunque il rifiuto dell’esperienza rivoluzionaria, la fiducia nel progresso dell’umanità, l’esaltazione della scienza positiva come unico metodo per risolvere efficacemente i problemi sociali. Le loro analisi si svolgono in termini prevalentemente economici; sul piano politico e giuridico-costituzionale, il problema fondamentale non è quello della migliore forma di governo, bensì quello del miglior sistema di organizzazione sociale, informato ai criteri di rappresentanza meritocratica e ai principi dell’autonomia. Da un’altra parte troviamo invece l’ala radicale del s. utopistico. Il fallimento della Rivoluzione francese è imputato, dagli autori che si riconoscono in questa seconda corrente di pensiero (L.-A. Blanqui, F. Buonarroti, F.-N. Babeuf), a una inadeguata preparazione organizzativa. Il principio egualitario e il ‘comunismo’ dei beni, che costituiscono le finalità supreme dell’azione rivoluzionaria, presuppongono la conquista del potere politico; il momento teorico viene così fortemente semplificato a vantaggio di quello organizzativo, cospiratorio e insurrezionale, nell’ambito di una strategia tutta tesa al rovesciamento dell’ordine politico. Di qui un’esaltazione quasi mistica dell’azione rivoluzionaria quale strumento della palingenesi storica.
C’è dunque fin dalle origini, nel movimento socialista, una duplicità costitutiva mai risolta: un’anima laica, pluralista e moderata; un’altra gnostica, dispotica e radicale, che già da allora si riconosce più nell’etichetta del comunismo che del s. (e comuniste venivano infatti dette le società segrete attive in Francia fra il 1835 e il 1840, ispiratrici della linea Babeuf-Buonarroti, le quali non a caso diffusero l’espressione dittatura comunista per qualificare l’obiettivo della loro rivoluzione).
Parallelamente al movimento francese si sviluppò in Gran Bretagna, soprattutto a opera di R. Owen, una dottrina che vi si accostava per molti aspetti, pur radicandosi in un contesto storico diverso e su problemi diversi di ordine economico-sociale. Le idee maturate in questo ambito si posero alla base di tendenze che riprendevano dalla tradizione filosofica dell’empirismo inglese il carattere della duttilità politica e del pragmatismo. Il ragionamento di Owen era molto semplice: era inutile arrestare il progresso industriale e prendersela con le macchine; tuttavia era rischioso lasciare la regolazione del modo di produzione industriale, nel quale i lavoratori erano immiseriti e resi schiavi, al libero gioco del laissez faire. Occorreva invece una pianificazione ponderata che si occupasse di tutti gli aspetti – dalle condizioni di lavoro alle condizioni di vita – della classe operaia, mediante metodi educativi e filantropici. Il cartismo (➔) e il movimento sindacale organizzato in Inghilterra si svolsero in rapporto all’influenza di Owen, accentuandone via via i tratti più o meno inconsapevoli del riformismo pragmatico e respingendone invece quelli che lo iscrivevano nel quadro del s. utopistico. Di Owen si accettò in particolare l’assunto secondo il quale occorreva porre un argine alla discesa dei salari ai livelli minimi di sussistenza, attraverso le trade unions (➔), libere associazioni fra lavoratori.
Con K. Marx e F. Engels il s. raggiunse la piena maturità intellettuale e politica. Nel Manifesto del partito comunista, scritto su incarico della Lega dei comunisti durante i moti del 1848 in Germania, Marx ed Engels distinguevano il loro s. dalle altre versioni, tracciando le linee portanti del s. scientifico, in quanto solo un’analisi scientifica dei rapporti economici poteva consentire di elaborare un programma di azione rivoluzionaria del proletariato in lotta con la borghesia per l’attuazione del socialismo. La riflessione del marxismo procedette lungo due direzioni specifiche per la definizione del programma socialista. Da un lato, la non compiutezza delle condizioni oggettive per la rivoluzione pose il problema di approfondire l’analisi critica dell’economia capitalistica. Dall’altro, dopo il 1860, fu in primo piano il problema dell’organizzazione e della direzione del movimento operaio e socialista. Sulla soluzione di questo problema influirono, in particolare, tre eventi: la nascita del Partito socialdemocratico tedesco, la Prima Internazionale e la Comune di Parigi. La Prima Internazionale segnò l’incontro fra il marxismo e il movimento operaio dei diversi paesi europei, che cominciava a liberarsi dal democraticismo, dall’anarchismo e dal romanticismo propri del primo socialismo. Il problema di fondo era quello di indirizzare lo sviluppo delle organizzazioni proletarie, attraverso un centro di coordinamento internazionale, verso obiettivi di unità, di autonomia, di solidarietà. C’era anche il riconoscimento dell’importanza tattica del riformismo democratico e il primo riconoscimento delle vie nazionali al s.: rivoluzionarie quasi ovunque, ma anche pacifiche nei paesi a tradizione liberal-democratica.
