Stato dell’Europa meridionale, corrispondente a una delle regioni naturali europee meglio individuate, data la nettezza dei confini marittimi e di quello terrestre: la catena alpina, con la quale si collega all’Europa centrale (da O a E: Francia, Svizzera, Austria, Slovenia). Come regione naturale, tra lo spartiacque alpino e i tre mari (Adriatico, Ionio e Ligure-Tirreno) che la cingono, l’I. (con le isole giacenti sulla sua piattaforma continentale) ha una superficie di poco più di 300.000 km2. Alcune regioni continentali (Canton Ticino, Istria), insulari (Corsica) e due Stati autonomi (San Marino e Città del Vaticano) inclusi in questi limiti non fanno parte dello Stato italiano.
Il nome latino Italia è di origine osca (Viteliu). Gli antichi lo derivavano da quello di un principe enotrio, Italo, o lo mettevano in relazione con il lat. vitulus «vitello». Secondo studiosi moderni, Italia significherebbe «terra degli Itali» e gli Itali sarebbero stati una popolazione italica che aveva per totem il vitello. Il nome designava dapprima (Ecateo) l’estremità meridionale della Calabria; più tardi (Erodoto) si estese fino a Metaponto e Taranto; poi, nel 3° sec. a.C., alla Campania; poco dopo, a tutta la penisola a sud dei fiumi Arno ed Esino e infine alla catena alpina (Polibio e Catone). La sanzione ufficiale del nome si ebbe con Ottaviano nel 42 a.C.; l’unione amministrativa delle isole con Diocleziano (diocesi italiciana). Il significato geografico della denominazione è da allora sempre rimasto in uso, al di là delle vicende storico-politiche.
La regione italiana è stata, ed è, interessata dall’interazione dei margini delle zolle europea e africana (i cui movimenti sono causa della sismicità che interessa l’80% della superficie). Rocce di età precambriana affiorano in settori delle Alpi e della Sardegna. Tra il Devoniano e il Carbonifero si sviluppò una fase di distensione della crosta continentale, con manifestazioni magmatiche e deposizioni in Sardegna, nelle Alpi Carniche e in Sicilia. La successiva fase di convergenza, responsabile dell’orogenesi ercinica, è osservabile in più regioni italiane. Durante il Carbonifero diffusi depositi conglomeratici e arenacei, talora con flore fossili, attestano l’esistenza di ambienti continentali in Sardegna e in taluni settori delle Alpi, mentre nell’area toscana gli ambienti sono continentali e marini, e nelle Alpi Carniche tipicamente marini. Con il Carbonifero superiore inizia una fase che genera bacini continentali in Sardegna, a La Thuile, in Liguria e nelle Alpi Meridionali. A partire dal Permiano medio, con la trasgressione da SE sull’edificio ercinico europeo, si depositano formazioni continentali sabbiose e ghiaiose cui si accompagnano fenomeni vulcanici che interessano varie aree. Nel Triassico inferiore si instaura, sulle strutture paleogeografiche del margine continentale ercinico, una serie alterna di trasgressioni e regressioni marine da SE, che poi determina domini marini di profondità assai variabili e vaste piattaforme carbonatiche; vi si accompagnano fenomeni vulcanici e attività plutonica, la cui maggiore manifestazione è rappresentata dalle monzodioriti della Val di Fassa. La fase di apertura oceanica della Tetide nel Giurassico vede l’attuale territorio italiano coperto per la maggior parte da piattaforme carbonatiche. Nel dominio oceanico si espandono colate basaltiche che saranno coinvolte nell’orogenesi alpina e costituiranno ofioliti (Alpi Occidentali, Appennino Settentrionale, Calabria). Sui margini dei blocchi continentali si depositano sedimenti marini (Alpi Occidentali, Prealpi lombarde, Toscana, Alpi Apuane). Con il movimento inverso dei margini continentali (Cretaceo inferiore), la convergenza dei due blocchi porta alla nascita dell’edificio alpino e a un’intensa attività vulcanica basaltica (Monti Lessini e Berici, Colli Euganei). Nel Paleogene si hanno diffuse sedimentazioni; intanto si va formando l’Appennino Settentrionale, costituito da diverse unità tettoniche sovrapposte con vergenza a E e NE. Durante il Neogene nella Sardegna settentrionale si sviluppa un’attività vulcanica legata a processi orogenetici; nell’area toscana si ha un’intensa attività magmatica intracrostale (Elba, Giglio e Montecristo) e vulcanica in Val di Cecina. L’area italiana è largamente occupata dai sedimenti del Miocene; tra l’Oligocene e il Miocene superiore si forma l’edificio appenninico a falde di ricoprimento. Con il Messiniano iniziano movimenti di distensione sul settore tirrenico e compressivi nel settore esterno della catena appenninica. Con il Pliocene la catena alpina può dirsi completata. Nel Miocene superiore-Pliocene si hanno manifestazioni effusive di piattaforma, che nell’Etna continuano tuttora. Durante il Pliocene la maggior parte dell’area italiana è sommersa e accoglie sedimenti, mentre i movimenti orogenetici si vanno spostando dal dominio tirrenico a quello adriatico.
Con la fine del Pliocene e l’inizio del Pleistocene l’area italiana assume la configurazione odierna: il mare si ritira dalle parti più interne della penisola. Il modellamento dovuto alle espansioni glaciali, sul versante meridionale delle Alpi (e in qualche parte dell’Appennino), produce anfiteatri morenici, circhi, valli a U, bozze, laghi di circo ecc. Alle fasi glaciali (Günz, Mindel, Riss, Würm) e interglaciali (Günz-Mindel, Mindel-Riss e Riss-Würm) corrispondono oscillazioni del livello medio del mare, con estese superfici di erosione e successioni sedimentarie. Nel Pleistocene medio vaste aree circostanti la penisola emergono, collegandosi a molte delle isole attuali, si colma la Pianura Padana, l’attività vulcanica genera le Isole Eolie, in Toscana si sviluppa l’apparato del Monte Amiata e altri punteggiano l’area tra il Lazio settentrionale e la Campania. In questo quadro si muove l’uomo, lasciando testimonianze di industria litica durante l’interglaciale Mindel-Riss (Paleolitico inferiore). Con il Paleolitico superiore compare l’Homo sapiens (Grotta di San Teodoro, a Messina, Grotta dei Fanciulli ai Balzi Rossi di Grimaldi, Grotta delle Arene Candide presso Finale Ligure).
A N delle Alpi Meridionali, le quali formano il grande arco che racchiude la Pianura Padana, rientrano in territorio italiano alcuni massicci cristallini e tratti delle più settentrionali aree pennidica e austroalpina. Qui lo spartiacque principale si è spostato dall’interno dell’edificio verso l’esterno, tramite una serie di catture dei corsi d’acqua. Contemporaneamente a questi hanno agito i fenomeni glaciali würmiani. Le linee del Canavese, Insubrica, delle Giudicarie e della Pusteria sono la transizione verso le Alpi Meridionali dove, fra Ticino e Sarca, si manifesta un ambiente alpino e subalpino a modellamento glaciale. La Val d’Adige è un solco trasversale nettamente inciso, conseguenza del gioco delle trans;fluenze dei ghiacciai pleistocenici. A E dell’Adige, nelle Prealpi Venete, si distinguono elementi glacio-carsici nelle zone sommitali, doline, conche carsiche, canyon e valli secche. A N delle Prealpi, tra l’Adige e il Piave, il peculiare paesaggio delle Dolomiti è dovuto alla diversa degradabilità delle scogliere e dei piastroni dolomitici rispetto alle fasce piroclastiche, arenacee e marnose, cui sono intercalati. Il distretto alpino italiano è concluso dalle Alpi Giulie, formate da rilievi attenuati, digradanti verso l’Adriatico, a contatto con il quale si distende il Carso triestino, dalle numerosissime doline (da 20 a 50, in media, per ogni km2).
La Pianura Padana e i sistemi collinari adiacenti ancora in epoca quaternaria costituivano un golfo marino; il colmamento si realizzò tramite gli apporti alluvionali dei fiumi e apporti glaciali e fluvioglaciali. Con i suoi 46.000 km2, la pianura è la più vasta e importante d’Italia. A occidente, il settore piemontese è inframmezzato da rilievi collinari. Il settore centrale corrisponde alle pianure lombarda ed emiliana, divise dal corso del Po e costeggiate, a N, dalle morene che bordano verso S i laghi prealpini. A queste si collega l’alta pianura, separata dalla bassa, adiacente al Po dal limite superiore delle risorgive (fontanili). La successione si ripete, semplificata e invertita, nella pianura emiliana. In tutto il bacino si è depositata una coltre di sedimenti eolici (Löss), spessa quasi 2 m nel Piacentino. Nella sezione veneta la pianura è limitata a E dall’arco costiero adriatico, che alterna lagune e formazioni deltizie in evoluzione: il delta del Po, esteso per 730 km2, a seguito di movimenti di subsidenza ancora in atto, per la maggior parte si trova sotto il livello marino (anche −3 m).
L’Appennino Settentrionale è costituito da una serie di dorsali con direzione NO-SE, disposte a scalare dal settore tirrenico a quello adriatico e caratterizzate, nelle parti sommitali, da forme dolci e poco accidentate, demolite da processi erosivi. Il reticolo idrografico è asimmetrico: il versante adriatico ha valli trasversali, quasi rettilinee, quello tirrenico è ricco di segmenti longitudinali, molti dei quali all’origine bacini lacustri (Casentino, Mugello, Valdarno, Valle Tiberina ecc.). Ben meno evidenti rispetto alle Alpi sono le tracce del glacialismo pleistocenico.
L’Appennino Centrale è il tratto più elevato della catena (2912 m s.l.m. nel Gran Sasso d’Italia), caratterizzato da grande diffusione e potenza dei calcari, e da massicci fratturati e dislocati orizzontalmente o verticalmente dai movimenti tettonici, con un’evoluzione morfologica assai diversa nelle varie parti. All’interno della catena si aprono numerose conche intermontane, di origine per lo più tettonica. Lungo la sezione laziale-abruzzese si possono distinguere quattro unità morfotettoniche: Antiappennino tirrenico; Appennino interno; Appennino esterno (Gran Sasso e Maiella); avampaese adriatico. Diffuse sono le forme carsiche: conche e piani carsici del tipo polje, doline, inghiottitoi. Il glacialismo quaternario ha lasciato la sua impronta fin dal Riss.
Nell’Appennino Meridionale le sezioni campana e lucana presentano un asse spostato sul lato tirrenico. L’evoluzione morfotettonica è derivata dall’ associazione di unità distinte: i massicci calcarei incarsiti della cornice tirrenica (Matese, Monti Picentini ecc.), aridi, poco ospitali, ma che fungono da serbatoio idrico di vaste aree; la Fossa Bradanica, area di sprofondamento posta tra il contrafforte calabro e le Murge, ricolmata da depositi plio-quaternari; i tavolati adriatici, parte dell’Antiappennino Pugliese, segnati da una notevole complessità di paesaggi e complicati da fenomeni di vulcanismo recente (Vulture). Questo tratto della catena è stato interessato, nel Quaternario, da forti sollevamenti accompagnati da tettonica tensiva, espressione della quale è stato il catastrofico terremoto dell’Irpinia (1980).
L’Appennino Calabro-Peloritano corrisponde all’affioramento dello zoccolo cristallino pretriassico, fratturato in zolle ed estremamente alterato in superficie. L’assetto tettonico consta di blocchi longitudinali (Catena Costiera, Sila, Aspromonte) alternati a fosse longitudinali. Tutto l’arco è soggetto a intensi movimenti neotettonici di sollevamento. La risultante geomorfologica di questi processi è una struttura a pianalti, evidenti nell’Aspromonte, disposti a gradinata da 1300-1200 m fino a 300-250 m di quota. Tutta l’area è soggetta a fenomeni d’erosione di eccezionale intensità, sia per le caratteristiche del clima, con piogge brevi e intense, sia per l’alterazione superficiale delle litologie, sia, in misura determinante, per il sollevamento in atto. Caratteri geomorfologici analoghi presentano i Monti Peloritani, nella Sicilia nord-orientale.
L’Antiappennino si sviluppa in più formazioni. A S dell’Arno sono le alture del Volterrano, delle Colline Metallifere, del Senese, interessate nel Plio-Pleistocene da una serie di cicli trasgressivi e segnate dai calanchi. L’Antiappennino Tosco-laziale è in prevalenza frutto di vulcanismo recente: nel Pleistocene, lungo un sistema di faglie distensive, si imposta l’attività vulcanica dei Volsini, dei Cimini, dei Sabatini e dei Colli Albani. Nel Lazio meridionale i rilievi antiappenninici continuano con gli speroni calcarei dei Lepini, degli Ausoni e degli Aurunci, che il solco tettonico in cui scorre il Sacco-Liri separa dall’Appennino Abruzzese. In Campania, al vulcano spento di Roccamonfina segue più a S il Vesuvio. Sul versante adriatico l’Antiappennino coincide pressoché con la regione pugliese, ed è costituito dal Gargano e dalle Murge, divisi dalla piana alluvionale del Tavoliere e dalla Penisola Salentina. Tutta quest’area è stata soggetta a un sollevamento che ha dato luogo a fenomeni erosivi particolarmente intensi. La natura litologica dei rilievi (calcari) e l’attività tettonica recente e ancora attuale hanno prodotto paesaggi carsici: dalle forme tectocarsiche del Gargano si passa alle morbide doline delle Murge, alle grotte (Castellana), alle sorgenti carsiche del Salento.
All’inizio del Pliocene della Sicilia emergevano l’Appennino Siculo, a NE, e i Monti Iblei, a SE; il resto emergerà durante le fasi regressive plioceniche e pleistoceniche. I Monti Nebrodi presentano paesaggi simili a quelli dell’Appennino Settentrionale, mentre le Madonie, con i loro altopiani incarsiti, richiamano la cornice tirrenica dell’Appennino Campano. La Sicilia orientale è dominata dall’Etna, vulcano attivo che si eleva su un basamento di rocce sedimentarie, alto sul mare un migliaio di metri. Nel SE dell’isola si sviluppa l’altopiano ibleo, che domina le fosse tettoniche di Catania e Gela. Dalle formazioni clastico-evaporitiche della Sicilia centrale, aride colline soggette a fenomeni di intensa erosione, si passa ai monti della Sicilia occidentale, mosaico di blocchi rigidi, intersecati da faglie attive, digradanti verso la costa con una successione di ripiani terrazzati. I principali rilievi della Sardegna, nel settore orientale dell’isola, appartengono al Massiccio Sardo-corso. L’estremo lembo sud-occidentale, separato dalla fossa tettonica del Campidano, è formato dalle montagne arrotondate dell’Iglesiente, dove affiorano le rocce sedimentarie più antiche d’I. (Cambriano, Siluriano). I rilievi montuosi sono separati e isolati da altopiani o da pianure. Molto comuni sono le manifestazioni carsiche superficiali e profonde. Del tutto peculiari sono le forme di erosione eolica, in particolare nei graniti della Gallura.
Tra i fattori incidenti sull’ampia varietà dei climi dell’I. sono la posizione geografica, fra 36° e 47° N, in piena zona astronomica temperata, e la posizione rispetto al mare, all’Europa e all’Africa: l’I. insulare e peninsulare risente dell’influenza mitigatrice del Mediterraneo, l’I. continentale ha inverni più freddi ed estati notevolmente calde. La catena alpina protegge la Pianura Padano-veneta dagli influssi diretti del clima dell’Europa centrale, ma non impedisce l’ arrivo di aria fredda da N (mistral, bora). La fascia costiera ligure-tirrenica ha clima più marittimo rispetto a quella adriatico-ionica, perché si affaccia su un mare più profondo, dall’influenza mitigatrice più intensa, e perché il litorale adriatico è direttamente esposto ai venti freddi provenienti dai Balcani, mentre l’Appennino ostacola le correnti di aria caldo-umida provenienti da Ovest. Fanno sentire i loro effetti a scala locale i laghi, l’altitudine e l’esposizione alla radiazione solare e alle correnti umide. Nel semestre freddo l’aria umida e fredda da O e NO porta sull’I. tempo moderatamente freddo e precipitazioni, mentre l’aria fredda e asciutta che giunge da NE porta giornate serene ma con bassa temperatura. D’estate, invece, dominano l’aria tropicale marittima e quella continentale sahariana. L’interferenza tra queste masse d’aria è causa di grande variabilità delle condizioni meteorologiche.
I fattori ricordati, e in specie il rilievo, influiscono sui diversi elementi del clima, in particolare sulla temperatura dell’aria. Tra il livello del mare e i 2500 m le temperature medie annue variano tra 17 e 0 °C. Si superano i 15 °C su tutte le coste occidentali, su quelle insulari e lungo l’Adriatico centro-meridionale. Si hanno medie tra 10 °C e 15 °C nella Padania e nei fondivalle alpini; tra 5 °C e 10 °C nella media montagna alpina e nella fascia sommitale appenninica. Le differenze tra Nord e Sud, nette in inverno (circa 10 °C), quando l’influenza mediterranea si fa sentire sulle coste meridionali, in primavera si riducono a 4-5 °C e, quando l’aria tropicale domina su tutto il territorio, a 2-2,5 °C. L’escursione termica si accentua verso l’interno. Le regioni sul Mar Ligure e sul Tirreno registrano nel semestre freddo soprattutto venti da ovest. Nella parte orientale dell’I. peninsulare prevalgono i venti da N e da NE nel settore settentrionale e centrale, quelli da S e SE nel settore meridionale. Nel Centro-Sud è frequente lo scirocco, che porta temperature elevate e umidità. Nel semestre caldo dell’anno prevalgono, lungo le coste, le brezze di terra e di mare, in montagna le brezze di monte e di valle. Il Föhn è frequente in alcune valli alpine.
Anche nella distribuzione delle precipitazioni è evidente il ruolo del rilievo. In gran parte dell’I. si ha un numero annuo di giorni piovosi variante da 70 a 100, ma nelle Alpi e nelle zone più elevate dell’Appennino si arriva a 120 giorni; le precipitazioni più abbondanti (oltre 3.000 mm annui) si registrano sulla montagna friulana e sulle Alpi Apuane, mentre le più scarse interessano i litorali centro-meridionali (meno di 500 mm in Puglia, Sicilia e Sardegna).
La neve cade abbondante soprattutto sulle Alpi e sull’Appennino Settentrionale e raggiunge i massimi sui 2600-2700 m, dove si registrano 6-7 m di neve all’anno. La quantità di neve e la durata del manto nevoso diminuiscono verso sud.
La grande varietà di condizioni geografiche origina più tipi di clima, tra i quali il clima subtropicale (mediterraneo) nei litorali più soleggiati dell’I. meridionale e delle isole; molto più estesi sono il clima temperato-caldo e quello subcontinentale (Pianura Padana, zona assiale appenninica). Il clima freddo e quello glaciale toccano le zone più elevate delle Alpi, quello temperato-freddo i maggiori gruppi montuosi appenninici.
La ricca idrografia italiana comporta una vasta rete sotterranea, grazie alla grande estensione di formazioni calcaree e di alluvioni grossolane che alimentano corsi d’acqua in gran parte perenni.
Molti laghi sono disseminati in tutto il territorio, specie nelle zone sommitali della montagna alpina (laghi di circo, generalmente piccoli), nella zona prealpina (laghi di escavazione glaciale, tra i quali il Lago di Garda, il più esteso d’I.), nelle regioni di vulcanismo recente (laghi craterici), nelle fasce costiere caratterizzate da cordoni di dune (laghi costieri).
I fiumi italiani convogliano nel mare ogni anno, in media, 155 miliardi di m3 d’acqua, dei quali il 31% spetterebbe al sistema del Po, il 32% agli altri fiumi adriatici, il 26% a quelli liguri e tirrenici, appena il 4% a quelli ionici e il 7% ai fiumi delle isole. I regimi glaciale e nivale, propri dei corsi d’acqua alimentati dalla fusione dei ghiacciai e del manto nevoso, hanno portate massime nei mesi estivi e minime in inverno; il regime fluviale, nei fiumi che hanno origine al di sotto del limite delle nevi persistenti, ha portate condizionate dal regime delle piogge. Vi è poi una serie di regimi misti, regolati non solo dalle precipitazioni ma dall’esistenza o meno di laghi, nonché dall’eventuale presenza di rocce calcaree, che rilasciano le acque meteoriche anche nei periodi di assenza delle precipitazioni.
Il Po, il maggior fiume italiano, è lungo 652 km e ha un bacino di circa 70.000 km, raccogliendo le acque di buona parte del versante interno delle Alpi e di quello esterno dell’Appennino Settentrionale; la sua portata media, non lontano dalla foce, si valuta in 1460 m3/s; la quantità di sedimenti che porta al mare è abbondante e ha costruito un delta di notevoli dimensioni. La pendenza del letto, in gran parte del tratto padano, è modesta; a 150 km dalla foce il fiume si trova a soli 2 m s.l.m., a Pavia ha già un livello superiore a quello della pianura, e da qui è arginato fino alla foce, dove la sopraelevazione raggiunge i 6 m. Secondo fiume italiano è l’Adige, analogo al Po per il letto pensile, le arginature, le piene improvvise in autunno. I fiumi del versante adriatico-ionico hanno corso breve, modesta estensione del bacino, accentuate magre estive, cospicuo apporto di materiali solidi. I fiumi tributari del Tirreno hanno spesso tronchi longitudinali, raccordati da conche intermontane o da sezioni trasversali, per cui sono caratterizzati da corso più lungo e bacino più esteso. Tipici sono l’Arno e il Tevere. I corsi d’acqua della Sicilia, della Sardegna e della Calabria dipendono dalle precipitazioni, per cui hanno piene cospicue in inverno e magre estive accentuate; alcuni sono del tutto asciutti in estate, come le ‘fiumare’ calabresi e siciliane, dall’alveo molto largo e pieno di ciottoli, per effetto delle piene violente che si verificano a seguito delle precipitazioni.
L’Italia possiede un’elevata ricchezza floristica: circa 6800 specie di piante vascolari, 1130 briofite e un numero molto maggiore, pur se non esattamente precisabile, di Procarioti, Protisti, Alghe e Funghi. La flora vascolare italiana annovera quasi la metà delle specie presenti in Europa e si distingue anche per un elevato numero di endemismi, pari al 10% dell’intera flora. Interessanti sono i rapporti floristici con regioni lontane o attualmente separate dall’I. da estesi tratti di mare: la flora dell’Appennino Centrale e Meridionale ha numerose specie in comune con la penisola balcanica; il complesso sardo-corso ha parecchie specie arcaiche proprie o in comune con le Baleari o con qualcuna delle isole toscane. Gli endemismi aumentano di numero e d’importanza sistematica procedendo da N a S: la Sicilia e la Sardegna, insieme alle vicine isole minori, ne sono molto ricche.
L’articolazione del rilievo e la presenza di forti gradienti ecologici facilitano la frammentazione degli areali e la presenza di un elevato numero di habitat, spesso di limitata estensione. Ne consegue una notevole variabilità fenotipica che caratterizza numerosi gruppi di piante vascolari, interpretabili come il risultato di una deriva genica dovuta all’isolamento geografico delle popolazioni di una data specie. È possibile distinguere in I. tre principali ecoregioni: quella Alpina, quella Europeo-Continentale e quella Mediterranea, tuttavia l’eterogeneità climatica e litomorfologica rendono possibile individuare, secondo le stime più recenti, 67 sistemi paesaggistici. Insieme a vaste aree piuttosto omogenee relativamente al paesaggio, come la Pianura Padana, la fascia collinare umbro-marchigiana, la Penisola Salentina, vi sono porzioni di territorio ben più varie e articolate, per es. nella regione alpina, o in Calabria, Sicilia, Sardegna.
Il paesaggio vegetale dell’I. sarebbe potenzialmente costituito da una vegetazione legnosa (foreste e macchia) estesa all’85% dell’intero territorio. In realtà solamente il 30% del territorio nazionale è coperto dai boschi, con un’estensione complessiva di circa 10 milioni di ha. Nel corso dei secoli, infatti, la vegetazione primordiale è stata distrutta o alterata dall’uomo, e l’aspetto del paesaggio di molte regioni è completamente differente da quello originario. La montagna alpina e anche quella appenninica (come pure la sicula e la corsa) avevano in alto un mantello di boschi di conifere, con prevalenza di abeti (nelle Alpi anche larici ecc.), più in basso una zona di querceti e faggete. Al faggio è stato spesso sostituito il castagno, introdotto dall’uomo in epoca molto remota. Quercia e altre latifoglie si estendevano un tempo certamente anche nella pianura padano-veneta, alternandosi con saliceti, pioppeti ecc., lungo i corsi d’acqua e nei luoghi più umidi; con brughiere e magra vegetazione erbacea, nelle regioni più asciutte. Nell’I. peninsulare, le basse colline e le pianure sublitoranee e litoranee erano occupate dalla macchia mediterranea, che l’uomo ha largamente estirpato. Così, al paesaggio vegetale primordiale si è andato progressivamente a sostituire un paesaggio culturale, la cui fisionomia è largamente determinata da insediamenti, infrastrutture e coltivazioni: quelle erbacee sono largamente prevalenti nella Pianura Padana, quelle arboree (uliveti, vigneti, agrumeti) caratterizzano vaste zone del Mezzogiorno e le isole. Il paesaggio vegetale attuale è caratterizzato anche da numerose piante ornamentali, quali cipressi, palme, agavi, fichi d’India, acacie, eucalipti, che spesso si sono diffuse spontaneamente anche in habitat naturali, compromettendone l’integrità.
All’estirpazione del bosco e della macchia, alla diffusione dell’agricoltura e del popolamento umano, si è accompagnato – come conseguenza inevitabile – anche il deperimento della fauna selvatica. Negli ultimi decenni, tuttavia, le politiche ambientali, l’istituzione di numerose zone protette, i progetti di reintroduzione faunistica e, non ultimo, il progressivo abbandono delle zone di montagna e delle aree agricole hanno consentito a molte specie animali una notevole ripresa numerica. Il caso più eclatante è certamente quello del lupo (Canis lupus), il cui areale, un tempo limitato ad alcune aree interne dell’Appennino Centrale e Meridionale, si estende oggi in maniera pressoché continua dalla Calabria alle Alpi Occidentali. Per quanto riguarda i Canidi, va segnalato anche l’ingresso nella fauna italiana dello sciacallo (Canis aureus), penetrato dalle aree settentrionali della Penisola Balcanica, e del cane procione (Nyctereutes procyonoides), diffusosi in gran parte dell’Europa a partire da allevamenti russi. Tra i Felidi la lince (Lynx lynx) si trova sulle Alpi. La lontra (Lutra lutra) è confinata al meridione, nelle acque di pochi fiumi delle regioni peninsulari, con popolazioni piccole e forse isolate. L’orso bruno (Ursus arctos) è presente nell’Appennino Centrale con la popolazione più numerosa, ed è in espansione nelle Alpi Orientali, grazie alle reintroduzioni e agli arrivi spontanei da Slovenia e Croazia. La foca monaca (Monachus monachus) è scomparsa dalle coste italiane, se si eccettuano sporadici avvistamenti. Numerosi sono, tra gli Artiodattili, il capriolo (Capreolus capreolus), diffuso in gran parte del paese, il daino (Dama dama) e specialmente il cinghiale (Sus scrofa); quest’ultimo, soprattutto a causa di reintroduzioni avventate, ha raggiunto in alcune zone densità talmente elevata da creare seri problemi ambientali, dato il forte impatto della specie sulla flora e sulla fauna. Anche il muflone (Ovis musimon), originario della Sardegna, è stato introdotto in molte isole e nell’Appennino. Nelle Alpi è in costante aumento il numero degli stambecchi (Capra ibex) e dei camosci (Rupicapra rupicapra). La popolazione del camoscio d’Abruzzo (Rupicapra pyrenaica ornata) è in incremento, tanto da consentire la reintroduzione della specie in altri gruppi appenninici, fuori dal nucleo originario del Parco Nazionale d’Abruzzo. Tra i Roditori vanno ricordati l’istrice (Hystrix cristata) e la nutria (Myocastor coypus), entrambe specie a grande diffusione e in costante espansione.
Per quanto riguarda gli Uccelli, alcune specie rare e importanti hanno ripreso a nidificare in I. dopo decenni di assenza, spontaneamente o grazie a progetti di reintroduzione; tra questi il grifone (Gyps fulvus), il gipeto (Gypaetus barbatus), la cicogna bianca (Ciconia ciconia), la cicogna nera (Ciconia nigra). Altre specie, tra cui l’airone guardabuoi (Bubulcus ibis) e l’allocco degli Urali (Stryx uralensis), hanno colonizzato l’I. di recente. Il parrocchetto dal collare (Psittacula krameri), di origine africana e asiatica, è ormai diffuso nei parchi di molte città italiane; il fenicottero (Phoenicopterus ruber) ha notevolmente ampliato il suo areale di diffusione.
Tra i Rettili sono presenti numerose specie di serpenti, lucertole e testuggini: va segnalata la diffusione della testuggine dalle guance rosse (Trachemys scripta), di origine americana, che può costituire un problema per l’ecologia degli ambienti d’acqua dolce. Piuttosto rare sono le tartarughe marine, di cui la sola Caretta caretta si riproduce in Italia. Gli Anfibi annoverano specie interessanti e alcuni endemismi, come le salamandrine dagli occhiali: a Nord Salamandrina perspicillata, sostituita nelle regioni meridionali dalla Salamandrina terdigitata. Nel Carso triestino vive il proteo (Proteus anguinus), anfibio urodelo delle acque sotterranee. Per quanto riguarda i Pesci, infine, si osserva un costante aumento degli elementi tropicali, soprattutto per quanto riguarda le specie marine.
Le prime tracce di frequentazione ‘umana’ del territorio italiano risalirebbero almeno a circa 700.000 anni fa, mentre una prima intensificazione del popolamento può essere datata al 6° millennio a.C., quando la popolazione neolitica dell’I. appare ben strutturata in comunità territoriali stabili, dedite all’agricoltura e all’allevamento (forse transumante), oltre che a caccia, pesca e raccolta, e organizza con continuità spazi insediativi e produttivi, sistemi sociali articolati, scambi a medio-lungo raggio e complessi culturali longevi. In nessun momento successivo al Neolitico si rilevano fratture nell’evoluzione demografica e nei modelli culturali: le popolazioni che raggiungeranno l’I. in seguito andranno a integrarsi con quelle già stanziate. Dalla fine del 2° millennio, con la diffusione del bronzo e poi del ferro, si ha un incremento della popolazione ed emergono specificità etno-culturali regionali. La presenza di idiomi di ceppo italico, celtico, venetico, iapigio (indoeuropei), accanto ad altri non indoeuropei già presenti (ligure, sardo, sicano, etrusco), segnala con ogni evidenza l’arrivo in I. di più migrazioni (2°-1° millennio a.C.), non particolarmente ricche di effettivi, ma capaci di imporsi e di modificare l’assetto politico-territoriale dell’Italia.
Il territorio fu poi egemonizzato da Roma, e dalla metà del 1° sec. a.C. unificato dal punto di vista statutario (cittadinanza, estensione del nome Italia), ma il fondamentale assetto etnico non fu mai uniformato a quello romano. Esso, consolidato in circa 1500 anni, si conservò stabile anche per il seguito. Le incursioni barbariche e le fasi di predominanza politica dell’uno o dell’altro popolo (Goti, Longobardi, Arabi e così via), a partire dal 6° sec. d.C. incisero sull’assetto sociale e territoriale, ma non su quello demografico, data la scarsità di effettivi: i Longobardi, il gruppo più numeroso giunto in I., erano al massimo 200.000. Più rilevante sotto il profilo numerico fu certo la continua immigrazione, cospicua dal 2° sec. d.C., di piccoli gruppi o individui, che però furono rapidamente assimilati.
Si ritiene che il territorio italiano ospitasse già circa 4 milioni di individui intorno al 5° sec. a.C.; gli abitanti sarebbero raddoppiati nel mezzo millennio successivo, e sarebbero rimasti attorno agli 8-10 milioni fino al 17° sec., al di là di decimazioni anche rilevanti (guerra gotica nel 6° sec., pestilenze nel 14° e nel 17° sec.); nel corso dei sec. 18°-19°, presero a crescere in maniera intensa, raggiungendo i 26 milioni nel 1861. Nel corso dei 100 anni seguenti, la popolazione raddoppiò; in realtà, tenuto conto delle perdite causate dall’emigrazione all’estero e dagli eventi bellici, il raddoppio si realizzò ben prima della Seconda guerra mondiale.
I miglioramenti qualitativi furono dapprima relativamente lenti (mortalità infantile ancora elevata, contenuta durata della vita media). Nella seconda metà del 20° sec., industrializzazione, crescita economica, abbandono delle campagne, modificazioni nei modelli familiari, calo dell’emigrazione, invecchiamento della popolazione, femminilizzazione del lavoro, aumento dell’istruzione, crescita dei consumi, mobilità sociale e territoriale hanno del tutto trasformato il quadro. La natalità è scesa a livelli bassissimi (sotto il 10‰ annuo) e così la mortalità (attorno allo stesso valore), compresa quella infantile, oggi ai minimi mondiali. Come conseguenza, si hanno crescita nulla o lievi decrementi (qualche decina di migliaia di unità all’anno), allungamento della speranza di vita (circa 82 anni: non raggiungeva i 64 nel 1951 e i 45 nel 1901), invecchiamento della popolazione (un quinto degli abitanti ha più di 65 anni), che prelude a un futuro innalzamento della mortalità. Tutti questi indicatori sono tra i più accentuati a livello mondiale; sono tuttavia marcate le differenze interne e le regioni meridionali presentano una struttura demografica più equilibrata. L’alfabetizzazione della popolazione adulta è di fatto realizzata, e oltre un terzo della popolazione ha titoli di studio superiori. Il reddito medio per abitante (21.873,8 euro, stima 2008) conferma la posizione dell’I. tra i paesi più ricchi, malgrado rilevantissime differenze nella distribuzione sociale e regionale del reddito stesso: quasi tutta la popolazione (circa 5.000.000 dei 6.500.000 ab. totali) che vive al di sotto della soglia di povertà si concentra nel Mezzogiorno.
A partire dagli anni 1970, mentre si esauriva l’emigrazione italiana all’estero, una consistente immigrazione è venuta a sostenere i tassi demografici e la popolazione ha ripreso a crescere. Gli stranieri in I. sarebbero quasi 4 milioni (oltre il 6% della popolazione; stima del 2007), stanziati prevalentemente nel Nord, dove vanno a compensare il deficit demografico, e nelle grandi città, dove rispondono alla domanda di impieghi in attività abbandonate dalla forza-lavoro italiana (edilizia, servizi alla persona, piccolo commercio). Gli immigranti provengono da un gran numero di paesi, con prevalenza di quelli europei orientali e circummediterranei. L’emigrazione interna, massiccia per tutto il 20° sec. (dalle campagne alle città) e soprattutto nel secondo dopoguerra fin verso il 1970 (dal Sud al Centro e al Nord), si è affievolita salvo verso le regioni del Nord-Est, in costante deficit di manodopera.
La distribuzione degli abitanti è difforme, come appare considerando anche solo la distribuzione dei centri urbani. Il processo di inurbamento, avviato nell’Ottocento, ha portato in città circa il 68% degli Italiani (2008). Ai primi del 20° sec. solo 12 città superavano i 100.000 ab., e tra queste Napoli era la più popolosa; cent’anni più tardi le ‘grandi’ città erano una cinquantina, per la metà nel Nord e per un quinto nel Centro. Da tempo Roma è il Comune più popoloso, seguito da Milano, Napoli, Torino. I processi di espansione, conurbazione, gemmazione, assorbimento hanno generato aree urbane dai confini fluidi e molto incerti e comunque non più identificabili con quelli comunali delle città in senso proprio. Dagli anni 1970 i Comuni urbani hanno perduto popolazione (prima quelli con oltre 100.000 ab., poi anche quelli con più di 50.000), a vantaggio di insediamenti di taglia minore, più distanti ma facilmente accessibili grazie al miglioramento dei trasporti e alla motorizzazione privata.
Il flusso in uscita dalle città è conseguenza di un addensamento eccessivo, specie nelle aree centrali (centri storici), cui facevano seguito costi più elevati e peggioramento della qualità della vita, spingendo gli abitanti fuori dalle città. Solo negli ultimi decenni i centri storici hanno conosciuto una rivalorizzazione (ma non il reinsediamento di abitanti).
L’espansione urbana ha amplificato la modificazione del paesaggio e il deterioramento del reticolo idrico, della copertura vegetale e dell’atmosfera: danni manifesti già a partire dagli anni 1960, enfatizzati dall’urbanizzazione e dal modello di ‘città diffusa’. Speculare è il degrado della montagna e dell’alta collina, dove lo spopolamento è causa non secondaria di incuria e quindi di dissesti del terreno e di incendi boschivi.
Nonostante antiche tradizioni artigianali (e anche industriali), l’I. fu fino al primo Novecento un paese nettamente rurale, forse più sul piano degli assetti sociali e territoriali che su quello dell’economia produttiva. Nel secondo dopoguerra l’industria si è diffusa, dal ‘triangolo’ Torino-Milano-Genova, ad altre aree del Centro-Nord, malgrado specifiche politiche di industrializzazione del Sud e delle isole. La ripresa postbellica si basò sull’industria di base e sui lavori pubblici, grazie alla disponibilità di investimenti adeguati e di un capitale umano abbondante e di alta qualificazione, oltre che di propensioni produttive radicate e di qualità; tutto questo, malgrado l’accentuata scarsità di materie prime, soprattutto energetiche, divenuta acuta negli anni 1950 e 1960. Caratteristica fondamentale dell’economia italiana è sempre stata, infatti, la dipendenza dal commercio internazionale: dapprima come esportatrice di prodotti agricoli contro materie prime minerarie e manufatti; poi come importatrice di materie prime ed esportatrice di manufatti; infine come importatrice ed esportatrice sia di prodotti agricoli sia di manufatti, in un vivacissimo interscambio che vede seriamente deficitario solo il settore energetico. Altra caratteristica strutturale è la piccola dimensione d’impresa, in tutti i settori economici, nonostante la presenza anche di grandi complessi industriali e terziari. La piccola e media impresa ha, più della grande, sostenuto lo sviluppo economico recente; le imprese industriali con meno di 10 addetti sono il 95% del totale e occupano il 47% della forza-lavoro. Certi assetti territoriali e produttivi, come i ‘distretti industriali’, si sono estesi anche al settore agricolo, rafforzando il legame tra produzione e territorio e consentendo iniziative imprenditoriali spesso innovative.
