Dottrina che, sulla base delle formulazioni teoriche di K. Marx e F. Engels, propugna un sistema sociale nel quale sia i mezzi di produzione sia i mezzi di consumo sono sottratti alla proprietà privata e trasformati in proprietà comune, e la gestione e distribuzione di essi viene esercitata collettivamente dall’intera società nell’interesse e con la piena partecipazione di tutti i suoi membri.
Il mito di un’originaria comunità dei beni, variamente svolto nell’ambito di dottrine religiose, utopistiche, giusnaturalistiche dell’antichità e dell’età moderna, si è trasformato nel 19° sec. a opera degli etnologi evoluzionisti in un’ipotesi scientifica, il cosiddetto c. primitivo. Sulla base di ricerche etnografiche e storiche non è tuttavia possibile dimostrare l’esistenza di società in cui ognuno possiede gli stessi diritti su ogni cosa. Nella cerchia delle antiche civiltà mediterranee, il c. appare limitato nell’applicazione a particolari esigenze religiose, sociali o militari (sissizi o fidizi di Creta, Sparta, Cartagine), o sussiste, anche in epoca tarda come proprietà agricola comune (ager publicus, almenda, township ecc.). Di un c. in atto negli istituti della polis greca o degli Stati della Magna Grecia governati dai Pitagorici non è possibile parlare, nonostante l’elaborazione nel campo dottrinale di programmi comunistici.
Accanto ai motivi politico-sociali, esigenze prevalentemente religiose e ispirate a un ideale di distacco dai beni terreni si fanno valere dapprima nelle comunità pitagoriche, più tardi in quelle ascetiche palestinesi degli Esseni, dove si può parlare di un c. religioso. La speranza escatologica e la legge di carità cristiana concorrono a produrre la comunione dei beni in atto nella Chiesa del periodo apostolico. Anche nel Medioevo non sono poche le sette che precisano la loro esigenza sociale nella rivendicazione, attraverso lotte anche violente, di una proprietà che deve essere comune anziché a beneficio di una casta privilegiata. Più tardi chiaro significato sociale assumono i movimenti di rinascita religiosa in Inghilterra con Wycliffe, in Boemia con Hus e i Taboriti (14° sec.), in Germania con lo Schuhbund (1431): finché la guerra dei contadini (1524-25) vede vaste masse impegnate a lungo in una lotta per i vasti interessi politico-economici in gioco, nelle campagne di Germania, Svizzera, Austria e Trentino. Significativo a questo proposito il moto anabattista. Discusso invece il carattere comunistico delle colonie dei gesuiti del Paraguay. Nel 18°-19° sec. le comunità dei Rappisti, degli Shakers e altre, fondate in America Settentrionale dai nuclei dei Pietisti tedeschi e dei Quaccheri inglesi ivi emigrati, mostrano il carattere extrastorico di quel c. da esse professato come rifugio dal tumulto degli interessi concreti del mondo capitalistico.
C. utopistico e c. rivoluzionario fino al 1848. Su un piano astrattamente dottrinale sono da porsi quelle opere che, pur partendo da una polemica osservazione della realtà politico-sociale contemporanea, si traducono però, nella loro parte costruttiva, in fantasie letterarie o millenaristiche. Così Tommaso Moro nell’Utopia (1516) individua, per la risoluzione del problema sociale, il principio etico ispiratore nella dignità e nel dovere del lavoro per tutti: e tale principio torna in numerose opere, dai Mondi celesti del Doni (1552-53) alla Città del sole di T. Campanella, all’Histoire des Sevarambes di D. Vairasse (1677), alle Îles flottantes di E.G. Morelly ecc.