Marx escluse che nell’esperienza della Comune parigina del 1871, diretta da blanquisti, proudhoniani e giacobini, vi fossero le condizioni oggettive per un’insurrezione, e per questo preferì agire in difesa delle istituzioni e in vista dell’organizzazione politica del proletariato nelle file della socialdemocrazia tedesca. La lezione che Marx traeva dalle vicende parigine lo portò a riconcettualizzare il s. come quella fase transitoria del processo rivoluzionario nella quale la classe operaia si appropriava dello Stato e del potere legale per instaurare la dittatura del proletariato, momento propedeutico all’avvento della società comunista (Kritik des Gothaer Programms, 1875): troviamo qui una divaricazione sistematica dei due termini di s. e comunismo, di rilievo fondamentale per quelle che saranno le loro applicazioni storiche successive.
Con la Seconda Internazionale (1889-1917) la guida del movimento operaio fu assunta dalla socialdemocrazia tedesca, il cui ideologo principale era K. Kautsky. In questo ambito la dottrina marxista fu sottoposta a una serie di revisioni critiche, in senso ‘riformista’ o ‘rivoluzionario’, che segnarono in modo indelebile lo sviluppo e i conflitti del movimento socialista nelle diverse realtà storiche.
Dal punto di vista politico, il congresso di Londra del 1896 decretò l’espulsione degli anarchici e la condanna del revisionismo, affrontando una serie di altri problemi cruciali per le sorti del movimento. Negli anni successivi e precedenti alla Prima guerra mondiale, le questioni dello sciopero generale, del militarismo, del colonialismo, e soprattutto della posizione da assumere nei confronti degli eventi bellici, dimostrarono l’incapacità dei partiti socialisti, nella loro maggioranza neutrali o favorevoli al conflitto, di porre la solidarietà di classe al di sopra degli interessi nazionali.
Nella prospettiva della storia delle idee, la Seconda Internazionale presentò una rilettura del marxismo in chiave di revisionismi ‘di sinistra’, attraverso una rivalutazione della dialettica hegeliana, e ‘di destra’, attraverso gli strumenti concettuali dell’evoluzionismo positivistico o del neokantismo. Si ebbero così, da una parte, le posizioni a difesa dell’‘ortodossia’ marxista di K. Kautsky e R. Luxemburg; dall’altra parte, le posizioni fortemente critiche nei confronti della teoria marxista, come quelle di E. Bernstein, di M. Adler e degli altri esponenti del cosiddetto austromarxismo, che recuperavano le ragioni etiche del s. e ne rigettavano le basi scientifiche. Le estreme conseguenze, anche scissionistiche, di questa controversia si ebbero con l’istituzione, nel 1919, della Terza Internazionale, non più socialista ma ormai già comunista, dato che ebbe come partito-guida quello bolscevico e come modello quello della rivoluzione sovietica condotta al successo in Russia appena due anni prima.
Secondo Lenin, il cui pensiero divenne il credo ideologico dei nuovi partiti rivoluzionari in Europa, il comunismo si differenzia dal s. revisionista, definito spregiativamente come «opportunistico, eclettico e senza principi», come pure dallo spontaneismo insurrezionale, perché non assume la coscienza di classe come un prodotto spontaneo dello sviluppo capitalistico, nel modo in cui portava a credere una «grossolana deformazione» della teoria marxista. Solo gli intellettuali borghesi che ne sono gli interpreti, e il partito come «avanguardia armata del proletariato», possono trasmettere la consapevolezza del fine supremo cui tende la storia dell’umanità, cioè la società comunista. Questa ideologia, «onnipotente perché giusta», divenne la dottrina ufficiale del partito rivoluzionario e dello Stato socialista con il quale si identificava.