Nel 1951 gli attivi in agricoltura erano il 42% del totale e il settore forniva il 24% della ricchezza prodotta; mezzo secolo più tardi, i valori rispettivi erano attorno al 4% e al 2%. L’industria non ha assorbito la manodopera che abbandonava l’agricoltura: dalla fine degli anni 1930 occupa circa un terzo degli effettivi totali (con un picco oltre il 40% negli anni 1970) e garantisce una quota di prodotto interno lordo analoga, malgrado un recente calo a circa il 27%. Il settore in espansione è stato, quindi, il terziario, che occupa oltre i due terzi della forza-lavoro, produce il 70% della ricchezza del paese e assorbe il personale in cerca di prima occupazione, consentendo di contenere il tasso di disoccupazione. Questo, salito oltre il 12% negli anni 1980 e 1990, nel 2009 appare assestarsi intorno al 7,9%, ma con fortissime differenze regionali a scapito del Sud. È tuttavia difficile valutare il peso dell’economia sommersa, molto rilevante, specie nel Mezzogiorno, sia per produzione (almeno il 15% del prodotto interno lordo complessivo) sia per occupati (3 milioni stimati).
Prima della Seconda guerra mondiale, l’agricoltura capitalistica in I. era presente quasi solo nella Pianura Padana; nelle regioni centrali predominava la piccola azienda a conduzione diretta o mezzadrile; al Sud erano ancora presenti i latifondi, eliminati a partire dalla riforma agraria (1950). Netta era la frammentazione fondiaria, ancora tale malgrado il calo incessante e rapido del numero di aziende. Dagli anni 1950 e 1960, frammentazione, redditività troppo bassa (a causa del regime dei prezzi) e variazioni nei modelli sociali indussero gran parte della popolazione delle campagne all’abbandono delle proprie sedi e della propria professione, sancendo il passaggio da un’economia agricola (e commerciale) a una fondata sull’industria e sui servizi.
Tuttora coesistono in Italia due tipi fondamentali di agricoltura: quella insulare e peninsulare, basata su olivo, vite, agrumi e ortaggi (e un tempo integrata con l’allevamento ovino); e quella continentale, segnata da cereali, alberi da frutto, foraggi e colture industriali (integrata a sua volta con l’allevamento bovino e suino). Questi due tipi, peraltro, sempre più sfumano l’uno nell’altro, per la crescente attenzione dei piccoli proprietari (anche nel Mezzogiorno) alle sollecitazioni del mercato; ma anche per una certa ripresa, nelle aree collinari di tutta I., di produzioni ortofrutticole biologiche e di qualità, che tendono a sostituirsi a quelle di massa e contrastano la riduzione delle superfici coltivate (l’incolto è pari a circa il 19% del territorio); nella stessa direzione va la diffusione di aziende polifunzionali (agriturismo, produzioni agroalimentari dirette).
I seminativi, che occupavano più della metà delle terre agricole nel 1951, sono scesi (2005) al 32%, ma presentano una produttività molto più elevata. Restano importanti le produzioni di cereali, vite e olivo, ortaggi, frutta, con andamenti corrispondenti soprattutto all’andamento dei mercati internazionali. Una fortissima espansione dei cereali, per es., fino al raddoppio delle produzioni nel giro di due o tre decenni, sembra essersi esaurita a fronte della maggiore convenienza ad accedere al mercato estero; analoghe le tendenze delle colture industriali (barbabietola da zucchero, oleaginose); più stabili o in crescita le produzioni di ortaggi e di frutta, che interessano nel loro insieme soprattutto il Sud, anche grazie all’espansione delle aree irrigate e alle coltivazioni forzate (primizie). Da decenni la vitivinicoltura si va convertendo a produzioni di qualità certificata, benché conservi anche un primato quantitativo a livello mondiale (conteso dalla Francia); analogo è il caso dell’olivicoltura e di produzioni ortofrutticole a garanzia di origine. Il ruolo del mercato estero è aumentato a dismisura: sia come fornitore di cereali, sia come destinatario di ortaggi, frutta e prodotti derivati.
Non diverso appare l’andamento delle produzioni zootecniche: il numero di bovini, dapprima aumentato in maniera sensibile, è sceso al di sotto dei 7 milioni (quanti nella prima metà del 20° sec.), benché la produzione di latte e derivati sia aumentata; gli ovini e più ancora i caprini registrano un calo continuo, solo di recente rallentato; più stabile la quantità di suini. Alcuni specifici segmenti (per es., l’allevamento di bufale) segnano invece progressi rapidissimi legati alla domanda di mercato. Anche per i prodotti animali (compresi quelli ittici), una parte crescente del consumo viene garantita dalle importazioni.
I settori automobilistico, siderurgico e petrolchimico sono alla base dell’industrializzazione postbellica in Italia. Rilevante fu e rimane il peso della FIAT, all’origine della motorizzazione di massa, della domanda di prodotti siderurgici (alimentata anche dall’edilizia e dai lavori pubblici), del potenziamento della rete stradale e della costruzione di quella autostradale, della formazione di un vasto indotto produttivo, nonché dell’avvio delle migrazioni Sud-Nord. La siderurgia fruì degli investimenti pubblici del dopoguerra e della possibilità di localizzare sulle coste impianti a ciclo integrale, che fornivano prodotti anche ad altri paesi della CECA. Simile il caso dei comparti petrolifero e petrolchimico, con centri litoranei di raffinazione e di produzione petrolchimica di base, il cui approvvigionamento, dai paesi del Sud del Mediterraneo o dai paesi del Golfo Arabico via Suez, aveva costi più bassi rispetto all’Europa occidentale, e che fornirono prodotti raffinati e chimici di base ad altre aree della Comunità.
Il settore automobilistico, tra alti e bassi congiunturali, conserva un primato nel quadro manifatturiero italiano e una certa rilevanza a livello europeo e mondiale. Tra le costruzioni meccaniche hanno poi grande importanza la cantieristica navale, gli elettrodomestici e la produzione di macchine utensili, dove l’I. vanta posizioni di primato mondiale. Gli altri due settori di base hanno invece conosciuto un ridimensionamento, in conseguenza sia della crisi energetica del 1973 sia dell’emergere di altri produttori mondiali (per la siderurgia). Le 17 raffinerie italiane in esercizio hanno visto di recente un aumento della loro produzione complessiva, ma senza recuperare i totali degli anni 1970. Notevole è il ruolo dell’I. per il transito di condotte: sia oleodotti, che riforniscono anche altri paesi, sia gasdotti (33.000 km di tubazioni), capillarmente ramificati in I. e a servizio pure di altri Stati. La diversificazione dei fornitori di energia è marcata, anche se netta è la prevalenza di Algeria (per il gas), Libia, paesi del Golfo e Russia (per il petrolio). La produzione siderurgica, dovuta soprattutto a piccoli e medi impianti che lavorano soprattutto acciai speciali, ha recuperato e leggermente migliorato le dimensioni produttive precedenti la crisi (10 milioni di tonnellate di ghisa, 29 di acciai). Questi tre comparti industriali avrebbero anche dovuto promuovere l’industrializzazione del Mezzogiorno, ma il processo non ha avuto i risultati attesi. Del resto, gli investimenti industriali italia;ni, a partire dalla fine del Novecento, si sono diretti soprattutto verso iniziative di delocalizzazione all’estero di produzioni o segmenti di produzione, dove le condizioni fiscali e del mercato del lavoro consentissero una redditività maggiore. Un’industria meridionale si è tuttavia venuta formando, anche se con capacità produttive complessivamente modeste; fanno eccezione diversi casi esemplari, presenti anche in settori (avionica, elettronica) ad alta tecnologia. Gran parte dell’industria italiana fa comunque riferimento a comparti differenti dall’industria di base. Segnata dalla propensione ai beni di consumo (mobili, tessuti e abbigliamento, elettrodomestici, arredamento, agroalimentare), la produzione tocca pressoché tutti i comparti, spesso occupando posizioni di rilievo nel mercato mondiale.
Il commercio con l’estero è cresciuto rapidamente e ha superato i 300 miliardi di euro all’anno nell’importazione e nell’esportazione. I paesi corrispondenti commerciali dell’I. sono numerosissimi, ma il ruolo di quelli dell’Unione Europea è andato sempre aumentando. Più o meno leggermente deficitaria fino agli anni 1980, la bilancia commerciale ha avuto per qualche anno surplus anche consistenti, assestandosi poi su un sostanziale pareggio (a parte situazioni congiunturali come nel 2006 e in anni seguenti, quando il forte aumento del prezzo del petrolio ha sbilanciato i conti).
La struttura della rete ferroviaria italiana (oltre 16.000 km) risale ai primi decenni del Novecento. Si sono susseguiti ammodernamenti (elettrificazione) e potenziamenti (raddoppi di linee, tratte ad alta velocità), ma anche soppressione o ridimensionamenti di tratte poco redditizie (fig. 2). La ferrovia trasporta soprattutto passeggeri (oltre 540 milioni nel 2006; 77 milioni di tonnellate di merci).
La rete stradale ha conosciuto, dalla metà del 20° sec., un’espansione eccezionale: al 2004 erano in esercizio 450.000 km di strade extraurbane, di cui 6500 autostrade (fig. 3). Dopo una fase di investimenti nelle autostrade, si è estesa la viabilità locale, migliorando l’accessibilità di tutte le località abitate del paese. Insieme con altri fenomeni legati alla logistica produttiva e commerciale, questo ha confermato il ruolo del trasporto su gomma nel movimento delle merci (1,4 miliardi di tonnellate nel 2005), per tacere di quello passeggeri.
La navigazione di cabotaggio è intervenuta (2005) con 159 milioni di tonnellate di merci. Il traffico marittimo che riguarda i porti italiani è però più rilevante: poco meno di mezzo miliardo di tonnellate di merci sbarcate o imbarcate, di cui oltre 200 milioni di prodotti petroliferi. Più di 83 milioni di passeggeri hanno (2005) utilizzato i servizi marittimi. La flotta mercantile e passeggeri italiana è rilevante, anche se ha conosciuto in passato un’importanza comparativamente maggiore, e ha superato (11,8 milioni di tonnellate di stazza lorda sotto bandiera italiana) le dimensioni degli anni 1970, migliorando le prestazioni. Il sistema portuale, ritenuto pletorico e poco coordinato (una ventina di porti, tra i quali spiccano Genova e Trieste, si divide l’80% del traffico), è in corso di rinnovamento, specie per incentivare l’intermodalità e la movimentazione di merci containerizzate.
Il trasporto aereo ha visto aumentare il traffico (1,5 milioni di voli nel 2006), i passeggeri (110 milioni) e le merci trasportate (circa 900.000 t), nonché gli aeroporti: accanto ai principali di Roma (Fiumicino e Ciampino) e Milano (Malpensa e Linate) e a quelli di rango regionale consolidati, sono entrati in funzione svariati aeroporti locali sui quali operano compagnie low cost, charter e altri privati, il cui traffico risulta in costante aumento, specie nell’ambito dei trasporti internazionali.
Una buona quota degli arrivi internazionali per via aerea è fornita da turisti. Dai primi anni 1960 agli anni 1980 le presenze turistiche italiane sono aumentate di quasi 5 volte (da 52 a 250 milioni) e quelle straniere di 3,5 volte (da 31 a 107 milioni). La crescente propensione degli italiani alle vacanze all’estero ha ridotto le presenze turistiche italiane (2005) a 207 milioni, pur segnando una recente ripresa; le presenze di stranieri non hanno smesso di aumentare, raggiungendo i 148 milioni. I flussi turistici sono concentrati: in misura decrescente sui litorali (ligure, romagnolo, siciliano, pugliese); sempre più sulle ‘città d’arte’ (in primo luogo, Venezia, Firenze e Roma). Si ha una lenta diversificazione delle destinazioni, anche in virtù della presenza in I. di 60 ‘siti culturali’ inseriti nella lista UNESCO del ‘Patrimonio dell’umanità’, che spesso corrispondono a interi centri storici. L’I. costituisce la quinta meta turistica al mondo. Gli introiti turistici in passato hanno spesso da soli compensato gli esborsi per importazioni; si tratta tuttora di un settore fondamentale, con un indotto enorme e un bilancio attivo di oltre 10 miliardi di euro.
Il tasso di alfabetizzazione degli Italiani adulti è intorno al 98%. La Costituzione attribuisce allo Stato il compito di dettare le norme generali dell’istruzione e di istituire scuole di ogni ordine e grado. Enti e privati possono istituire scuole, ma senza oneri per lo Stato. Le istituzioni di alta cultura, le università e le accademie hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato (art. 33). La stessa Costituzione sancisce che «la scuola è aperta a tutti»; che l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita; che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi; che la Repubblica rende effettivo tale diritto con borse di studio, assegni e altre provvidenze (art. 34). L’ordinamento scolastico attualmente in vigore può essere schematizzato in base ai tre gradi o livelli successivi di istruzione: primaria, secondaria (di I e II grado) e superiore (universitaria, artistica e musicale); il sistema scolastico comprende anche la scuola dell’infanzia.
Per una trattazione più diffusa ➔ scuola.
Secondo le stime, è cattolico il 90% circa della popolazione (circa 1/3 i praticanti). L’organizzazione ecclesiastica cattolica è costituita da 226 diocesi, suddivise in 16 regioni pastorali (alle quali corrispondono altrettante conferenze episcopali regionali) e dall’ordinariato militare. La più antica comunità cristiana non cattolica indigena in I. è costituita dai valdesi (attualmente circa 25.000): hanno a Roma una facoltà teologica e tengono ogni anno un sinodo che determina le linee di comportamento e di organizzazione anche per i metodisti italiani, a essi confederati. I protestanti italiani (circa 400.000) sono rappresentati soprattutto da pentecostali, e in particolare dalle Assemblee di Dio. Circa 100.000 sono gli ortodossi, 30.000 gli ebrei, mentre intorno agli 80.000 assommano gli aderenti alle religioni orientali. Difficili sono infine le statistiche per i musulmani (che con gli immigrati provenienti soprattutto dai paesi nordafricani sarebbero circa 1 milione) e per i Testimoni di Geova (circa 230.000).
La Costituzione della Repubblica Italiana ha consacrato nell’art. 8 il principio dell’uguaglianza nella libertà di tutte le confessioni e nell’art. 19 ha garantito la libertà religiosa come diritto alla libertà di coscienza e di culto. Viene considerata separatamente da quella delle altre confessioni la posizione della Chiesa cattolica, i cui rapporti con lo Stato sono regolati dai Patti Lateranensi, rivisti con un nuovo Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana, firmato il 18 febbraio 1984 (➔ Lateranensi, Patti). Per i culti acattolici l’art. 8 della Costituzione italiana dispone che abbiano diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, se non contrastano con l’ordinamento giuridico italiano.
In Italia non si hanno testimonianze archeologiche molto antiche relative alla presenza dell’uomo. L’esistenza di testimonianze isolate, non sufficientemente ricollegabili tra loro, fa supporre la presenza dell’uomo a partire da circa 700.000-400.000 anni fa in numerose regioni della penisola (Lazio: Valchetta Cartoni, Anagni-Colle Marino, Arce-Fontana Liri, Castel di Guido; Abruzzo: Madonna del Freddo, Valle Giumentina; Basilicata: Venosa, Irsina; Friuli-Venezia Giulia: Visogliano). Questi ritrovamenti hanno caratteristiche tipologiche variabili, indicando a volte l’alternanza, a volte la coesistenza, di industrie su ciottolo e su scheggia. L’eccezionale documentazione rinvenuta a Isernia località La Pineta (Molise) permette di gettare luce su una serie di attività di Homo erectus in I. centrale circa 700.000 anni fa. Sebbene non siano stati rinvenuti resti umani né a Isernia né in altri siti italiani così antichi, l’associazione di manufatti e faune permette di ipotizzare il raggiungimento di capacità tecniche che non potevano esistere senza un adeguato sviluppo sociale.
Testimonianze antiche dell’Acheuleano risalenti a 650.000 anni fa sono state rinvenute a Notarchirico, in Basilicata. Tra i più antichi giacimenti nei quali siano presenti bifacciali associati a una caratteristica industria su osso è quello di Anagni-Fontana Ranuccio, datato radiometricamente a 458.000 anni. A questo sito, da cui provengono anche alcuni molari di Homo erectus, si possono accostare le industrie di Pofi (Lazio), trovate associate a un frammento di ulna e uno di tibia di Homo erectus, e quelle di Rosaneto (Cosenza). Industrie più evolute acheuleane, caratterizzate da una presenza significativa di bifacciali e da strumenti su scheggia, da porsi cronologicamente nel corso della glaciazione di Riss (circa 200.000-120.000 anni fa), sono testimoniate da numerosi ritrovamenti in tutta la penisola. I siti all’aperto meglio conservati (Torrimpietra, presso Roma) indicano una occupazione sistematica dei territori favorevoli in un periodo che va da una fase avanzata del Riss fino all’interglaciale Riss-Würm: nei livelli più antichi, l’industria acheuleana, associata a fauna, evidenzia ancora l’importanza della caccia tra le attività economiche. Nel Gargano, alla foce del torrente Romandato, è stata trovata un’industria dell’Acheuleano evoluto, associata a industria su scheggia comprendente raschiatoi laterali e trasversali e qualche raschiatoio carenato; la presenza di schegge di lavorazione indica in questa stazione un’officina litica, nella quale si suppone avvenissero lo sgrossamento e la lavorazione della selce, suggerendo l’esistenza di attività specializzate. La grande diffusione in I. di questa industria è indice di un notevole incremento demografico, facilitato anche dall’aumentata capacità di sfruttare situazioni ambientali differenziate: a siti di caccia o raccolta stagionali si oppongono siti (grotte e abitati su terrazzi) nei quali l’insediamento mostra caratteri di continuità nel tempo. La diversità nella tecnologia (industria bifacciale, industria su scheggia, diversa associazione delle due tipologie) può indicare di volta in volta variazioni cronologiche, tradizioni diverse in gruppi coevi, adattamento di uno strumentario di base ad attività differenziate.
A partire dalla fine del Riss e nel corso del Riss-Würm si hanno anche importanti modificazioni strutturali nella specie umana, con la comparsa dell’uomo di Neandertal: in I., tra i ritrovamenti più antichi vi è quello di Sedia del Diavolo, nei sedimenti fluvio-lacustri attribuiti al Riss, collegabile tipologicamente con una serie di testimonianze (manufatti e resti umani), tutte provenienti dalla bassa valle dell’Aniene (Monte delle Gioie, Monte Sacro, Ponte Mammolo). Un caso a sé rappresenta il ritrovamento di Saccopastore (➔), sempre nella valle dell’Aniene, datato a circa 100.000 anni fa, dove l’industria premusteriana è associata a due crani neandertaloidi.
Meglio conosciuta è l’attività umana nell’ultima glaciazione pleistocenica, il Würm (circa 100.000-10.000 anni fa), caratterizzata dall’alternarsi di periodi freddi e aridi con periodi più temperati e umidi. Nei periodi freddi l’espansione dei ghiacciai provocò un sensibile abbassamento del livello del mare, mettendo allo scoperto ampie pianure costiere (erano terraferma, per es., l’Adriatico settentrionale e il ponte Toscana-Elba). Il Paleolitico medio copre gran parte di questo periodo, giungendo a 35.000 anni fa. Le industrie relative, dette musteriane, presentano variazioni notevoli a seconda dell’area o, in parte, del livello stratigrafico. Il Musteriano si ritrova con caratteristiche tipologiche evidenti nelle grotte liguri (Balzi Rossi, Grotta delle Fate, Arma di Taggia ecc.). Testimonianze puntuali provengono dalla Calabria, dove nella Grotta di Torre Nave a Praia a Mare (livello 13) è stata rinvenuta un’industria caratterizzata da tecnica levalloisiana; sempre da questa regione (Archi, Reggio di Calabria), proviene una mandibola di Homo sapiens neandertalensis, attribuita a un bambino di 5-6 anni. A Santa Croce di Bisceglie (Puglia) la parte inferiore del riempimento ha rivelato un Musteriano ‘tipico’, con punte levalloisiane, raschiatoi su scheggia e nuclei discoidali di quarzite; associato, un frammento di femore umano.
Più diffuso in I. è il Musteriano ‘tipo Quina’, caratterizzato da raschiatoi, tranchets ecc., definiti da un tipico ‘ritocco erto’, che conferisce loro un aspetto tozzo e compatto. È ben documentato in Puglia, dove compare a Grotta Paglicci (➔) sopra un sottostante livello acheuleano, e nella Grotta del Cavallo (Lecce), dove un aspetto particolare è rappresentato da strumenti eseguiti su valve di un mollusco (Callista chione) che caratterizzano un’ampia area geografica fino al Tirreno meridionale.
Nel Lazio la facies detta pontiniana ha caratteristiche particolari, derivate dalla sistematica utilizzazione dei ciottoli di selce (Grotta del Fossellone, Canale delle Acque Alte, Grotta Guattari; ➔ Circeo). In questo periodo, gruppi numericamente rapportati all’abbondanza di selvaggina nel territorio occuparono sistematicamente le grotte, che offrivano un riparo nei periodi freddi e dove poteva essere utilizzato il fuoco.
L’Homo sapiens sapiens appare durante il secondo periodo della glaciazione di Würm, ma il passaggio al Paleolitico superiore appare sfumato; vi sono resti di neandertaliani associati a industrie evolute e resti di Homo sapiens sapiens con industrie ancora di tipo musteriano ma, nonostante commistioni e sovrapposizioni tra i due tipi umani, a un certo punto la sottospecie Neandertal scompare.
L’Aurignaziano italiano, caratterizzato da una lavorazione laminare di lame o lamelle ritoccate, di grattatoi carenati, a muso, bulini, e occasionalmente da punte di osso fessurate alla base, ha pochi legami tipologici con la precedente industria musteriana. Si ritrova in forma arcaica protoaurignaziana in Liguria (Riparo Mochi), nel Veneto (Riparo Tagliente), in Campania (Grotta di Castelcivita, Grotta della Cala a Marina di Camerota e nel sito all’aperto di Serino, presso Avellino, datato a 31.200±650 anni fa).
Più vicino tipologicamente al Musteriano, e considerato un filone evolutivo locale coevo all’Aurignaziano, è l’Uluzziano, sviluppatosi dalla fine dell’interstadio Würm I-II fino a un momento avanzato del Würm III (circa 30.000 anni fa); l’industria è essenzialmente su scheggia, caratterizzata dalla presenza di raschiatoi, denticolati, lame e soprattutto grattatoi e dorsi. Nei vari siti nei quali è stato identificato, l’Uluzziano è in posizione stratigrafica chiara: alla Grotta di Castelcivita (Salerno) è sovrastato da un livello protoaurignaziano; alla Grotta della Fabbrica (Grosseto) giace su un orizzonte musteriano ed è sovrastato dal protoaurignaziano; alla Grotta del Cavallo (Lecce), succede in continuità a livelli musteriani. Il frazionamento, la caratterizzazione regionale e la distribuzione delle prime industrie del Paleolitico superiore indicano un moltiplicarsi e frazionarsi di gruppi che occupano aree prima inabitate, adattando a esigenze via via più specifiche uno strumentario complesso e tecnologicamente variato.
Più recente è il Gravettiano, diffuso in molte zone italiane: tutti i siti della fascia tirrenica, per es., sono caratterizzati da una industria particolare, con la presenza quasi costante dei bulini di Noailles, strumenti che definiscono in Francia il Perigordiano superiore. Si collegano a questo momento alcune grotte liguri (Grotta dei Fanciulli e Riparo Mochi) e la Grotta Paglicci. A partire dal Paleolitico superiore, particolari testimonianze figurative contribuiscono a colmare le lacune sulla conoscenza dell’uomo preistorico. Si tratta di varie espressioni artistiche, fra cui in particolare vanno ricordate le ‘veneri’, cioè figure femminili in rilievo intese come proiezioni simboliche della fecondità, e una serie di graffiti o incisioni che rimandano all’attività venatoria e ad alcuni aspetti rituali e magici a essa connessi.
L’aspetto finale delle industrie del Paleolitico superiore in I., corrispondente alle facies Solutreano e Maddaleniano dell’Europa occidentale, è l’Epigravettiano, denominazione che sottolinea la continuità con il periodo precedente. È conosciuto nelle grotte del versante tirrenico e di quello adriatico (Grotta Paglicci).
Variante dell’Epigravettiano è il Romanelliano (dalla Grotta Romanelli, presso Otranto), con industria caratterizzata da strumenti microlitici, al quale sono riferiti anche alcuni siti simili della Puglia e in particolare del Salento. Aspetti diversi, con caratteristiche regionali accentuate, sono presenti a Grotta Polesini (Roma), ricca tra l’altro di arte mobiliare, con raffigurazioni naturalistiche, schematiche e geometriche. Tra 20.000 e 9000 anni fa, gli uomini del Paleolitico superiore occuparono sistematicamente tutta l’I. peninsulare e insulare adottando soluzioni funzionali differenti in relazione a un’economia in evoluzione e scambiando oggetti e idee attraverso percorsi che coprivano distanze anche notevoli.
La comprensione del fenomeno neolitico in I. è strettamente legata alla comparsa di nuove forme economiche durante il corso dell’8° millennio a.C. in aree del Vicino Oriente, considerate di insorgenza primaria. Il profondo mutamento intervenuto nei rapporti tra uomo e ambiente ebbe evidenti ripercussioni sociali: lo sfruttamento, protratto nel tempo, di un habitat limitato permise la stabilità degli insediamenti e quindi l’insorgenza di una vita associativa e di specifiche strutture e strumenti collegati alle nuove attività: silos e forni, macine, pestelli, falcetti. La produzione di risorse alimentari basata sullo sfruttamento programmato dell’ambiente fu insieme causa ed effetto di un vistoso incremento demografico e di un’alterazione progressiva degli ambienti naturali. Ne derivarono un frazionamento in gruppi, anche per ragioni di equilibrio interno alle comunità stesse, e una conseguente ricerca di terreni adatti al nuovo tipo di economia. Secondo vari autori è questa una delle ragioni del rapido diffondersi, in tutta l’Europa temperata, della nuova economia agricola e di allevamento. In I., l’introduzione dell’economia di produzione sembra essere avvenuta in più momenti e con modalità diverse. È difficile quindi valutare la portata del fenomeno di diffusione, testimoniato concretamente in contesti neolitici italiani da specie animali e vegetali introdotte in forma già domestica.
Negli abitati in grotta dell’I. meridionale costiera, le sequenze stratigrafiche indicano una continuità di abitazione a partire dal Paleolitico; le modificazioni, nei livelli neolitici, sembrano interessare solo alcuni aspetti marginali (come l’introduzione della ceramica e, a volte, di agricoltura e animali domestici), senza alterare profondamente il quadro economico-sociale di questi gruppi. Le grotte dell’Uzzo e della Sperlinga in Sicilia e quelle delle Mura e delle Prazziche in Puglia, per es., testimoniano l’esistenza di piccoli gruppi nei quali la base di sussistenza indica una certa continuità con i precedenti abitatori; hanno sempre grande importanza la raccolta (in particolare quella dei molluschi) e spesso anche la caccia. Secondo alcuni autori tali nuclei, in seguito a fenomeni di acculturazione (visti come accoglimento progressivo di sollecitazioni esterne), sarebbero all’origine delle più complesse comunità di villaggio, che si presentano in Italia meridionale come un fenomeno ben vistoso e complesso: vi sono infatti occupazioni programmatiche dei territori più idonei alla nuova economia di produzione, quali pianure, altipiani, terrazzi fluviali, terreni in prossimità di lagune o foci costiere.
L’organicità nell’occupazione del territorio, la sistematicità di impianto, l’ampiezza dell’abitato, la capacità di sfruttare intensamente e a lungo un’area ristretta, sono dimostrati, per es., dalla distribuzione dei villaggi nel Tavoliere e, con minore evidenza, nel Materano, nella Sicilia orientale e nella Calabria tirrenica, questi ultimi appartenenti alla cultura di Stentinello (➔), del 6°-5° millennio a.C.
Una simile compattezza di occupazione fa supporre strutture sociali organizzate, con vivaci forme di scambio. L’impegno collettivo richiesto dai lavori agricoli è confermato dall’oneroso lavoro necessario per impiantare questi villaggi: nel Tavoliere, infatti, profondi fossati, a volte in duplice o triplice cinta, circondano il villaggio come nucleo abitativo; all’interno, recinti più piccoli indicano forse una demarcazione a livello di famiglia. La pluralità di stili ceramici nel Tavoliere ha fatto ipotizzare una serie di facies succedentisi cronologicamente, ma la grande omogeneità nel sistema economico, nella ubicazione e nella struttura dei villaggi e in alcuni casi la loro distribuzione modulare fanno pensare piuttosto che le varietà ceramiche (con decorazione impressa, impressa evoluta, dipinta a fasce rosse ecc.) riflettano scelte estetiche all’interno di gruppi simili.
La presenza numericamente significativa di ceramica in contesti neolitici e la variabilità delle forme e dei motivi decorativi ne fanno lo strumento base per la definizione di facies culturali. In quest’ottica l’imponente stratigrafia rilevata a Lipari (➔), nelle Isole Eolie, ha costituito per lungo tempo un’ossatura cronologica determinante nella valutazione delle facies neolitiche italiane.
Nel corso del 6° millennio a.C., quando tutta la penisola è già intensamente abitata, l’Italia centrale adriatica appare ancora legata a forme di sussistenza epipaleolitiche di caccia-raccolta: sono stati individuati numerosi insediamenti poco estesi, nei quali l’economia produttiva viene acquisita con tempi e modi differenziati, senza quella compattezza che caratterizza l’I. meridionale costiera; l’ergologia, soprattutto nello strumentario litico, indica una continuità nelle tecniche di fabbricazione e nei modi di sussistenza. La sequenza stratigrafica di Grotta dei Piccioni a Bolognano (Pescara), con i suoi livelli datati mediante il 14C (4297 a.C. per il livello inferiore, a ceramica impressa e dipinta in rosso), costituisce una importante ossatura cronologica per il Neolitico dell’I. centrale adriatica che si pone, nei suoi momenti iniziali, nella seconda metà del millennio. Le coste alte, la mancanza di facili approdi, la natura montuosa del terreno, devono aver condizionato anche le soluzioni economiche, favorendo in molti casi uno sviluppo dell’allevamento, forse con forme di pastoralismo transumante, come sembrano indicare le frequentazioni stagionali di alcune grotte. Villaggi veri e propri (Catignano, Villaggio Leopardi, Ripoli), nelle pianure abruzzesi e marchigiane, indicano modelli di sussistenza agricoli, nei quali l’allevamento è integrato da un’agricoltura ben sviluppata. La facies di Ripoli (➔) mostra notevole durata e diffusione, come provano i numerosi frammenti di tipica ceramica figulina in molti abitati dell’I. centrale e settentrionale. L’apertura ai traffici e agli scambi è dimostrata tra l’altro, nei siti abruzzesi, dalla presenza costante di ossidiana di Lipari.
Il versante occidentale tirrenico è caratterizzato da rinvenimenti meno sistematici: nel Lazio, la grotta del Sasso di Furbara (➔ Sasso) ha rivelato una serie di sepolture, accompagnate da una particolare ceramica, con fortissime affinità con quella del Neolitico emiliano (facies di Sasso-Fiorano). Altri rinvenimenti tipici di questo aspetto provengono da Grotta dell’Orso (➔ Sarteano), dalla Romita di Asciano (Pisa), da Palidoro (Roma); gli abitati in grotta o in ripari sotto roccia (Asciano, Palidoro) sembrano indicare un prevalente sviluppo dell’allevamento, mentre l’agricoltura è documentata in veri e propri villaggi all’aperto (a Pienza, in Toscana, si sono rinvenuti semi di farro, grano tenero, orzo). La più antica datazione mediante il 14C per il Neolitico tirrenico è quella della Grotta dell’Orso (4130±200), con una grossa sfasatura cronologica rispetto a situazioni simili del versante orientale. Alcune testimonianze funerarie sembrano indicare un articolarsi della struttura sociale di queste comunità neolitiche, come per es. in una sepoltura, isolata dalle altre, rinvenuta nella Grotta del Sasso di Furbara.
Gli scavi di L. Bernabò Brea alle Arene Candide, in Liguria, posero le basi per una sequenza delle culture neolitiche settentrionali, con livelli di base a ceramica impressa, seguiti da livelli della fase dei vasi a bocca quadrata e infine dalla fase della Lagozza. La neolitizzazione dell’I. settentrionale sembra avvenire con un certo ritardo rispetto all’I. peninsulare e non sembra alterare in molti casi un’economia di tipo mesolitico. L’utilizzazione delle nuove tecniche di sussistenza è ancora in gran parte integrata dalla caccia e dalla raccolta di molluschi marini. Gli abitati in grotta, frequenti nell’area ligure, confermano l’adattamento a situazioni ambientali non fortemente caratterizzate da economia produttiva.
Alla fine del 5°-inizio 4° millennio a.C. si ricollega la facies di Fiorano, diffusa soprattutto nel Reggiano e nel Modenese, con propaggini nel Veneto e affinità con la facies laziale del Sasso. La frammentarietà dei dati relativi agli abitati non consente deduzioni di carattere sociale né sull’impianto generale; legami con il sostrato mesolitico sono evidenti nell’economia, ancora largamente basata su caccia, pesca e raccolta, anche se sono documentati agricoltura e allevamento. In questo articolato processo gli elementi interagenti sono molteplici: contatti con l’I. centrale sono attestati da ceramica figulina presente in siti di Fiorano, ma particolarmente forti devono essere state le influenze danubiane.
Per il pieno Neolitico, caratterizzato dai vasi a bocca quadrata (4° millennio), stretti contatti sono attestati tra le grotte liguri e i villaggi della Pianura Padana e del Trentino. Questi ultimi presentano varie soluzioni strutturali, dai pozzetti di Rivoli Veronese agli acciottolati di La Vela di Trento; a Fimon-Molino Casa;rotto si ha una delle prime testimonianze di abitato su bonifica lungo le sponde di un bacino lacustre. Di questa facies sono ben documentate le necropoli; a Chiozza le deposizioni rivelano, nei corredi, una marcata differenziazione per sesso: quelli maschili con strumenti e armi, a indicare una definita divisione del lavoro e di compiti all’interno della comunità. Indicazioni sulla struttura tribale sembrano fornire le tombe di La Vela, dove i tre tipi costruttivi (a fossa semplice, a fossa con perimetro di pietre, a cista con lastre di pietra) evidenziano forse gerarchie e sistemi di rango più sviluppati che altrove. Questa facies culturale assume caratterizzazioni precise che evidenziano localmente forti componenti balcaniche (figurine fittili femminili, pintadere ecc.). Evidente è la frattura, talora documentata anche stratigraficamente, con la precedente tradizione: soluzioni e adattamenti nuovi suggeriscono in alcune aree, come nella valle dell’Adige, un pieno sviluppo dell’attività produttiva (agricoltura e allevamento).
In Sardegna sono state distinte due aree culturali: quella di Arzachena (➔) o dei circoli megalitici, a nord, e quella di Ozieri (Neolitico finale, 3° millennio), diffusa in tutta l’isola con la realizzazione di importanti monumenti con tecnica megalitica e una produzione ceramica con forme, quali la pisside, di ispirazione egea.
Nella stratigrafia delle Arene Candide sono compresi livelli caratterizzati da elementi nuovi, parte di un unico ambiente culturale, comprendente aree transalpine orientali. Si tratta della cultura di Lagozza (➔), datata all’inizio del 3° millennio a.C., che presenta caratteristiche omogenee. La diffusione di alcuni elementi della caratteristica ceramica lagozziana in contesti neolitici meridionali ne indica altresì la forte capacità di espansione in un momento in cui tutta la penisola italiana, pur nelle differenziazioni locali, partecipa di sistemi di circolazione e scambio organizzati, che preludono alla specializzazione commerciale dell’età dei metalli.
Questa koinè culturale, nella quale sfumati appaiono già i confini tra le varie facies regionali, è evidente anche nell’I. peninsulare, dove per es. la cultura di Serra d’Alto (➔) e Diana sembrano partecipare di una più intensa organizzazione di scambi e attività commerciali: ne è una prova, tra l’altro, la eccezionale diffusione dell’ossidiana di Lipari.
Gli abitati indicano una varietà di situazioni e scelte ambientali, che presuppongono una capacità di adattamento a diverse soluzioni economiche; la posizione di alcuni siti in punti strategici sulle vie di comunicazione tradizionali indica una specializzazione di alcuni gruppi in attività di scambio. Una conferma è rappresentata dal rinvenimento, in contesti riferibili alla cultura di Diana, delle prime scorie di rame e dalla diffusione geografica di questa cultura, localizzata soprattutto in Sicilia e in Puglia, ma presente anche a Malta e in molti siti dell’I. centrale, soprattutto abruzzese. Il potenziamento dell’economia di allevamento, in particolare dei caprovini, si inserisce in un quadro di accentuata mobilità; uno dei risultati sul piano sociale sarebbe una prima forma di stratificazione, con gruppi emergenti e strutture forse articolate in lignaggi; lo proverebbero alcune sepolture collettive, rinvenute soprattutto in Puglia, premesse alle tipiche sepolture dell’Eneolitico.