L’istanza critica si precisa invece, nell’età dell’Illuminismo, con la denuncia della proprietà privata della terra come usurpazione violenta ai danni della naturale uguaglianza, libertà e bontà dell’uomo da parte di J.-J.Rousseau e con le discussioni etico-giuridiche sugli stessi temi dell’uguaglianza e della proprietà svolte nelle opere di G.-B. de Mably, S.-N.-H. Linguet e Morelly. La rivendicazione del diritto al lavoro dedotta dall’equazione proprietà privata-usurpazione viene ripresa dalla Rivoluzione francese e inclusa dalla Convenzione nella Dichiarazione dei diritti del 1793. Nel Manifeste des plèbéiens (1795) e nella Congiura degli Eguali promossa da F.-N. Babeuf, si ritrovano quelle più radicali esigenze di redistribuzione della ricchezza, attraverso la lotta politica del popolo sotto la guida di una minoranza illuminata. Esigenze che dopo il fallimento della congiura saranno riprese dalle numerose società segrete che l’attività di F. Buonarroti creerà in tutta Europa. Notevole pure l’influenza che in questo periodo esercitano le formulazioni del socialismo utopistico di C.-H. Saint-Simon, di C. Fourier e di R. Owen i quali, con la critica di taluni aspetti della società capitalistica favoriscono il formarsi di tendenze più radicali. Così la crescente coscienza di classe portò in primo piano il tema della conquista del potere politico quale strumento per la realizzazione delle esigenze della classe lavoratrice. Conclusioni comunistiche affermano però decisamente solo C. Pecqueur ed E. Cabet.
Durante gli anni che precedono la crisi del 1848, si svilupparono, in Francia, Svizzera, Belgio, Inghilterra, vari centri di origine babuvista, in col;legamento con altri gruppi ispirati da capi rivoluzionari come L.-A. Blanqui e A. Barbès. Tra questi un rilievo particolare assunse la Lega dei giusti, fondata da profughi tedeschi e poi trasferitasi a Londra, dove, nel congresso del 1847, sotto l’influenza di Marx ed Engels, cambiò il suo nome in Lega dei comunisti. Gli stessi Marx ed Engels furono incaricati di redigere il documento programmatico del nuovo movimento, che fu pubblicato l’anno successivo (Manifesto del partito comunista). La scelta del termine ‘comunista’, oltre a indicare lo stadio finale della società cui punta il movimento rivoluzionario, voleva anche sottolineare la rottura con le correnti socialiste del tempo, in nome di una concezione politica fondata su un’organizzazione militante e rivoluzionaria.
Questo nuovo metodo di lotta politica cui è chiamato il proletariato rivoluzionario trova la sua giustificazione storica nell’analisi che Marx ed Engels compiono della nuova situazione sociale connessa al modo di produzione capitalistico. Al centro della loro analisi è il ruolo della borghesia. Attraverso un sistema produttivo che il meccanismo della concorrenza costringe a espandersi e a rinnovarsi continuamente, il capitalismo rivoluziona la produzione, incrementandola quantitativamente e qualitativamente, e occupando sempre nuovi mercati, anche in paesi precedentemente lontani dal progresso storico. Per fare ciò, il capitalismo deve trasformare ogni società a sua immagine con uno sfruttamento crescente del proletariato, fondato sul concetto del plusvalore (➔), ovverosia sull’idea, in termini semplificati, che una quota di lavoro sia prestata ma non retribuita. In questa ottica, il meccanismo della concorrenza obbliga a contenere al massimo i salari e dunque le condizioni di vita del proletariato sono ridotte al minimo vitale. Le crisi economiche capitalistiche sono il segno tangibile delle difficoltà del sistema a espandersi ulteriormente: in esse esplode la contraddizione tra la sovrapproduzione capitalistica e la povertà del proletariato. In questo modo, il sistema di produzione capitalistico ha dato origine a livello mondiale alla classe sociale del proletariato (➔), chiamata a rovesciare il sistema stesso in nome della stragrande maggioranza della popolazione e a ridistribuire la ricchezza prodotta. Nell’analisi di Marx ed Engels questo processo assume un carattere di necessità oggettiva e non può avvenire che al culmine della parabola ascendente dello sviluppo capitalistico. La ‘dittatura del proletariato’ avrà solo il compito di distruggere l’apparato dello Stato, espressione del potere della borghesia.
Questo schema, che trovò poi nelle opere successive al Manifesto numerose varianti e integrazioni, già conteneva tutti i nodi delle polemiche successive tra gli epigoni: in primo luogo il rapporto tra sviluppo oggettivo delle crisi capitalistiche (crollo) e azione soggettiva del movimento rivoluzionario; in secondo luogo il rapporto tra dittatura rivoluzionaria e democrazia diretta esercitata dall’intera società.