La storia delle idee e delle esperienze politiche del s. nel secondo dopoguerra si intreccia e quasi si fonde con la trasformazione dei sistemi democratici nella struttura del welfare state. Lo Stato sociale non fu invero una invenzione socialista: fu piuttosto la risposta in senso compatibile ad alcuni principi-cardine del s. che i sistemi a capitalismo maturo fornivano alle tensioni e alle sfide cui erano sottoposti i propri equilibri sociali ed economici dai processi di produzione e redistribuzione del reddito. Non a caso il prototipo moderno dello Stato sociale si realizzò, dopo la crisi del 1929, negli Stati Uniti con l’esperimento del New deal rooseveltiano e, nel secondo dopoguerra, con l’impostazione teorica e legislativa data al problema dei rapporti fra Stato e mercato da W.H. Beveridge in Gran Bretagna, sotto l’influenza della macroeconomia di J.M. Keynes, e in particolare dei suoi enunciati teorici relativi all’espansione dell’offerta pubblica e delle politiche di spesa finanziate attraverso il bilancio statale e la contribuzione fiscale. In sostanza, il modello del welfare state scaturiva da un compromesso politico fra i principi del mercato e le esigenze di giustizia sociale avanzate dal movimento operaio.
Così, dopo quello con la democrazia, l’incontro fra s. e liberalismo, che nel 19° sec. sembrava impossibile, riscattò del tutto la gran parte dei partiti socialisti europei dalla matrice dell’ortodossia marxista e dell’ideologia rivoluzionaria per adattarli a un ruolo di pragmatismo politico. In altri termini, lo Stato sociale poteva essere visto come una vera e propria rivoluzione culturale, ovvero l’esito, fra l’altro, di un profondo cambiamento degli atteggiamenti e degli orientamenti etico-politici di un largo settore di opinione pubblica socialista, che mirava a obiettivi di socializzazione del mercato attraverso la programmazione economica, sostenendo nel contempo la istituzionalizzazione delle forme di economia mista, diffuse ormai in quasi tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale.
È in questo contesto che i partiti socialisti, diventati a tutti gli effetti – compresi quelli della legittimazione e dell’accettazione delle regole della democrazia politica ed economica – partiti socialdemocratici, assunsero responsabilità di governo, rompendo definitivamente i legami con le forze, per lo più minoritarie, del s. (e comunismo) rivoluzionario. Sono emblematici, in questo senso, alcuni episodi maturati durante gli anni 1950: la rottura del patto fra Partito socialista italiano e Partito comunista italiano dopo i fatti di Ungheria del 1956, la svolta di Bad Godes;berg attuata nella Germania Federale dall’SPD di W. Brandt, l’allontanamento dei socialisti francesi dall’orbita di influenza del Partito comunista. Senza contare la collaudata lealtà democratica del Partito laburista in Gran Bretagna e delle socialdemocrazie scandinave e dell’Europa continentale, ormai da tempo, a pieno titolo, forze della sinistra governativa nei rispettivi paesi.
Naturalmente, sul piano delle idee e delle analisi teoriche, non c’è pieno accordo sulle valutazioni del welfare state e sulla stessa praticabilità storica del s. democratico e liberale. A fronte di coloro che hanno sostenuto e in qualche modo teorizzato questo modello, si contrappongono, da un lato, alcune posizioni di sinistra rivoluzionaria, per cui le politiche di welfare non sono che una razionalizzazione del sistema capitalistico in crisi e un modo mascherato per consolidare il dominio della borghesia e, dall’altro, quelle radicalmente liberiste, secondo le quali lo Stato assistenziale corrode alle radici le strutture e i valori della ‘società aperta’, perché esalta la tendenza alla burocratizzazione e al collettivismo che sono i prodromi del totalitarismo, vizio congenito e inestirpabile di qualsiasi ‘illusione’ socialista.
D’altra parte, quando, a partire dalla crisi mondiale dell’economia negli anni 1970, si ruppe il nesso fra benessere e sviluppo, fra accumulazione capitalistica ed equità sociale, che era stato alla base del modello di welfare state; quando la struttura della società impostata sulla tradizionale divisione in classi cominciò a sgretolarsi; quando, alla fine degli anni 1980, crollò anche l’ultimo baluardo di potenza socialista nell’Unione Sovietica e negli Stati satelliti dell’Europa orientale, anche il s. come programma politico e come progetto di società alternativa iniziò a perdere credibilità e consenso fra le masse. Ma può pure darsi, come sostiene M. Duverger, che il s., dopo aver provato a entrarci, uscirà di nuovo dal seno del capitalismo attraverso un processo storico lungo e faticoso per promuovere nuove imprese rivoluzionarie. Come può darsi, secondo quanto afferma N. Bobbio, che il suo destino sia ancora tutto da giocarsi nella prospettiva di una meta, quella del contemperamento fra i principi di libertà e di uguaglianza, tutt’altro che conseguita nella storia dell’umanità.