Verso la fine del 3° millennio si fa iniziare il periodo eneolitico, durante il quale lo sviluppo culturale appare caratterizzato da influssi provenienti sia dall’area egeo-anatolica, sia dal Mediterraneo occidentale, nel quadro di vasti movimenti di gruppi umani in relazione con gli inizi della metallurgia. L’aspetto finale della Lagozza, su cui s’innesterà poi, senza apparenti fratture, la cultura tipo Polada, con stretti rapporti transalpini, segna, nell’I. settentrionale, il momento di passaggio tra il Neolitico e il Bronzo.
Nella cultura di Remedello (➔), diffusa a nord del Po tra l’Oglio e il Mincio, ma penetrata poi anche nell’Emilia e nel Veneto, più evidente è il mutamento sopravvenuto nell’economia e nell’ergologia. Aspetti simili, attestati soprattutto in alcune necropoli, sono quelli di Rinaldone (➔) e del Gaudo (➔), noti nella fascia costiera tirrenica dell’I. centrale e meridionale. La facies Conelle-Ortucchio, che rappresenta l’Eneolitico (protoappenninico) delle Marche e dell’Abruzzo, mostra strette connessioni con il coevo gruppo tirrenico, nonostante differenziazioni locali, e insieme prelude agli svolgimenti appenninici dell’età del Bronzo. Si può riferire a un momento di questa cultura la datazione mediante il 14C a circa 2350 anni a.C. ottenuta dal livello eneolitico della Grotta dei Piccioni. Particolarmente significativa nella ceramica è la decorazione a fasce punteggiate, eseguite a punzonatura profonda e incrostate di materia bianca, motivo che sarà ripreso e in parte modificato nella successiva civiltà appenninica. In Puglia le tombe a grotticella di Cellino San Marco rappresentano un momento finale dell’Eneolitico e di passaggio al Bronzo. Estremamente complicati appaiono gli sviluppi di questa cultura, collegata da una parte con l’I. settentrionale, dall’altra con il mondo mediterraneo.
Nella stratigrafia di Lipari, l’Eneolitico è presente con la cultura di Piano Conte, che compare anche nella Grotta della Chiusazza in Sicilia e a Praia a Mare. Sempre in Sicilia, in cui l’Eneolitico appare piuttosto complesso, segue la cultura di Piano Quartara, con stili locali manifestanti forti componenti protoelladiche e anatoliche. In questo contesto compaiono la cultura del bicchiere campaniforme (➔ campaniforme, bicchiere), la cultura di San Cono e Piano Notaro (➔ San Cono), la cultura di Serraferlicchio (➔). Aspetti tipicamente egeo-anatolici sono evidenti nella cultura di Sant’Ippolito, con ceramica dipinta in rosso scuro su fondo giallastro e forme quali le olle biansate e i bicchieri monoansati, i vasetti con beccuccio cilindrico e un fiasco ovoidale ad alto collo di tipo cipriota. Nella Sicilia nord-occidentale si sviluppa la cultura tipo Conca d’Oro (➔), conosciuta principalmente da corredi funebri.
In Sardegna, che si ritiene aperta da questo momento ai traffici del Mediterraneo, è stata distinta l’area culturale di Anghelu ruiu (➔).
Fra le culture attribuite alla prima età del Bronzo (2300-1700 a.C. ca.), quella meglio conosciuta è la cultura di Polada (➔).
Nell’Italia centrale, i dati relativi agli inizi dell’età del Bronzo sono estremamente incerti e frammentari. In Toscana e in Emilia compare una facies che prende il nome dal giacimento di Asciano, presso Pisa, definita dalla presenza di ceramica tipo Polada associata con ceramica decorata a incisione nella tradizione del bicchiere campaniforme. Nel Lazio, nel giacimento di Palidoro i livelli medi hanno dato ceramiche con caratteristiche che richiamano la cultura di Polada.
La prima età del Bronzo dell’I. meridionale è rappresentata dalla continuazione della facies di Cellino San Marco, il cui repertorio ceramico mostra delle analogie con Piano Quartara e con Polada. Fra i tipi principali sono presenti ciotole carenate lenticolari e olle o boccali biconici decorati. Per quanto riguarda la diffusione del bronzo, a eccezione dell’I. settentrionale, dove i rinvenimenti di oggetti metallici negli abitati sono piuttosto comuni, nel resto della penisola i bronzi attribuibili a questo periodo compaiono quasi esclusivamente in ripostigli. La tipologia di tali manufatti, singolarmente omogenea in tutto il territorio italiano e strettamente collegata alle più antiche culture del Bronzo europee, è indice del sorgere di un artigianato in possesso di tecniche e modelli con un’area di diffusione molto vasta, in contrapposizione all’artigianato domestico, o comunque a diffusione relativamente limitata, della ceramica e della pietra.
In Sicilia il quadro culturale dell’antica età del Bronzo è complesso e articolato. Nella zona orientale e meridionale fiorisce la cultura di Castelluccio (➔). Nel territorio nord-occidentale dell’isola si sviluppa invece la cultura della Moarda, con ceramica nello stile del bicchiere campaniforme d’influenza iberica. La prima età del Bronzo delle Eolie è rappresentata dalla cultura di Capo Graziano (➔).
Durante la media età del Bronzo (1700-1350 a.C. ca.) una relativa unità culturale si afferma nelle regioni centrali e meridionali della penisola.
La civiltà appenninica, che si sviluppa ora dall’Emilia fino alla Puglia, è caratterizzata da un’economia di tipo prevalentemente pastorale; ciò risulta evidente, oltre che dai resti faunistici, dalla posizione montana o submontana della maggior parte dei giacimenti, distribuiti lungo la catena appenninica, e dalla presenza ricorrente di elementi connessi con la lavorazione del latte. Di grande importanza per l’inquadratura cronologica della civiltà appenninica e in generale di tutta l’età del Bronzo italiana è la presenza, soprattutto nelle regioni meridionali, in Sicilia e nelle Eolie, di abbondante ceramica d’importazione micenea, che permette di datare i contesti in cui appare per uno spazio di tempo compreso fra 16° e 11° secolo. Questa intensa frequentazione micenea delle coste italiane deve essere collocata in un quadro di traffici e di relazioni commerciali nel quale l’I. rappresentava probabilmente sia il luogo di origine di alcune materie prime, sia la tappa intermedia che collegava l’Egeo con le regioni più lontane dell’Europa.
Nel territorio emiliano a occidente del Panaro si sviluppa durante la media età del Bronzo la cultura terramaricola (➔ terramare). Particolarità simili a quelle di tale cultura si notano, durante questo periodo, nelle culture palafitticole della Pianura Padana. In questa zona, accanto al rito inumatorio, compare già la cremazione (necropoli di Povegliano e Monte Lonato).
La media età del Bronzo in Sicilia e nelle Eolie è rappresentata dalle culture affini di Thapsos (➔) e del Milazzese (➔).
In Sardegna ha inizio la civiltà nuragica, alla cui fase più antica, corrispondente all’incirca alla media età del Bronzo, è attribuita la cultura di Bonnanaro (➔), essenzialmente pastorale.
Con l’età del Bronzo recente (1350-1200 a.C. ca.) si verificano nel quadro culturale italiano trasformazioni profonde, analoghe a quelle che le fonti archeologiche testimoniano per la civiltà dei campi di urne dell’Europa continentale. Due fatti in particolare caratterizzano questa età: il moltiplicarsi degli insediamenti e, in generale un aumento della popolazione, e un grande incremento, su tutto il territorio italiano, della metallurgia del bronzo. Questi fenomeni riflettono entrambi trasformazioni economiche, in particolare un miglioramento delle tecniche agricole, basato in larga misura sullo sviluppo della metallurgia, e coincidono con il sorgere di nuovi ceti sociali aristocratici che si consolideranno durante la successiva età del Ferro. Nell’area della civiltà appenninica esiste, fra le età del Bronzo medio e recente, una chiara continuità culturale, che si manifesta negli insediamenti, nei tipi di sepolture e in numerosi altri aspetti. Tuttavia la facies subappenninica, attribuibile in linea di massima al Bronzo recente, vede alcune trasformazioni, la più evidente delle quali è il sostituirsi, nella ceramica, di elementi plastici alla ricca decorazione incisa appenninica, in particolare anse sopraelevate a protome animale. Per quanto riguarda la sfera economica, aumenta l’importanza dell’agricoltura accanto all’allevamento. Molto strette appaiono le connessioni tra l’area subappenninica e le terramare, mentre numerosi elementi di essa penetrano nell’area delle culture palafitticole a nord del Po. D’altra parte, la ricchissima serie di bronzi tipici del Bronzo recente della zona palafitticola (orizzonte di Peschiera) e terramaricola si trova ora rappresentata su tutto il territorio della penisola. Per quanto riguarda i riti funebri, l’uso della cremazione appare ora relativamente frequente, soprattutto nel Nord.
Al Bronzo recente appartiene in Sardegna la cultura nuragica di Monte Claro. In Sicilia, durante l’età del Bronzo recente e finale e l’età del Ferro si sviluppa nelle regioni nord-orientali la cultura di Pantalica (➔ Cassibile). Nell’area occidentale della Sicilia, in corrispondenza con le fasi finali della cultura di Pantalica, si svolge la cultura di Sant’Angelo Muxaro, anch’essa con necropoli di tombe a grotticella talora di grandissime dimensioni. Nelle Isole Eolie l’età del Bronzo recente vede l’avvento di una nuova cultura, l’Ausonio (➔ Eolie, Isole). 4.4 Bronzo finale. Durante l’età del Bronzo finale (1200-1000 a.C. ca.), il fenomeno più appariscente, che conferisce una certa omogeneità culturale a tutto il territorio italiano, è la diffusione dei campi di urne cosiddetti protovillanoviani, che rappresentano la definitiva introduzione di una componente culturale transalpina in coincidenza con l’affievolirsi degli influssi del Mediterraneo orientale a causa del crollo dell’impero miceneo. Caratteristiche delle necropoli protovillanoviane sono le urne cinerarie biconiche coperte da una scodella a bordo rientrante. Notevolmente ricca e raffinata è la serie dei bronzi, illustrata in particolare in numerosi ripostigli.
La prima età del Ferro, che in linea generale comprende 9° e 8° sec., vede il sorgere e il definirsi, dalla relativa unità culturale dell’età del Bronzo finale, di culture regionali differenziate, in corrispondenza con quelle che saranno le suddivisioni etnico-linguistiche dei tempi storici. In alcune zone, in particolare nell’I. meridionale, l’età del Ferro rappresenta uno stadio assai vicino a quello della civiltà urbana, ma questo processo viene interrotto e portato a compimento dalla colonizzazione greca, che segna il passaggio dalla protostoria alla storia.
Nell’I. meridionale, si sviluppano durante questa età la cultura apula, e in Calabria e in Campania quella detta ‘delle tombe a fossa’, con ceramica d’impasto e dipinta d’imitazione greca; particolarmente importanti in Campania sono i ritrovamenti di Cuma, in Calabria quelli di Torre Galli.
La cultura laziale, nota principalmente dalle zone di Roma e dei Colli Albani, si definisce già durante il 10° secolo. Nelle Marche e in Abruzzo la cultura picena è contraddistinta da sepolture a inumazione, ceramica d’impasto e una ricca produzione di bronzi. In Umbria l’età del Ferro è nota dal gruppo di Terni, dove si hanno sepolture a inumazione con tumulo e a cremazione. Particolarmente notevole la serie ricca e ornata delle fibule.
La civiltà villanoviana si distingue nei due grandi gruppi emiliano e tosco-laziale (Lazio settentrionale), con differenze locali piuttosto notevoli. Gruppi minori sono venuti in luce nelle Marche (Fermo) e in Campania (Pontecagnano, Sala Consilina, Capodifiume). La necropoli a cremazione di Chiavari testimonia in Liguria la prima età del Ferro.
Nel Veneto si svolge la civiltà atestina (➔ Este), che giunge fino a epoca romana. Una durata altrettanto lunga ha la cultura lombarda di Golasecca (➔). L’età del Ferro del Trentino è attestata nelle necropoli a cremazione di Vadena.
In Sardegna, il Nuragico medio, che corrisponde all’età del Bronzo finale e all’età del Ferro, vede la massima fioritura dell’edilizia nuragica. La fase più tarda si prolunga fino agli inizi della dominazione romana.
La nozione geografica di Italia, nella più antica tradizione classica, è sottoposta a oscillazioni. Alla fine del 6° sec. a.C., era la regione nella quale i Greci avevano fondato molte colonie costiere, sullo Ionio e sul Tirreno. Nella seconda metà del 5° sec., l’I. era una regione originariamente compresa fra lo Stretto e l’istmo calabro, territorio poi esteso fino al golfo di Posidonia sul Tirreno e a Taranto sullo Ionio, la cui popolazione (Morgeti e Siculi) sarebbe stata cacciata in Sicilia dagli Enotri, èthnos originario degli Itali, e dagli Opici, abitanti della Campania. La koinè linguistica rappresentata dall’osco favorì l’estensione del nome I. a tutto il Meridione, fino al Circeo. Dopo la conquista romana della zona cisalpina occupata dai Galli, alla metà del 2° sec. a.C., Catone identificava l’I. con l’attuale penisola, interpretando la diffusa consapevolezza di un concetto geografico ereditato dai precedenti contatti con le genti di lingua osca e che si andava arricchendosi di contenuti politici con l’ormai avvenuta espansione di Roma.
Prima della dominazione romana le principali popolazioni dell’I. erano: i Latini (nella parte settentrionale del Lazio antico) e i Falisci (fra i Monti Cimini e il Tevere); i Volsci, gli Equi, gli Ernici (nella parte orientale e meridionale del Lazio); i Sabini (nella zona di Terni e Rieti), gli Umbri (nell’Umbria orientale e in parte della Romagna), i Marsi e i Peligni (intorno al Fucino), i Picenti e i Pretuzi (tra il Foglia e il Pescara), i Vestini e i Marrucini (sulle due sponde del Pescara); i Campani (nella Campania), i Sanniti (nelle zone appenniniche interne della Campania, del Molise e dell’Abruzzo meridionale), i Frentani (sulle coste del Molise e dell’Abruzzo meridionale), i Lucani (nella Lucania), i Bruzi (nell’odierna Calabria); gli Iapigi (nella moderna Puglia), divisi in Dauni al nord, Peucezi al centro e Messapi, Sallentini, Calabri al sud; gli Etruschi; i Greci (Magna Grecia e Sicilia); i Liguri (sulla costa tirrenica a settentrione dell’Arno e nell’interno fino alla confluenza del Po con il Ticino); i Veneti (fra il Tagliamento, le Alpi, il Po e l’Adriatico); i Galli (fra i Liguri e i Veneti), distinti in Insubri, Cenomani, Lingoni, Boi, Senoni; i Siculi e i Sicani (in Sicilia, dove, nella punta occidentale, erano Elimi e Fenici); i Corsi (Corsica e Sardegna settentrionale); i Sardi.
Tale assetto fu raggiunto attraverso complessi processi di etnogenesi realizzatisi a partire dall’età preistorica. Gli Etruschi, tra l’8° e il 7° sec., dall’Etruria estesero il loro dominio alla Valle Padana, nel Lazio, nella Campania. Ma presto perdettero l’area padana, invasa dai Celti (5° sec.), che dalla Lombardia, attraverso l’Emilia, si spinsero sino alle Marche; poi la Campania (5° sec.) e il Lazio settentrionale (4° sec.). Le stirpi sabelliche, discendendo alla fine del 5° sec. nell’I. meridionale, si sovrapposero a stirpi preesistenti, Ausoni ed Enotri. Questi due ultimi, con i Siculi, appartenevano allo stesso gruppo dei Latini. Problemi complessi e non ancora del tutto risolti comportano lo studio dell’origine delle varie popolazioni, e l’attribuzione a queste delle civiltà documentate archeologicamente.
Il soggiogamento e l’unificazione di questi popoli fu per Roma opera lunga e difficile. Le tappe principali furono: la conquista del primato nel Lazio, durante l’età regia e il primo periodo repubblicano; la lotta con gli Equi, i Volsci e gli Etruschi meridionali, nel 5° sec. a.C.; la distruzione di Veio (396); la ripresa dopo la catastrofe gallica che portò a un’estensione dal Cimino a Terracina (390); la prima guerra sannitica (343-341); la guerra latina e lo scioglimento della lega (338); le altre guerre sannitiche, la vittoria sulle coalizioni e la guerra di Pirro al principio del 3° secolo. Così Roma, nella prima metà del 3° sec., ebbe l’egemonia della penisola dall’Arno e dall’Esino allo Stretto di Messina.
Nei territori conquistati Roma fondò, dal principio del 5° sec., colonie di diritto latino alle quali parteciparono Romani e Latini. Col principio del 4° sec. preferì le annessioni dirette con la fondazione di nuove tribù e la deduzione di colonie romane o con il conferimento dell’autonomia municipale, sia con piena cittadinanza, sia con cittadinanza sine suffragio (cioè senza diritti politici). Altre comunità, infine, furono qualificate come federate, sulla base di trattati concedenti raramente la parità e assai diversi l’uno dall’altro. In tal modo i Romani dominarono una popolazione che era circa il doppio della loro. Nel 2° sec. a.C. i federati italici iniziarono a chiedere la cittadinanza romana, che ottennero nell’89 a.C. dopo un’aspra lotta (guerra sociale). Con la concessione della cittadinanza si diffusero ovunque la lingua, i costumi, le istituzioni di Roma. Al tempo di Pompeo e Cesare ottennero il diritto di cittadinanza anche la Gallia Cispadana e la Transpadana.
Augusto divise l’I. in 11 regioni: 1. Campania (comprendente anche il Lazio, fino al Tevere); 2. Apulia et Calabria; 3. Lucania et Bruttii; 4. Samnium; 5. Picenum; 6. Umbria; 7. Etruria; 8. Aemilia; 9. Liguria; 10. Venetia et Histria; 11. regio Transpadana. Poi lo sviluppo dell’Impero, per la sua stessa vastità e la sua complessa organizzazione, diminuì la preminenza dell’I. nello Stato romano: le province ripresero la loro importanza economica, mentre l’I. era impoverita dal latifondo. L’autonomia amministrativa fu molto attenuata con l’introduzione dei curatores, con Traiano, e dei consulares istituiti da Adriano e da Marco Aurelio col nome di iuridici. La partecipazione alla classe dirigente dell’Impero diminuì, gli stessi imperatori furono sempre più spesso scelti tra i provinciali. L’editto di Caracalla (212 d.C.), concedendo a tutti i provinciali la cittadinanza romana, sanzionò la parificazione. Nel 3° sec. l’I. fu amministrata da correctores. Con Diocleziano diventò una delle 12 diocesi. Con Costantino perse la capitale. Subito dopo, aggregata in una sola prefettura con l’Africa, restò priva anche della fisionomia amministrativa. Il declino dell’I. creò nel 5° sec. le condizioni per le invasioni barbariche. Roma fu a più riprese conquistata e nel 476 Odoacre, re degli Eruli, depose Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente.
Regno ostrogoto: l’imperatore d’Oriente Zenone, preoccupato dall’espansione di Odoacre nell’Illirico, spinge il re degli Ostrogoti, Teodorico, a sostituirsi a Odoacre con il titolo di magister militum. La formale dipendenza di Teodorico dall’imperatore d’Oriente non gli impedisce, però, di rendersi indipendente da ogni autorità romana; gli Ostrogoti, stanziati in I. con una colonizzazione che raggiunge una linea che all’incirca va da terre immediatamente a N di Roma a una zona a settentrione del Gargano, rispettano l’amministrazione civile romana, conservando integra la loro struttura di governo militare. Si tratta quindi di una sorta di giustapposizione, che garantisce per alcuni anni una coesistenza tra Goti e Romani, anche grazie alla capacità di Teodorico di scegliersi collaboratori romani di notevole livello sociale e culturale, quali Cassiodoro, Boezio, Fausto, e di mantenere un buon rapporto con il clero cristiano.
535-553: guerra gotico-bizantina; i torbidi scoppiati tra i Goti alla morte di Teodorico per l’assassinio di Amalasunta, e la successione di Teodato, imbelle capo dei nazionalisti goti, offrono l’occasione propizia all’imperatore Giustiniano per recuperare all’Impero anche l’I.; la feroce guerra si conclude con la vittoria del generale bizantino Narsete.
Giustiniano emana la Pragmatica Sanctio che estende all’I. l’organizzazione imperiale, riducendola a una semplice provincia; in un quadro di vuoto di potere nella penisola e al di fuori del controllo bizantino viene sviluppandosi il potere politico del papa.
Dominazione dei Longobardi, che s’insediano in quasi tutta l’I. settentrionale, dove stabiliscono la capitale a Pavia, in Toscana intorno a Lucca, nell’Umbria intorno a Spoleto e nel Beneventano; la restante parte dell’Italia (Esarcato, Pentapoli, Roma, il Regno di Napoli e le isole) è sotto il controllo dei Bizantini, con capitale Ravenna.
Fine 7° sec.: la conversione dei Longobardi dall’arianesimo al cattolicesimo, iniziata da Gregorio I, può considerarsi conclusa.
726-728: la resistenza del papa ai decreti iconoclasti di Leone l’Isaurico si propaga ai territori bizantini italiani; il tentativo del re longobardo Liutprando di sfruttare l’indebolimento bizantino per estendere i domini longobardi si scontra con il volere del papa; Liutprando rinuncia e si sottomette al pontefice con la donazione del castello di Sutri.
749-756: il successore Astolfo riprende l’offensiva contro i Bizantini, che perdono l’Esarcato nel 750, e contro il papa, ma Stefano II chiama in suo aiuto Pipino il Breve, già riconosciuto legittimo re dei Franchi dal suo predecessore Zaccaria, e gli conferisce il titolo di patrizio dei Romani, ottenendone la promessa di aiuto per assicurarsi la restituzione dai Longobardi dei territori ex bizantini d’Italia. Pipino sconfigge Astolfo e dona il territorio dell’Esarcato e del Ducato romano al papa, segnando una tappa importante nel processo di costruzione del Patrimonio di S. Pietro, dal quale poi si svilupperà lo Stato della Chiesa.
756-774: Desiderio, re dei Longobardi, tenta invano di rompere l’alleanza tra il Regno dei Franchi e la Chiesa e di evitare un nuovo intervento militare franco in Italia.
774: Carlomagno, re dei Franchi, vince ripetutamente i Longobardi conquistandone il regno.
Progressiva sostituzione dei Franchi ai Longobardi nelle strutture politico-amministrative del regno. A fronte di una frammentazione politica dell’I. meridionale, si costituisce, nella parte settentrionale della Penisola, un regno italico dotato di larga autonomia, anche legislativa (capitolari italici). Il territorio italiano sottoposto alla dominazione franca è organizzato in contee (al posto dei ducati), progressivamente concesse a personalità franche legate al sovrano da un vincolo di vassallaggio. Sono represse le rivolte di Rotgaudo e Stabilino da Treviso (776); si sottomettono Tassilone di Baviera (787) e Arechi, duca di Benevento (788).
25 dicembre 800: Carlomagno re dei Franchi, già insignito del titolo di patricius Romanorum, difensore di Roma e del papato, è incoronato imperatore da papa Leone III. Carlomagno considera la corona imperiale quale incremento della propria dignità regia estesa su più regni, e come il simbolo di un potere del quale la religione costituisce un particolare settore, secondo il modello del rex et sacerdos. Per il papato, l’Impero è una diretta filiazione della Chiesa, a essa subordinato con compiti politici e militari. Tuttavia, per un certo periodo i papi non esercitano grande influenza nelle vicende franche.
Nell’Italia meridionale longobarda, il principato di Benevento, favorito da un’economia prospera, arricchito da influenze bizantine e addestrato per il continuo stato di guerra con le città italico-bizantine della costa (Napoli, Amalfi, Sorrento), oppone resistenza alle campagne di Carlomagno e del figlio Pipino, riuscendo a conservare una sostanziale indipendenza. Ma la divisione dell’aristocrazia in fazioni e le velleità anarchiche dei singoli signori causano presto la spaccatura del principato in due aree politiche: il principato di Benevento e quello di Salerno, cui si aggiunge presto la contea di Capua.
823-844: dopo l’eliminazione da parte di Ludovico il Pio del nipote Bernardo, figlio di Pipino, il Regno italico è retto da Lotario, figlio di Ludovico; con Lotario, impegnato nelle lotte con i fratelli per la divisione dell’Impero, il Regno perde l’autonomia e l’importanza precedenti; le strutture carolinge innestatevi da Pipino corrono così il rischio di essere travolte e l’amministrazione pubblica diviene inefficiente. In questa epoca si assiste a un processo di formazione di vasti domini da parte di famiglie aristocratiche, soprattutto di quelle che esercitano funzioni pubbliche nelle marche confinarie, del Friuli, di Tuscia, di Ivrea e di Spoleto.
Approfittando anche delle divisioni e delle continue lotte dei potentati longobardi, i Saraceni intraprendono la conquista della Sicilia (827), cacciandone progressivamente i Bizantini. Chiamati spesso come mercenari dai potentati meridionali in lotta fra loro, i Saraceni giungono a insediarsi stabilmente a Bari, Taranto, Reggio; nell’846 una banda saracena giunge fino a Roma mettendo a sacco le basiliche degli Apostoli.
844-875: regno di Ludovico II, figlio di Lotario, che nell’850 è incoronato anche imperatore, ma per le divisioni ereditarie dell’Impero è limitato a esercitare la sua autorità sul Regno italico. La sua attività, volta a ricostruire le strutture del Regno italico ridandogli efficienza e ad affermare la sua autorità in Roma e nel meridione, dove s’impegna a cacciare i Saraceni e a stabilire un’egemonia sui potentati locali, ridà unione e prestigio al Regno. A partire da lui la dignità imperiale si lega indissolubilmente con la corona italica. Alla sua morte senza successori diretti, il papato, ormai fortemente interessato nelle questioni del Regno, l’aristocrazia comitale, rafforzatasi nel processo di fusione tra le strutture agrarie italiche e le consuetudini feudo-vassallatiche importate da oltralpe, e l’episcopato italico, appoggiatosi sulle già vivaci forze cittadine della regione padana, cercano di assicurare al Regno un sovrano.
888: deposizione di Carlo il Grosso, ultimo re carolingio.
Berengario I marchese del Friuli, Guido e Lamberto di Spoleto, poi ancora Berengario si succedono sul trono e combattono fra loro, arrivando anche al titolo imperiale, senza mai riuscire a costituire un organismo politicamente e territorialmente compatto e senza garantire l’autorità del potere pubblico, coinvolti nelle vicende papali che, parallelamente alla crisi del potere pubblico, vedono progressivamente la storia della Chiesa di Roma contraddistinta da contrasti tra fazioni di potenti famiglie locali che mirano al controllo del trono pontificio come elemento aggiuntivo di prestigio per una dominazione particolare, su Roma e sulle terre immediatamente circonvicine.
La crisi di autorità dei poteri di matrice carolingia si accompagna al ricambio sociale nella feudalità: nuove famiglie danno luogo a dinastie come i Canossa; le giurisdizioni subiscono una riarticolazione territoriale; riprende l’influenza bizantina sull’Italia meridionale, che attrae sotto la sua influenza il principato di Benevento senza eliminare il pericolo saraceno; la Chiesa si orienta verso il recupero di valori spirituali, sostenuto da figure di vescovi come Attone di Vercelli e Raterio di Verona.
926: un tentativo di restaurazione dell’autorità regia è compiuto da Ugo di Provenza, che cerca di attirare in suo potere anche Roma e ha rapporti cordiali con Bisanzio. Il carattere troppo personale del suo potere e l’inadeguatezza dei mezzi con cui cerca di dominare un mondo politico frazionato e tumultuoso fanno fallire la sua impresa sotto la spinta della nuova aristocrazia capeggiata da Berengario d’Ivrea, appoggiato da Ottone re di Germania.
951-952: Ottone scende in I. e si fa proclamare re d’I. a Pavia dandone l’investitura a Berengario. Questi, tuttavia, si inimica il papa Giovanni XII, che richiama in I. Ottone.
962: Ottone I riceve dal papa la corona imperiale unendo la corona d’I. al Sacro Romano Impero germanico.
Il Regno d’Italia si unisce nelle sorti al Regno di Germania. Trentino, Friuli e Istria sono organizzati in feudi tedeschi per meglio assicurare la comunicazione fra i due regni. Consolidata la sua autorità in Germania e nell’I. regia, Ottone si volge anche verso l’I. meridionale. Ma, dopo alcuni iniziali successi, riesce solo a concludere un matrimonio tra la principessa bizantina Teofano e il suo figlio ed erede Ottone II.
982: Ottone II è sconfitto a Stilo dai Saraceni e fallisce la politica imperiale verso l’I. meridionale.
983: alla morte di Ottone II, gli succede il figlio Ottone III, che l’educazione classica ricevuta dalla madre Teofano e dal precettore Gerberto di Aurillac (futuro papa Sivestro II) spinge a quella renovatio Imperii, che, nell’intento di restaurare gli antichi fasti della Roma cristiana e imperiale, lo induce a trasferire direttamente a Roma la capitale del suo impero sostanzialmente germanico, con l’unico risultato pratico di un più sistematico assoggettamento dell’organismo ecclesiastico alla volontà imperiale e un più scoperto favoreggiamento dei vescovi a danno della feudalità laica.
1004: Arduino d’Ivrea, postosi dopo la morte di Ottone III (1002) alla guida della feudalità laica in rivolta contro il potere dei vescovi-conti, viene sconfitto dall’imperatore Enrico II: fallisce così l’ultimo tentativo di ricostituire un regno indipendente.
A partire dall’anno 1000 la storia italiana si fa più complessa, con la partecipazione di nuovi e più numerosi attori: le città e tutte quelle forze sociali che nella città si incontrano e si scontrano. Significativo è il ripiegare dei Saraceni dal Mediterraneo sotto l’energica offensiva delle città marinare, Amalfi, Napoli, Gaeta, Pisa, Genova, Venezia; ma è soprattutto nel Settentrione che questo impetuoso movimento cittadino s’impone; con il decadere di Pavia, Milano acquista sempre maggiore autonomia all’interno e prestigio all’esterno.
1037: la Constitutio de feudis, emanata dall’imperatore Corrado II, assicura ai piccoli feudatari l’ereditarietà dei loro benefici e la protezione imperiale. È un colpo inferto alla grande gerarchia ecclesiastica, da cui l’imperatore va distaccandosi; le popolazioni cittadine ne approfittano per allargare e consolidare le loro autonomie.
1059: concordato di Melfi. Il papa concede tutta l’I. meridionale in vassallaggio ai Normanni, la cui potenza costituisce un pericolo per lo stesso papato, avendone in cambio l’assistenza militare nella lotta contro l’imperatore. Con il riconoscimento e l’investitura papali, che costituiscono la legittimazione delle usurpazioni e conquiste precedenti, i Normanni riprendono con rinnovato vigore la loro opera di unificazione politica di tutto il Mezzogiorno, dandole anche un colorito religioso, specialmente nella conquista della Sicilia musulmana e nell’eliminazione degli ultimi baluardi bizantini. La curia romana deve accettare la rapida avanzata di questi suoi alleati-nemici, che portano così a termine la conquista del Mezzogiorno.
1098: Urbano II concede al conte Ruggero diritti che ne fanno una sorta di legato apostolico nei riguardi della Chiesa siciliana e che saranno ampliati da Pasquale II e da Eugenio III.
In Italia, dove più profonda e operante è l’influenza dell’ordinamento ecclesiastico, dove più vivi e dinamici sono gli ideali della Riforma e più vigorosi i fermenti e gli impulsi per un rinnovamento sociale, il movimento riformatore irradiatosi da Cluny raggiunge una particolare intensità. Nella lotta delle investiture, con il motivo religioso (la ribellione dei fedeli contro i vescovi indegni e simoniaci) si confonde la ribellione politico-sociale dei ceti inferiori contro il proprio signore. Incoraggiata dai consensi che le giungono da ogni parte, rafforzata dall’imponente afflusso di nuove e impetuose energie religiose, la Chiesa, da Leone IX a Stefano IX, a Niccolò II, sempre sotto la spinta dell’instancabile azione del monaco Ildebrando (poi papa Gregorio VII), con un continuo crescendo di disposizioni disciplinari, decreti, formulazioni teoriche, si libera dapprima dalla corruzione interna e dalla pesante tutela dell’Impero, per passare poi risolutamente all’offensiva con l’esplicita proclamazione dell’assoluta separazione dello spirituale dal temporale, della Chiesa dall’Impero.
Fine 11° sec.: nell’I. settentrionale lo scontro tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV coinvolge non soltanto la feudalità laica ed ecclesiastica, ma anche il popolo delle città e delle campagne, che nelle alterne vicende di vittorie e sconfitte dei protagonisti si fa sempre più sentire. Papa e imperatore fanno a gara nella concessione di privilegi e di diplomi alle città per averle al proprio fianco nella lotta. La spaccatura verificatasi in seno all’episcopato italiano (e anche tedesco) si concretizza in uno scisma tra Gregorio VII e Urbano II, da un lato, e Clemente III (Guiberto di Ravenna, eletto pontefice romano da Enrico IV), dall’altro.
Nascita dei Comuni: nell’I. settentrionale, le città estendono e consolidano la propria autonomia, avviandosi a diventare veri e propri Stati, allargandosi nel contado, attirandolo e assorbendolo nella loro economia, nella rete dei loro interessi mercantili e artigiani. Genova e Pisa sono in gara per una penetrazione nel Mediterraneo, accanto alle città già bizantine, quasi ad aprire le strade che saranno poco dopo battute dalle crociate, e dalla crociata traggono vantaggi economici le città marinare. Le città più grandi incorporano economicamente e politicamente i Comuni più piccoli, mentre dall’affrancamento dei servi nelle campagne sorgono i Comuni rurali.
1154: il nuovo re di Germania, Federico I di Svevia, detto il Barbarossa, scende in I. allo scopo di riaffermare la sua autorità sul regno, piegando prima di tutto le città che, con l’usurpazione delle regalie, tendono a sfuggire al potere imperiale. L’imperatore può soltanto riportare successi contro alcuni Comuni italiani, agevolato da alcuni di questi stessi Comuni che, nel timore di essere assorbiti dalle città più potenti, si schierano al suo fianco.
1167: giuramento di Pontida. Contro l’imperatore si leva la coalizione di tutte le città minacciate nella loro autonomia, raccoltesi nella Lega veronese e nella Lega lombarda; nel blocco intervengono il papa e i Normanni del Regno di Sicilia, l’uno e gli altri ugualmente minacciati nella loro indipendenza.
1176: sconfitto a Legnano, Barbarossa è costretto a rinunciare alle sue pretese di assoluta supremazia sulla Chiesa.
1183: Pace di Costanza. L’imperatore deve riconoscere, sostanzialmente, le autonomie cittadine. In linea di diritto, l’Impero, in quanto espressione massima di statualità, ne esce rafforzato, poiché vede reintegrarsi nella sua unità di referente della gestione del publicum le città che a un certo momento hanno operato in proprio senza una definizione di questa ‘presunzione’ di governo; ma d’altra parte, e anche in linea di diritto, le consuetudines praticate da parte delle città non solo ricevono un riconoscimento, ma ricevono quella precisa definizione anche politica che a esse mancava.
1194: matrimonio tra Costanza d’Altavilla e il figlio di Federico I Barbarossa, Enrico VI, che, incoronato re d’I., alla morte del re normanno Guglielmo II assume anche la corona del Regno normanno. Con questa unione, sia pure personale, delle due corone, si crea una situazione estremamente pericolosa per le città italiane e specialmente per la Chiesa e il suo Stato patrimoniale, praticamente accerchiato dalla potenza sveva.
1197: la morte di Enrico VI fa fallire, per il momento, la minaccia contro le autonomie locali e contro la stessa indipendenza del papato. Il pontefice dispone di una gerarchia sottoposta al suo potere esclusivo e assoluto. Il Regno di Sicilia, durante la minore età di Federico II di Svevia (figlio di Enrico VI), passa sotto il dominio della Chiesa, tuttavia Federico II, pupillo di papa Innocenzo III (1198-1216), riguardato come lo strumento docile e malleabile da impiegare ai fini della Chiesa, diventa il suo più energico e spregiudicato avversario; facendo del Regno di Sicilia la solida base da cui muovere, egli concentra le sue energie e i suoi sforzi in I. contro i Comuni e contro la Chiesa alleatasi ai Comuni.
Il Comune, retto da un’amministrazione sempre più articolata, tende a espandersi non più soltanto nel contado, ma anche nella più vasta regione circostante. L’evoluzione sociale ed economica produce una più netta contrapposizione di ceti e promuove un attivo e differenziato processo associativo. Alle associazioni degli aristocratici, o consorterie, si contrappongono quelle dei mercanti, con propri magistrati e consoli che si affiancano, quando addirittura non si contrappongono, ai consoli del Comune. Per effetto della maggiore asprezza della lotta politica, la stessa costituzione dei Comuni si evolve. Al posto dei consoli e dei podestà indigeni subentra il podestà di origine forestiera, che dà una maggiore garanzia di amministrazione equa e imparziale, al di sopra delle violente fazioni. Nelle sue funzioni, sempre più incisive, si può scorgere talvolta l’anticipazione del signore che ben presto trasformerà il Comune in signoria.
Su questa fluida situazione cadono l’azione di Federico II e il suo proposito di ricondurre le città autonome del Settentrione sotto l’autorità regia e imperiale. Le sue esitazioni nel dar seguito ai numerosi impegni contratti con il papa per essere riconosciuto nei suoi diritti ereditari a Palermo e in Germania, fra cui la crociata, inaspriscono la Santa Sede. Mentre egli è in Terrasanta a trattare un accordo con il sultano, il Regno di Sicilia è invaso. Ma Federico è pronto a respingere l’attacco e riesce ad assicurarsi il controllo del regno meridionale.