Il progressivo declino delle problematiche del c. nella seconda metà del 19° sec. si lega all’incessante sviluppo delle organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio nei principali paesi dell’Europa occidentale, cui si accompagnarono un allargamento della loro partecipazione alla vita politica e un netto miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Queste mutate condizioni trovarono la loro espressione nella Seconda internazionale, e in particolare nel partito socialdemocratico tedesco. Allargamento del suffragio politico e miglioramenti economici rappresentavano ormai la strada maestra dei nuovi partiti socialisti. Secondo E. Bernstein la democrazia politica costituiva il quadro in cui si sviluppano le conquiste del proletariato. ‘Crollo del capitalismo’ e ‘dittatura del proletariato’ erano quindi giudicate parole d’ordine del passato. Una linea più vicina al pensiero di Marx si sviluppa nell’analisi di K. Kautsky, che vede nello sviluppo del capitalismo e della democrazia la strada obbligata per la lotta della classe operaia, pur tenendo ferma la meta della società socialista e comunista.
La polemica contro la versione di Bernstein (poi anche di Kautsky) del marxismo, che portava al rifiuto del metodo rivoluzionario e, di fatto, anche del fine comunista, trovò un terreno particolarmente fertile in Russia, dove l’arretratezza politica e sociale rendeva lontana e inaccettabile la prospettiva riformista. La situazione russa era bene espressa dal movimento populista, formato da intellettuali rivoluzionari, non alieni dal terrorismo, che vedevano nell’arretratezza russa e nelle sue sopravvivenze di comunità agricole tradizionali le premesse per una rivoluzione sociale attuata evitando il passaggio attraverso la fase storica del capitalismo.
Il rifiuto di una legge universale e uniforme della evoluzione sociale costituisce uno degli elementi caratteristici delle posizioni politiche del leader socialista rivoluzionario russo V.I. Lenin. In polemica con le altre componenti della socialdemocrazia russa, egli affermava che la coscienza di classe non si sviluppa spontaneamente tra gli operai, ma dall’esterno, a opera del partito rivoluzionario: un’avanguardia di militanti di professione capace di alternare propaganda legale e illegale, partecipazione alla vita parlamentare e lotta rivoluzionaria, per impadronirsi del potere, instaurare la dittatura del proletariato e avviare la trasformazione della società. Il partito di Lenin, i bolscevichi, erano appunto l’espressione di questa concezione politica.
Fino alla Prima guerra mondiale non furono chiare le differenze tra le concezioni di Lenin e quelle del socialismo europeo. Con lo scoppio del conflitto, invece, i contrasti esplosero. I bolscevichi e altre minoranze socialiste, nei diversi paesi, rifiutarono l’appoggio ai rispettivi governi nello scontro militare in atto. Lenin teorizzò allora che il capitalismo poteva sopravvivere solo attraverso gli imperi coloniali e che lo scontro in atto rifletteva la lotta per il controllo mondiale. A tale scontro il proletariato doveva rispondere con la lotta rivoluzionaria.
All’indomani della rivoluzione russa dell’ottobre 1917, la prospettiva della rivoluzione mondiale e la gravissima situazione in cui si trovava allora lo Stato sovietico determinarono la decisione dei dirigenti bolscevichi di potenziare e organizzare l’adesione suscitata dalla rivoluzione. D’altronde, la rivoluzione d’Ottobre era stata interpretata da gran parte del proletariato europeo come l’inizio della rivoluzione mondiale e i moti popolari del dopoguerra (1919-20) in Ungheria, in Italia, in Germania e in altri paesi furono le condizioni preliminari per la nascita dei partiti comunisti. Nel marzo 1919 veniva così fondata a Mosca la Terza Internazionale (Internazionale Comunista o Komintern), come partito rivoluzionario mondiale (➔ Internazionale). Tra il 1919 e il 1921 si costituirono partiti comunisti in tutti i paesi d’Europa, ma anche in Asia, in America e in Australia, organizzazioni talora ristrette a gruppi di intellettuali, ma più spesso rappresentanti di settori consistenti del proletariato e degli strati popolari. L’Internazionale dai primi anni 1920 fino al 1943 fu il centro propulsore dell’intero movimento comunista mondiale.