La formazione di un partito socialista inteso quale espressione politica del proletariato risale in Italia al 1892, con la nascita, a Genova, del Partito dei lavoratori italiani. Federazione di organizzazioni operaie, il nuovo partito adottò una piattaforma programmatica di ispirazione marxista e teorizzò la necessità della lotta politica per la conquista dei pubblici poteri, distaccandosi definitivamente dalla dottrina sociale mazziniana e dalle posizioni anarchiche e operaiste. Divenuto nel 1893 Partito socialista dei lavoratori italiani, nel 1895 assunse il nome di Partito socialista italiano (PSI). In questi anni a guidare il partito fu la maggioranza riformista, che aveva in F. Turati il suo principale esponente; convinti della possibilità di una instaurazione pacifica e graduale del s., nel quadro di un generale progresso economico, i riformisti sostennero la svolta liberale di G. Giolitti e privilegiarono l’attività parlamentare, volta al conseguimento di una legislazione sociale più avanzata. L’egemonia riformista fu contrastata dai sindacalisti rivoluzionari, facenti capo ad A. Labriola ed E. Leone, che esaltavano l’azione diretta del proletariato e respingevano ogni forma di collaborazione con la borghesia. Impostisi al congresso di Bologna del 1904, i sindacalisti rivoluzionari diressero, nello stesso anno, il primo sciopero generale nazionale, ma negli anni successivi subirono un progressivo declino, fino alla loro uscita dal partito nel 1907. La maggioranza riformista entrò in crisi con l’impresa libica (1911): alla linea di Turati, contrario alla guerra, si oppose la componente di destra facente capo a I. Bonomi e L. Bissolati, sostenitrice dell’intervento. Nel congresso di Reggio nell’Emilia (1912), che vide la vittoria della sinistra intransigente rivoluzionaria e l’ascesa di B. Mussolini, questo gruppo fu espulso dal partito. Scoppiata la Prima guerra mondiale, il PSI cercò di rimanere fedele alla propria tradizione pacifista e internazionalista.
Le tensioni sociali del dopoguerra favorirono la crescita del PSI, che nel 1919 triplicò la propria rappresentanza parlamentare; nello stesso anno, al congresso di Bologna, si affermò una maggioranza ‘massimalista’, guidata da G.M. Serrati, sostenitrice della conquista rivoluzionaria del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato. Tale maggioranza entrò in crisi in seguito ai contrasti emersi a proposito dell’occupazione delle fabbriche (1920) e dei rapporti con la Terza Internazionale, cui il PSI aveva aderito. Nel congresso di Livorno del gennaio 1921 il gruppo dirigente respinse le condizioni poste da Mosca, rifiutando di cambiare la denominazione del partito in comunista e di allontanare i riformisti; in seguito a ciò, la corrente facente capo ad A. Bordiga e il gruppo dell’Ordine nuovo di A. Gramsci abbandonarono il PSI e fondarono il Partito comunista d’Italia. L’anno successivo, la componente riformista, favorevole alla collaborazione con i governi borghesi, diede vita al Partito socialista unitario (PSU), guidato da G. Matteotti.
Il clima repressivo instaurato dal fascismo ridusse drasticamente i margini di azione politica del PSI, che dopo aver partecipato alla secessione aventiniana fu sciolto (1926). Trasferita la propria organizzazione in Francia, il PSI nel 1930 si riunificò con i riformisti del PSU (che dal 1926 aveva assunto il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani); nel 1934, infine, fu siglato un patto d’unità d’azione con i comunisti volto a combattere il fascismo. Ricostituito in Italia nel 1942 a opera di O. Lizzadri e G. Romita, il PSI assunse l’anno successivo il nome di Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), in seguito alla confluenza in esso del Movimento di unità proletaria, fondato nello stesso anno da L. Basso. Nel 1943 era sorto anche, per iniziativa di M. Ruini e M. Cevolotto, il Partito democratico del lavoro, di ispirazione riformista, che rimase in vita fino al 1947.