1231: le Costituzioni di Melfi suggellano una lunga e minuziosa riorganizzazione che assicura il più efficiente accentramento del potere regio.
Nella lotta dell’imperatore contro papato e città, queste ultime non costituiscono un fronte compatto: alcune, governate da consorterie filoimperiali, si proclamano ghibelline; a esse si uniscono potenti signori della Valle Padana, come Oberto Pelavicino ed Ezzelino da Romano, a capo, sotto titoli diversi, di un buon numero di città. Il papato, irriducibile, getta nella difesa della sua indipendenza politica e religiosa ogni sua arma, temporale e spirituale. Chiesa e Impero danno così una più precisa formulazione dottrinaria alle rispettive tesi: il primato dell’imperatore si richiama ai principi del diritto romano, mentre la supremazia del papa è proclamata risolutamente sulla base dell’origine divina della Chiesa, che, perciò, considera ogni altra autorità terrena come necessaria conseguenza del suo potere spirituale. Al consueto titolo papale di successor Petri, vicarius Petri subentra quello molto più pregnante di possibili coinvolgimenti potestativi e giurisdizionali di vicarius Christi.
1250: morte di Federico II, che lascia logorata ed esausta l’economia del Regno di Sicilia, prostrata l’autorità imperiale.
Le due parti dell’I. si vanno differenziando sempre più profondamente. Il Settentrione procede nella sua evoluzione, mentre il Mezzogiorno si piega sotto l’amministrazione regia che, se rappacifica politicamente il paese, mantiene però in piedi la vecchia struttura sociale ed economica. Di qui la decadenza di queste province, non alimentate da una borghesia attiva e intraprendente, ma compresse dall’inerzia della grande proprietà fondiaria della seconda metà del Duecento.
Fase detta del ‘comune di popolo’. Si va verso forme di economia mercantile. Accanto ai grandi mercanti, avidi di guadagno e di potenza, fanno il loro ingresso nella storia i banchieri, con le loro filiali sparse in tutta l’Europa. Le piccole imprese artigiane sono controllate dagli esponenti della grande finanza; ma la loro durezza causa talora ribellioni da parte dei ceti umili, che invocano una più diretta partecipazione al governo dello Stato cittadino. Intanto la nuova classe dirigente, sotto la spinta degli interessi economici, dà maggiore impulso all’espansione territoriale della città che, anche con la guerra, si avvia a unificare l’intera regione.
Gli ordinamenti comunali si rivelano inadeguati a regolare contrasti interni ed espansionismo; in alcuni casi, come in quello di Venezia (‘serrata del Maggior Consiglio’, 1297), il principio del potere partecipato subisce un drastico ridimensionamento, limitando a una ristretta cerchia di gruppi familiari di più antica tradizione di potere il diritto di partecipazione al governo; in altri (varie normative ‘antimagnatizie’ di Bologna, Firenze ecc.), quel ridimensionamento si opera di fatto con il prevalere di una parte o di un protagonista. Esponenti spesso dell’aristocrazia feudale, forti del loro prestigio, delle loro capacità militari e dell’abitudine al comando, scaltriti nei problemi cittadini grazie alla loro attività podestarile, i signori s’inseriscono nelle furibonde lotte cittadine e con metodi molto sbrigativi, alternando astuzia e violenza, riescono a impadronirsi del governo. Guelfi o ghibellini, si affermano sempre facendo leva sulle forze popolari. È segno dell’aumentata importanza che i ceti minori e medi hanno acquistato: a lungo schiacciati e sacrificati agli interessi dei ‘grandi’, trovano finalmente il loro capo nella persona del signore che ne interpreta e ne soddisfa i bisogni, e a lui affidano la direzione dello Stato, pur di essere lasciati liberi di attendere alle loro attività pratiche. Il signore, infatti, assicura protezione e giustizia, una più efficiente e razionale esplicazione dei servizi amministrativi; garantisce ordine e tranquillità all’interno, successi e prestigio all’esterno, favorendo così gli interessi espansionistici dei ceti mercantili e artigiani. La signoria, inoltre, accelera e consolida quel processo di unificazione regionale verso cui sono attratte le città più importanti.
La morte di Federico II disgrega in I. il partito ghibellino. Soltanto Ezzelino da Romano e Oberto Pelavicino, agendo però ciascuno secondo una propria direttiva, resistono ancora al partito guelfo, il quale trionfa nell’I. centrale e specialmente a Firenze. Con Manfredi alla guida della Sicilia la politica imperiale riprende vigore.
1260: con la battaglia di Montaperti, i ghibellini vanno al potere a Firenze.
1266: Carlo d’Angiò, intervenuto su sollecitazione del papa, sconfigge definitivamente gli Svevi a Benevento e trasferisce la capitale da Palermo a Napoli, proteggendo il partito guelfo e progettando una politica egemonica nella intera penisola.
1282: i Vespri siciliani provocano l’intervento degli Aragonesi, sollecitati dal popolo e dalla nobiltà.
1294: nella battaglia della Meloria, Pisa, roccaforte ghibellina, è sconfitta da Genova; la Sardegna passa in mani aragonesi.
1302: con la Pace di Caltabellotta, si rompe l’unità dell’antico Stato normanno: la Sicilia va agli Aragonesi e il Napoletano agli Angioini.
Il Regno di Napoli (fig. 5), pur privato della Sicilia, con Roberto d’Angiò (1309-43) gode di prestigio, alla testa del partito guelfo. Ma presto le insufficienze interne, l’economia immiserita, la prepotenza e l’anarchia dei baroni, pongono fine alle velleità egemoniche, accelerando la sua decadenza.
Qualcosa di simile si verifica nel Regno di Sicilia, dove l’autorità centrale cade in balia dell’aristocrazia, che, vero arbitro del governo, s’impadronisce progressivamente di tutte le prerogative della corona.
Nell’Italia centro-settentrionale l’assenza del papato, trasferitosi con Clemente V ad Avignone, favorisce il sorgere nello Stato della Chiesa, nelle Marche e nelle Romagne di signorie, come i Malatesta, i Da Polenta, gli Ordelaffi, i Manfredi. Ma soprattutto nella Valle Padana via via si costituiscono le più potenti signorie, dopo le prime apparizioni al tempo di Federico II.
A Milano dominano i Visconti, che sono riusciti ad avere la meglio sui Torriani. A Verona si trovano gli Scaligeri, protesi verso l’unificazione di un vasto territorio che comprende e oltrepassa il Veneto. A Mantova, dopo i Bonacolsi, si affermano i Gonzaga e a Ferrara sono da tempo ben radicati gli Estensi. Si tratta di Stati veri e propri, efficienti nei servizi amministrativi, con un più moderno sistema fiscale, con una numerosa burocrazia efficacemente controllata e disciplinata dal potere centrale. Con la potenza raggiunta, i signori si rendono del tutto indipendenti dal popolo che li ha portati al governo e infrangono gli ultimi vincoli formali facendosi rilasciare dagli imperatori e dai papi i più diversi titoli per consacrare e legittimare il loro pieno potere, ormai ereditario. Le loro signorie si vanno in tal modo trasformando in principati.
Da Avignone, dove i papi hanno fissato la loro sede, il papa Giovanni XXII, valendosi della vacanza imperiale, cerca di assumere il controllo di questa parte dell’I. con l’invio di un suo legato, il cardinale Bertrando del Poggetto. Ma le armi anche spirituali adoperate dalla Chiesa si spuntano contro le argomentazioni dei giuristi e provocano, ancora una volta, una più accesa propaganda anticurialista cui si accostano, ma senza vera incidenza, gli ultimi movimenti ereticali, per lo più nati dall’inquieto mondo francescano. La consapevolezza dell’inadeguatezza degli schemi interpretativi del potere monarchico del papato si manifesta a livello dottrinario soprattutto nell’opera teorica di Marsilio da Padova.
A Verona, gli Scaligeri per primi sembrano riuscire nel tentativo di costruire un organismo statale comprendente tutto il Settentrione. Mastino della Scala, proseguendo l’opera dei suoi predecessori, fra cui Cangrande (1311-29), riunisce sotto il suo potere un gran numero di città, dal Cadore al Tirreno. Ma la sua è un’aggregazione troppo improvvisata ed eterogenea per resistere a lungo. Gli Scaligeri devono così rientrare nei limiti originari della loro signoria, Verona e Vicenza.
I Veneziani approfittano del crollo scaligero per iniziare la loro penetrazione in terraferma, con l’acquisto di Conegliano e di Treviso. D’allora in avanti, pur impegnati contro i Genovesi per il dominio dei mercati orientali, sono sempre presenti in queste lotte, traendone vantaggi territoriali.
Con maggiori possibilità di successo, data la potenza economico-finanziaria e la compattezza dello Stato milanese, il programma egemonico è ripreso dai Visconti, che con Matteo, Galeazzo e con l’arcivescovo Giovanni riescono a mettere insieme un complesso di città e relativi territori in Lombardia, Piemonte ed Emilia. Quindi, incorporate Genova e Bologna, si protendono verso le Romagne e minacciano da vicino Firenze.
Sotto le apparenze del vecchio Comune, a Firenze governa una ristretta oligarchia di ricchi mercanti, sulla base organizzativa delle arti maggiori e di parte guelfa. Formalmente alleata con Roberto d’Angiò, Firenze non si trova sempre in sintonia con la politica del re di Napoli, mirando all’espansionismo in Toscana. Inoltre, Uguccione della Faggiuola, già vicario di Enrico VII per Genova, diviene capitano di guerra e capitano del popolo, nonché podestà di Pisa e prepara un ritorno offensivo ghibellino contro Lucca e contro Firenze. Nel 1315 Uguccione sconfigge i Fiorentini a Montecatini; Lucca diventa ghibellina sotto Castruccio Castracani, pur se non si realizza un’alleanza tra Lucca e Pisa. Impadronitosi di Pistoia, Castruccio vince di nuovo ad Altopascio (1325). Militarmente debole, per la base non popolare del suo governo, Firenze deve affidarsi ancora alla protezione di Roberto d’Angiò e, nel 1342, alla tutela di Gualtiero VI di Brienne, duca di Atene. Nel 1378, indebolita finanziariamente dalla Guerra degli Otto Santi contro il papa, Firenze subisce il tumulto dei Ciompi, la rivolta degli operai non organizzati nelle arti, dei ceti più miseri, che, spinti dalle speranze di un rinnovamento sociale, costituiscono un governo popolare. Dopo pochi anni, però, questo esperimento cessa, e lo Stato ritorna nelle mani dell’antica classe dirigente.
A Roma, nel 1347, durante l’assenza del papa, il tribuno del popolo Cola di Rienzo attua una riforma antibaronale, ma i suoi sogni di restaurazione di un impero nazionale e di una rigenerazione della Chiesa, fanno sì che egli sia abbandonato da quelle uniche e reali forze locali, il ceto medio, ‘caballerotti’, mercanti e funzionari capitolini, che hanno reso possibile la sua fascinosa avventura. Nel 1357 il cardinale Egidio Albornoz emana le Costituzioni che costituiscono la base dello Stato pontificio. Nel 1377 si ha il ritorno del papa a Roma. L’anno dopo, con la doppia elezione di Urbano VI e di Clemente VII, inizia lo scisma d’Occidente, che indebolisce ulteriormente il papato nell’agone politico italiano.
Nell’I. centro-settentrionale si affermano i grandi organismi statali, che hanno inghiottito e più o meno assimilato le città e le piccole signorie vicine.
Lo Stato Sabaudo è ormai decisamente gravitante verso l’Italia. Lottando, di volta in volta, contro i Comuni, gli Angioini, i marchesi del Monferrato, ora appoggiandosi agli imperatori e ai Visconti ora contrastandoli, i Savoia acquistano sempre maggiore influenza e potenza nel Piemonte. A suggello dell’aumentato prestigio, Amedeo VIII nel 1416 acquista il titolo di duca.
L’iniziativa, però, nella Pianura Padana, è sempre dei Visconti, che riescono a saldare a Milano un vasto territorio che, oltre alla Lombardia, si estende al Piemonte e all’Emilia, e comprende, in qualche momento, anche Genova. Le attività industriali e mercantili, il controllo delle principali vie di comunicazione, fanno di Milano uno dei nodi della politica italiana ed europea. Gian Galeazzo nel giro di pochi anni s’impadronisce di Verona e di Vicenza, tolte agli Scaligeri con l’aiuto dei da Carrara, di Padova, tolta ai da Carrara con l’aiuto dei Veneziani e, nonostante una potente lega costituita ai suoi danni da Firenze con molti altri Stati italiani, riesce ad affermare il suo dominio in tutta l’I. centro-settentrionale. Pagando in moneta sonante, ottiene poi dall’imperatore Venceslao il titolo, ereditario, di duca di Milano, legittimando così la sua signoria, che, come altre, si era mutata in principato assoluto. Alla sua morte l’edificio da lui costruito si sfascia.
Con Ladislao di Durazzo si ha una breve ripresa del Regno di Napoli, con un suo rinvigorimento all’interno, dove i baroni sono domati, e una sua attiva presenza a Roma, in Toscana e perfino in Dalmazia. Con la morte di Ladislao, nel 1414, il regno riprecipita però nella sua antica e ormai cronica dissoluzione.
Firenze ottiene, finalmente, Pisa: tutta la vallata dell’Arno è così sotto il suo dominio. Tuttavia, poco dopo deve acquistare dal governatore francese di Genova il porto di Livorno, essendo divenuto quello di Pisa ormai interrato e inagibile. Conquista inoltre Volterra.
I Veneziani raccolgono le spoglie più ricche dell’eredità di Gian Galeazzo Visconti (Treviso, Verona, Vicenza, Padova). Lungo tutto il 14° sec. l’intera Istria, a eccezione di Trieste, passata agli Asburgo, è progressivamente assorbita. Una guerra sostenuta contro Sigismondo, re di Ungheria e successivamente imperatore, si conclude con la vittoria dei Veneziani, che ne approfittano per estendere il loro dominio nel Friuli, nella Carnia, nel Cadore e nella Dalmazia. Il ritorno in primo piano del ducato di Milano, con Filippo Maria Visconti, non arresta questo processo espansionistico. Alleatasi con Firenze, il papa Martino V, Amedeo VIII, Venezia ottiene altri successi e l’acquisto di Brescia e di Bergamo, portando i suoi confini stabilmente sull’Adda. Le vittorie esterne consolidano all’interno il governo nelle mani di quella omogenea aristocrazia di uomini d’affari che da tempo dirige la politica veneziana. Il doge, infatti, è controllato e limitato nei suoi poteri dagli organi aristocratici, e il popolo, pur essendo escluso dal governo, è nei suoi bisogni e nelle sue necessità soddisfatto dalla sua classe dirigente.
Per Firenze la guerra combattuta contro i Visconti a fianco di Venezia (1423-33) si conclude sfavorevolmente, con gravi conseguenze economiche, sociali e politiche. L’oligarchia al potere è insidiata dalle rivalità tra le famiglie maggiori, odiata dal popolo medio e minuto. Nel 1433, per far fronte alle difficoltà del momento, Rinaldo degli Albizzi assume poteri quasi dittatoriali. L’anno dopo, in seguito a un brusco rovesciamento, è la volta di Cosimo de’ Medici.
La tendenza generale della politica italiana verso la formazione di Stati regionali spinge anche lo Stato pontificio, placandosi ormai lo scisma, a consolidarsi su questa base. Abbandonate le pretese teocratiche, il papato si restringe al suo particolare Stato romano, ricucito pezzo per pezzo e ora difeso con gli stessi accorgimenti, con gli stessi strumenti militari e diplomatici di cui si valgono gli altri Stati contemporanei.
1442: dopo una guerra per la successione al trono di Napoli che vede coinvolti tutti gli Stati italiani, Alfonso d’Aragona si insedia sul trono napoletano. In queste guerre, dai rapidi mutamenti di fronte, si vanno rivelando l’abilità militare e l’ingegno politico del condottiero Francesco Sforza, che può contare sull’appoggio dei Fiorentini, timorosi non più di Milano ma della ben più potente Repubblica veneta. È un rovesciamento diplomatico che mette in luce il criterio direttivo della nuova politica italiana: il mantenimento dell’equilibrio fra i maggiori organismi statali.
1454: la Pace di Lodi segna una certa stabilizzazione della situazione italiana. La costituzione della Santissima lega, com’è chiamata la Lega italica, unisce tutti gli Stati italiani in una condizione di pace necessaria che durerà mezzo secolo.
Periodo contrassegnato da un susseguirsi di congiure e tentativi di sollevazione contro il principe, qualche volta in nome di una libertà classicamente vagheggiata. Spesso, d’altra parte, queste congiure, quando non sono fomentate dagli Stati rivali, vengono subito sfruttate da questi per aprire le ostilità (guerra di Ferrara, congiura dei Pazzi, congiura dei Baroni). Se pure, infatti, la Lega italica garantisce la sicurezza e l’integrità dei singoli associati, in realtà tutta una rete di rivalità e di sospetti finisce con l’aggravare anche la politica interna, rende più difficile lo sforzo di riorganizzazione economica e amministrativa, e impone un peso fiscale insopportabile per sopperire alle necessità militari e a una diplomazia dispendiosa. Lorenzo il Magnifico, ‘l’ago della bilancia dell’Italia’, ha successo nella sua opera soltanto in virtù di una personale abilità, che rimanda ma non risolve i problemi.
Gli ultimi anni della signoria di Lorenzo il Magnifico coincidono con l’aggravarsi della crisi interna nei vari Stati della penisola e con l’affermazione di un controllo politico da parte delle nascenti monarchie europee. È il giovane re di Francia Carlo VIII, erede dei diritti che la casa d’Angiò ha continuato a vantare su Napoli anche dopo l’insediamento degli Aragonesi, a dare inizio a tale espansione. A invocare il suo intervento sono Ludovico il Moro, reggente dello Stato di Milano per il nipote Gian Galeazzo ma desideroso di cingere la corona ducale in proprio; una frazione di cardinali, con a capo Giuliano Della Rovere, che vuole sbarazzarsi del dispotico e simoniaco Alessandro VI; e molti dei potenti baroni napoletani, costretti a prendere la via dell’esilio per la spietata repressione della fallita congiura dei Baroni da parte di Ferdinando I. Anche il più forte Stato italiano del tempo, la Repubblica di Venezia, che teme la concorrenza commerciale dei porti della Puglia aragonese, non è ostile a una spedizione francese.
1493: Carlo VIII con i trattati di Barcellona e di Senlis, in cambio di concessioni territoriali al confine catalano, in Artois e in Franca Contea, ottiene il favore del re d’Aragona Ferdinando il Cattolico e dell’imperatore Massimiliano I alla progettata impresa in Italia.
1494: avviatosi nel settembre per il Monginevro, Carlo VIII non incontra alcuna seria resistenza: è alleato dei Savoia e aiutato dalla flotta genovese, mentre quella veneziana rimane neutrale. Dopo una fastosa accoglienza a Pavia riservatagli da Ludovico il Moro (il duca Gian Galeazzo muore di tisi pochi giorni dopo), il re di Francia prende la strada della Toscana, saccheggiando il territorio e facendo strage tra la popolazione. Spaventato, il signore di Firenze Piero de’ Medici si affretta ad abbandonare l’alleanza napoletana e capitola (31 ottobre), concedendo a Carlo VIII 200.000 fiorini d’oro e, sino alla fine della guerra, le fortezze di Sarzana, Pietrasanta, Pisa e Livorno. L’8 novembre Pisa proclama la propria indipendenza da Firenze e dà così il via a molteplici rivolte di città toscane. Il giorno successivo i Fiorentini cacciano Piero e si costituisce una repubblica tendenzialmente oligarchica. Il 17 novembre Carlo VIII fa il suo ingresso in città. Non volendo impegnarsi a fondo nel vespaio toscano, egli preferisce mitigare le sue pretese finanziarie e proseguire la marcia verso il Sud.
1495-98: a Roma si realizza una pacifica intesa tra il pontefice e Carlo VIII. Alessandro VI è largo di concessioni politico-ecclesiastiche e il re prosegue la sua avanzata alla volta di Napoli (28 gennaio 1495), dove a Ferdinando I è succeduto il figlio Alfonso II che, ancora più del padre inviso ai baroni, abdica in favore del figlio Ferdinando II, detto Ferrandino. Ma il nuovo sovrano può poco: il 22 febbraio, mentre Ferrandino ripara con la famiglia a Ischia, Carlo VIII entra trionfalmente a Napoli ed estende la propria autorità su tutto il Regno. Allora, consapevoli della debolezza militare degli Stati italiani e consci dei pericoli insiti nel dominio francese, il 31 marzo Ludovico il Moro, divenuto duca di Milano, e Venezia stipulano formalmente una lega antifrancese, cui si associa anche il papa Alessandro VI. La lega riesce a ottenere l’appoggio del re d’Aragona Ferdinando il Cattolico, dell’imperatore Massimiliano e più tardi anche del re d’Inghilterra Enrico VII. Colto di sorpresa, Carlo VIII lascia a Napoli un piccolo contingente e si ritira con il grosso dell’esercito per affrontare le truppe della lega. La battaglia di Fornovo (6 luglio), pur non essendo una vera e propria sconfitta, convince il re di Francia, giunto a Piacenza, ad abbandonare l’impresa; il giorno dopo le truppe di Ferdinando il Cattolico riportano a Napoli il re Ferdinando II. Solo in Toscana non si ritorna allo status quo. Genova e Lucca hanno comprato da Carlo VIII rispettivamente Sarzana e Pietrasanta e ora si guardano bene dal restituirle a Firenze; Pisa, aiutata da Venezia e da Lucca, persiste nella sua ribellione e la guerra che Firenze è costretta a intraprendere per ridurla a obbedienza dura sino al 1509; fra il 1494 e il 1498 la storia fiorentina s’identifica nell’esperienza di Savonarola, che governa la repubblica su basi teocratiche, in un clima di austerità e severità morale. Con la sua condanna al rogo (23 maggio 1498) la repubblica fiorentina si avvia a essere una pura e semplice oligarchia, e sarà di fatto vassalla della Francia a motivo delle ingenti somme investite nelle banche che gli stessi Fiorentini hanno aperto a Lione.
La morte di Carlo VIII e l’avvento al trono di Francia di Luigi XII riaprono nel 1498 il problema italiano. Luigi XII non limita più le proprie rivendicazioni all’eredità angioina di Napoli, ma, quale discendente di Valentina Visconti, ambisce anche al ducato di Milano. La duplice impresa è preparata diplomaticamente con cura: una serie di trattati sono stipulati con il re d’Inghilterra, con i sovrani d’Aragona e di Castiglia, con l’imperatore e anche con i cantoni svizzeri, ed estesi anche ad alcuni Stati italiani: il trattato di Blois (15 aprile 1499) assicura alla Francia l’alleanza militare di Venezia; gli interessi nepotistici di Alessandro VI, che ottiene per il figlio Cesare Borgia il ducato di Valentinois e la mano della sorella del re di Navarra, Carlotta d’Albret, pongono le forze dello Stato della Chiesa e soprattutto l’autorità spirituale del pontefice entro l’orbita francese.
6 ottobre 1499: Luigi XII entra da trionfatore in Milano. Ludovico il Moro si rifugia nel Tirolo, presso l’imperatore Massimiliano, suo genero. I Francesi s’insediano stabilmente a Milano e cedono Cremona e la Ghiara d’Adda a Venezia, poi (trattato di Arona, 11 aprile 1503) riconoscono l’annessione della contea di Bellinzona operata dagli Svizzeri.
2 novembre 1500: per l’impresa contro il Regno di Napoli Luigi XII stipula con Ferdinando il Cattolico il trattato segreto di Granada, che in cambio dell’alleanza militare della Spagna stabilisce la spartizione del Regno: Ferdinando il Cattolico otterrebbe le Puglie e la Calabria; Luigi XII, con il titolo di re di Napoli, avrebbe la Campania e gli Abruzzi. All’arrivo delle truppe francesi il nuovo re di Napoli, Federico III, ignaro dell’accordo, invoca l’aiuto del parente re d’Aragona poi, appena il tradimento dell’aragonese si manifesta, si costituisce prigioniero dei Francesi e, in cambio del ducato d’Angiò e di una pensione vitalizia, trasferisce tutti i suoi diritti non al traditore Ferdinando ma a Luigi XII.
Giugno 1502-marzo 1504: l’alleanza muta ben presto in conflitto aperto tra la Francia e la Spagna. L’armistizio di Lione del marzo 1504 riconosce l’esclusiva appartenenza del Regno di Napoli alla Spagna, che in I. già possiede la Sicilia e la Sardegna.
In questo periodo gli Stati italiani, pur essendo fortemente condizionati dalla presenza o della Francia o della Spagna, e potendo svolgere una loro politica solo grazie al favore di una o dell’altra potenza, riescono ancora a essere fattori non del tutto passivi della vita politica che si svolge nella penisola e delle alleanze che vi si annodano.
Venezia è ancora una potenza internazionale di prima grandezza: le conquiste dell’entroterra si sono rivelate con il tempo sempre più proficue, e se l’armata del mare è costantemente impegnata nel compito di sbarrare, o almeno di rallentare, l’avanzata dei Turchi del sultano Bāyazīd II (1481-1512), tuttavia Venezia non è ancora sotto il grave peso di quella recessione economica che da lì a qualche decennio darà un colpo decisivo a tutta l’economia mediterranea. Il declino di Venezia ha inizio solo per un fatto politico, la volontà del papa Giulio II di stringere contro di essa la lega di Cambrai (10 dicembre 1508), la ‘santa lega’ che unisce il pontefice all’imperatore, al re di Francia, al re di Spagna. In seguito all’accordo, il papa otterrebbe Faenza, Rimini, Ravenna e Cervia; l’imperatore Padova, Vicenza, Verona, il Friuli, la Marca Trevigiana e il recupero delle città perdute nel tentativo di discesa in Italia del 1508; il re di Francia, in quanto duca di Milano, pretende Cremona, Crema, Brescia e Bergamo; il re di Spagna, i luoghi occupati dai Normanni nel Regno di Napoli.
Meno ricca e potente è la Repubblica di Genova, dagli Sforza passata direttamente sotto il dominio francese (1499-1512, con una breve interruzione nel 1507), ma la sua flotta è sempre ricercata come alleata dalle potenze straniere.
Firenze, che nel 1502 crea il gonfalonierato a vita per un suo esponente, Pier Soderini, continua nel suo esperimento repubblicano e non apre le porte ai Medici, rivelando così di essere ancora un organismo politico robusto; nel 1509 ha fine inoltre la guerra con Pisa, con la definitiva vittoria di Firenze.
L’alleanza tra il pontefice Alessandro VI e il re Luigi XII è la solida piattaforma sulla quale poggia il tentativo di creazione di un forte Stato personale da parte di Cesare Borgia, che già nell’intervallo tra la conquista francese di Milano e la spedizione contro Napoli si impadronisce di Imola e Forlì, e tra l’ottobre 1500 e l’aprile 1501 di Pesaro, Rimini e Faenza. Acquista poi anche Piombino e regolarizza nel 1501 la propria posizione con il titolo di duca di Romagna, concessogli dal padre. Il duca di Ferrara, legato dal matrimonio con Lucrezia Borgia, non può sbarrargli il passo; Firenze, pressata dalla ribellione di Arezzo e dei paesi della Valdichiana, è costretta ad assoldare lo stesso duca con una ‘condotta’ di tre anni. Molte città dell’I. centrale e i ducati di Urbino e di Camerino cadono sotto il dominio dello spregiudicato avventuriero.
Anche Alessandro VI approfitta della guerra di Napoli e nel suo dominio diretto del Lazio s’impadronisce di tutte le terre dei Colonna e dei Savelli. Tutto crolla alla sua morte; tuttavia Giuliano Della Rovere, divenuto papa Giulio II (1503-13), da un lato prosegue la politica dei Borgia di ricostituzione dello Stato della Chiesa, alla scomparsa di Cesare Borgia di nuovo preda di nobili e signori locali, dall’altro diviene il fulcro di una grande politica internazionale che vuole dettare legge a Venezia e allo stesso re di Francia. Riconquista Perugia, facendo prigioniero Giampaolo Baglioni che la deteneva (1506), ottiene la dedizione di Bologna, ponendo fine alla signoria di Giovanni Bentivoglio (11 novembre 1506); infine, il 10 dicembre 1508, stringe con Spagna, Francia, Impero e non pochi principi italiani, come il marchese di Mantova, il duca di Savoia e quello di Ferrara, la lega di Cambrai contro Venezia, le cui forze subiscono il 14 maggio 1509 la durissima sconfitta di Agnadello.
Dopo Agnadello incomincia a declinare il peso egemonico della Francia, e al suo posto subentra una molteplicità di centri di attrazione esteri, che determinano le iniziative e gli spostamenti degli Stati italiani. Si giunge così alla lega antifrancese, o santa, del 1511-13. Ma Firenze non può staccarsi dall’alleanza francese, il duca di Ferrara Alfonso d’Este poco si cura dell’interdetto pontificio e resiste alle truppe di Giulio II, e la lotta infine è talmente poco italiana che, dall’una parte e dall’altra, si risfoderano vecchie armi di sapore medievale: Luigi XII prepara il Concilio scismatico-gallicano di Pisa e Giulio II progetta di contrapporgli il Concilio del Laterano. A Ravenna l’azione militare di Gastone di Foix dà alla Francia la vittoria militare (11 aprile 1512), ma non quella politica: alle truppe ispano-pontificie si uniscono allora quelle di Massimiliano d’Asburgo e dei cantoni svizzeri. Luigi XII, innanzi all’allargamento dello schieramento nemico, preferisce ritirarsi e abbandonare il ducato di Milano, dove è insediato il figlio di Ludovico il Moro, Massimiliano Sforza, dietro il quale vi sono i cantoni svizzeri, esigenti alleati che hanno un programma ben preciso di acquisti territoriali e la volontà deliberata di tenere il ducato di Milano sotto il proprio vassallaggio. Poco dopo, mentre Giulio II impone il dominio papale su Parma e Piacenza, le armi del viceré di Napoli Raimondo di Cardona abbattono a Firenze la repubblica oligarchica del gonfaloniere Pier Soderini e restaurano i Medici. Lo spostamento d’influenza è evidente: Venezia passa dalla lega antifrancese all’alleanza con la Francia, Firenze entra per la prima volta nell’orbita spagnola e Milano attende la propria autonomia dal mondo elvetico-germanico.
1515-19: il nuovo re di Francia, Francesco I di Valois (1515-47), dopo aver isolato diplomaticamente i cantoni svizzeri, scende di sorpresa nella penisola e nella battaglia di Marignano (13-14 settembre 1515) travolge la potenza svizzera; il Canton Ticino resta in definitivo possesso degli Svizzeri, ma il resto del ducato ritorna a essere sotto la Francia e risorge la situazione di una Francia al Nord e di una Spagna al Sud della penisola. Con la Pace di Bologna del 1515 è siglato il restaurato accordo tra Firenze e la Francia: papa Leone X (1513-21) restituisce al ducato di Milano, cioè alla Francia, Parma e Piacenza che Giulio II aveva posto sotto il dominio pontificio, e in cambio Francesco I riconosce il dominio dei Medici su Firenze e investe del ducato di Urbino Lorenzo de’ Medici, nipote di Leone X. Il trattato di Noyon (1516) sanziona la presenza francese in I.: il successore di Ferdinando il Cattolico, il futuro imperatore Carlo V, riconosce esplicitamente il dominio della Francia sul ducato di Milano.
1519-25: il conflitto risorge per le eredità dinastiche di Carlo V, nel 1519 erede anche dell’avo paterno Massimiliano d’Asburgo ed eletto dai principi elettori imperatore del Sacro Romano Impero. Innanzi al soffocante accerchiamento asburgico, Francesco I nel 1521 prende l’offensiva. In I. egli dispone dell’alleanza di Venezia, invece il pontefice Leone X ha abbandonato il campo ed è passato dalla parte di Carlo V: spera così di poter riprendere Parma e Piacenza e di mettere le mani su Ferrara. Nell’estate del 1521 un esercito ispano-pontificio caccia i Francesi da Milano e vi opera una nuova restaurazione degli Sforza nella persona di Francesco II; il 24 febbraio 1525 a Pavia lo stesso Francesco I cade prigioniero di Carlo V. Tramonta così definitivamente il dominio della Francia sul Milanese.
1526-29: alla lega di Cognac, promossa nel 1526 da Francesco I che aveva recuperato la propria libertà personale, partecipano, contro Carlo V, Venezia, Firenze, il nuovo pontefice Clemente VII (1523-34), anch’egli un Medici, e persino il duca di Milano Francesco II Sforza. Ma sono semplici illusioni: il sacco di Roma del 1527 lo dimostra con palmare evidenza. Clemente VII deve rinunciare a Parma, Piacenza e Ferrara, che nel frattempo ha occupato, e si vede sottratti pure dall’alleata Venezia i porti di Cervia e di Ravenna; i Medici sono nuovamente espulsi da Firenze che si ricostituisce in repubblica oligarchica (16 maggio 1527); infine la stessa Genova, per volontà di Andrea Doria, defeziona dal campo francese e passa in quello imperiale.
1529: l’assoluto predominio della Spagna sull’I. è esplicitamente riconosciuto dal pontefice Clemente VII con il trattato di Barcellona, e da re Francesco I con quello di Cambrai. Ancora una volta, mentre gli Estensi e Venezia devono restituire al pontefice le terre usurpate e Carlo III di Savoia si annette la contea di Asti già francese, sono le truppe imperiali e spagnole a riconsegnare ai Medici il dominio di Firenze, nonostante la coraggiosa e ostinata difesa della città.
L’Umanesimo affonda le sue radici nell’humus dell’I. delle signorie e del mondo delle corti, ma presenta ora un allargamento di orizzonti e al tempo stesso aspetti diversi dal punto di vista qualitativo. Il centro geografico muta, all’età di Lorenzo il Magnifico si sostituisce quella di Leone X, e nella sua sede ormai principale di Roma l’Umanesimo va sempre più perdendo quel legame con una singola città che prima era dominante. Roma, con i suoi quasi 100.000 abitanti, rivela una capacità non indifferente di aggregazione, che finisce con l’eliminare quanto di limite regionalistico può esservi, a seconda della loro provenienza, nei letterati, negli artisti, negli scrittori del Rinascimento, favorendo, al contrario, l’affermazione di una vita di corte. Nello scenario politico che si è venuto creando con l’arrivo dei Francesi in I. non c’è città-Stato, corte principesca d’I., per quanto piccola, che non risenta della politica e delle conflittualità delle due grandi monarchie europee; ma anche sotto questo aspetto (con la sola eccezione, forse, di Venezia) nessuna di queste città può competere con Roma sia come osservatorio aperto sull’Europa, sia come uno dei centri nei quali si annodano le fila della grande politica internazionale.
All’affermazione di un Umanesimo italiano non corrisponde però una reale trasformazione delle differenti realtà economiche della penisola: la concorrenza di paesi come la Spagna, l’Inghilterra, le Fiandre va sempre più intensificandosi, mentre le prestigiose manifatture dell’I. medievale subiscono una contrazione o per effetto della concorrenza dei prodotti provenienti dall’estero, come la lana, o per i rischi e la passività conseguenti a una loro trasformazione in centri produttivi di manufatti del tutto diversi. La banca è sempre al primo posto nell’economia italiana, anzi il dinamismo che in questi decenni pervade le grandi potenze europee crea sempre maggiori possibilità di sviluppo e d’incremento: se Venezia perde l’Oriente, Genova conquista l’Occidente, e i suoi banchieri, i suoi manifatturieri, i suoi armatori s’insediano fin nella lontana Andalusia, e almeno sino ai tempi di Filippo IV e del conte-duca d’Olivares sono i principali finanzieri del re di Spagna; ma la banca si lega sempre di più alla vita politica, diventando attraverso il debito pubblico padrona e nello stesso tempo succube dei monarchi europei, che non rare volte ne falcidiano i profitti con svalutazioni monetarie e vere e proprie bancarotte.
L’imperatore Carlo V è incoronato re d’Italia a Bologna (1530) e riceve l’omaggio di tutti i principi italiani, compresa la Repubblica di Venezia, che deve sgombrare, in favore del papa Clemente VII, i porti pugliesi e le città romagnole in suo possesso.
1532: Carlo V concede ad Alessandro de’ Medici, che il suo intervento due anni prima ha restaurato nel governo di Firenze, il titolo di duca.
1535: alla morte di Francesco II Sforza, l’imperatore annette direttamente al proprio dominio il ducato di Milano.
1536: il predominio della Spagna sull’I. diviene ancora più assoluto per la ripresa delle ostilità con la Francia, giacché l’alleanza stretta da Francesco I con Solimano il Magnifico fa cadere le ultime remore dei principi italiani nei confronti della Spagna: il nuovo pontefice Paolo III (1534-49) è costretto a reagire a tale patto con gli infedeli e la stessa Venezia comprende che è giunto il momento di abbandonare il proprio tradizionale antagonismo con gli Asburgo.
1537: la crisi provocata a Firenze dall’uccisione del duca Alessandro a opera del cugino e compagno di dissolutezze Lorenzino si risolve in un rafforzamento del predominio indiretto di Carlo V sulla città; il favore imperiale chiude immediatamente la crisi imponendo al governo del ducato il figlio di Giovanni dalle Bande Nere, Cosimo I, ma è pagato con la cessione della fortezza che domina Firenze alle truppe spagnole, che vi si manterranno per alcuni anni, e con un’alleanza che è in realtà un duro vassallaggio.