Nessuno dei moti rivoluzionari del dopoguerra ebbe esito positivo e con la crisi del movimento rivoluzionario si interruppe anche l’espansione del movimento comunista. I nuovi partiti, soprattutto in Europa, presero comunque a esercitare un ruolo talora rilevante come in Germania e in Francia. Dopo la morte di Lenin (gennaio 1924) lo scontro tra J. Stalin e L. Trockij si riflesse pesantemente sul movimento comunista internazionale: la vittoria di Stalin fece prevalere l’orientamento alla bolscevizzazione; l’espulsione di Trockij dal partito (1927) e dall’URSS (1929) fu invece all’origine, nell’area comunista mondiale, del più importante dei movimenti politici antistalinisti. Si manifestava intanto fin dal 1923 un rinnovato interesse dell’Internazionale per i movimenti contadini e per le realtà extra-europee, ciò che diede impulso al formarsi di nuovi partiti comunisti in Asia e America Latina. Rilevanti le vicende dei comunisti cinesi che, rotta nel 1927 l’alleanza con il partito nazionalista (Guomindang), facendo leva proprio sui contadini poveri (secondo la strategia elaborata da Mao Zedong), contesero aspramente, regione per regione, al Guomindang la guida della politica cinese, concludendo con esso un provvisorio patto di alleanza (1937) in funzione dell’unità antigiapponese.
Nella seconda metà degli anni 1920 l’Internazionale rilanciò (1928) la lotta contro il socialismo riformista (ridefinito ‘socialfascismo’), mentre, a partire dal 1934, si ebbe in URSS un’accentuazione dell’autoritarismo del partito e quindi anche del carattere di monolitismo e di dipendenza da Mosca di tutto il movimento comunista. La crisi generale dell’Occidente non solo non ebbe sbocchi rivoluzionari, ma portò i nazisti al potere in Germania (1933): di qui la linea adottata dall’Internazionale (agosto 1935), che favorì la formazione di governi di sinistra in Francia e Spagna. La situazione mondiale creatasi con la guerra civile spagnola, il patto anti-Komintern tra Germania, Giappone e Italia (1936-37), le mire tedesche in Europa, orientarono il movimento comunista sempre più in direzione antifascista. Lo schieramento creatosi nel 1941 di USA, URSS e Gran Bretagna contro Germania, Italia e Giappone, abilitava i comunisti a muoversi in una vasta alleanza politico-militare antifascista e permise loro di dare un contributo decisivo alla liberazione dell’Europa, anche se nel 1943, per motivi funzionali alla politica di alleanze dell’URSS, veniva sciolta l’Internazionale.
Gli accordi che già prima della sconfitta dell’Asse avevano delimitato le zone d’influenza delle potenze vincitrici, trovarono rapida applicazione alla fine del conflitto, pur con delle forzature da parte dei sovietici; già occupate Polonia, Romania e Bulgaria durante l’avanzata verso Berlino, vennero lì costituiti governi di democrazia popolare che importavano di fatto il sistema economico-sociale dell’URSS. Analoghi processi intervennero nella Germania orientale (1945) e in Ungheria e Cecoslovacchia (1948), mentre in Iugoslavia e in Albania i partiti comunisti, guidati rispettivamente da J. Tito e E. Hoxha, giunsero al potere per il ruolo da essi sostenuto nella Resistenza; infine nel 1949 i comunisti cinesi vincevano finalmente la battaglia con il Guomindang e proclamavano la Repubblica Popolare di Cina.
Nel dopoguerra, dunque, un blocco di paesi socialisti si affiancava all’URSS. Il momento di massimo sviluppo del movimento comunista segnò peraltro l’inizio dei contrasti interni. Dopo la morte di Stalin (marzo 1953), la ricerca di un nuovo sistema di rapporti tra paesi socialisti e fra questi e l’Occidente, la necessità di rivalutare i consumi, le aperture politiche ed economiche verso il Terzo Mondo, trovarono una prima formulazione nella relazione di N. Chruščëv al XX congresso del partito comunista dell’URSS (1956). I segnali politici furono però contradditori: se la crisi polacca fu superata con l’avvento in funzione antistalinista di W. Gomulka, la sollevazione ungherese fu soffocata sanguinosamente da parte delle truppe sovietiche. Nel 1955 con il patto di Varsavia era intanto stata costituita l’alleanza militare tra URSS, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Albania e Romania. Era ormai evidente la crisi del monolitismo staliniano, e la nascita del cosiddetto ‘policentrismo’, posizione con cui si teorizzava la fine di un centro unico della rivoluzione comunista mondiale e l’esistenza di una pluralità di linee politiche espressioni delle diverse realtà nazionali.