Caduto il fascismo, i socialisti fecero parte, con l’eccezione del secondo governo Bonomi (1944-45), dei governi di unità nazionale che avviarono la ricostruzione del paese. Negli anni successivi la rottura del fronte internazionale antifascista e l’inizio della guerra fredda suscitarono nuovi contrasti interni, in particolare a proposito dei rapporti con il PCI. Alla componente di sinistra, favorevole a una stretta unità d’azione con i comunisti e a una accentuazione della connotazione classista del partito, si contrappose l’ala guidata da G. Saragat, che nel 1947 diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani. Nello stesso anno il PSIUP riprese la denominazione di PSI e accolse al suo interno la maggioranza del Partito d’azione; nel 1949 un altro gruppo uscì dal PSI dando vita al Partito socialista unificato, che nel 1951 si fuse con il Partito socialista dei lavoratori italiani nel Partito socialista democratico italiano (PSDI). Il PSI rimase all’opposizione sino alla fine degli anni 1950.
La denuncia dello stalinismo operata dal XX congresso del PCUS e l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) portarono alla rottura del patto di unità d’azione fra PSI e PCI e a un riavvicinamento delle diverse componenti del s. italiano. Nel 1963 i socialisti entrarono a far parte del gabinetto presieduto da A. Moro, inaugurando la stagione del centrosinistra. Dopo la scissione della sinistra del PSI, che nel 1964 diede vita al Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), il processo di avvicinamento tra PSI e PSDI culminò nel 1966 nella nascita del Partito socialista unificato, che però ebbe vita breve, in quanto nel 1969 si ricostituirono le due formazioni originarie. Il PSIUP, dopo un iniziale successo elettorale, perse progressivamente consensi e nel 1972 si sciolse.
Nella nuova situazione determinata dalla crescita della conflittualità sociale e dalla progressiva crisi del centrosinistra, la politica del PSI registrò un cauto spostamento a sinistra e un riavvicinamento al PCI. Gli insoddisfacenti risultati elettorali conseguiti nel 1972 e nel 1976, la crescente polarizzazione del sistema politico italiano fra DC e PCI, la linea del ‘compromesso storico’ perseguita da quest’ultimo, favorirono l’emergere di una nuova leadership facente capo a B. Craxi (segretario del PSI dal 1976). Negli anni successivi il PSI avviò una politica volta a riequilibrare i rapporti di forza con il PCI, ad affermare la propria autonomia (accentuando, anche sul piano ideologico, il distacco dalla tradizione marxista) e ad accrescere il proprio ruolo, esercitando un potere condizionante sulla formazione delle maggioranze di governo. Nel 1983 Craxi formò il primo esecutivo a presidenza socialista, mantenendo la carica di primo ministro fino al 1987. Sul piano elettorale il PSI vide un incremento dei consensi, mentre all’aumento del suo peso politico si accompagnava un crescente coinvolgimento nei processi degenerativi del sistema dei partiti che si sviluppavano in quegli anni. Tale coinvolgimento contribuì in modo rilevante alla crisi verificatasi nei primi anni 1990: l’implicazione del gruppo dirigente socialista negli scandali di tangentopoli portò nel 1993 alle dimissioni di Craxi, mentre il PSI subiva un rapido declino. Dopo la scissione di un gruppo facente capo a V. Spini, che fondò la Federazione laburista, nel 1994 il congresso di Roma stabilì di sciogliere il PSI. La diaspora dei suoi membri ha dato luogo negli anni successivi a numerose formazioni.
Anche il PSDI, rimasto costantemente nell’area di governo, negli anni 1990 fu coinvolto nella crisi legata a tangentopoli, subendo un progressivo declino. Confluito (1998) nel partito dei Socialisti democratici italiani, nel 2004 si è ricostituito come PSDI, con G. Carta come segretario (al quale è succeduto nel 2007 M. Magistro). Nelle elezioni politiche del 2006 il PSDI si è schierato con il centro-sinistra, mentre in quelle del 2008, assieme all'UDC e alla Rosa per l'Italia, ha aderito alla Costituente di centro.
S. della cattedra Espressione polemica, formulata dal liberista tedesco H.B. Oppenheim nel libro Der Kathedersozialismus (1872), rivolta a definire quel gruppo di professori e di studiosi, che, fino all’inizio del 20° sec., svolsero in Germania una polemica dottrinaria contro il liberalismo e le dure conseguenze etico-sociali di esso, ponendo tra i doveri propri dello Stato moderno l’attuazione di una politica sociale a favore dei ceti meno abbienti. Nonostante il suo significato soprattutto teorico, il s. della cattedra, attraverso il Verein für Sozialpolitik (1872), contribuì allo sviluppo della legislazione sociale in Germania. Fra i suoi rappresentanti più in vista G. von Schmoller, A.H.G. Wagner, L.J. Brentano, K. Bücher, H. Herkner.