1546-56: negli ultimi anni del regno di Carlo V non manca qualche incrinatura nel predominio spagnolo: ne sono esempi la congiura del senese, ma gonfaloniere lucchese, Francesco Burlamacchi nel 1546, quella ordita dai Fieschi a Genova contro Andrea e Giannettino Doria (1547), il moto isolato della Lunigiana e l’insurrezione dei Napoletani contro il viceré don Pedro de Toledo (1547), infine la rivolta fomentata in Corsica da Sampiero Ornano di Bastelica contro il dominio genovese e, grazie all’appoggio di una flotta franco-turca (1553), la rivolta della Repubblica di Siena contro la guarnigione imperiale; ma si tratta quasi sempre di ribellioni incapaci di mettere in crisi la solidità del dominio spagnolo. Francesco Burlamacchi muore sul patibolo a Milano, i Fieschi falliscono nella loro insurrezione e devono riparare in Francia, nell’aprile 1555 Siena deve capitolare alle truppe di Cosimo de’ Medici e sparire per sempre come repubblica indipendente. Solo la Corsica, ottima base di operazioni navali per la flotta franco-turca operante nel Tirreno, resta dal 1553 al 1559 non soggetta a Genova.
1556: Carlo V abdica e nel dominio della penisola italiana subentra il figlio Filippo II, re di Spagna, che diviene la mano armata della Controriforma: con lui, in I. ordine religioso e ordine politico vengono a coincidere.
La Riforma in I. è in complesso un fenomeno di minoranze: i centri maggiori dei nuclei riformatori sono Napoli, con Juan de Valdés e il predicatore Bernardino Ochino; Ferrara, grazie alla presenza della duchessa Renata di Francia; Lucca, con Pier Martire Vermigli e Celio Secondo Curione. Nella Repubblica di Venezia si ha una diffusione delle nuove idee tanto di tipo aristocratico-colto (Pier Paolo Vergerio), quanto di tipo popolare (gruppi di anabattisti, costituitisi soprattutto nel ceto artigianale). Infine, l’antica Chiesa valdese aderisce alla Riforma nel 1532. Invece la penisola, intorno alla metà del 16° sec., diviene la roccaforte della reazione a Lutero e a Calvino e della Controriforma cattolica. Non che l’I. della fine del 15° sec. e degli inizi del 16° non conosca grosse spinte riformatrici nel campo religioso: Savonarola non solo regge Firenze in nome di Cristo re e denuncia la simonia della curia e il papa Alessandro VI, ma, dopo la sua tragica scomparsa, lascia dietro di sé un retaggio di aspirazioni, di idealità e di esigenze, che sono, per es., ben visibili nella Repubblica di Lucca; meno legata alla politica, più aderente al mondo della pietà e della preghiera, è la Riforma cattolica, che non è la Controriforma e muove parallela alla Riforma luterana, espressioni ambedue di quell’atmosfera di attesa e di speranze riformatrici con le quali si è chiuso il 15° secolo. Da un lato c’è l’azione ufficiale del papato, dal quinto Concilio del Laterano, aperto da Giulio II e proseguito da Leone X, al Consilium de emendanda ecclesia (1537) della commissione istituita da Paolo III; dall’altro l’opera meno risonante, più capillare e più fruttuosa, del pullulare di nuove congregazioni e nuovi ordini religiosi (nel 1525 Gaetano da Thiene e Giampietro Carafa davano vita ai teatini, nel 1528 nell’ambito dell’ordine francescano nascono i cappuccini, nel 1553 è la volta dei barnabiti, seguiti poco dopo dai somaschi e dagli oratoriani di Filippo Neri). Le sorti della Riforma cattolica non si decidono in I., bensì alla corte di Carlo V, e s’identificano con la causa di Erasmo: finché l’imperatore ha speranza di ridurre i protestanti all’obbedienza, tutto un partito imperiale protegge Erasmo dagli attacchi dei vecchi ordini religiosi e dell’Inquisizione. Quando Carlo V abbandona la causa, è già stato convocato il Concilio di Trento (1545-63). Nel 1534 Ignazio di Loyola fonda l’agguerrita milizia della Compagnia di Gesù, che viene confermata nel 1540. Fin dal 1542 è operante in I. il tribunale dell’Inquisizione, creato da Paolo III sotto l’ispirazione del Carafa, con la dichiarata funzione di controllo delle nuove confessioni, riuscendo a penetrare in Stati che un tempo avevano, come Venezia, geloso sentimento della propria autonomia sovrana. L’istituzione dell’Inquisizione è solo uno dei primi passi verso la Controriforma: essa diviene completa con l’elevazione al papato del cardinale Carafa, Paolo IV (1554-59).
La Pace di Cateau-Cambrésis (fig. 6) pone fine al lungo conflitto tra gli Asburgo e la Francia. Essa cristallizza l’ordinamento territoriale italiano in una triplice realtà: possessi diretti di una potenza straniera, Stati vassalli di una potenza straniera, Stati autonomi e liberi.
Nel primo gruppo emerge la Spagna, sotto la cui diretta sovranità si trovano il ducato di Milano, il Regno di Napoli, quello di Sicilia, quello di Sardegna e lo Stato dei presidi (Talamone, Orbetello, Porto Ercole, Porto Santo Stefano e Monte Argentario), strappato al territorio dell’ex Repubblica di Siena; la Francia ha solo il marchesato di Saluzzo, che conserva sino al 1588, anno nel quale esso passa sotto i duchi di Savoia.
Formalmente autonomi, ma di fatto vassalli della Spagna, sono gli Stati del secondo gruppo: il ducato di Parma e Piacenza, lasciato ai Farnese con l’annesso piccolo ducato di Castro e Ronciglione; il ducato di Mantova in mano ai Gonzaga, che dal 1536 sono anche marchesi del Monferrato; l’oligarchica Repubblica di Lucca; il ducato di Urbino sotto i Della Rovere; quello di Massa e Carrara sotto i Cybo e, in situazione estremamente aleatoria, il minuscolo principato di Piombino in mano agli Appiani, ma a lungo occupato prima dagli imperiali (1603-11) e poi dagli Spagnoli (1628-34), per finire da ultimo sotto i Ludovisi (1634). In posizione non stabile è anche il possesso della casa d’Este, che domina su Ferrara, feudo pontificio, e su Modena e Reggio, feudi imperiali, ma nel 1598, all’estinzione del ramo principale con il duca Alfonso II, Ferrara è riunita allo Stato pontificio da Clemente VIII (1592-1605). Sebbene con un margine di autonomia, soprattutto per i complessi rapporti finanziari che intercorrono con la Spagna, bisogna considerare tra gli Stati vassalli anche la Repubblica di Genova, che dal 1569 detiene a titolo diretto la Corsica, già possesso del Banco di San Giorgio, ed è corrosa dalle lotte intestine tra l’oligarchia della nobiltà vecchia e le pretese della nuova, la cui rivolta del 1575 è placata solo con la riforma costituzionale dell’anno successivo.
Gli Stati veramente sovrani sono quattro: il ducato di Savoia, la Repubblica di Venezia, il granducato (dal 1569) di Toscana e lo Stato pontificio, che tuttavia non possono ignorare la predominante influenza della Spagna sulla penisola: Venezia è attaccabile dagli aviti possessi degli Asburgo, sulla frontiera orientale, e dal ducato spagnolo di Milano; i Savoia sono minacciati dal Monferrato e dalla Lombardia spagnola; la Toscana è esposta a un attacco da parte dello Stato dei presidi, e lo Stato pontificio confina con il Regno spagnolo di Napoli. A eccezione di Venezia, gravitano tutti sul Tirreno che, tramite Genova, la Corsica e la Sardegna, è un mare facilmente controllabile dalla flotta spagnola.
Ai possessi diretti di Filippo II manca non soltanto una continuità territoriale ma anche un’omogeneità istituzionale. Sebbene nel 1563 venga istituito a Madrid un Supremo consiglio d’I., manca un’efficiente coordinazione nell’azione dei rappresentanti spagnoli. Già sotto il profilo istituzionale essi sono diversi: a Napoli, a Palermo, a Cagliari governa un viceré, a Milano un governatore; il viceré siciliano o il governatore milanese trovano spesso un freno al loro strapotere nella precedente situazione costituzionale del paese. Tale freno invece non esiste o è quasi del tutto inoperante nel Regno di Napoli e in quello di Sardegna, anche se in entrambi i paesi sussiste il Parlamento. Ma la mancanza di coordinamento e la diversità giuridica non significano minor peso delle decisioni prese a Madrid sulla vita concreta dei possessi italiani, sia perché nei conflitti tra il proprio rappresentante e gli organi di governo locale solo la volontà del monarca di Spagna può decidere, sia perché si ha ineluttabilmente, in un breve volgere di tempo, una netta prevalenza dell’elemento spagnolo nel governo e nell’amministrazione dei possessi italiani.
Il granducato di Toscana, tra gli Stati italiani il più debole ma economicamente forse il più prospero, trova la sua abile guida nel figlio di Giovanni dalle Bande Nere, il duca e poi granduca Cosimo I (1537-74). Questi lascia intatte le antiche magistrature, ma le esautora completamente, governando attraverso la ‘pratica segreta’, o consiglio di persone di sua stretta fiducia e autentico organo del suo potere personale; riorganizza lo Stato livellando città e contado, e sottoponendo tutto al governo centrale di Firenze; inoltre, asseconda la trasformazione della Toscana da manifatturiera in agricola. Notevole è in questo periodo l’apporto di capitali nell’agricoltura, provenienati in gran parte dal rientro in patria delle fortune che un tempo banchieri come i Corsini o i Torrigiani avevano investito nei mercati e nelle borse di Londra e di Norimberga, e che ora invece fanno di essi dei grandi latifondisti in Toscana. Proprio sotto Cosimo I la Toscana diviene la terra classica dell’enfiteusi, della manomorta e dei vincoli fedecommissari. Si devono anche a Cosimo I l’ingrandimento del porto di Livorno e la successiva possibilità di sviluppo del commercio marittimo. Notevoli cure egli presta infine alla difesa delle coste tirreniche dalle incursioni dei pirati barbareschi, e a tale scopo istituisce l’ordine militare dei Cavalieri di Santo Stefano, con sede a Pisa. Fedele vassallo di Carlo V e di Filippo II, sa accrescere il margine della propria autonomia e il territorio dello Stato (annessione della Repubblica di Siena), sino a ottenere il titolo granducale (1569). Una battuta d’arresto si ha con il successore Francesco I (1574-87). Il processo iniziato da Cosimo I è invece potentemente ripreso dall’altro suo figlio, Ferdinando I (1587-1609), che alla morte del fratello lascia la porpora cardinalizia per il trono. Il nuovo granduca completa i lavori di bonifica nella Maremma e di creazione del porto di Livorno, il cui abitato è elevato a città nel 1577. Il periodo di Ferdinando I segna anche la fine del vassallaggio della Toscana verso la Spagna e l’inizio di un orientamento filofrancese.
Il ducato di Savoia, vero Stato cuscinetto tra la Francia e la Lombardia spagnola, sente in un primo tempo tutti gli svantaggi della propria posizione, sì da trasformarsi durante la lunga guerra del 1521-59 in un costante terreno di battaglia, che vede gli Spagnoli e i Francesi insediarsi da padroni, mentre il suo sovrano si vede strappare dagli Svizzeri lo Chablais e il Ginevrino. Il debole duca Carlo III (1504-53) non conserva che poche terre, e ben presto il figlio Emanuele Filiberto deve recarsi al campo spagnolo-imperiale e conquistarsi con le doti di comandante le premesse per potere un giorno riottenere lo Stato dei suoi avi. Ciò avviene con la Pace di Cateau-Cambrésis: Emanuele Filiberto ha il ducato di Savoia, il principato del Piemonte e la contea di Nizza, ma deve concedere le fortezze di Torino, Chivasso, Pinerolo, Chieri e Villanova d’Asti al re di Francia e quelle di Asti e di Santhià al re di Spagna, nonché impegnarsi a essere neutrale e amico verso l’uno e verso l’altro. Con energia il nuovo duca si dedica a riorganizzare il proprio Stato, facendo proprie molte delle modifiche amministrative e giudiziarie introdotte dai Francesi e avviando un accentuato processo di assolutismo monarchico. Smantella numerosi castelli feudali, abolisce la servitù della gleba dietro riscatto, e alla precedente milizia mercenaria ne sostituisce una costituita quasi integralmente da suoi sudditi. Con la riforma monetaria del marzo 1562 dà nuovo impulso alla distrutta economia piemontese. Forte di questa ricostruzione interna, può svolgere una cauta ma pur decisa politica estera, che gli vale la restituzione di alcune fortezze da parte della Francia, di alcune terre da parte dei cantoni svizzeri e, infine, l’acquisto della contea di Tenda, che gli rende libera la strada da Cuneo a Nizza, e di quella di Oneglia, che fornisce il ducato di un secondo sbocco sul mare. Nel 1563 si ha il trasferimento della capitale da Chambéry a Torino. Un ulteriore ingrandimento del ducato è realizzato nel 1588 dal nuovo duca Carlo Emanuele I (1580-1630) con l’annessione del marchesato di Saluzzo, resa possibile dall’indebolimento del Regno di Francia travagliato dalle guerre di religione.
Lo Stato pontificio deve la libertà al suo particolare carattere di patrimonio del papato e alla logica interna alla stessa Controriforma, della quale la Spagna è la più fedele interprete. Per questo motivo, anche se a volte i pontefici sono in urto aperto con il re di Spagna, il loro possesso territoriale, che una bolla di Pio V ha dichiarato inalienabile (1567), non corre mai serio rischio. Diversa è la situazione interna, che è sotto il contraccolpo della riluttanza dei nobili a sottoporsi al fiscalismo e all’assolutismo pontificio e della situazione di indigenza di una parte della popolazione: durante il pontificato di Gregorio XIII (1572-85) il malcontento esplode nel 1577 in una formidabile ondata di banditismo e dura sino al 1595; contro di esso il pontefice Sisto V (1585-90) usa tutta la sua energia, innalzando a più riprese la forca nella stessa Roma e venendo ad accordi con gli Stati confinanti per un’azione comune contro i briganti. Più che dal terrore, il banditismo è domato dalla bonifica delle paludi pontine iniziata dallo stesso Sisto V, dalle migliorie economiche della parte settentrionale dello Stato pontificio e da un attenuarsi delle carestie. Su queste fragili basi statali si erge il grande sforzo controriformistico del papato di fine Cinquecento e del Seicento, di cui sono espressione la Roma rinnovata da un’incessante attività edilizia (Sisto V, Paolo V e soprattutto Urbano VIII Barberini, protettore di Bernini e di Borromini) e la costante opera per sottrarre al mosaico feudale molte terre, rivendicandole al dominio diretto della Chiesa: nel 1598 Clemente VIII incamera la città di Ferrara, Urbano VIII nel 1631 il ducato di Urbino e nel 1641 occupa a viva forza il ducato di Castro, ma deve restituirlo dopo tre anni al duca di Parma e Piacenza Odoardo Farnese, avendo con tale occupazione provocato una lega antipontificia di principi italiani; il ducato è poi definitivamente occupato nel 1649 dal suo successore, Innocenzo X. Questa ricostruzione dell’unità dello Stato pontificio non va però esente dal risorgere dell’antico fenomeno del nepotismo: non più il grande nepotismo di Alessandro VI o di Paolo III, ma il piccolo nepotismo dei favori, delle pensioni e delle prebende.
La Repubblica di Venezia è effettivamente libera dall’ingerenza spagnola e, sebbene ormai bloccata per sempre nella sua espansione verso la terraferma italiana, continua a essere temibile sul mare, come dimostra nel 1571 con il fondamentale apporto dato alla vittoria della lega cattolica sui Turchi a Lepanto. Inoltre, la sclerosi iniziale che ha cominciato a colpire il suo robusto organismo, manifestandosi sia nell’economia attorno al 1570 con i primi segni di stanchezza nell’industria della lana e in quella delle costruzioni navali, sia nel modo sociale di vita con il sempre più numeroso ritiro di nobili dalla vita attiva del negozio e del mare per vivere della rendita terriera della terraferma, trova anche, per almeno mezzo secolo, forze giovanili ed entusiastiche che riescono a contenerla. Il cosiddetto partito dei ‘giovani’, che ha i suoi uomini di punta in Leonardo Donà e in Nicolò Contarini, ascesi poi rispettivamente al dogato nel 1606-12 e nel 1630-31, grazie all’appoggio del doge Nicolò da Ponte (1578-95) riporta la vittoria del 1582, che, sopprimendo la zonta, organo di una ristrettissima oligarchia, e ridimensionando i poteri del Consiglio dei Dieci, imprime una momentanea battuta di arresto al processo d’involuzione oligarchica.
Con il 17° sec. si ha il ritorno della Francia sulla scena della politica attiva europea, e ciò provoca un indebolimento dell’egemonia della Spagna sull’Italia. Proprio in quegli anni, infatti, si hanno i primi patti (trattato di Bruzolo nel 1610 tra Carlo Emanuele I e il re di Francia Enrico IV) e si combattono le prime guerre tra Stati italiani al di fuori dell’orbita spagnola (prima guerra per la successione del Monferrato nel 1612-17, che si conclude con la vittoria dei Gonzaga e di Filippo III; guerra di Venezia contro gli Asburgo d’Austria e gli Uscocchi nel 1615-17; energica reazione di Venezia nel 1618 alla cosiddetta congiura dell’ambasciatore spagnolo Bedmar).
La guerra dei Trent’anni rivela l’esistenza di punti nevralgici per il dominio spagnolo in I. nel ducato di Savoia e negli stessi diretti possessi spagnoli dell’I. meridionale.
Nel 1621 un audace colpo di mano dà la Valtellina agli Spagnoli, mettendoli in grado di unire le proprie forze direttamente con quelle degli Asburgo d’Austria; ma la Francia di Richelieu con un’energica reazione fa ripristinare lo status quo e trae motivo dall’incidente per giustificare la necessità di una propria presenza nella penisola. Nel 1635 il trattato di Rivoli costringe il duca Vittorio Amedeo I (1630-37), che nel 1613 ha dovuto cedere alla Francia Pinerolo, a schierarsi contro la Spagna dietro la promessa di una parte della Lombardia e del titolo regio; infine, la morte del duca e la reggenza della vedova Maria Cristina di Borbone (1637) segnano l’assoluta infeudazione del ducato alla Francia, pagata con lo scoppio di una vera e propria guerra civile a opera del principe Tommaso di Carignano e del cardinale Maurizio, con il conseguente intervento armato della Spagna: all’una e all’altro pone fine il trattato di pace del 1642, che conferma l’ingerenza francese nel ducato.
In Italia meridionale il contrasto internazionale trova un’occasione favorevole nel processo di rifeudalizzazione in atto nel Regno di Napoli. Sotto la pressione sempre più forte dei bisogni finanziari la corona non solo sottopone a un pesante aumento il carico fiscale nel Napoletano ma si vede costretta ad autorizzare, nell’esazione delle imposte, la più sfacciata speculazione da parte di banchieri privati. I frutti di queste speculazioni prendono spesso la strada dell’acquisto di feudi e di diritti di giurisdizione signorile, contribuendo a una massiccia messa all’incanto dei poteri sovrani. Tale situazione finisce col determinare la reazione dei differenti ‘partiti’ presenti in città: i gruppi aristocratici, i ceti mercantili, gli artigiani, i ‘togati’, i giuristi impegnati nelle magistrature del Regno, il mondo rurale esposto come non mai alle angherie di esosi percettori di rendita feudale, i cittadini delle ‘università’ demaniali spesso vendute ai baroni vecchi e nuovi. Su questa situazione interna, contraddistinta dal rancore delle province verso Napoli e la Spagna, dal caos amministrativo e da un’ondata di fallimenti di compagnie commerciali particolarmente intensa nel decennio 1636-46, s’inseriscono i richiami della propaganda della Francia, ben lieta di incoraggiare le rivolte interne al territorio della Spagna nemica: la situazione precipita il 7 luglio 1647 in una rivolta che da Napoli si diffonde all’intero Regno e della quale l’episodio di Tommaso Aniello (Masaniello) è il più clamoroso e certo il più pittoresco, ma non il più importante. La rivolta, scoppiata come tumulto spontaneo contro l’ennesima tassa, finisce con l’avere, con il passare dei mesi, molte valenze politiche. Nei mesi precedenti si è mossa anche la Sicilia con la rivolta palermitana del battiloro Giuseppe Alessi (luglio-agosto 1647): la Spagna è così costretta a impegnarsi a fondo nella repressione. Enrico di Guisa, duca di Lorena, decide di appoggiare la rivolta antispagnola: giunto a Napoli riesce a farsi riconoscere capo della città, ma proprio la diversità di obiettivi interni al partito dei rivoltosi finisce col fare fallire il suo tentativo. Il processo di normalizzazione, cominciato nell’aprile 1648, e portato avanti dal nuovo viceré spagnolo, il conte di Oñate, pone così fine alla rivolta.
Il maggiore dinamismo della scena politica italiana attorno alla metà del 17° sec. coincide con quella che la storiografia definisce la crisi del Seicento. Per l’I., ai motivi già evidenziati si aggiungono ora altri fattori: le guerre di religione e, soprattutto, la guerra dei Trent’anni hanno impoverito la Germania, il cui mercato non assorbe più i prodotti del commercio dell’I. settentrionale; in condizioni di netto impoverimento è anche il mercato ottomano, e ciò rende ancora più stentato il commercio mediterraneo; la grave crisi finanziaria che grava sulla Spagna provoca frequenti necessità di denaro da parte della corona e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni soggette.
L’indebolimento della potenza del duplice ramo degli Asburgo rappresentato dalle Paci di Vestfalia (1648) e dei Pirenei (1659), pur non costringendo per il momento la Spagna a fare alcuna rinuncia territoriale nella penisola, muta rapidamente i dati del problema territoriale-diplomatico dell’I. e apre alcuni gangli vitali all’influenza della Francia.
La presenza della flotta francese nel Mediterraneo, durante la guerra d’Olanda, rende particolarmente temibile per la Spagna la ribellione di Messina, ben presto appoggiata dai Francesi; la Pace di Nimega (1678) segna però la restaurazione del dominio spagnolo.
Genova, fino allora quasi feudo della Spagna, è costretta con la forza a spostarsi di campo: nel 1684 Luigi XIV ne fa bombardare i forti per 10 giorni e il doge Francesco Imperiali-Lercari deve fare un umiliante viaggio a Versailles.
Per il matrimonio di Maria Gonzaga con il giovane figlio di Carlo di Nevers, origine della seconda guerra per la successione del Monferrato (1627-31), il re di Francia dispone di una fedele dinastia alleata nei Gonzaga Nevers. Inoltre, nel 1681 Luigi XIV si fa concedere dal duca di Mantova Ferdinando Carlo la città di Casale, vera porta di accesso alla Lombardia spagnola.
La preponderanza francese in I. giunge a tal punto che Luigi XIV, pur svolgendo in Francia una politica di assoluta ortodossia cattolica (revoca dell’editto di Nantes, persecuzioni dei giansenisti), non esita a entrare per ben due volte in acuto conflitto con il papato: nel 1664 per le speciali prerogative dell’ambasciatore francese a Roma, e nel 1682-91 per la dichiarazione dei quattro articoli della Chiesa gallicana.
1701-13: scatenatasi la guerra di Successione spagnola, il duca di Savoia Vittorio Amedeo II (1675-1730) crede giunto il momento per poter realizzare la sua grande aspirazione di annettere l’intera Lombardia e di cingere la corona regia. Mentre la maggior parte degli Stati italiani resta neutrale, senza peraltro salvare il territorio della penisola dall’esser campo di battaglia tra i contendenti, il duca di Savoia si allea con la Francia (altro alleato è il duca di Mantova), ma nel 1703 passa dalla parte degli Imperiali. Gli avvenimenti bellici non gli sono favorevoli (invasione francese del 1704, sconfitta di Susa, assedio della cittadella di Torino salvata nel 1706 dall’atto eroico del minatore Pietro Micca); solo la congiunzione delle truppe sabaude con quelle imperiali al comando del principe Eugenio permette una vittoria decisiva sulle truppe francesi (7 settembre 1706).
1713-14: le Paci di Utrecht e di Rastatt sottraggono al nuovo re di Spagna Filippo V tutti i possessi italici, assegnando il Milanese, la Sardegna, il Napoletano e lo Stato dei presidi all’Austria, che già dal 1708 ha occupato Mantova; la Sicilia con il titolo regio a Vittorio Amedeo II, che ottiene anche i distretti dell’ex Lombardia spagnola, della Lomellina e della Valsesia e mantiene il Monferrato, occupato nel 1708.
1717-20: questo quadro territoriale è sul punto di essere modificato dall’intraprendente politica del primo ministro spagnolo, il cardinale Giulio Alberoni, che fa occupare la Sardegna (1717) e la Sicilia (1718), ma la Quadruplice alleanza (Francia, Inghilterra, Olanda e Austria) non tollera tale occupazione: la flotta inglese batte nelle acque siciliane quella spagnola e Filippo V, licenziato Alberoni, deve sottoscrivere il trattato dell’Aia (1720), definitivo riconoscimento dell’assetto territoriale fissato a Utrecht. All’Aia è fissato anche lo scambio, dovuto essenzialmente a ragioni di politica di equilibrio, tra la Sicilia e la Sardegna rispettivamente da parte del re Vittorio Amedeo II e dell’imperatore; la Sardegna è ufficialmente consegnata al primo nell’agosto 1720. Il trattato promette inoltre al figlio della regina di Spagna Elisabetta Farnese, don Carlos, le successioni di Parma, dove né il duca Francesco Maria Farnese (1694-1727), né il fratello Antonio (1727-31) hanno figli, e della Toscana, già in fase di decadenza sotto i granduchi Ferdinando II (1626-70) e Cosimo III (1670-1723), e senza un erede del granduca Gian Gastone (1723-37), al momento dell’estinzione delle rispettive dinastie.
1733-38: la guerra di Successione polacca si svolge quasi essenzialmente in Italia, non volendo il re di Francia Luigi XV, forte dell’alleanza con tutti i Borbone (patto di famiglia del 1733) e con il re di Sardegna Carlo Emanuele III (1730-73), allarmare l’Inghilterra con un attacco diretto ai Paesi Bassi austriaci (occupazione della Lombardia, di Parma e di Guastalla da parte delle truppe franco-sarde, della Sicilia e del Napoletano da parte di quelle spagnole). Con la Pace di Vienna (18 novembre 1738) Carlo Emanuele III di Savoia ottiene i distretti di Novara e Tortona e il territorio delle Langhe; i regni di Napoli e di Sicilia sono sottratti all’Austria e assegnati al figlio di Filippo V e di Elisabetta, don Carlos; il granducato di Toscana, dove si è estinta la dinastia dei Medici, passa a Francesco Stefano di Lorena, marito della futura imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, per indennizzarlo del ducato di Lorena, che la Francia ha fatto assegnare a Stanislao Leszczyński; infine, il ducato di Parma e Piacenza, che dal 1731 al 1736 è stato tenuto da don Carlos, passa sotto il dominio dell’Austria.
18 ottobre 1748: la Pace di Aquisgrana (fig. 7), che pone fine alla guerra di Successione austriaca (1740-48), porta il confine dello Stato di re Carlo Emanuele III al Ticino (annessione dei distretti di Voghera, Vigevano e Alto Novarese), e sottrae all’Austria il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla per farne possesso del secondo figlio di Elisabetta Farnese, don Filippo.
1756: il cosiddetto rovesciamento delle alleanze pone fine al secolare dissidio tra gli Asburgo e i Borbone; l’I. cessa di essere il campo di battaglia delle potenze europee e ha un cinquantennio di pace, che la guerra dei Sette anni (1756-63) non turba.
1768: la Repubblica di Genova vende alla Francia la Corsica, da tempo in stato di endemica rivolta contro il dominio genovese: insurrezione del 1729-32, che vede accanto a Genova e in suo favore un intervento dell’imperatore; seconda rivolta del 1733-39, che segna l’ascesa della famiglia Paoli e nel 1736 dà vita per qualche mese all’effimero regno indipendente di Teodoro di Neuhoff; aperto intervento delle potenze straniere con lo sbarco nel 1738 di truppe francesi, che cercano di esercitare una certa mediazione armata tra i contendenti, e l’occupazione delle isolette della Maddalena e di Caprera da parte di Carlo Emanuele III di Savoia; nuova insurrezione indipendentista del 1753 e generalato di Pasquale Paoli dal 1755 al 1769 con lotta a un tempo contro Genova e contro la Francia. L’8 maggio 1769 le truppe francesi riescono ad aver ragione degli ultimi difensori dell’indipendenza corsa e Pasquale Paoli deve riparare a Londra.
La Pace di Vienna e il successivo trattato di Aquisgrana fissano per circa un cinquantennio il nuovo assetto della penisola: a un mutamento politico fa seguito un profondo rinnovamento culturale e civile, un periodo di ripresa economica. È l’effetto di un clima generale di riformismo illuminato. Tra i settori che maggiormente e più rapidamente danno segni di progresso, c’è quello economico. Viene razionalizzato il sistema fiscale, sono elaborati un gran numero di progetti e di idee capaci di dare uno straordinario apporto al commercio e all’agricoltura. Proprio quest’ultimo settore è caratterizzato da un trend particolarmente favorevole, facendo dell’I. uno dei principali paesi fornitori dell’Europa per la seta greggia (Piemonte, Lombardia, Calabria), l’olio (I. meridionale), il vino e, in alcune annate, il grano. Il commercio è potenziato grazie alla nuova pratica dei porti franchi: il primo è quello di Livorno, al quale nel corso del secolo si aggiungono quelli di Trieste (1717), di Ancona (1732), di Civitavecchia (1748) e infine di Messina. Alla ripresa marinara fa d’appoggio anche l’intensificazione del commercio terrestre, favorito dall’apertura di nuove strade.
Venezia, come le altre repubbliche oligarchiche di Genova e Lucca, rimane al di fuori del movimento del riformismo settecentesco. La Pace di Passarowitz (1718) fa definitivamente tramontare la sua secolare politica orientale e mediterranea. All’interno non è riuscita a risolvere il contrasto tra la cinquantina di grandi casate patrizie, detentrici di tutto il potere, e la misera quanto famelica nobiltà dei Barnabotti, e l’altro conflitto, non meno grave, tra la città dominante e la terraferma. Brescia e Bergamo incominciano a rivolgere lo sguardo verso la Lombardia austriaca e il Friuli verso l’Austria; fra i patrizi, Angelo Querini annoda nel 1761 una sfortunata congiura con i Barnabotti per rendere meno oligarchico il governo, seguito dai tentativi, più conservatori, di Giorgio Pisani e di Carlo Contarini (1780); ma il limite oligarchico, che soffoca la Repubblica, non è mai superato.
Nel Regno di Sardegna, sotto Vittorio Amedeo II viene riformata l’alta amministrazione (1717), unificata la legislazione penale e civile (1724), incoraggiata l’istruzione e potenziata l’università di Torino, spogliata la nobiltà di tutti i beni e privilegi per i quali non sia possibile produrre un titolo legittimo di possesso e promossa la trasformazione della maggior parte dei nobili in funzionari dello Stato e della dinastia, lanciata un’energica politica giurisdizionalistica nei confronti della Chiesa cattolica e del clero, contenuto nelle sue immunità e sostituito in molti istituti caritativi dall’assistenza statale. Questo aspetto giurisdizionalistico è abbandonato negli ultimi anni del regno di Vittorio Amedeo II e sotto il successore Carlo Emanuele III. Il riformismo sabaudo prosegue solo a favore della Sardegna, terra fino allora negletta, ma cessa del tutto con Vittorio Amedeo III (1773-96).
Nello Stato pontificio l’attività riformatrice, pur cauta e lenta, non è del tutto assente, anche se il papato è uno dei bersagli preferiti dei sovrani illuminati, al punto di costringere il pontefice Clemente XIV a sopprimere con la bolla Dominus ac Redemptor del 1773 l’invisa Compagnia di Gesù. Pio VI (1775-98) attua una riforma tributaria tesa a semplificare l’esazione dei tributi, fa eseguire un catasto nel 1777, riprende i lavori di bonifica nelle paludi pontine ed è munifico mecenate di artisti e letterati.
Differente appare il quadro degli Stati posti entro la sfera di dominio o d’influenza asburgica o borbonica. In Lombardia il conte Beltrame Cristiani prima e il conte Carlo di Firmian poi sono intelligenti esecutori dell’attività riformatrice dell’imperatrice Maria Teresa: punto centrale della loro opera è la compilazione, tra il 1748 e il 1755, di un catasto generale, che, entrato in vigore nel 1760, permette di trasferire il carico fiscale dal commercio alla proprietà fondiaria e al tempo stesso di porre le premesse per uno sviluppo razionale dell’agricoltura lombarda. Risale a tale periodo l’esplosione economica della Bassa lombarda, ossia della zona irrigua con le coltivazioni di riso, i prati artificiali e il grosso patrimonio zootecnico; nella zona collinare viene allargata e generalizzata la coltivazione del gelso e con essa l’industria domestica della seta grezza. L’altra grande riforma è quella amministrativa, che divide il territorio in province e comuni, inglobando nella stessa unità città e campagna. Non poche sono poi le riforme di politica economica miranti a realizzare da una parte una centralizzazione del potere, dall’altra una razionalizzazione delle strutture amministrative (1765, istituzione del Consiglio superiore dell’economia, sostituito nel 1771 da un magistrato camerale e dalla Camera dei conti). Né manca sotto Maria Teresa una politica giurisdizionalista nei confronti della Chiesa, che diviene addirittura travolgente sotto il figlio e successore Giuseppe II (1780-90), già dal 1765 associato dalla madre al governo dello Stato (soppressione del tribunale dell’Inquisizione e della censura ecclesiastica sui libri, allontanamento – prima ancora della soppressione della Compagnia – dei gesuiti dall’insegnamento, abolizione del diritto d’asilo).
In Toscana, passata a Francesco Stefano di Lorena nel 1737, l’attività riformatrice ha subito inizio per opera del Consiglio di reggenza. Anche se odiata ben presto dai sudditi e pur non potendo infrangere i limiti invalicabili che l’interesse personale di Francesco Stefano – impegnato nella guerra di Successione austriaca e in quella dei Sette anni e quindi bisognoso della maggior quantità possibile di denaro – pone a ogni politica riformatrice, la reggenza non solo sa riorganizzare lo Stato, risolvendo la spinosa questione dei beni allodiali medicei, riordinando il debito pubblico, stipulando trattati con l’Impero ottomano, ma avvia alcune riforme (trasferimento di intere famiglie di contadini lorenesi nella Maremma; favore dato all’industria della seta; limitazione della giurisdizione feudale), preoccupandosi di favorire una parziale decentralizzazione del potere, favorendo una maggiore collaborazione tra governo e classe dirigente locale. Al riformismo spicciolo e frammentario della reggenza si sostituisce un vero e proprio programma sintetico di riforme con l’arrivo del giovane Pietro Leopoldo nel 1765: programma che non va esente da qualche conflitto con quello dell’imperiale fratello Giuseppe II, sia per il diverso atteggiamento nei confronti della Toscana, considerata a Vienna come una ‘secondogenitura’ per gli Asburgo, sia per un diverso modo d’intendere le riforme. Circondato dai migliori elementi della cultura e dell’amministrazione toscana, il granduca Pietro Leopoldo incarna veramente il tipo ideale del principe riformatore italiano e sotto di lui la Toscana è all’avanguardia del progresso nella penisola (pubblicazione del bilancio, perequazione ed eguaglianza fiscale, riordinamento e uniformità delle amministrazioni provinciali e comunali, uniformità di legislazione, abolizione della tortura e della pena di morte, soppressione dei maggiorascati e dei fedecommessi, abolizione del vincolismo economico-corporativo, vaste opere di bonifica nella Valdichiana e nella Maremma).
Anche i possessi borbonici avvertono gli effetti del moto riformatore settecentesco. A Parma, divenuta un centro di cultura francese, anima delle riforme è il ministro (dal 1756) G.-L. du Tillot, soprattutto allorché egli tiene le redini dello Stato per il minorenne Ferdinando (1765-71). A Napoli, Carlo di Borbone sa approfittare della preziosa collaborazione di Bernardo Tanucci e dell’opera di Antonio Genovesi, una delle figure più rappresentative del movimento riformatore politico-economico del Regno. Grazie anche all’appoggio di una secolare tradizione anticuriale, le riforme si risolvono soprattutto in una dura lotta anticlericale e antifeudale per il sussistere di una enorme potenza politica nella classe baronale e per il cumulo di privilegi e di esenzioni delle quali gode il clero (1741, concordato con la Santa Sede che limita l’immunità fiscale dei beni ecclesiastici e la giurisdizione del foro ecclesiastico). Partito per la Spagna nel 1759 Carlo di Borbone, l’azione riformatrice continua anche con Ferdinando IV, anzi è estesa alla Sicilia, dove nel 1781 viene inviato quale viceré il marchese Caracciolo, un autentico ‘illuminista’.
Negli ultimi anni del 18° sec. l’attività riformatrice cessa quasi dappertutto: nel Regno di Sardegna l’avvento di Vittorio Amedeo III significa l’abbandono della precedente opera riformatrice e l’inizio di una politica nettamente conservatrice; il riformismo borbonico regredisce rapidamente a Parma e a Napoli; nei domini austriaci, invece, dopo la morte di Giuseppe II e l’avvento dell’ex granduca di Toscana Pietro Leopoldo con il nome di Leopoldo II (1790-92), si assiste tutt’al più a una prassi più cauta.
La Rivoluzione francese non si limita a modificare, con il successivo periodo napoleonico, l’assetto territoriale della penisola, ma ha anche un effetto catalizzatore per quegli esponenti della classe colta che, davanti all’abbandono dell’attività riformatrice da parte dei principi, hanno oltrepassato il semplice riformismo spinti dagli ideali liberal-costituzionali. Mentre i sovrani italiani restano come paralizzati davanti al susseguirsi degli avvenimenti, non pochi italiani (è il caso, per es., di Filippo Buonarroti) decidono di condividere e far proprie le idee e i programmi rivoluzionari. Si tratta tuttavia di un’élite: la maggior parte del paese resta ostile alla Rivoluzione.