Se la politica estera sovietica del periodo di L. Brežnev (che aveva sostituito Chruščëv nel 1964) aveva riportato alcuni successi, di diverso segno apparivano le vicende del movimento comunista in Europa dalla fine degli anni 1950, all’Est come all’Ovest alle prese con il problema di ripensare la tradizione e l’esperienza rivoluzionaria. Cessata la ‘guerra fredda’ e avviatosi un processo di distensione internazionale, il modello sovietico, con le sue caratteristiche di autoritarismo e stagnazione economica, appariva incapace di suscitare speranze rivoluzionarie o ragionevole fiducia in un avvenire di progresso e libertà. Esemplare di questa fase la scelta dei comunisti cecoslovacchi che, guidati da A. Dubcek, inaugurarono nel 1968 un nuovo corso politico aperto a esigenze di democrazia e consenso popolare. L’intervento militare del patto di Varsavia, che nell’agosto 1968 pose fine alla ‘primavera di Praga’, da una parte scoraggiò le spinte riformatrici negli altri paesi socialisti, dall’altra spinse i partiti comunisti occidentali, in specie l’italiano, a differenziare le proprie posizioni da quelle dei sovietici.
Gli anni 1970 e 1980 fecero registrare importanti novità in Cina: alla morte di Mao (1976), il nuovo gruppo dirigente guidato da Deng Xiaoping liquidò l’eredità ideologica del periodo maoista e orientò la politica interna verso il conseguimento di importanti risultati economici.
Nell’URSS le spinte al rinnovamento determinarono l’ascesa alla segreteria del partito di M. Gorbačëv (1985), che subito impostava una politica tendente a invertire la pericolosa e costosa corsa agli armamenti nucleari con gli USA, compiva il disimpegno militare in Afghānistān e, all’interno, affermava la riformabilità dell’organizzazione sociale a partire dalle esigenze di sviluppo economico e di partecipazione, aprendo altresì, per la prima volta nell’URSS, la possibilità di una riconsiderazione complessiva della propria storia. Questo processo riattivava sensibilmente il dialogo politico, culturale ed economico con i paesi occidentali e si estendeva rapidamente agli altri paesi dell’Est europeo, determinando vistose crisi politiche che venivano a maturazione a partire dal 1989: in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Bulgaria, Romania, Albania e Iugoslavia cadevano in modo più o meno traumatico i regimi comunisti, mentre mutamenti costituzionali e nuove consultazioni elettorali sancivano l’affermazione del pluripartitismo. Nel 1991 la crisi del potere comunista in URSS determinava la disgregazione dello stesso Stato sovietico, che comportava una fondamentale modifica dell’assetto politico mondiale.
Pur sancita la fine dell’internazionalismo comunista, e fra i vari dibattiti sul bilancio storico di un’esperienza, va comunque rilevata la permanenza di partiti comunisti al potere in alcuni paesi, come Cina, Corea del Nord, Cuba, Vietnam e la presenza di movimenti e partiti di tradizione o ispirazione comunisti in molte regioni del pianeta.
Il 21 gennaio 1921, a Livorno, dalla corrente di sinistra del Partito socialista italiano nacque il Partito comunista d’Italia - Sezione italiana dell’Internazionale comunista ( PCd’I), che avrebbe mantenuto tale denominazione fino al giugno 1943 (scioglimento dell’Internazionale) quando prese il nuovo nome di Partito Comunista Italiano ( PCI).