1796-97: la guerra, che già nel 1792 la Francia ha dichiarato a non pochi Stati italiani, diviene effettiva e le armate rivoluzionarie, al comando del giovane generale Napoleone Bonaparte, invadono il suolo italiano. Le fulminee vittorie di Bonaparte (Montenotte, Millesimo, Dego, Mondovì) rompono subito il comune fronte austro-sardo e, mentre l’armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), divenuto poi Pace di Parigi (15 maggio), mette il re di Sardegna in balia di Bonaparte (i giacobini, che ad Alba hanno proclamato la prima repubblica italiana, sono abbandonati dal vincitore), l’armata rivoluzionaria punta in direzione di Milano (vittoria di Bonaparte al ponte dell’Adda presso Lodi), dove entra il 15 maggio 1796. Dopo uno sconfinamento di ambedue gli eserciti nel territorio della neutrale Repubblica veneta, il quadrilatero delle fortezze austriache oppone una seria resistenza a Bonaparte, che approfitta della momentanea sosta per sottomettere i principi italiani (gravosi trattati imposti al duca di Parma e a quello di Modena; occupazione delle legazioni pontificie di Ferrara, Bologna, Ravenna, Imola e Faenza e imposizione al papa Pio VI dell’armistizio del 23 giugno 1796, che oltre alla rinuncia alle province di Ferrara e di Bologna sancisce il pagamento di una gravosa indennità di guerra e la cessione di 500 codici e di 100 opere d’arte; occupazione del porto di Livorno il 5 luglio 1796; gravoso armistizio imposto al re di Napoli). Riprese le operazioni militari contro gli Austriaci e battuti i quattro eserciti calati dalle Alpi in soccorso di Mantova, Bonaparte con la battaglia di Rivoli (14 gennaio 1797) assicura definitivamente la vittoria francese e, conquistata Mantova (2 febbraio) e rese più gravose le condizioni imposte ai principi italiani, punta al cuore dell’Impero austriaco, costringendo infine l’imperatore Francesco II all’armistizio e ai preliminari della Pace di Leoben (18 aprile 1797). L’Austria perde la Lombardia, ma in cambio ottiene la Dalmazia, l’Istria e una parte della terraferma veneta, per poter disporre della quale Bonaparte attacca Venezia che sino allora si è mantenuta neutrale (2-16 maggio 1797) e vi favorisce l’avvento di un governo democratico, con il quale stringe un trattato di pace e di amicizia; nella pace di Campoformio (17 ottobre 1797) il territorio veneziano viene poi diviso tra Austria, Francia, che occupa direttamente le Isole Ionie e gli ex possessi di Venezia in Albania, e la Repubblica cisalpina. Intanto Bonaparte nel dicembre 1796 ha dato vita alla Repubblica cispadana (Reggio nell’Emilia, Ferrara, Bologna e Modena) e alla Repubblica transpadana (Lombardia); poi, nel maggio 1797, ha fuso questi due Stati in uno solo, la Repubblica cisalpina, che si rivela organismo robusto e vitale, ben presto ingrandito con l’annessione della Valtellina sottratta ai Grigioni (ottobre 1797) e delle città venete alla destra dell’Adige. Nel giugno del 1797, la repubblica oligarchica di Genova deve, su imposizione di Bonaparte, democratizzare radicalmente i propri ordinamenti e alla fine (dicembre 1797) costituirsi in Repubblica ligure. Nel novembre Bonaparte lascia l’I., ma la sua partenza non pone fine all’espansione del dominio, diretto o indiretto, della Francia rivoluzionaria.
1798-99: l’assassinio a Roma del generale L. Duphot provoca l’arrivo delle truppe francesi e la proclamazione della repubblica giacobina a Roma (15 febbraio 1798); l’ingerenza francese nel governo interno del Piemonte si fa sempre più soffocante al punto che nel dicembre 1798 il nuovo re Carlo Emanuele IV (1796-1802) preferisce rifugiarsi prima all’estero e poi in Sardegna; scoppiata la guerra della seconda coalizione (1798), l’incauta spedizione di Ferdinando IV di Napoli, che per un istante gli permette di abbattere la repubblica giacobina, è pagata a caro prezzo, giacché l’immediata controffensiva del generale francese Championnet non solo ristabilisce la repubblica a Roma, ma fa sorgere la Repubblica partenopea (23 gennaio 1799) e costringe il sovrano a cercare scampo in Sicilia; a Lucca viene abbattuta la repubblica oligarchica e ha inizio l’invasione della Toscana.
1799: solo Genova resiste alle forze della seconda coalizione; mentre Bonaparte è impegnato nella campagna di Egitto, tutte le Repubbliche giacobine cadono a una a una e in Lombardia si abbatte, spietata, per tredici mesi la reazione austro-russa. Ancora più spietata è la reazione di Ferdinando IV e dell’ammiraglio inglese Nelson a Napoli.
1800-05: la seconda campagna italiana di Napoleone primo console, con la schiacciante vittoria di Marengo (14 giugno 1800), torna a legare strettamente la penisola alla Francia (restaurazione della Repubblica cisalpina, riaffermazione del predominio francese sul Piemonte e sulla Repubblica ligure, occupazione del granducato di Toscana, invio di un esercito al comando di Gioacchino Murat contro il Regno di Napoli attraverso il territorio pontificio); il nuovo assetto è sancito con le Paci di Lunéville con l’Austria (9 febbraio 1801) e di Firenze con Ferdinando IV di Napoli (28 marzo). La Repubblica cisalpina è notevolmente ingrandita con il Veronese e il Polesine, appartenenti un tempo a Venezia, con il Novarese tolto al Piemonte e le ex Legazioni pontificie; inoltre, l’annosa rivalità lombardo-piemontese per il controllo dei passi alpini è risolta attribuendo alla Cisalpina gli sbocchi del Sempione. Il Piemonte e l’ex ducato di Parma rimangono sotto la diretta occupazione della Francia. L’ex granducato di Toscana viene trasformato nel Regno di Etruria per farne un trono per Ludovico I di Borbone, e, alla sua morte (1803), per il figlio Carlo Ludovico sotto la reggenza della madre Maria Luisa. Il re di Napoli non solo è costretto a evacuare Roma e a cedere l’isola d’Elba a Piombino, ma deve autorizzare l’occupazione francese temporanea dei porti di Otranto e di Brindisi e chiudere i propri porti al commercio inglese. La consulta di Lione del 1801-02 provoca il crollo di ogni residua illusione democratica e nazionale e il maggiore organismo dell’I. francese, la Cisalpina, viene trasformato prima in Repubblica italiana (26 gennaio 1802) sotto la presidenza dello stesso Napoleone e la vicepresidenza di Francesco Melzi d’Eril, poi in Regno italico (18 marzo 1805) sotto il governo del viceré Eugenio di Beauharnais. Infine, in tutta l’I. napoleonica giunge a compimento il processo, già iniziato nel 1796, di un enorme trasferimento di proprietà dovuto alla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali: dopo un iniziale momento di frazionamento e polverizzazione, non tarda a verificarsi il processo inverso di ricostituzione della grossa proprietà in mano agli acquirenti e agli speculatori, per lo più membri della soppressa nobiltà e della grossa borghesia.
1805-06: con la trasformazione della Francia in impero e della Repubblica italiana in regno il motivo dinastico entra sempre più nei calcoli di Napoleone: egli annette integralmente alla Francia il territorio della Repubblica ligure e dà alla sorella Elisa, e al marito Felice Baciocchi, Piombino e Lucca, già feudi imperiali, ai quali aggiunge due anni dopo il territorio dell’ex ducato di Massa e Carrara. Questa politica spinge l’Austria a entrare nella terza coalizione, della quale già per conto suo faceva parte il re di Napoli; la sconfitta dei coalizzati (battaglia di Austerlitz; trattato di pace di Presburgo) dà le terre venete che l’Austria ha ottenuto con il Trattato di Campoformio al Regno italico (che porta il proprio confine all’Isonzo, mentre la Dalmazia e l’Istria danno vita alle cosiddette Province illiriche, annesse all’Impero francese ma con amministrazione separata), determina l’espulsione della dinastia borbonica dalla terraferma costringendola a esiliarsi in Sicilia, mentre il Regno di Napoli prima passa sotto Giuseppe Bonaparte (1806-08), poi va a Gioacchino Murat (1808-15). Il Trentino è annesso alla Baviera, alleata di Napoleone.
1807-12: se la quarta coalizione non trasforma nuovamente l’I. in campo di battaglia, essa però, con la decisione di Napoleone d’instaurare un rigoroso blocco antiinglese, provoca nuovi rimaneggiamenti territoriali, ai quali però non è estraneo l’urto sempre più forte che, dopo l’iniziale accordo con il concordato del 1801, sorge tra l’imperatore, il papa Pio VII (1800-23) e la curia romana. Tali modifiche sono: la scomparsa del Regno d’Etruria (10 dicembree 1807) e l’annessione della Toscana all’Impero francese (1807-09) e infine il suo costituirsi nuovamente in Stato vassallo come granducato di Elisa Baciocchi (2 marzo 1809) insieme con i territori di Lucca e Piombino; l’occupazione di Ancona (1805), di Civitavecchia (1806) e delle Marche tolte al papa (novembre 1807) e l’annessione di queste ultime al Regno italico (2 aprile 1808); infine, l’occupazione militare di Roma (2 febbraio 1808), cui segue nel giugno 1809 la proclamazione della fine del potere temporale dei papi e la deportazione di Pio VII a Savona (e poi in Francia). Di tutti gli Stati italiani solo due ormai sfuggono alla volontà napoleonica: la Sardegna, dove Carlo Emanuele IV ha abdicato in favore del fratello Vittorio Emanuele I (4 giugno 1802), e la Sicilia, rifugio di Ferdinando IV e della regina Maria Carolina, ma in realtà roccaforte dei baroni siciliani e quartier generale del proconsole inglese lord William Bentinck, i cui poteri sono garantiti dalla convenzione del 1808 conclusa dal suo governo con il re Ferdinando IV, e che di essi si vale per dar partita vinta ai baroni sostenitori di una Costituzione sul modello inglese (1812) e per allontanare, per un certo tempo, lo stesso re dalla sua funzione sovrana.
1813-14: per le esigenze del blocco contro l’Inghilterra l’economia dei singoli Stati vassalli è asservita alla politica di guerra di Napoleone e nello stesso tempo è considerata quasi come un ‘mercato coloniale’ della Francia: se da una parte questo determina un incremento e una crescita dell’agricoltura italiana, favorita dalle vicende del blocco e dalla congiuntura di prezzi alti, dall’altra favorisce il lento, ma progressivo arretramento delle attività manifatturiere e metallurgiche e determina una conseguente grave crisi nell’attività portuale. Inoltre, l’alto costo in termini di vite umane delle campagne napoleoniche genera stanchezza e crisi. La reazione antinapoleonica trova un forte e valido ausilio nel maturare di una sempre più chiara coscienza nazionale e indipendentista, che a Milano è abilmente imbrigliata dalla politica liberaleggiante del viceré Eugenio, ma a Napoli trova invece un valido appoggio nelle ambizioni del re Gioacchino Murat. Questi motivi di attrito hanno nella crisi finale dell’Impero napoleonico una parte importante e, se in quei mesi il viceré Eugenio rimane fedele al suo protettore (strenua resistenza militare opposta dall’ottobre 1813 prima sull’Adige, poi sul Mincio; convenzione di armistizio firmata a Schiarino-Rizzino il 17 aprile 1814 solo dopo che Napoleone aveva abdicato) e solo troppo tardi accarezza il progetto di restare sul trono in qualità di re della Lombardia (l’assassinio del ministro delle Finanze G. Prina del 20 aprile 1814 rivela in maniera indubbia gli umori antifrancesi dei Milanesi, destinati del resto, con la convenzione di Mantova, a passare sotto l’Austria), a Napoli, invece, Murat è rapido nel distaccarsi da Napoleone: già in contatto con l’Austria fin dal marzo 1813, nel gennaio 1814 revoca dai porti napoletani il blocco antiinglese e stringe una formale alleanza con l’Austria, entrando infine apertamente in guerra al fianco di questa e attaccando il 7 marzo 1814 le truppe del viceré Eugenio a Reggio nell’Emilia. Sopportato dall’Austria, ma osteggiato dall’Inghilterra, Murat al Congresso di Vienna vede sfumare tutte le proprie possibilità di conservare il trono e cerca di salvarsi puntando ancor di più sul sentimento nazionale; tuttavia, la guerra nazionale, da lui proclamata il 15 marzo 1815, gli vale soltanto la perdita della corona e più tardi, dopo un incauto rientro in Calabria per una spedizione armata, la morte (13 ottobre 1815).
L’assetto politico-territoriale stabilito per l’I. al Congresso di Vienna (1814-15), mentre sancisce il ritorno alla situazione prerivoluzionaria con la restaurazione sul trono dei sovrani legittimi, segna l’emergere dell’Austria quale potenza egemone nella penisola. La volontà di reazione dei sovrani, volta a neutralizzare quanto di innovativo la Rivoluzione francese e il periodo napoleonico hanno introdotto nell’amministrazione pubblica e nella società civile, non riesce a ricreare integralmente la situazione dell’ancien régime: aspetti importanti delle istituzioni civili e amministrative portate dai Francesi sono conservati quasi ovunque. L’impossibilità per le opposizioni di manifestare liberamente il proprio dissenso e di associarsi ha come effetto la diffusione delle società segrete. La maggiore di quelle che operano in I. negli anni 1820 è la Carboneria.
Le società segrete di stampo liberale e radicale forniscono la prima grande prova nei moti che scoppiano nel 1820-21, al diffondersi delle notizie circa il successo del pronunciamento militare che in Spagna ha riportato in vigore la Costituzione del 1812. I moti hanno inizio nel Regno delle Due Sicilie. Il successo dell’insurrezione allarma l’Austria, che convoca a Troppau, in Slesia, un congresso fra le grandi potenze (ottobre-dicembre 1820) per ottenere il consenso all’intervento militare in I. e Spagna al fine di schiacciare l’insurrezione. Al successivo congresso di Lubiana (gennaio 1821) Ferdinando I, re delle Due Sicilie, rinnega l’appoggio al regime costituzionale e chiede l’intervento austriaco, che di lì a poco assicura il ripristino dell’assolutismo. I fatti di Spagna e del Regno delle Due Sicilie inaspriscono in tutta I. il confronto tra rivoluzionari e conservatori: le società segrete intensificano l’attività cospirativa, che raggiunge la massima intensità in Lombardia e in Piemonte. I congiurati piemontesi ritengono di poter contare sull’appoggio del principe di Carignano, Carlo Alberto di Savoia, ma questi, dopo una iniziale adesione al piano insurrezionale, fa marcia indietro. Il 12 marzo l’insurrezione guadagna Torino. Vittorio Emanuele I abdica nominando reggente Carlo Alberto, che giura con il nuovo governo fedeltà alla Costituzione spagnola, ma Carlo Felice (1821-31), fratello ed erede legittimo di Vittorio Emanuele, sconfessa l’operato di Carlo Alberto inducendolo ad abbandonare il fronte liberale. Il governo provvisorio invita i soldati piemontesi alla guerra contro l’Austria, ma l’improvvisato esercito costituzionalista scontratosi a Novara (7-8 aprile) con i realisti, cui sono arrivati in soccorso gli Austriaci, viene sconfitto. Nel Lombardo-Veneto le autorità austriache intensificano la vigilanza e la repressione poliziesca per evitare il ripetersi di moti eversivi. La fortezza dello Spielberg, in Moravia, dove sono stati imprigionati molti patrioti, diviene il simbolo della lotta per l’indipendenza dall’Austria.
Esito non molto dissimile ai moti degli anni 1820 hanno quelli scoppiati nel 1830-31 dietro la spinta delle rivoluzioni liberali europee, in particolare quella francese. La parte più direttamente interessata è questa volta l’I. centrale: l’insurrezione scoppia a Bologna, e da qui guadagna le Marche, il ducato di Modena e Reggio, Parma, gran parte della Romagna. Si giunge alla costituzione di un governo provvisorio delle Province Unite con sede a Bologna che agisce di concerto con i governi provvisori instauratisi nei ducati. Ma questi, fallita la speranza di un appoggio francese, non sono in grado di resistere alle truppe austriache, inviate da Metternich nel marzo 1831 per ristabilire lo status quo. Il fallimento generale dei moti promossi dalle società segrete è in larga misura determinato dalla incapacità di elaborare programmi in grado di coinvolgere gli strati popolari.
Con la crisi della Carboneria, ormai screditata, le forze che premono per il rinnovamento si dividono in due correnti principali: quella che fa capo a G. Mazzini (1831, fondazione della Giovine Italia), con un programma basato sull’iniziativa popolare, e quella moderata, che punta sull’iniziativa delle classi dirigenti e sull’azione riformatrice dei governi. Una serie di gravi insuccessi dei mazziniani, incapaci di mobilitare le masse (1844, fallimento della spedizione in Calabria dei fratelli Bandiera), unitamente alle esigenze dello sviluppo economico-sociale e al vento liberale che spira dalla Francia e dalla Gran Bretagna, contribuiscono al rilancio del riformismo moderato che comincia ad affermarsi a partire dalla metà degli anni 1830. Sul terreno economico, i moderati adottano un’ideologia libero-scambista, funzionale alla creazione di un mercato nazionale unificato. Sul terreno politico, l’opinione pubblica moderata trova la prima ed efficace sintesi nelle opere di V. Gioberti e di C. Balbo, che individuano rispettivamente nel papato e nell’iniziativa piemontese le due leve con cui mettere in moto il rinnovamento nazionale. Convinti fautori di un progetto federalistico, repubblicano e democratico, che rimane però fortemente minoritario, sono invece pensatori come C. Cattaneo e G. Ferrari, la cui riflessione parte dal tradizionale policentrismo della storia italiana.
Tra il 1846 e il 1848 sembrano maturare alcune condizioni favorevoli allo sviluppo di una nuova fase liberale nei governi della penisola. Nello Stato pontificio l’elezione di Pio IX (1846-78) è accompagnata da una serie di misure (amnistia per i reati politici, maggiore libertà di stampa, una Consulta aperta ai laici e una Guardia civica) che accreditano l’immagine di un papato rinnovato. Da Roma, l’onda riformatrice raggiunge la Toscana, dove Leopoldo II concede la Guardia civica, la Consulta e una più ampia libertà di stampa e il regno sardo. Il coronamento del nuovo corso riformistico dei tre Stati è la firma dei preliminari di una lega doganale italiana (1847).
Il 12 gennaio 1848 scoppia a Palermo un’insurrezione che si diffonde rapidamente a tutta la Sicilia e da qui al Napoletano. Ferdinando II (1830-59) è costretto a concedere, primo fra i sovrani italiani, una Costituzione, seguito da Leopoldo II di Toscana, da Carlo Alberto e, infine, da Pio IX. Si tratta di Costituzioni assai moderate, ispirate a quella francese del 1830, che ai sovrani affiancano un Senato di nomina regia e una Camera eletta a suffragio ristretto. Sul nuovo corso della politica italiana, tuttavia, si abbatte di lì a poco l’esplosione rivoluzionaria che investe l’Europa negli anni 1848-49. La rivoluzione scoppiata a Vienna il 13 marzo 1848 radicalizza l’opinione pubblica italiana e spinge le forze democratiche repubblicane a prendere l’iniziativa di una lotta risoluta contro l’Austria, anzitutto nel Lombardo-Veneto. La prima grande insurrezione scoppia a Milano, dove le truppe austriache sono cacciate dopo 5 giorni di combattimenti. Anche nei ducati di Parma e Modena i sovrani vengono deposti. In questa fase matura la decisione di Carlo Alberto di dichiarare guerra all’Austria (prima guerra d’Indipendenza). Lo spingono la speranza di liberare la penisola dalla tutela asburgica, arrivando alla formazione di quel regno dell’alta I. che è nelle aspirazioni tradizionali di casa Savoia, e il timore, dopo la proclamazione della Repubblica di Venezia, del prevalere delle correnti più radicali. Carlo Alberto entra a Milano in un clima di entusiasmo patriottico. I sovrani di Toscana, Roma e Napoli inviano contingenti militari, ma sotto l’apparente unità di intenti degli Stati italiani si celano aspri contrasti. Quando la guerra ‘federalista’, in seguito al ritiro di Pio IX, di Leopoldo II e di Ferdinando II dalla coalizione, si trasforma in ‘guerra sabauda’, la situazione volge a favore degli Austriaci. Il 23-25 luglio l’esercito piemontese è sconfitto a Custoza, nei pressi di Verona; poco dopo viene firmato l’armistizio con l’Austria. Venezia rifiuta di arrendersi e organizza la resistenza sotto la direzione di D. Manin. In Toscana si costituisce un governo democratico che ha come programma la convocazione di una Costituente italiana. A Roma, dopo la fuga del papa a Gaeta, è convocata la Costituente romana, che dichiara la fine del potere temporale dei papi e proclama la repubblica (9 febbraio 1849). In Piemonte, fallita una mediazione anglo-francese per il riconoscimento da parte dell’Austria dei diritti sabaudi sull’alta I., Carlo Alberto rompe l’armistizio. Le operazioni militari hanno un esito catastrofico: l’esercito piemontese è sconfitto a Novara (23 marzo) e Carlo Alberto abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II (1849-78), che ottiene da Vienna condizioni di pace più favorevoli di quelle che avrebbe potuto ottenere il padre, responsabile della guerra. Resistono ancora le repubbliche di Roma e di Venezia, ma il destino di entrambe è ormai segnato. Pio IX si rivolge con successo alle potenze cattoliche per essere restaurato sul trono e il 4 luglio, dopo un mese di assedio, si arriva alla resa della città. Analogo esito si ha a Venezia, stremata da epidemie e dalla fame. Quanto alla Toscana, Leopoldo II rientra a Firenze e abroga lo statuto.
Con la vittoria delle forze conservatrici, le possibilità di sviluppo in senso democratico sono bloccate. Da ciò le premesse per la ripresa del moto di rinnovamento nazionale a partire dal liberalismo piemontese. Fra il 1848 e il 1860, attorno allo Stato sardo si raccoglie la parte più viva del movimento per l’indipendenza e l’unità nazionali. Un fattore decisivo di questo processo è rappresentato dall’ascesa politica di Camillo Benso conte di Cavour. Questi mira sul piano economico-sociale a favorire lo sviluppo di un moderno capitalismo nel quadro di un regime liberale parlamentare; sul piano politico al raggiungimento dell’indipendenza nazionale sotto la guida dello Stato sardo. Insieme a U. Rattazzi realizza il cosiddetto connubio, cioè un’alleanza politica e parlamentare che, isolando la destra più conservatrice e la sinistra democratica radicale, sancisce la formazione di un blocco sociale formato dall’aristocrazia più avanzata e dalla borghesia. Cavour, attraverso scelte quali la partecipazione alla guerra di Crimea, cerca di ottenere l’appoggio delle potenze, soprattutto della Francia, in vista di eventuali mutamenti sulla scena italiana. Un incontro segreto a Plombières, nei Vosgi, tra Napoleone III e Cavour (20-21 luglio 1858) definisce gli scopi comuni: i due Stati provocheranno una guerra con l’Austria, facendola apparire come un’aggressione al Piemonte così da legittimare la richiesta di aiuto di quest’ultimo alla Francia.
Il 26 aprile 1859 comincia la seconda guerra d’Indipendenza. Dopo gli iniziali successi contro gli Austriaci insorgono le regioni centrali, ma la presenza al loro interno di una forte componente favorevole all’annessione al Piemonte conferisce agli avvenimenti una piega in contrasto con gli accordi di Plombières (che hanno previsto la nascita di una confederazione italiana sotto la presidenza del papa) e quindi sgradita a Napoleone III. Questi decide unilateralmente di porre fine alla guerra e conclude con l’Austria l’armistizio di Villafranca (11 luglio), in base al quale la Lombardia viene ceduta alla Francia che a sua volta la darà al Piemonte, declassato in tal modo a partner di secondo rango; nell’I. centrale vengono ristabilite le autorità legittime.
Approfittando di una svolta nella politica di Napoleone III, che ora considera politicamente dannoso reprimere con la forza il movimento nell’I. centrale, Cavour decide di annettere le regioni insorte, che esprimono attraverso plebisciti la loro volontà di unione al Regno di Sardegna (con la stessa procedura, Nizza e la Savoia vengono cedute in cambio alla Francia). Contemporaneamente, il mazziniano Partito d’azione organizza una spedizione militare guidata da G. Garibaldi nel Mezzogiorno, a partire dalla Sicilia, segretamente appoggiata da Vittorio Emanuele II. Accolto con entusiasmo dai contadini siciliani, che vedono in lui un ‘liberatore’ anche sociale, Garibaldi può contare inoltre sulla inefficienza dell’esercito borbonico (vittoria di Calatafimi e presa di Palermo). Mentre Garibaldi sbarca in Calabria per entrare trionfalmente in Napoli (7 settembre 1860), Cavour, preoccupato che il prestigio venuto ai democratici dai successi garibaldini rimetta in discussione l’assetto politico-istituzionale del futuro Stato italiano, che egli intende debba invece configurarsi come allargamento territoriale di quello sardo e delle sue strutture politiche e amministrative, con l’appoggio francese fa occupare dall’esercito sardo le Marche e l’Umbria. Al principio di ottobre Garibaldi ottiene la sua più grande vittoria nella battaglia sul Volturno. Le truppe piemontesi, guidate dal re (preoccupato dalla ripresa delle correnti politiche più radicali), si mettono in marcia verso il Mezzogiorno, mentre Cavour fa approvare una legge sull’annessione delle terre liberate, che avviene attraverso i plebisciti del 21 ottobre 1860. L’incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele II a Teano (26 ottobre) segna il passaggio dei poteri nelle regioni meridionali alle autorità piemontesi. Il 4 novembre si tengono i plebisciti per l’annessione delle Marche e dell’Umbria. Il 17 marzo 1861 il primo Parlamento nazionale proclama a Torino Vittorio Emanuele II re d’Italia. Cavour e i liberali moderati hanno così vinto la loro battaglia sul Partito d’azione.
I problemi che il nuovo Stato unitario si trova di fronte sono di enorme portata. Il primo è l’unificazione amministrativa, attraverso un processo di omogeneizzazione delle leggi e degli apparati civili e militari. In secondo luogo, occorre elaborare una politica di sviluppo che tenga conto delle differenze socio-economiche tra le diverse regioni e della complessiva arretratezza dell’intera nazione rispetto a quelle più progredite d’Europa. In terzo luogo, si deve dare una salda direzione a un paese attraversato da tensioni politiche e sociali. Dopo la morte di Cavour (6 giugno 1861), la preoccupazione principale dei suoi eredi politici – che formano la Destra, poi detta ‘storica’, dello schieramento parlamentare – è quella di costruire un apparato di controllo politico e amministrativo affidabile ed efficiente: i prefetti e i sindaci diventano il simbolo della volontà unitaria dello Stato.
A Cavour succede B. Ricasoli (giugno 1861-marzo 1862), che prosegue senza successo i contatti avviati da Cavour con Pio IX per indurlo a rinunciare al potere temporale e ad accettare un regime di separazione tra Stato e Chiesa. Il nuovo governo di U. Rattazzi (marzo-dicembre 1862) pensa di sfruttare l’iniziativa di Garibaldi verso il Veneto e Roma senza compromettere direttamente lo Stato. Ma tale linea si rivela inattuabile e porta a uno scontro fra l’esercito sabaudo e i garibaldini in Calabria, sull’Aspromonte. La reazione dell’opinione pubblica è tale da indurre Rattazzi alle dimissioni. Dopo un breve ministero Farini, il nuovo capo del governo, M. Minghetti (marzo 1863-settembre 1864), negozia con la Francia la cosiddetta ‘convenzione di settembre’, in base alla quale l’I. si impegna a difendere lo Stato pontificio da qualsiasi attacco esterno; la Francia, dal canto suo, garantisce il ritiro delle proprie truppe poste a difesa del papa entro due anni. Come segno della rinuncia italiana a ogni pretesa su Roma, Napoleone III chiede che la capitale venga fissata in un’altra città. Sotto il governo del generale A. La Marmora (settembre 1864-giugno 1866) si ha così il trasferimento della capitale a Firenze.
L’alleanza militare contro l’Austria offerta dalla Prussia durante il governo Minghetti scatta a giugno con l’avvio delle ostilità. La guerra, mentre segna il trionfo dei Prussiani, si rivela un disastro per l’esercito e la flotta italiani che subiscono le sconfitte di Custoza e Lissa. Terminata la guerra grazie alle vittorie prussiane, l’Austria cede il Veneto all’I. ma, come già nel 1859, tramite la Francia, per umiliare un paese che ha vinto grazie alle armi altrui. La liberazione di Roma diviene possibile con la caduta di Napoleone III in seguito alla guerra franco-prussiana del 1870 (20 settembre, breccia di Porta Pia). L’atteggiamento di chiusura del papa pone il governo italiano nella necessità di definire unilateralmente i rapporti con la Chiesa, con la legge delle guarentigie (1871), non riconosciuta dalla controparte, che si richiama al principio cavouriano della libera Chiesa in libero Stato.
Tra i problemi nazionali, la questione del brigantaggio, espressione della rivolta dei contadini poveri del Mezzogiorno, strumentalizzata dai legittimisti borbonici e dai clericali, viene affrontata con metodi militari molto duri. Nel 1863 l’opera di repressione impegna circa 120.000 soldati, la metà di tutto l’esercito; tra i ribelli si hanno migliaia di morti. La lotta contro il brigantaggio, almeno come fenomeno di massa, può considerarsi chiusa nel 1865. Non cessano però le rivolte tra i contadini meridionali, la cui avversione nei confronti dello Stato cresce per effetto della coscrizione obbligatoria e dell’inasprimento fiscale. Inoltre, la liquidazione delle terre ecclesiastiche e dei beni demaniali incamerati dal nuovo Stato, anziché favorire la formazione di uno strato di piccoli e medi agricoltori, finisce per rafforzare la potenza economica e l’influenza politica e sociale della grande proprietà latifondista. Entro il 1865 viene ultimata l’unificazione doganale, monetaria, finanziaria e amministrativa. Si tratta in realtà di un’estensione all’intero paese della legislazione e degli ordinamenti del Regno sardo.
Per quanto riguarda la politica economica, la Destra si attiene a criteri rigorosamente liberistici. La preoccupazione più forte è quella del risanamento del deficit del bilancio e della diminuzione del debito pubblico, che vengono affrontati mediante il ricorso a una fortissima pressione fiscale, in larga misura indiretta e quindi particolarmente gravosa per le masse popolari. Significativa di questa politica è la tassa sul macinato, introdotta nel 1868, che colpisce un prodotto da cui dipende la sopravvivenza stessa degli strati più poveri e che dà origine a proteste e tumulti. Gli effetti dell’inasprimento fiscale sono, in termini strettamente finanziari, positivi: nel 1876 è raggiunto il pareggio del bilancio. La durezza della politica fiscale e il carattere ristretto del blocco politico-sociale che ha consentito alla Destra di portare a compimento l’unificazione nazionale e di creare quel sistema istituzionale che, nelle sue linee fondamentali, durerà fino all’avvento del fascismo, finiscono per suscitare un malcontento diffuso di cui sa farsi portatrice la Sinistra cosiddetta giovane, in rappresentanza degli interessi tanto della piccola e media borghesia del Nord, quanto dei proprietari e intellettuali meridionali.
Il programma di governo della Sinistra prevede: difesa dello Stato laico e lotta al clericalismo; istruzione elementare obbligatoria; decentramento amministrativo; diminuzione e redistribuzione del carico fiscale a favore delle regioni meridionali. Quando il ministero Minghetti cade su una questione di secondaria importanza il re affida ad A. Depretis, esponente principale della Sinistra, l’incarico di formare il nuovo governo, che entra in carica nel marzo 1876. Si parla di una ‘rivoluzione parlamentare’, ma in realtà il passaggio dalla Destra alla Sinistra avviene all’insegna della continuità. Giunto al potere, Depretis (al governo del paese quasi ininterrottamente dal 1876 al 1887) attenua sensibilmente il proprio programma di riforme, facendo convergere attorno a sé gli uomini della Destra e isolando con il loro contributo la nuova opposizione di sinistra, formata da repubblicani, radicali e dai primi socialisti. L’invito rivolto ai suoi oppositori a ‘trasformarsi’ diventando progressisti (1882) è ampiamente accolto a livello parlamentare, dando origine al fenomeno del trasformismo, una pratica tesa ad assicurare ai governi la più larga maggioranza parlamentare, facendo confluire gruppi appartenenti a diversi schieramenti politici. Le riforme introdotte nell’era di Depretis rispecchiano la duplice esigenza di allargare la base del consenso sociale e di soddisfare istanze di progresso civile già affermate nei paesi più progrediti. Vengono così approvate la legge Coppino sull’obbligo scolastico di almeno due anni per tutti i bambini (1877) e la riforma elettorale (1882), che porta a circa 2 milioni gli aventi diritto al voto. Viene introdotta, a partire dal 1878, una legislazione protezionistica per favorire sia settori strategici dell’industria del Nord sia la cerealicoltura arretrata del Sud; in tal modo viene rinsaldato il patto di alleanza fra la borghesia settentrionale e gli agrari meridionali.
In politica estera, è stipulato il trattato della Triplice Alleanza con Germania e Austria (1882), in funzione principalmente antifrancese. A tale firma, che avviene in un clima di crescente ammirazione per il modello tedesco di Stato e di sviluppo economico-militare, corrisponde il rafforzamento delle tendenze più conservatrici. Depretis inaugura la politica coloniale italiana, che però, a differenza di quella inglese o francese, non è l’espressione di un capitale industriale e finanziario in forte espansione. La prima spedizione in Africa, inviata nel 1885 a occupare la zona costiera tra Massaua e la Baia di Assab, termina con la disfatta delle truppe italiane sorprese e annientate a Dogali nel 1887 da soverchianti forze etiopiche.
Il 29 luglio 1887 muore Depretis; gli succede F. Crispi. Ex rivoluzionario e democratico sostenitore del suffragio universale, poi convertitosi alla monarchia, è uno degli esponenti di spicco della Sinistra moderata. Convinto nazionalista, Crispi si impegna a rilanciare le ambizioni coloniali; con la firma del Trattato di Uccialli (1889), il sovrano d’Etiopia Menelik riconosce le conquiste italiane in Eritrea, che viene proclamata ufficialmente colonia nel 1890. Crispi opera in modo da rafforzare il potere dell’esecutivo, accentrando nella sua persona le cariche di presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e ministro dell’Interno. Sotto la sua presidenza viene emanata una serie di leggi di carattere progressivo (eleggibilità dei sindaci, abolizione della pena di morte, libertà di sciopero), ma si ha anche una crescita dell’autoritarismo (politica repressiva nei confronti delle opposizioni e poi, dopo il fallimento delle trattative per arrivare a una conciliazione tra Stato e Chiesa, esasperazione delle tendenze anticlericali).
Il governo Crispi cade nel febbraio 1891 quando la Camera non accoglie alcune proposte di inasprimento fiscale. Segue un breve ministero presieduto da A. di Rudinì cui succede lo statista piemontese G. Giolitti (maggio 1892-novembre 1893), che manifesta l’intenzione di diminuire il carico fiscale a favore dei meno abbienti; allenta la pressione sulle opposizioni, in particolare sui socialisti, instaurando un clima più liberale; ma, al tempo stesso, non esita a servirsi dell’apparato statale e dei prefetti per assicurarsi una solida maggioranza alle elezioni del 1892. L’esperimento giolittiano è interrotto da due fatti: lo scandalo della Banca Romana e la crisi provocata dalle agitazioni dei Fasci siciliani, movimento che esprime la protesta dei contadini, dei mezzadri e dei braccianti contro l’eccessivo fiscalismo e lo strapotere dei ceti dominanti locali.
Nel dicembre 1893 torna al potere Crispi che, salutato dalla borghesia come l’uomo forte richiesto dal momento, fa subito proclamare lo stato d’assedio in Sicilia, dove la repressione provoca un centinaio di morti. Un tentativo di insurrezione anarchica in Lunigiana contribuisce ad alimentare i timori di una cospirazione generale diretta a colpire lo Stato. In tale clima si procede a reprimere le organizzazioni operaie e socialiste in tutto il paese. Nel 1895 si ha una ripresa dell’offensiva espansionistica contro l’Etiopia. Dopo che le forze italiane sono messe in rotta presso Adua dagli Etiopi (1° marzo 1896), scoppiano violente manifestazioni contro la guerra coloniale e Crispi deve rassegnare le dimissioni. Gli succede di Rudinì (marzo 1896-giugno 1898), che cerca di allentare le tensioni interne, ma le forze che hanno sostenuto Crispi (gli industriali e gli armatori interessati alle spese militari e alle guerre coloniali, gli agrari meridionali, la piccola borghesia nazionalista, i militari e gli ambienti di corte) spingono per il proseguimento di una politica autoritaria e il paese cade in una crisi senza precedenti.
La situazione precipita nella primavera del 1898, in seguito a un forte rincaro del prezzo del grano. Un’ondata di agitazioni si diffonde in tutto il paese. A Milano scoppiano violenti tumulti: l’esercito affronta la folla con l’artiglieria provocando numerose vittime. Seguono centinaia di arresti, fra cui quelli di capi socialisti; i tribunali pronunciano pesanti condanne. Di Rudinì si dimette e il re incarica di formare il governo il generale L. Pelloux (giugno 1898-giugno 1900). Il tentativo di quest’ultimo di ristabilire una situazione di normalità non ha successo per le pressioni esercitate sia dal re sia dagli ambienti di corte, decisi a mettere fine al regime parlamentare.
Nel febbraio 1899 è presentato alla Camera un progetto di legge che intende limitare la libertà di stampa, di associazione, di riunione e di sciopero. Questa svolta reazionaria crea un fronte di opposizione che va dai socialisti alla sinistra liberale. Il braccio di ferro tra governo e opposizione sui provvedimenti si conclude infine con lo scioglimento della Camera (maggio 1900). Le elezioni politiche vedono una forte avanzata dell’estrema sinistra e della sinistra costituzionale. Pelloux si dimette e al suo posto è nominato G. Saracco (giugno 1900-febbraio 1901). Poco tempo dopo Umberto I (1878-1900), assurto a simbolo delle pulsioni autoritarie, cade per mano dell’anarchico G. Bresci. Gli succede il figlio Vittorio Emanuele III (1900-46), che prende atto della sconfitta della reazione nominando presidente del Consiglio G. Zanardelli (febbraio 1901-ottobre 1903), guida dell’opposizione liberale a Pelloux.
Tra il 1896 e il 1914 l’I. conosce una fase di decollo industriale. Tale balzo, confinato alle regioni nord-occidentali, accentua il divario tra un’I. settentrionale in rapida trasformazione, e un’I. meridionale di fatto esclusa da ogni sviluppo economico e sociale. Guardando alle esperienze dei paesi più avanzati, Giolitti, divenuto arbitro della vita parlamentare, si rende conto che il movimento operaio e contadino non può essere arrestato e che anche la borghesia italiana deve porsi sulla strada del confronto con i sindacati e con i socialisti. Un suo obiettivo fondamentale è quello di integrare le masse popolari nello Stato liberale, sottraendole all’influenza delle ideologie rivoluzionarie. Ministro dell’Interno nel gabinetto Zanardelli, Giolitti si distingue dai predecessori per il suo atteggiamento nei confronti dei conflitti di lavoro: egli adotta una strategia tesa da una parte a legittimare gli scioperi di carattere economico per consentire il rialzo dei salari e, di conseguenza, l’accrescimento della domanda interna e della produzione; dall’altra a combattere gli scioperi di natura politica in nome della tutela dell’ordine pubblico. Le organizzazioni del movimento operaio ricevono in tale contesto un notevole impulso. Particolarmente forte diviene nelle campagne della Valle Padana il movimento delle leghe e delle cooperative. Zanardelli, malato, si dimette nel 1903. Gli succede Giolitti, che forma il suo secondo ministero (novembre 1903-marzo 1905), tentando, mediante l’offerta a F. Turati di entrare nel governo, di scindere il Partito socialista attirando a sé l’ala riformista e isolando quella rivoluzionaria. Ma proprio in questa fase gli intransigenti prevalgono fra i socialisti: nel settembre 1904 si giunge alla proclamazione dello sciopero generale. Giolitti non cede ai conservatori, che spaventati chiedono la repressione aperta; scioglie invece la Camera e fa indire dal re nuove elezioni, che segnano un netto successo per il governo.
A questo risultato contribuisce il fatto che Pio X permette ai cattolici di votare, facendo eccezione al non expedit, per impedire la vittoria dei candidati socialisti. La decisione papale si colloca all’interno di una intensa attività svolta da un lato dalle organizzazioni cattoliche facenti capo all’Opera dei congressi, fondata nel 1874 per promuovere l’innalzamento della classe operaia e contadina attraverso una rete di associazioni tra cui spiccano per importanza le casse rurali e le società di mutuo soccorso; dall’altro dalla corrente della ‘democrazia cristiana’ che, traendo impulso dall’enciclica sociale di Leone XIII Rerum novarum (1891), raccoglie gli ambienti più avanzati del mondo cattolico. A Giolitti, che abbandona la guida del governo al principio del 1905, succede dapprima A. Fortis (marzo 1905-febbraio 1906), un suo luogotenente, quindi il capo dell’opposizione liberale antigiolittiana S. Sonnino (febbraio-maggio 1906).
Durante il terzo ministero Giolitti, il più lungo (maggio 1906-dicembre 1909), la crisi industriale porta a una maggiore concentrazione delle imprese più forti; ciò favorisce una crescente centralizzazione delle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori: contemporaneamente alla Confederazione generale del lavoro (1906), di orientamento socialista, nasce a Torino una Lega industriale, sfociata nel 1910 nella Confederazione italiana dell’industria. Nel dicembre 1908 un catastrofico terremoto colpisce Messina e Reggio Calabria, provocando oltre 100.000 morti. Le elezioni politiche del 1909 vedono un ulteriore rafforzamento dei socialisti, dei radicali e dei repubblicani.
Nel 1909, in seguito al rifiuto della Camera di approvare alcuni suoi decreti legge, Giolitti si dimette lasciando il posto prima a Sonnino, che dura in carica pochi mesi, quindi a L. Luzzatti (marzo 1910-marzo 1911), per poi tornare al potere formando il suo quarto ministero (marzo 1911-marzo 1914), caratterizzato dall’approvazione di tre leggi: sull’istruzione elementare che pone la scuola primaria sotto il controllo statale; sul monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita; sul suffragio universale maschile che estende il diritto di voto anche agli analfabeti che hanno compiuto i 30 anni (nella stragrande maggioranza contadini e braccianti che acquistano così per la prima volta i diritti politici). Giolitti rilancia la politica coloniale con la conquista della Libia; il conflitto (1911-12) contro la Turchia, sotto la cui sovranità si trova la Libia, termina con la Pace di Losanna che riconosce all’I. la sovranità sulla Tripolitania e la Cirenaica. È una guerra più lunga e difficile del previsto che provoca migliaia di morti e feriti, consumando ingenti risorse. Nel 1913 si tengono le prime elezioni a suffragio universale maschile. Ai liberali, messi in difficoltà dalla mancanza di un’organizzazione partitica moderna capace di mobilitare le masse, vengono in soccorso i cattolici, gli unici in grado di contrapporre alla ramificata struttura territoriale del Partito socialista la rete delle parrocchie e delle associazioni religiose. L’Unione elettorale cattolica, nella persona del suo presidente O. Gentiloni, invita i candidati liberali a sottoscrivere un patto, detto in seguito ‘patto Gentiloni’, in base al quale questi ultimi si impegnano in cambio del voto a opporsi nella nuova Camera a qualsiasi legge che vada contro gli interessi dei cattolici. Tale intesa e l’aperta collusione, specie nel Mezzogiorno, della macchina dei prefetti, della polizia e della stessa mafia, impegnati con ogni mezzo legale e illegale a intimidire le opposizioni, salvano i liberali da una secca sconfitta elettorale, ma non impediscono un consistente rafforzamento dei socialisti e dei radicali, e una forte ipoteca del voto cattolico sulla formazione liberale. Prendendo atto del mutamento intervenuto nel clima politico e sociale, Giolitti si dimette. Gli succede A. Salandra, un liberale di destra pugliese (marzo 1914-giugno 1916).
Nell’estate 1914, quando scoppia la grande guerra, l’I., visto il carattere difensivo della Triplice Alleanza e il mancato rispetto da parte austriaca dell’impegno a una consultazione preliminare con gli alleati in caso di crisi, dichiara la propria neutralità (3 agosto), rispecchiando l’orientamento della grande maggioranza sia del Parlamento sia del paese. Contrari all’intervento sono i liberali giolittiani e gran parte del mondo industriale; i socialisti, in osservanza ai principi dell’internazionalismo; i cattolici, che esprimono i sentimenti pacifisti delle masse, specie contadine, e i timori del Vaticano che l’I. scenda in guerra contro l’Austria cattolica. A favore è una minoranza composita, divisa tra i liberalconservatori (che attraverso la guerra puntano anche a riaffermare le gerarchie sociali, scosse dall’avanzata del movimento dei lavoratori), gli ‘interventisti democratici’ (che vedono nella guerra all’Austria l’occasione per la liberazione dei popoli da questa oppressi), una parte dei sindacalisti rivoluzionari (che considerano la guerra il battistrada della rivoluzione) e infine i nazionalisti. A favore è anche la monarchia, secondo cui la neutralità condannerebbe l’I. a una posizione di secondo piano.
Il 26 aprile 1915, con il Patto di Londra, preceduto da trattative segrete con le potenze dell’Intesa, l’I. si impegna a entrare in guerra entro un mese dalla firma. All’I. vengono promessi il Trentino, il Tirolo cisalpino fino al Brennero (con popolazioni tedesche), l’Istria fino al Quarnaro esclusa Fiume (con popolazioni slave), parte della Dalmazia, Valona e il protettorato sull’Albania, il Dodecaneso e il bacino carbonifero di Adalia. Si prevedono anche imprecisati compensi coloniali. Manifestazioni di piazza (le ‘radiose giornate di maggio’) orchestrate dal governo si susseguono in appoggio all’intervento già deciso. L’ostacolo della maggioranza parlamentare schierata su una linea neutralista è superato grazie anche al rifiuto di Giolitti di capeggiare fino in fondo l’opposizione alla guerra, per non entrare in aperto conflitto con la monarchia, e alle pressioni, spesso degenerate in violenza, degli interventisti.
Il 24 maggio l’I. entra in guerra contro l’Austria. L’esercito, guidato dal generale L. Cadorna, affronta la prova con lacune sul piano organizzativo e della preparazione tecnica. Le offensive sferrate nella zona dell’Isonzo e del Carso non riescono a conseguire risultati di rilievo. Il 1916 è caratterizzato dal tentativo austriaco di eliminare l’I. dal conflitto con una ‘spedizione punitiva’ contro l’ex alleato. Salandra, considerato responsabile della impreparazione messa in luce dall’offensiva, deve dimettersi. Al suo posto, a capo di un ‘ministero nazionale’, è nominato P. Boselli (giugno 1916-ottobre 1917). Il 28 agosto 1916 l’I. dichiara guerra anche alla Germania. Svanita l’illusione di un conflitto di breve durata, il paese deve affrontare i costi di un’estenuante guerra di logoramento, al di sopra delle proprie possibilità. Quando gli Austriaci, rafforzati da forze tedesche, sfondano le linee nei pressi di Caporetto (24 ottobre 1917) la ritirata diventa rotta disordinata. Boselli cade e viene sostituito da V.E. Orlando (ottobre 1917-giugno 1919), mentre al posto di Cadorna, inviso alle truppe per la brutale disciplina e l’indifferenza per la vita dei soldati, va A. Diaz. Nei mesi successivi l’esercito riesce a contenere l’offensiva degli Austriaci, fermati sul Monte Grappa e sul Piave e respinti ancora (giugno 1918) in un ultimo tentativo di vincere la resistenza italiana. La vittoria italiana giunge con l’attacco generale sferrato il 24 ottobre: nella battaglia di Vittorio Veneto l’Austria, ormai in piena dissoluzione, subisce la disfatta definitiva.
L’I. esce dal conflitto vittoriosa sul piano militare e su quello della mobilitazione industriale, ma in preda a una grave crisi politica e sociale. A differenza che in Francia e in Gran Bretagna, le masse popolari non hanno sentito la guerra come un evento necessario alla difesa della nazione, bensì come una fonte di sofferenze ingiustificate imposte dalla classe dirigente. Scoppiano con rinnovata violenza le polemiche tra neutralisti e interventisti e inizia un periodo di profonda mobilitazione sociale (‘biennio rosso’).
1919: alla Conferenza per la Pace di Parigi (gennaio 1919) le richieste italiane incontrano l’ostilità degli alleati e in particolare del presidente americano T.W. Wilson, che le considera lesive dei diritti di altre nazionalità, specie di quella slava. La ‘questione adriatica’, cioè il futuro della Dalmazia e di Fiume, suscita contrasti tali per cui Orlando e Sonnino, ministro degli Esteri, abbandonano la Conferenza in segno di protesta (in giugno il primo si dimette ed è sostituito da F.S. Nitti). Dagli accordi di pace dell’Austria con l’Intesa, l’I. ottiene il Trentino fino al Brennero, la Venezia Giulia, l’Istria e parte della Dalmazia, ma non Fiume. Il 12 settembre G. D’Annunzio, contando sulla complicità dei comandi militari, occupa la città con reparti ribelli proclamandone l’annessione all’I. e aprendo così una crisi internazionale. Alle prime elezioni generali con il sistema proporzionale oltre la metà dei seggi va ai due grandi partiti di massa, socialista e popolare (la formazione fondata da L. Sturzo che riunisce i cattolici), mentre i liberali perdono la maggioranza.
A giugno 1920 Giolitti è richiamato alla guida del governo e riprende l’opera di mediazione fra le diverse forze politiche. I risultati più consistenti li consegue in politica estera firmando il Trattato di Rapallo con cui l’I. ottiene tutta l’Istria e la città di Zara, lascia alla Iugoslavia la Dalmazia e Fiume diventa una città-Stato indipendente (nel 1924 un nuovo accordo l’assegna all’Italia). In politica interna, di fronte al più grande conflitto di lavoro del dopoguerra, con l’occupazione delle fabbriche, Giolitti anziché ricorrere alla repressione militare favorisce un accordo che chiude pacificamente l’episodio. Parte della borghesia vede nel suo atteggiamento prudente l’abdicazione dello Stato ai compiti di difesa della proprietà e dell’ordine. I Fasci di combattimento, fondati da B. Mussolini nel 1919, si rafforzano a partire dalle campagne dell’I. centrale, dove agiscono negli interessi degli agrari; la grande industria individua nei Fasci uno strumento da contrapporre al movimento operaio e lo finanzia.
Nel 1921-22 si registra la svolta decisiva nella crisi dello Stato liberale. In gennaio i comunisti si scindono dai socialisti, dando vita al Partito Comunista d’Italia (PCI) e indebolendo il fronte operaio. Sentendo vacillare la propria maggioranza parlamentare, Giolitti fa sciogliere le Camere e indice nuove elezioni (maggio), che vedono l’ingresso dei fascisti nei ‘blocchi nazionali’ accanto ai liberali. Quando Giolitti constata che il suo programma non ha più il sostegno di un establishment ormai schierato su posizioni di rigida conservazione e di attacco violento contro il movimento operaio, rinuncia a formare il governo. Gli succede I. Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922), che costituisce un governo di coalizione tra liberali, popolari e socialisti riformisti. Al congresso di Roma (novembre 1921) Mussolini trasforma il suo movimento in Partito nazionale fascista. Nel febbraio 1922, L. Facta, giolittiano di modesta levatura, succede a Bonomi nell’ultimo governo liberale prima dell’avvento della dittatura, debole e impotente di fronte al dilagare della violenza delle squadre fasciste contro gli oppositori. In ottobre Mussolini stringe i tempi della crisi, dando inizio alla marcia su Roma delle camicie nere fasciste. Il re, in un primo tempo intenzionato a proclamare lo stato d’assedio, rifiuta poi di firmare il decreto temendo di alienare alla monarchia l’appoggio della classe dirigente schierata a favore di Mussolini e dà a quest’ultimo l’incarico di formare il governo; nasce un esecutivo di coalizione, costituito da fascisti, liberali di varie correnti e popolari.
Fusosi nel 1923 con il movimento nazionalista, il fascismo dà il via a una trasformazione qualitativa della forma di governo scandita da una serie di tappe: creazione di un Gran Consiglio del fascismo, con funzioni di raccordo tra partito e governo; inquadramento delle forze paramilitari fasciste in una Milizia volontaria per la sicurezza nazionale; legge Acerbo, che attribuisce i due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa che ottenga il 25% dei suffragi. Alle elezioni del 1924, che si svolgono in un clima di violenze e di intimidazioni contro le opposizioni, un ‘listone’ di emanazione del Gran Consiglio, in cui entra anche la maggioranza dei liberali, ottiene il 64,9%. G. Matteotti, segretario del Partito socialista unificato, che al momento della convalida dei risultati elettorali da parte della Camera ha messo in discussione la loro validità in conseguenza delle violenze esercitate dai fascisti, il 10 giugno viene rapito e ucciso. La reazione nel paese è enorme; con la cosiddetta ‘secessione dell’Aventino’ le opposizioni scelgono di astenersi dai lavori parlamentari fino a che non sia ristabilita la legalità. Sembra a un certo punto che il governo stia per cadere, ma il permanere dei fattori che hanno portato Mussolini al potere consente al fascismo di superare l’impopolarità del momento e annientare ogni resistenza. Nel discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, Mussolini si assume apertamente la responsabilità delle violenze fasciste.
Tra il 1925 e il 1926 Mussolini procede attraverso l’emanazione di una serie di leggi alla trasformazione dello Stato liberale in regime dittatoriale. Viene abolito il pluralismo partitico; il Parlamento è svuotato di ogni potere; sono abolite le libertà di stampa, di associazione, di organizzazione. Nel 1928 la Camera vara una nuova legge elettorale che prevede una lista unica nazionale di 400 candidati scelti dal Gran Consiglio, da sottoporre agli elettori per l’approvazione in blocco: da quel momento le elezioni assumono di fatto un carattere plebiscitario. L’aspirazione del fascismo a edificare un nuovo ordine alternativo tanto al capitalismo quanto al socialismo conduce al tentativo di realizzare quel sistema corporativo i cui principi generali trovano espressione nella Carta del lavoro emanata nel 1927; il disegno rimane in sostanza inapplicato, nonostante la nascita delle corporazioni nel 1934. Nel 1939, abolita la Camera dei deputati, è istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni.
Al consolidamento del regime non è estraneo l’atteggiamento benevolo della Chiesa cattolica seguito all’accordo con lo Stato fascista che pone fine all’annosa questione romana: la conciliazione tra le due istituzioni è firmata l’11 febbraio 1929. La laicità dello Stato appare minata da quelli che poi saranno chiamati Patti Lateranensi, mentre si realizzano i congiunti propositi di Mussolini di fare del cattolicesimo un pilastro del nuovo ordine politico e della Chiesa di utilizzare lo Stato italiano per rinsaldare la sua influenza sulla società civile. Non mancheranno tuttavia in se;guito motivi di tensione tra Chiesa e regime, per es. per il controllo sulla gioventù.
Di fronte al consolidamento del regime, le forze antifasciste sono sottoposte a una sistematica repressione, sicché esse si riorganizzano all’estero e specie in Francia, dove nel 1927 viene costituita la Concentrazione antifascista. Nel 1929 viene fondata Giustizia e Libertà che, con il Partito comunista, diventa il nucleo più attivo dell’antifascismo anche in Italia.
La grande crisi degli anni 1930 produce una ristrutturazione dell’intera economia: in particolare, si rafforza la tendenza alla concentrazione industriale e finanziaria e diviene sempre più massiccio l’intervento statale; lo Stato assume il controllo delle maggiori banche italiane e di importanti settori dell’industria attraverso l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), creato nel 1933.
In politica estera si ha una svolta decisiva nel 1935, quando l’I. invade l’Etiopia, provocando le reazioni della Società delle Nazioni che condanna l’aggressione e approva una serie di sanzioni economiche. La guerra, condotta con grande larghezza di mezzi, si conclude con la vittoria dell’I.: il 9 maggio 1936 Mussolini proclama la fondazione dell’impero, ottenendo il massimo dei consensi attorno al regime. Questo atto di aperta violazione del sistema di sicurezza collettiva porta l’I. ad allontanarsi dalle potenze che se ne sono fatte garanti, in primo luogo la Francia e la Gran Bretagna, e ad avvicinarsi alla Germania nazista, che mira al sovvertimento dell’assetto europeo del 1919. A tale corso contribuisce l’intervento della Germania e dell’I. nella guerra civile spagnola al fianco dei militari ribelli. G. Ciano, ministro degli Esteri, stipula con la Germania un accordo, l’Asse Roma-Berlino (1936), che allinea l’I. alla politica della Germania.
Nel 1938 viene introdotta anche in I., sull’esempio della Germania, una legislazione discriminante nei confronti degli Ebrei. Mentre Hitler porta a compimento il proposito di riunificazione nel Terzo Reich di tutti i Tedeschi, l’I. passa anch’essa all’azione, impadronendosi dell’Albania (aprile 1939). I. e Germania stringono il ‘patto d’acciaio’, che prevede l’ingresso dell’una a fianco dell’altra in caso di guerra. Quando questa scoppia in seguito all’ingresso delle truppe tedesche in Polonia (1° settembre 1939), l’I., del tutto impreparata sul piano militare nonostante la retorica bellicistica che ha caratterizzato il regime fin dalle origini, proclama la non belligeranza, una sorta di ‘pace armata’.
Quando il crollo della Francia fa apparire inarrestabile la marcia delle armate tedesche, l’I. entra in guerra (10 giugno 1940), con l’obiettivo di espandersi nel Mediterraneo e nella regione danubiano-balcanica. Tanto in Grecia (attaccata nell’ottobre 1940) quanto nell’Africa settentrionale le operazioni prendono una piega sfavorevole e si rende necessario il soccorso tedesco; la manifesta inferiorità sul piano militare del regime pone fine alla speranza di Mussolini di attuare una ‘guerra parallela’. A sostegno dell’attacco tedesco, l’I. invia nel 1941 un corpo di spedizione in Russia.
La pessima prova fornita dal regime e in particolare le gravissime sconfitte dell’Asse in Africa nel 1942 (el-‛Ala;mèin) e in Russia nel 1943 (Stalingrado) hanno profonde ripercussioni sul fronte interno, minando alla base la credibilità del fascismo tanto tra le masse popolari, colpite sempre più duramente da restrizioni di ogni genere e ormai consapevoli dell’imminente catastrofe, quanto nella classe dirigente, intenzionata a non lasciarsi travolgere dal crollo del regime. Gli eventi precipitano quando gli Alleati sbarcano in Sicilia il 10 luglio 1943. Ai vertici del regime matura l’idea di sbarazzarsi di Mussolini e cercare un’uscita dalla guerra. Nella seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943 un ordine del giorno, proposto da D. Grandi, che invita il re a riassumere le proprie prerogative statutarie, è approvato a larga maggioranza. Il re fa arrestare Mussolini e nomina capo del nuovo governo il maresciallo P. Badoglio.
Nel corso del governo detto ‘dei 45 giorni’ Badoglio conduce con gli Alleati trattative segrete che portano alla firma di un armistizio che, annunciato l’8 settembre 1943, provoca la disgregazione dell’esercito, lasciato senza istruzioni operative. Il 9 settembre il re e Badoglio abbandonano Roma e fuggono a Brindisi. I Tedeschi, posta sotto controllo l’I. centro-settentrionale, liberano dal confino del Gran Sasso Mussolini, il quale annuncia la nascita della Repubblica sociale italiana. L’I. è divisa in due parti: una repubblica fascista, di diretta emanazione dei Tedeschi, e un regno del Sud, che il 13 ottobre entra in guerra contro la Germania. Mentre nel Nord si costituiscono le bande partigiane e agisce il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), nel regno del Sud il problema della formazione di un governo rappresentativo delle forze antifasciste è legato alla posizione da tenersi nei confronti del re e di Badoglio, dei quali i partiti antifascisti chiedono l’allontanamento immediato, mentre gli Alleati ne impongono il rispetto a garanzia dell’armistizio e di un futuro assetto moderato. La situazione si sblocca nella primavera del 1944 quando l’URSS, precedendo Stati Uniti e Gran Bretagna, riconosce il governo Badoglio. P. Togliatti, leader del Partito comunista italiano, con la cosiddetta ‘svolta di Salerno’ si esprime a favore della formazione di un governo di unità nazionale, presieduto da Badoglio e appoggiato da tutti i partiti, avente come obiettivo la lotta contro il nazifascismo, che viene formato in aprile.
Subito dopo la liberazione di Roma, il re trasferisce i poteri al figlio Umberto in qualità di luogotenente e Badoglio si dimette; gli succede I. Bonomi (giugno-dicembre 1944), che deve affrontare il problema dei rapporti con la Resistenza che si è sviluppata al Nord. Il ruolo del movimento partigiano e del CLNAI è riconosciuto dagli Alleati e dal governo Bonomi; i comandi partigiani si impegnano a rispettare le disposizioni alleate e a sottostare all’autorità del governo del Sud. Il 24-25 aprile 1945, mentre le truppe alleate invadono la Pianura Padana, è proclamata l’insurrezione generale. Mussolini, catturato dai partigiani, viene giustiziato. Per le condizioni di pace dettate alla Conferenza di Parigi (luglio-ottobre 1946), l’I. perde Briga e Tenda a favore della Francia e l’Istria a favore della Iugoslavia. Trieste, fonte di acute tensioni, è dichiarata Territorio Libero e divisa in due parti, l’una sotto amministrazione anglo-americana, l’altra sotto amministrazione iugoslava. Le colonie sono perdute.
Il fascismo e la guerra lasciano una pesante eredità; la situazione economica, pur migliore di quella di altri paesi europei, è comunque grave. Con la liberazione, Bonomi cede il potere a un governo più rappresentativo delle forze della Resistenza. Il nuovo esecutivo guidato da F. Parri dura in carica pochi mesi per il venir meno del sostegno dei democristiani (eredi del Partito popolare) e dei liberali al suo programma, giudicato troppo sbilanciato a sinistra. Segue il primo ministero del leader democristiano A. De Gasperi (dicembre 1945-luglio 1946), che attua una svolta moderata. Elimina i prefetti e i questori nominati dai CLN, reintegrando la burocrazia centrale e chiude il processo di epurazione dei fascisti.
Il 2 giugno 1946 si tengono le elezioni per l’Assemblea costituente e il referendum per la scelta della forma istituzionale. Le prime vedono emergere i tre grandi partiti di massa, che raccolgono il 75% dei suffragi: Democrazia Cristiana (DC), Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), PCI. Nel referendum i voti per la repubblica sono 12.717.923, quelli per la monarchia 10.719.284 (la monarchia risulta vincitrice in tutte le regioni meridionali, a conferma del dualismo originario dello Stato nazionale sorto nel 1861). Presidente provvisorio della Repubblica è il liberale indipendente E. De Nicola.
Il secondo ministero De Gasperi (luglio 1946-febbraio 1947) è ancora retto da una coalizione tra partiti di centro (DC, Partito Repubblicano Italiano-PRI) e di sinistra (PCI, PSIUP). Cominciano però a farsi sentire anche in I. gli echi di quella ‘guerra fredda’ che di lì a poco dividerà in due blocchi contrapposti i democristiani e i comunisti con i rispettivi alleati. La prima frattura si produce nel Partito Socialista (PSI), da cui si staccano per iniziativa di G. Saragat quanti sono contrari a un’intesa con i comunisti (gennaio 1947). De Gasperi dà le dimissioni e forma un nuovo esecutivo (febbraio-maggio 1947) transitorio; quindi chiude la coalizione con le sinistre aprendo la stagione dei governi centristi con un gabinetto nel quale entrano liberali e repubblicani come L. Einaudi e C. Sforza. La Costituzione repubblicana entra in vigore il 1° gennaio 1948. Nei suoi contenuti essa è il frutto dell’incontro fra i principi generali del liberalismo democratico e le istanze sociali avanzate dalle forze popolari della sinistra e dalla Democrazia cristiana.
Le elezioni politiche del 18 aprile 1948 sono segnate dallo scontro della guerra fredda. Finanziata dagli USA, sostenuta dalla Chiesa, fiancheggiata da una rete di comitati civici e dall’Azione cattolica, la DC consegue una vittoria netta, ottenendo il 48,5% dei voti contro il 31% del Fronte popolare socialcomunista. Una grave crisi investe il paese dopo un attentato a Togliatti compiuto da uno studente a luglio: si hanno scontri violenti tra polizia e operai, ma grazie all’azione moderatrice dei vertici sindacali e del PCI, le agitazioni sono contenute.
Sotto l’impulso anche degli aiuti economici del Piano Marshall, prende avvio il processo di ricostruzione del paese. Nella prima legislatura (1948-53) si succedono tre governi De Gasperi, tutti di coalizione. Questo periodo è contraddistinto da uno sforzo riformatore sul piano economico-sociale. Nel 1950 è varata una riforma agraria i cui risultati sono però limitati dalle tenaci resistenze ai progetti elaborati dal governo. Nello stesso anno è istituita la Cassa per il Mezzogiorno, un ente per l’attuazione di un piano di infrastrutture per stimolare lo sviluppo del Meridione. Nel 1951 è varata la riforma fiscale, che introduce l’imposta sul reddito. In politica estera, l’I. partecipa attivamente alle prime iniziative per l’integrazione europea; nel 1949 entra come paese fondatore nella NATO.
Dopo una serie di sconfitte della DC alle elezioni amministrative, De Gasperi, per garantirsi una salda maggioranza nel futuro Parlamento, fa approvare una nuova legge elettorale (poi abrogata nel 1954) che prevede un premio di maggioranza ai partiti apparentati che abbiano superato il 50% dei voti. Nel giugno 1953 la coalizione centrista (DC, PRI, Partito Liberale Italiano-PLI, Partito Socialista Democratico Italiano-PSDI) ottiene il 49,85% dei suffragi, mancando il quorum necessario a far scattare il premio di maggioranza. La DC perde, rispetto al 1948, quasi due milioni di voti e in regresso sono anche i partiti alleati. La seconda legislatura (1953-58) è quindi caratterizzata dalla lunga crisi della formula centrista. All’ultimo, fallito tentativo di formare un governo da parte di De Gasperi, seguono 5 governi, di cui 3 monocolore e 2 con l’apporto di liberali e socialdemocratici. Nel 1954 è raggiunto un accordo sulla questione di Trieste: l’I. ottiene la zona A del Territorio Libero. Nel 1955 l’I. entra a far parte dell’ONU; il nuovo presidente della Repubblica, il democristiano di sinistra G. Gronchi, rivolge un invito a porre fine al centrismo inaugurando una nuova stagione di riforme.
La destalinizzazione prima e poi l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 hanno profonde ripercussioni sulla sinistra italiana, portando alla rottura fra PCI e PSI e a un avvicinamento del PSI alla socialdemocrazia.
Nel 1957 a Roma è compiuto un passo decisivo nel processo di integrazione europea, con la firma dei trattati istitutivi della CEE (Comunità Economica Europea). Nel paese si avverte l’esigenza di dare maggiore espressione, coinvolgendole nelle scelte di governo, alle masse lavoratrici che hanno sopportato i maggiori costi della ricostruzione prima e poi dell’intenso sviluppo economico iniziato negli anni 1950. Tra gli anni 1950 e 1960 l’I. è infatti protagonista di una crescita economica che ne trasforma in profondità la struttura sociale. L’apice del ‘miracolo italiano’ si registra tra il 1956 e il 1963, anni in cui il tasso di crescita del PIL raggiunge il 6,3% annuo, facendo entrare l’I. nel novero delle grandi nazioni industrializzate. I fattori alla base di questa evoluzione, non priva di contraddizioni e squilibri che ancora condizionano il paese, sono molteplici: dalle nuove tecnologie importate dagli USA all’elevata disponibilità di manodopera a basso costo, dall’apertura ai mercati esteri alla stabilità dei prezzi ai cospicui investimenti pubblici e privati.
Inizia così la marcia verso la stagione del centrosinistra, favorita anche dall’elezione al pontificato (1958) di Giovanni XXIII, che, con la svolta impressa dal Concilio Vaticano II (1962-65), apre la Chiesa cattolica a nuove istanze sociali e alla distensione.
Il centrosinistra è la formula d’intesa tra DC e PSI per un programma di riforme capace di correggere nuovi e vecchi squilibri della società italiana. Il primo governo di centrosinistra è varato nel 1962, dopo un tentativo delle forze di destra di fermare l’ingresso dei socialisti nell’area di governo con F. Tambroni. Questi, divenuto presidente del consiglio con i voti, oltre che della DC, dei liberali e dei neofascisti, è costretto a dimettersi dopo lo scoppio di gravi disordini a Genova e in altre città (luglio 1960). La DC vara la linea di centrosinistra sotto la guida di A. Moro e di A. Fanfani, che forma il primo governo con l’appoggio parlamentare dei socialisti, nel corso del quale è nazionalizzata l’industria elettrica ed esteso l’obbligo scolastico a 14 anni.
Nel 1963 Moro forma il primo governo con la partecipazione diretta del PSI, che non ha vita facile non solo per l’opposizione della destra democristiana e della sinistra del PSI (che nel 1964 dà vita al PSIUP), ma anche per le difficoltà della recessione economica. Il governo cade nel luglio 1964, ma il centrosinistra riporta una vittoria con l’elezione a presidente della Repubblica di G. Saragat, leader socialdemocratico successo ad A. Segni che, eletto nel 1962, si è dimesso per ragioni di salute, dopo essersi dimostrato un deciso avversario dell’apertura a sinistra. Nei due successivi governi di centrosinistra guidati da Moro vengono approvate misure rilevanti sulla programmazione economica, l’ordinamento regionale, la sanità pubblica, che però urtano contro la mancanza dei mezzi tecnici, finanziari e amministrativi necessari alla loro piena attuazione, rivelando i limiti strutturali del processo riformatore. Il suo carattere assai cauto non è sufficiente a vincere i timori degli ambienti più conservatori. Si fa strada una tendenza all’azione clandestina e illegale a fini eversivi che ha appoggi all’interno delle stesse istituzioni dello Stato. Nel 1964 G. De Lorenzo, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, già capo del Servizio Informazioni delle Forze Armate (SIFAR), attua misure per un eventuale colpo di Stato militare (piano Solo). Lo scandalo del coinvolgimento dei servizi segreti in trame eversive viene alla luce nel 1967 e provoca forti reazioni nell’opinione pubblica.
Nel maggio 1968 si svolgono le elezioni politiche. I risultati, favorevoli alla DC e al PCI, sono invece deludenti per i socialisti. Ma il centrosinistra non ha alternative e si mantiene come formula di governo, svuotata di ogni spinta innovativa, proprio nel momento in cui vengono a galla i numerosi problemi insoluti. Questi provocano un’ondata di gravi tensioni politiche e sociali, inserita in un più generale processo di mobilitazione che coinvolge gran parte dei paesi occidentali. In I. la contestazione studentesca si salda con la protesta operaia. Nel 1968-69 si hanno continue manifestazioni culminate nell’occupazione delle università e un’ondata di scioperi senza precedenti, accompagnati da scontri violenti con le forze dell’ordine. Le lotte operaie conseguono importanti obiettivi: l’adeguamento dei salari italiani alla media europea e, nel 1970, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori. La classe dirigente si mostra impreparata ad affrontare il nuovo clima. I conservatori chiedono a gran voce un ‘governo forte’ che metta fine ai disordini, attaccando al tempo stesso la politica degli ultimi anni, accusata di aver aperto le porte alla rivoluzione sociale. Nel dicembre 1970 è introdotto nell’ordinamento giuridico italiano il divorzio. L’iter parlamentare che ha portato all’approvazione della legge (1969) è stato lungo e contrastato e ha visto l’ampia mobilitazione del Partito radicale, da allora sempre più impegnato nella difesa dei diritti umani e civili.
Forze eversive di destra, con la complicità di parte dei servizi segreti, tessono ‘trame nere’ contro la Repubblica. Nel dicembre 1969, numerosi attentati dinamitardi culminano nella strage della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana, a Milano, segnando l’inizio della ‘strategia della tensione’. Ad auspicare l’abbattimento dello Stato democratico non sono solo gli ambienti eversivi di destra – che nel 1970 fomentano una rivolta popolare a Reggio di Calabria – ma anche quella parte della sinistra estrema che ritiene stiano maturando in I. le condizioni per una rivoluzione proletaria. Il terrorismo rosso, che assume il volto del sequestro di persona e dell’omicidio politico, crea nel paese, negli anni 1970, una situazione sempre più drammatica. Tra le sue organizzazioni si distinguono le Brigate rosse (BR), nate nel 1970.
Il democristiano G. Leone è eletto presidente della Repubblica (1971), con i voti determinanti del Movimento Sociale Italiano (MSI). Alle prime elezioni anticipate della storia repubblicana, nel 1972, seguono un governo centrista guidato da G. Andreotti e due governi guidati da M. Rumor, che adottano provvedimenti per combattere l’inflazione e gli effetti della crisi energetica seguita alla guerra arabo-israeliana del 1973. Nell’autunno del 1973 il segretario del PCI, E. Berlinguer, lancia la linea detta del ‘compromesso storico’ tra comunisti, socialisti e democristiani che dovrebbe portare alla formazione di un governo in grado di opporsi alle spinte eversive e aprire un nuovo processo riformatore. L’interlocutore privilegiato di Berlinguer nella DC è Moro. Il leader democristiano ritiene che sia giunto il momento di dare al paese un nuovo corso politico, ma le resistenze all’interno del suo partito sono forti. Tanto più che i processi di mutamento messi in moto dalla modernizzazione – e dalla contestazione a partire dal 1968 – hanno allarmato profondamente il mondo cattolico, come dimostra la battaglia contro il divorzio, combattuta strenuamente e persa dai cattolici nel 1974, con la sconfitta subita nel primo referendum popolare abrogativo del paese.
Le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976 vedono una significativa avanzata del PCI. Un governo monocolore DC guidato da Andreotti si regge su una base inedita: la ‘non sfiducia’ non solo dei tradizionali alleati, ma soprattutto del Partito comunista, che in un momento di particolare gravità per il paese, posto di fronte a una pesante crisi economica e alla sfida del terrorismo, sceglie la via della collaborazione. Nel novembre 1977 i comunisti chiedono la costituzione di un governo di unità nazionale composto da tutti i partiti dell’arco costituzionale. Al rifiuto della DC, condizionato dal veto degli Stati Uniti, il PCI si dichiara disposto a entrare nella maggioranza parlamentare.