Fondato dagli esponenti della corrente astensionista di A. Bordiga e dal gruppo torinese dell’Ordine nuovo, periodico diretto da A. Gramsci, il PCd’I fu costituito in polemica con la politica socialista e allo scopo di organizzare e dirigere lo sbocco rivoluzionario della crisi italiana. I primi anni furono caratterizzati da un lato dalla sconfitta del movimento operaio e dalla reazione statuale e fascista, dall’altro dal rapido spostarsi del gruppo dirigente sulle posizioni dell’ala sinistra dell’Internazionale. Ciò determinò il diversificarsi delle posizioni all’interno del partito e la decisione dell’Internazionale (giugno 1923) di sostituire la direzione bordighiana con un esecutivo che includesse l’opposizione di destra. Protagonista della bolscevizzazione fu Gramsci che diede avvio a un nuovo corso perseguendo il consolidamento della presenza del partito nella società. Con la promulgazione delle ‘leggi speciali’ e l’arresto di Gramsci (novembre 1926), il PCd’I entrò nella fase di azione clandestina. Nel 1927 la direzione venne di fatto trasferita a Mosca e, a contatto con la complessa situazione dell’Internazionale e del Partito comunista dell’URSS, emerse il nuovo gruppo dirigente attorno a P. Togliatti.
In condizioni completamente nuove il PCI tornò sulla scena politica nazionale nel 1943. Acquisì un ruolo dirigente nella lotta armata contro i nazifascisti e un posto di rilievo nel Comitato di liberazione nazionale. Ma la ridefinizione della linea del partito ebbe luogo a partire dal ritorno di Togliatti in Italia (marzo 1944). La sua idea guida era che la trasformazione socialista dell’Italia non dovesse avvenire per via rivoluzionaria bensì attraverso la progressiva ascesa delle masse popolari al governo della cosa pubblica. Escluso dal governo (maggio 1947), il PCI venne a costituire da allora la maggiore forza politica di opposizione, impegnata nel primo dopoguerra in un duro confronto su temi di politica sia interna sia internazionale. Momenti particolarmente aspri furono le manifestazioni che seguirono l’attentato a Togliatti (luglio 1948) e la campagna elettorale per le politiche del 1953. In questo periodo si delineò anche lo scontro interno che avviò il ricambio generazionale alla guida del partito. Nell’VIII congresso (dicembre 1956) il partito fece propri i temi della coesistenza pacifica e iniziò a prendere le distanze dall’unitarismo di stampo sovietico prevalente nel movimento c. mondiale. Alla morte di Togliatti (agosto 1964) venne eletto alla segreteria L. Longo.
Nei primi anni 1970 si delinearono nuove aspettative verso la politica del PCI, alle quali il nuovo segretario E. Berlinguer rispose nel 1973 con il compromesso (➔) storico. La delicata fase di ‘solidarietà nazionale’ ebbe termine nel marzo 1979 con la decisione comunista di uscire da una maggioranza giudicata non positiva, mentre iniziavano da un lato un trend elettorale negativo e dall’altro la ricerca di una strategia di ‘alternativa democratica’. Il relativo isolamento del PCI fu confermato dal risultato elettorale del 1983. Durante la campagna per le elezioni europee del 1984, Berlinguer morì. Gli subentrò nella carica di segretario generale A. Natta, seguito nel 1988 da A. Occhetto con il quale il PCI accentuò la ricerca e l’impegno sulle riforme istituzionali.
Nel febbraio 1991 il PCI, nel quadro del riassetto globale dei partiti comunisti determinato dalla dissoluzione dell’URSS, si sciolse e il XX congresso diede vita al Partito Democratico della Sinistra (PDS); contrari all’iniziativa si dichiararono i militanti dell’ala sinistra che avviarono la costituzione del Partito della Rifondazione Comunista (PRS). In seguito a una divisione interna, guidata da A. Cossutta, da questo si scisse nel 1998 il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), di cui è segretario dall’aprile 2000 O. Diliberto, fautore, dopo la sconfitta elettorale del 2006 e l'esclusione delle sinistre radicali dal governo per aver mancato la soglia di sbarramento, di una riunificazione tra i due maggiori partiti comunisti (Comunisti Italiani e Rifondazione). Il 14 ottobre 2007 nasceva il Partito democratico (PD), di centro-sinistra, coalizione di forze riformiste che vuole essere una sintesi delle tradizioni socialista-socialdemocratica, cattolico-democratica e liberal-democratica: in questo, l'erede de L'Ulivo, al governo negli anni 1996-2001 e 2006-2008.