Nel 1978, il nuovo governo monocolore presieduto da Andreotti con l’appoggio del PCI, nella formula definita di ‘solidarietà nazionale’, rappresenta anche una risposta al rapimento di Moro e all’uccisione dei cinque agenti della sua scorta a Roma (16 marzo 1978) a opera delle Brigate rosse. Durante la prigionia, che si conclude tragicamente con l’assassinio di Moro (9 maggio), forze politiche e opinione pubblica si dividono sull’atteggiamento da tenere nei confronti dei sequestratori. La DC e il PCI escludono ogni trattativa con i terroristi, negando loro la dignità di interlocutori politici; i socialisti, con altre forze minori come i radicali, sostengono la necessità di una maggiore flessibilità per salvare la vita dell’ostaggio. L’elezione a presidente della Repubblica del socialista S. Pertini (9 luglio) contribuisce a mantenere unito il paese in uno dei momenti più difficili della sua storia.
La vicenda Moro segna l’inizio della crisi del terrorismo, colpito da una più efficace azione repressiva, ma anche la fine dell’esperienza del governo di solidarietà nazionale: mentre nel paese infuria il partito armato, il PCI esce dalla maggioranza provocando la caduta del governo Andreotti. Le elezioni politiche anticipate del 1979 penalizzano il Partito comunista, oggetto di critiche da destra e da sinistra, e dei suoi voti in uscita beneficiano i radicali. Si creano così le condizioni per il ritorno a una nuova fase di governi di centrosinistra, fondati sull’alleanza tra DC e PSI. L’esecutivo presieduto da A. Forlani, autore al 14° Congresso Nazionale della DC del ‘preambolo’ con cui si esclude ogni intesa con il PCI, è travolto dagli scandali, tra cui quello della P2, loggia massonica con finalità eversive.
Nel 1981 per la prima volta dal 1945 diventa presidente del Consiglio un laico, l’esponente del PRI G. Spadolini, che allarga il governo ai liberali. Il suo governo tenta di dare una svolta alla lotta contro la mafia, inviando a Palermo, con funzioni di superprefetto, il generale C.A. Dalla Chiesa, distintosi nella lotta contro il terrorismo, che viene assassinato a Palermo pochi mesi dopo aver assunto l’incarico (1982).
La secca sconfitta alle elezioni anticipate del 1983 subita dalla DC rende possibile l’ascesa al potere di B. Craxi; un PSI largamente rinnovato consegue un significativo successo elettorale e il suo leader, dal 1976, primo presidente del Consiglio socialista nella storia italiana, dà vita all’esecutivo fino allora di più lunga durata della repubblica (1983-87). In un periodo di ripresa economica, che comincia a farsi intensa a metà del decennio, Craxi consegue alcuni successi nella lotta contro l’inflazione e nel contenimento del costo del lavoro attraverso la riduzione della scala mobile (definitivamente abolita nel 1992). Nel febbraio 1984 viene firmato il nuovo concordato tra lo Stato e la Chiesa; con esso il cattolicesimo cessa di essere considerato religione di Stato. In seguito a contrasti esplosi tra la DC e il PSI, il presidente F. Cossiga, succeduto a Pertini nel 1985, nel 1987 indice elezioni politiche anticipate, che vedono l’ingresso in Parlamento degli ambientalisti, i Verdi. Il nuovo progresso dei socialisti accresce la già elevata conflittualità tra i due principali partiti governativi. Al debole governo del democristiano G. Goria (luglio 1987-aprile 1988) – durante il quale si svolgono i referendum che di fatto bandiscono le centrali nucleari, con future enormi ripercussioni sulla politica energetica – subentra quello del segretario della DC, C. De Mita; neppure questo governo però riesce ad affrontare il problema più urgente, la riforma delle istituzioni, di cui De Mita è tra i più tenaci assertori relativamente all’ipotesi dell’alternanza di governo. Per fronteggiare il problema dell’immigrazione straniera, soprattutto clandestina, fattosi sempre più acuto, il successivo governo Andreotti vara il decreto legge Martelli sulla regolamentazione del fenomeno.
La crescente incapacità del sistema politico di porre un limite alla corruzione, legata alla pratica della lottizzazione del potere, contribuisce al dilagare nel Mezzogiorno, ma non solo in esso, della mafia e di altre organizzazioni criminali che assumono il controllo sociale di intere zone del paese, forti della potenza economica raggiunta con il traffico di droga, i sequestri, le estorsioni. Il voto amministrativo del 1990 vede esplodere nel Nord, in aperta protesta contro i partiti tradizionali, il fenomeno delle leghe locali, portatrici di un programma anticentralista e antifiscale.
A gennaio 1991 il Parlamento approva la partecipazione dell’I. alle operazioni militari in Iraq nella guerra del Golfo e per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale il paese si trova coinvolto, seppure molto limitatamente, in una vicenda bellica. Il mese successivo la maggioranza del PCI, investito dagli effetti della disgregazione del mondo sovietico, procede allo scioglimento del partito e alla fondazione del Partito Democratico della Sinistra (PDS); una minoranza si oppone, dando vita al Partito della Rifondazione Comunista (PRC).
Grande significato ha il forte successo riportato nell’I. settentrionale alle elezioni del 1992 dalla Lega Nord di U. Bossi (nata nel 1991 dall’aggregazione dei movimenti locali autonomisti), che agita una riforma in senso federalistico dello Stato. Le consultazioni elettorali vedono anche la formazione di un ‘patto referendario’ trasversale fra i partiti, in cui spicca il democristiano M. Segni, teso a una riforma del sistema elettorale in senso maggioritario. Il 28 aprile il presidente Cossiga, fautore di riforme istituzionali in senso presidenzialista che hanno creato imbarazzo nella DC e indotto il PDS a chiederne l’impeachment, si dimette. Eletto con il concorso del PDS, in un clima reso incandescente dall’assassinio del giudice G. Falcone a Palermo per opera della mafia, gli succede il democristiano indipendente O.L. Scalfaro.
Un nuovo governo guidato dal socialista G. Amato affronta la congiuntura economica e l’enorme debito pubblico; viene ratificato il Trattato di Maastricht volto ad accelerare l’unità europea. Un ciclone investe i partiti di governo, per opera della magistratura che fa emergere il sistema del finanziamento illecito dei partiti e della corruzione pubblica, per il quale è coniato il termine ‘tangentopoli’. Il paese è giunto a una crisi strutturale del sistema politico e, a partire dal 1992, le formazioni politiche afferenti al cosiddetto pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI e PLI) hanno conosciuto un crescente sfaldamento interno. Espressione della volontà della società civile di pervenire a incisive riforme istituzionali è il risultato referendario del 1993 per l’introduzione del sistema elettorale maggioritario, che ottiene una percentuale elevatissima di consensi. All’indomani del voto il governo Amato annuncia le dimissioni. Il governatore della Banca d’Italia C.A. Ciampi costituisce un esecutivo di transizione finalizzato al risanamento finanziario e al varo di una nuova legge elettorale rispettosa dell’indicazione popolare a favore del sistema maggioritario uninominale, ma che accoglie anche le indicazioni dei partiti per una quota proporzionale.
Nel sistema dei partiti si verifica, anche in vista del nuovo sistema elettorale, una serie di mutamenti sostanziali. Il Movimento sociale italiano riceve consensi significativi dall’elettorato moderato e sulla spinta di questa crescita nasce il nuovo MSI-Alleanza Nazionale (AN), teso al superamento dell’eredità fascista verso un approdo liberalconservatore. Nel 1994, la DC dà vita al Partito Popolare Italiano (PPI), mentre un’ala più moderata costituisce il Centro Cristiano Democratico (CCD). La novità più rilevante è la costituzione di Forza Italia (FI), movimento fondato dall’imprenditore S. Berlusconi, che con l’obiettivo di arginare l’annunciato successo delle sinistre riesce a promuovere un processo di aggregazione delle forze di centrodestra. Le elezioni del marzo 1994 decretano il successo delle forze guidate da Berlusconi. Le ragioni di tale vittoria stanno nella capacità di conquistare un elettorato ‘orfano’ dei tradizionali partiti di governo, attraverso la promessa di un nuovo miracolo economico e un appello, segnato da toni anticomunisti, ai principi del liberismo e della liberal-democrazia. Il governo Berlusconi è travagliato dalla difficoltà di tradurre in un programma omogeneo gli accordi elettorali tra i partiti promossi da Forza Italia. Le tensioni politiche crescono anche per la questione del conflitto di interessi gravante su Berlusconi, capo di un grande gruppo economico e proprietario di metà del sistema televisivo nazionale. Il governo cade a dicembre e L. Dini, ministro del Tesoro nel precedente gabinetto, forma un esecutivo di tecnici sostenuto dal centrosinistra. Nel 1995, a Fiuggi, l’ultimo congresso dell’MSI guidato da G. Fini sancisce la trasformazione di AN in vero e proprio partito.
Nel febbraio 1995, R. Prodi, economista ed ex presidente dell’IRI, si candida, in una prospettiva bipolare, a leader di una nuova alleanza di centrosinistra, l’Ulivo. Le elezioni del 1996 vedono vincitrice la coalizione dell’Ulivo formata da PPI (privato dell’ala capeggiata da R. Buttiglione fautrice di un’alleanza con il centrodestra), PDS, Federazione dei Verdi e altre forze minori. Il governo di Prodi imposta una politica di riforme strutturali che consente all’I. di rientrare nei parametri economici fissati a Maastricht per l’adesione alla moneta unica (2000).
Il contrasto sui temi sociali e di politica estera con Rifondazione comunista, con cui l’Ulivo ha stipulato un accordo elettorale e i cui voti sono determinanti per la maggioranza alla Camera del centrosinistra, nell’autunno 1998 precipita con il ritiro della fiducia all’esecutivo da parte di Rifondazione comunista. Prodi si dimettte e M. D’Alema, leader dal 1998 di un nuovo soggetto politico, i Democratici di Sinistra (DS) comprendenti, oltre al PDS, esponenti di area socialista, repubblicana, cristiano-sociale e ambientalista, forma un nuovo esecutivo.
Nel maggio 1999 è eletto presidente della Repubblica C.A. Ciampi, in un clima di dialogo tra i due schieramenti politici maturato nel contesto della crisi del Kosovo, che vede l’I. partecipare all’intervento aereo NATO contro la Repubblica Federale di Iugoslavia.
A dicembre 1999 D’Alema, erede di una tradizione in cui non si riconosce l’intera alleanza ed esponente di un partito forte ma in difficoltà elettorale e propositiva, si dimette, riottenendo l’incarico per un nuovo governo.
Il 2000 rimane contrassegnato da un’atmosfera di aspre tensioni. La netta contrapposizione tra i due schieramenti politici di centrodestra e di centrosinistra genera un sistematico conflitto, privo di possibilità di confronto e di incontro tra le parti, salvo alcune rare occasioni in politica estera. L’indebolimento del centrosinistra trova conferma nelle elezioni regionali del 2000 e D’Alema lascia il posto a un governo guidato da Amato. Nella fase finale della legislatura la legge di revisione costituzionale (2001) modifica in senso federalista l’ordinamento statuale.
Le elezioni del 2001 vedono la netta vittoria di una nuova più ampia alleanza di centrodestra, la Casa delle Libertà (CdL), di cui oltre a Forza Italia fanno parte AN, il Biancofiore – che riunisce CCD e Cristiani Democratici Uniti (CDU; unificati dal 2002 nell’Unione dei Democratici Cristiani e di Centro, UDC) – e la Lega Nord, riavvicinatasi al centrodestra.
Dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre a New York e Washington, il governo guidato da Berlusconi schiera il paese a fianco degli Stati Uniti e decide la partecipazione dell’I., anche con l’invio di un contingente militare, alla guerra contro il regime talebano in Afghanistan ottenendo l’appoggio del centrosinistra. Mentre emergono nella maggioranza diversità di vedute sulla politica europeista nella fase di avvio dell’introduzione della moneta unica (entrata in vigore il 1° gennaio 2002), la scelta di allinearsi con le politiche di G. Bush e T. Blair culminate nella guerra all’Iraq (marzo 2003) suscita tensioni e attriti con altri membri dell’Unione Europea (come Francia e Germania), più critici nei confronti delle iniziative angloamericane. Nel 2003, dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq, è inviata nel paese, sotto mandato ONU, una forza di peace keeping, decisione che divide, oltre che le forze politiche, anche l’opinione pubblica italiana.
I piani governativi per rilanciare l’economia, rendendo più flessibile il mercato del lavoro, incontrano opposizioni nelle file del sindacato e del centrosinistra; le tensioni sulle questioni del lavoro e dell’occupazione si intrecciano con le preoccupazioni derivanti dall’uccisione, nel 2003, per opera delle nuove Brigate rosse, del giurista M. Biagi, impegnato nella definizione degli aspetti tecnici derivanti dalle modifiche alle normative sul lavoro; nel 1999, a cadere sotto i colpi dei terroristi per analoghi motivi era stato il giurista del lavoro M. D’Antona.
Altre divisioni, trasversali agli schieramenti politici, si manifestano nel paese sul tema della regolamentazione della procreazione medicalmente assistita tra i fautori di una liberalizzazione più ampia e chi invece ritiene necessario porre limiti stretti a una pratica diffusa, richiamandosi anche al magistero della Chiesa cattolica. Approvata nel 2004, la legge sembra scontentare molti, ma il referendum promosso poi per abrogarne alcune parti non ottiene il quorum necessario.
Nel 2005 l’UDC è tra i maggiori sostenitori della nuova legge elettorale che unisce il ritorno al proporzionale con un premio di maggioranza attribuito alla coalizione vincente, calcolato a livello nazionale per la Camera e su base regionale per il Senato. L’appartenenza alla coalizione neutralizza lo sbarramento posto alle liste non collegate facilitando la proliferazione delle piccole formazioni. Non va in porto invece la riforma costituzionale per ampliare il carattere federale dello Stato e i poteri del capo del governo, bocciata dal referendum (2006) indetto al riguardo.
Mentre il governo di centrodestra conclude il suo quinquennato senza essere riuscito a realizzare interventi strutturali, né a liberalizzare l’economia, a ridurre la spesa pubblica, a rilanciare la competitività come era nei presupposti delle sue opzioni liberiste, in previsione delle elezioni del 2006 si viene definendo una nuova candidatura di R. Prodi alla guida di una larga coalizione di centrosinistra. Il disegno di Prodi punta alla costituzione di una forza che unisca le diverse componenti riformiste (La Margherita, il nuovo soggetto politico di centro costituitosi nel 2002, e DS). Le elezioni danno una vittoria con margini assai ristretti al centrosinistra, riunito nell’alleanza denominata Unione (ne fanno parte oltre alla Margherita e i DS, la sinistra radicale e altre formazioni minori). Dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, il diessino G. Napolitano, Prodi forma il nuovo governo. Nell’esecutivo sono presenti marcate divergenze su molte questioni e presto emergono le difficoltà derivanti dal tentativo di riconciliare nell’azione di governo le diverse culture politiche che vi sono rappresentate. Tali difficoltà ripropongono il problema della forma incompiuta del bipolarismo italiano e della complessità della lunga transizione iniziata nell’ultimo decennio del Novecento. I ritardi della politica rientrano in un più generale processo di faticoso adattamento del paese ai nuovi scenari della interdipendenza europea e globale.
Nel febbraio 2007 il governo cade in Senato su questioni di politica estera e ciò determina le dimissioni di Prodi, cui viene però rinnovato l’incarico. Una nuova e fatale crisi della maggioranza si ha al principio del 2008, conducendo a elezioni anticipate caratterizzate da nuovi processi di aggregazione nel centrosinistra (nascita del Partito Democratico-PD) e nel centrodestra. Nell’aprile 2008 la vittoria del Popolo della Libertà, apparentato con la Lega Nord e il Movimento per l’autonomia, porta alla formazione del quarto governo Berlusconi.
Nel 2009 il processo di fusione delle formazioni di centrodestra trova compimento nella confluenza di Alleanza Nazionale e Forza Italia nel partito del Popolo della Libertà (PdL). Oggetto primario dell’azione di governo sono state le misure per fronteggiare le ricadute a livello nazionale della crisi economica e finanziaria globale, in seguito alla quale si registra una flessione del PIL di oltre il 5%, con un tasso di disoccupazione salito all’8%. Nel 2010 il cofondatore del Popolo della Libertà G. Fini è uscito dal partito fondandone poi uno nuovo, Futuro e libertà per l’Italia, passato all’opposizione. Nel novembre del 2011 dopo il voto alla Camera dei Deputati sul rendiconto dello Stato, approvato solo grazie all’astensione dell’opposizione, preso atto delle difficoltà della maggioranza e a causa del grave momento di crisi finanziaria ed economica, interna e internazionale, Berlusconi si è dimesso dalla carica di presidente del Consiglio, incarico assunto dall'economista M. Monti che ha formato un nuovo esecutivo per fronteggiare la crisi politica ed economica in atto. Nella prima fase del suo governo Monti ha speso la sua autorevolezza in ambito europeo, essendo stato Commissario per la concorrenza e per il mercato interno, per far fronte alla crisi economica internazionale, per ridare credibilità all’Italia, abbassare lo spread ed evitare il rischio default. Nel dicembre del 2011 il governo ha varato il cosiddetto “decreto salva-Italia”, un pacchetto di misure urgenti per assicurare la stabilità finanziaria, la crescita, l’equità, chiedendo a tutti i cittadini uno sforzo anche tributario per riportare sotto controllo i conti pubblici. Nella seconda fase denominata “cresci-Italia” il governo ha approvato un pacchetto di riforme strutturali per la crescita, che mirano a rimuovere due vincoli: l’insufficiente concorrenza dei mercati e l’inadeguatezza delle infrastrutture. La serie di riforme intraprese avrebbe dovuto consentire nel breve periodo di traghettare l’economia nazionale fuori dalla spirale recessiva e possibilmente, nel medio/lungo periodo, di allinearla ai ritmi di crescita dei partners europei e internazionali. Nel dicembre del 2012 Monti ha rassegnato le dimissioni al termine dell'approvazione della legge di stabilità. La decisione è maturata dopo un discorso alla Camera dei Deputati del segretario del Pdl, Angelino Alfano, fortemente critico verso la politica economica del governo. Nello stesso mese Monti ha presentato la sua candidatura per le elezioni politiche dell’anno successivo alla guida di una nuova coalizione centrista denominata Con Monti per l’Italia al Senato e di una lista Scelta Civica – Con Monti per l’Italia insieme alle liste dell’UDC e di FLI alla Camera dei Deputati. Alle elezioni politiche del 2013 la coalizione di centrodestra, con PdL e Lega, ha ottenuto circa di 21% dei consensi, la coalizione centrista facente capo a Monti il 10% e il Movimento 5 stelle, entrato per la prima volta in Parlamento, il 25%. Il PD, presentandosi in coalizione con Sinistra ecologia e libertà e Partito Socialista Italiano, Italia. Bene comune, ha ottenuto la maggioranza alla Camera dei Deputati e la maggioranza relativa al Senato, ma non i numeri sufficienti per formare un governo di centrosinistra. Il Presidente della Repubblica ha incaricato il leader della coalizione di centrosinistra, Pierluigi Bersani, di formare un nuovo governo, ma dopo le consultazioni il segretario del PD ha sciolto negativamente la riserva.
In una situazione politica di stallo, aggravata dalla crisi economica e finanziaria e dai disagi sociali presenti nel Paese, Giorgio Napolitano è stato eletto Presidente della Repubblica, per la seconda volta il 20 aprile 2013, primo caso nella storia italiana. Nello stesso mese di aprile il rieletto Presidente ha dato mandato di formare un nuovo governo all’ex vicesegretario del Partito Democratico Enrico Letta: il governo, in carica dal 28 aprile dello stesso anno al 22 febbraio del 2014, è stato sostenuto, fino al novembre del 2013, dal PD, dal PdL e dalla coalizione di centro. Dopo la scissione del PdL in due partiti, uno antigovernativo - Forza Italia, guidato da Silvio Berlusconi – e uno filogovernativo - il Nuovo centrodestra, guidato da Angelino Alfano, Forza Italia, non ha più sostenuto il governo in carica. La maggioranza, così ricomposta, ha poi sostenuto il nuovo governo guidato dal neoeletto segretario del Partito democratico Matteo Renzi, incaricato dal 22 febbraio 2014. Il 14 gennaio del 2015 Napolitano ha rassegnato le dimissioni e il 31 gennaio successivo è stato eletto dodicesimo Presidente della Repubblica il Giudice della Corte Costituzionale Sergio Mattarella. L’11 dicembre del 2016, dopo le dimissioni di Renzi, a seguito del risultato negativo del referendum, tenutosi il 4 dicembre precedente, sulla riforma costituzionale fortemente voluta dal suo governo, il Presidente Mattarella ha affidato l’incarico di formare un nuovo governo a Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri nel governo Renzi, in carica dal giorno successivo.
Nel 2017, dopo che le passate leggi elettorali sono state dichiarate parzialmente incostituzionali dalla Consulta, è stata approvata la legge elettorale cosiddetta Rosatellum bis, per rendere omogeneo il sistema per i due rami del Parlamento. La nuova legge opta per un sistema elettorale misto, il 36 per cento dei seggi è attribuito con formula maggioritaria e il restante 64 per cento è attribuito con metodo proporzionale.
Alle elezioni politiche del 2018 la coalizione di centrodestra, composta da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Noi con l’Italia, ha complessivamente ottenuto circa il 37% dei voti, con la Lega come primo partito della coalizione, il centrosinistra circa il 22% dei voti con il PD intorno al 19% e il Movimento 5 stelle oltre il 32% dei voti, risultando il primo partito. In questa situazione politica sostanzialmente tripolare, nessun partito o coalizione ha raggiunto la maggioranza assoluta per governare. Il 18 aprile successivo, dopo due giri infruttuosi di consultazioni, il Presidente della Repubblica ha affidato alla neoeletta Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati il mandato esplorativo per verificare l'esistenza di una maggioranza parlamentare tra il centrodestra e il Movimento 5 stelle, conclusosi il 20 aprile è risultato non risolutivo. Il 23 aprile Mattarella ha affidato al neoeletto Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico il mandato esplorativo per verificare l'esistenza di una maggioranza parlamentare tra il Movimento 5 stelle e il PD, conclusosi il 26 aprile con l’avvio di un dialogo tra i due partiti, dialogo che si è interrotto pochi giorni dopo. Dopo altri giri di consultazioni, il Movimento 5 stelle e la Lega hanno raggiunto un accordo e individuato nel giurista Giuseppe Conte il premier condiviso. Il 23 maggio il Presidente Mattarella ha affidato l’incarico di formare un nuovo governo al giurista che ha accettato con riserva, mandato che ha rimesso il 27 maggio, dopo che Mattarella non ha accettato il ministro dell’economia proposto, visto anche all’estero come sostenitore di una linea che avrebbe potuto provocare la fuoriuscita dell'Italia dall'euro, provocando l’instabilità dei mercati. Il giorno successivo, a più di ottanta giorni dalle elezioni, il Presidente ha affidato l’incarico di formare un nuovo governo all’economista Carlo Cottarelli che ha accettato con riserva, mandato che ha rimesso il 31 maggio, riaprendosi la prospettiva di un governo politico. Lo stesso giorno infatti Mattarella ha dato un secondo mandato a Giuseppe Conte che ha accettato e presentato la lista dei ministri. Dopo quasi tre mesi dalle elezioni, scongiurando il voto anticipato e speculazioni finanziarie, è così nato il primo governo della storia repubblicana giallo-verde, in virtù di un contratto programmatico tra M5s e Lega, con una squadra di ministri nominati dal Presidente della Repubblica su indicazione del capo del governo più rassicurante della precedente riguardo al rispetto dei vincoli europei e internazionali. Nell’agosto del 2019, date le divergenze tra i due partiti di maggioranza, la Lega, forte dei consensi ottenuti alle elezioni amministrative ed europee, ha presentato una mozione di sfiducia, poi ritirata, al presidente del Consiglio Conte, che ha rassegnato le dimissioni del governo da lui presieduto al Presidente Mattarella, il quale ha preso atto delle dimissioni e ha invitato il governo a curare il disbrigo degli affari correnti. Dopo due giri di consultazioni, che hanno evidenziato una possibile intesa politica tra il M5s e il Partito democratico, in una fase delicata per il Paese, in vista di una manovra economica per contrastare l’aumento dell’IVA, e con il rallentamento dell’economia europea, il 29 agosto il Presidente Mattarella ha affidato l’incarico di formare un nuovo governo a Conte che ha accettato con riserva. Il 4 settembre Conte ha sciolto positivamente la riserva e ha assunto l’incarico di primo ministro il giorno successivo, dando vita al primo governo giallo-rosso, sostenuto oltre che da M5s e Pd, anche da LeU. Pochi giorni dopo la formazione del governo, Renzi ha fondato un nuovo soggetto politico, Italia viva, in seguito alla scissione dal PD, con la nascita di nuovi gruppi parlamentari che hanno sostenuto l’esecutivo, due ministre e un sottosegretario del quale sono entrati a far parte di Iv. Nel gennaio del 2021, in piena emergenza pandemia, i componenti del governo appartenenti a Iv si sono dimessi dall'esecutivo, aprendo di fatto la crisi di governo. Posta la questione di fiducia in Parlamento il governo ha ottenuto la maggioranza assoluta alla Camera ma solo quella relativa al Senato, con l'astensione di Iv. Il 26 dello stesso mese Conte ha rassegnato le dimissioni del governo da lui presieduto al Presidente Mattarella, il quale si è riservato di decidere e ha invitato il governo a curare il disbrigo degli affari correnti. Dopo un giro di consultazioni, il 29 gennaio Mattarella ha affidato al Presidente della Camera dei Deputati Fico il mandato esplorativo per verificare la possibilità di una maggioranza politica composta a partire dai gruppi che sostenevano il governo precedente, conclusosi il 2 febbraio con esito negativo. Il giorno successivo Mattarella ha affidato al professor M. Draghi, che ha accettato con riserva, l'incarico di formare un nuovo governo, un governo di alto profilo per far fronte alle gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria. Il 12 febbraio l'economista ha sciolto positivamente la riserva, dopo due giri di consultazioni con i partiti politici e aver incontrato le parti sociali, e ha assunto l’incarico di primo ministro il giorno successivo, dando vita a un governo composto da politici e tecnici, sostenuto dalla maggioranza dei partiti. Il 22 gennaio 2022 Mattarella è stato eletto per la seconda volta Presidente della Repubblica. Nel luglio dello stesso anno il M5s prima e poi anche la Lega e Forza Italia non hanno votato la fiducia al governo, per cui Draghi ha rassegnato le dimissioni e Mattarella ne ha preso atto, rimanendo in carica il governo per il disbrigo degli affari correnti, e ha sciolto le Camere non essendoci prospettive per dar vita a una nuova maggioranza.
Alle elezioni politiche del 2022, con l’affluenza più bassa di sempre che ha visto andare alle urne neanche il 64% degli aventi diritto, in cui per la prima volta per la legge sulla riduzione del numero dei parlamentari confermata dal referendum costituzionale del 2020 sono stati eletti da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori, in un Paese provato dalle conseguenze della pandemia, della guerra in Ucraina e dalla crisi energetica, la coalizione di centrodestra si è affermata con circa il 44% dei voti, avendo la maggioranza assoluta in Parlamento. Composta da Forza Italia, Lega, Noi moderati e Fratelli d’Italia, quest’ultimo si è affermato come primo partito ottenendo circa il 26% dei voti. Il centrosinistra, composto da PD, Alleanza Verdi e Sinistra, +Europa e Impegno civico, ha ottenuto complessivamente circa il 26% dei voti con il PD intorno al 19%. Il Movimento 5 stelle si è tenuto intorno al 15% e la nuova lista formata dall’unione di Azione e Italia viva si è attestata a circa l’8% dei voti. Il 21 ottobre dello stesso anno il Presidente della Repubblica Mattarella ha affidato alla Presidente di Fratelli d'Italia G. Meloni l'incarico di formare un nuovo governo e la donna politica ha accettato l’incarico. Meloni ha assunto la carica di primo ministro il giorno successivo, prima donna nella storia repubblicana.
Vittorio Emanuele II (14 marzo 1861 - 9 gennaio 1878); Umberto I (9 gennaio 1878 - 29 luglio 1900); Vittorio Emanuele III (29 luglio 1900 - abdicatario il 9 maggio 1946; dal 5 giugno 1944 con la luogotenenza del figlio Umberto); Umberto II (9 maggio 1946 - 13 giugno 1946).
E. De Nicola (capo provvisorio dello Stato: 28 giugno 1946 - 31 dicembre 1947; presidente della Repubblica: 1° gennaio 1948 - 11 maggio 1948); L. Einaudi (11 maggio 1948 - 11 maggio 1955); G. Gronchi (11 maggio 1955 - 5 maggio 1962); A. Segni (6 maggio 1962 - 27 dicembre 1964); G. Saragat (28 dicembre 1964 - 29 dicembre 1971); G. Leone (29 dicembre 1971 - 15 giugno 1978); A. Pertini (9 luglio 1978 - 29 giugno 1985); F. Cossiga (3 luglio 1985 - 28 aprile 1992); O.L. Scalfaro (28 maggio 1992 - 15 maggio 1999); C.A. Ciampi (18 maggio 1999 - 15 maggio 2006); G. Napolitano (15 maggio 2006 - 14 gennaio 2015); S. Mattarella (3 febbraio 2015 - ).
21 gennaio 1860 - 12 giugno 1861 Presidente C. Cavour (morto il 6 giugno 1861); interno, M. Minghetti; esteri, C. Cavour; grazia, giustizia e culti, G.B. Cassinis; finanze, F.S. Vegezzi (fino al 3 aprile 1861), P. Bastogi; guerra, M. Fanti; agricoltura, industria e commercio (ricostituito il 12 luglio 1860), T. Corsi (fino al 22 marzo 1861), G. Natoli.
12 giugno 1861 - 3 marzo 1862 Presidente B. Ricasoli; interno, M. Minghetti, B. Ricasoli; esteri, B. Ricasoli; grazia, giustizia e culti, V. Miglietti; finanze, P. Bastogi; guerra, B. Ricasoli ad interim, A. Della Rovere; agricoltura, industria e commercio, F. Cordova.
3 marzo 1862 - 8 dicembre 1862 Presidente U. Rattazzi; interno, U. Rattazzi; esteri, U. Rattazzi, G. Durando; grazia, giustizia e culti, F. Cordova, R. Conforti; finanze, Q. Sella; guerra, A. Petitti; agricoltura, industria e commercio, G. Pepoli.
8 dicembre 1862 - 22 marzo 1863 Presidente L.C. Farini; interno, U. Peruzzi; esteri, G. Pasolini; grazia, giustizia e culti, G. Pisanelli; finanze, M. Minghetti; guerra, A. Della Rovere; agricoltura, industria e commercio, G. Manna.
22 marzo 1863 - 28 settembre 1864 Presidente M. Minghetti; interno, U. Peruzzi; esteri, E. Visconti-Venosta; grazia, giustizia e culti, G. Pisanelli; finanze, M. Minghetti; guerra, A. Della Rovere; agricoltura, industria e commercio, G. Manna.
28 settembre 1864 - 31 dicembre 1865 Presidente A. La Marmora; interno, G. Lanza, G. Natoli ad interim, D. Chiaves; esteri, A. La Marmora; grazia, giustizia e culti, G. Vacca, P. Cortese; finanze, Q. Sella; guerra, A. Petitti; agricoltura, industria e commercio, L. Torelli.
31 dicembre 1865 - 20 giugno 1866 Presidente A. La Marmora; interno, D. Chiaves; esteri, A. La Marmora; grazia, giustizia e culti, G. De Falco; finanze, A. Scialoja; guerra, I. Pettinengo; agricoltura, industria e commercio, D. Berti ad interim.
20 giugno 1866 - 10 aprile 1867 Presidente B. Ricasoli; interno, B. Ricasoli; esteri, B. Ricasoli ad interim, E. Visconti-Venosta; grazia, giustizia e culti, F. Borgatti, B. Ricasoli ad interim, F. Cordova ad interim; finanze, A. Scialoja, A. Depretis; guerra, I. Pettinengo, E. Cugia; agricoltura, industria e commercio, F. Cordova.
10 aprile 1867 - 27 ottobre 1867 Presidente U. Rattazzi; interno, U. Rattazzi; esteri, P. Di Campello; grazia, giustizia e culti, S. Tecchio; finanze, F. Ferrara, U. Rattazzi ad interim; guerra, G.G. Thaon di Revel; agricoltura, industria e commercio, F. De Blasiis.
27 ottobre 1867 - 5 gennaio 1868 Presidente L.F. Menabrea; interno, F. Gualterio; esteri, L.F. Menabrea; grazia, giustizia e culti, A. Mari; finanze, G. Cambray-Digny; guerra, E. Bertolè-Viale; agricoltura, industria e commercio, G. Cambray-Digny ad interim, E. Broglio ad interim.
5 gennaio 1868 - 13 maggio 1869 Presidente L.F. Menabrea; interno, C. Cadorna, G. Cantelli; esteri, L.F. Menabrea; grazia, giustizia e culti, G. De Filippo; finanze, G. Cambray-Digny; guerra, E. Bertolè-Viale; agricoltura, industria e commercio, E. Broglio ad interim, A. Ciccone.
13 maggio 1869 - 14 dicembre 1869 Presidente L.F. Menabrea; interno, L. Ferraris, A. di Rudinì; esteri, L.F. Menabrea; grazia, giustizia e culti, G. De Filippo, M. Pironti, P.O. Vigliani; finanze, G. Cambray-Digny; guerra, E. Bertolè-Viale; agricoltura, industria e commercio, M. Minghetti.
14 dicembre 1869 - 9 luglio 1873 Presidente G. Lanza; interno, G. Lanza; esteri, E. Visconti-Venosta; grazia, giustizia e culti, M. Raeli, G. De Falco; finanze, Q. Sella; guerra, G. Govone, C. Ricotti; agricoltura, industria e commercio, S. Castagnola.
10 luglio 1873 - 25 marzo 1876 Presidente M. Minghetti; interno, G. Cantelli; esteri, E. Visconti-Venosta; grazia, giustizia e culti, P.O. Vigliani; finanze, M. Minghetti; guerra, C. Ricotti; agricoltura, industria e commercio, G. Finali.
25 marzo 1876 - 25 dicembre 1877 Presidente A. Depretis; interno, G. Nicotera; esteri, L. Melegari; grazia, giustizia e culti, P.S. Mancini; finanze, A. Depretis; guerra, L. Mezzacapo; agricoltura, industria e commercio, S. Majorana-Calatabiano.
26 dicembre 1877 - 23 marzo 1878 Presidente A. Depretis; interno, F. Crispi, A. Depretis ad interim; esteri, A. Depretis; grazia, giustizia e culti, P.S. Mancini; finanze, A. Magliani; tesoro (istituito il 26 dicembre 1877), A. Bargoni; guerra, L. Mezzacapo.
24 marzo 1878 - 19 dicembre 1878 Presidente B. Cairoli; interno, G. Zanardelli; esteri, L. Corti, B. Cairoli; grazia, giustizia e culti, R. Conforti; finanze, F. Seismit-Doda; tesoro, F. Seismit-Doda ad interim; guerra, G. Bruzzo, C. Bonelli; agricoltura, industria e commercio (soppresso il 26 dicembre 1877 e ricostituito il 30 giugno 1878), B. Cairoli ad interim, E. Pessina.
19 dicembre 1878 - 14 luglio 1879 Presidente A. Depretis; interno, A. Depretis; esteri, A. Depretis ad interim; grazia, giustizia e culti, D. Tajani; finanze, A. Magliani; tesoro, A. Magliani ad interim; guerra, G. Mazé de la Roche; agricoltura, industria e commercio, S. Majorana-Calatabiano.
14 luglio 1879 - 25 novembre 1879 Presidente B. Cairoli; interno, T. Villa; esteri, B. Cairoli; grazia, giustizia e culti, G.B. Vanè; finanze, B. Grimaldi; tesoro, B. Grimaldi ad interim; guerra, C. Bonelli; agricoltura, industria e commercio, B. Cairoli ad interim.
25 novembre 1879 - 29 maggio 1881 Presidente B. Cairoli; interno, A. Depretis; esteri, B. Cairoli; grazia, giustizia e culti, T. Villa; finanze, A. Magliani; tesoro, A. Magliani ad interim; guerra, C. Bonelli, B. Milon, E. Ferrero; agricoltura, industria e commercio, L. Miceli.
29 maggio 1881 - 25 maggio 1883 Presidente A. Depretis; interno, A. Depretis; esteri, P.S. Mancini; grazia, giustizia e culti, G. Zanardelli; finanze, A. Magliani; tesoro, A. Magliani ad interim; guerra, E. Ferrero; agricoltura, industria e commercio, D. Berti.
25 maggio 1883 - 30 marzo 1884 Presidente A. Depretis; interno, A. Depretis; esteri, P.S. Mancini; grazia, giustizia e culti, B. Giannuzzi-Savelli; finanze, A. Magliani; tesoro, A. Magliani ad interim; guerra, E. Ferrero; agricoltura, industria e commercio, D. Berti.
30 marzo 1884 - 29 giugno 1885 Presidente A. Depretis; interno, A. Depretis; esteri, P.S. Mancini; grazia, giustizia e culti, N. Ferracciù, E. Pessina; finanze, A. Magliani; tesoro, A. Magliani ad interim; guerra, E. Ferrero, C. Ricotti; agricoltura, industria e commercio, B. Grimaldi.
29 giugno 1885 - 4 aprile 1887 Presidente A. Depretis; interno, A. Depretis; esteri, A. Depretis ad interim, C. Robilant; grazia, giustizia e culti, D. Tajani; finanze, A. Magliani; tesoro, A. Magliani ad interim; guerra, C. Ricotti; agricoltura, industria e commercio, B. Grimaldi.
4 aprile 1887 - 29 luglio 1887 Presidente A. Depretis; interno, F. Crispi; esteri, A. Depretis, F. Crispi ad interim; grazia, giustizia e culti, G. Zanardelli; finanze, A. Magliani; tesoro, A. Magliani ad interim; guerra, E. Bertolè-Viale; agricoltura, industria e commercio, B. Grimaldi.
29 luglio 1887 - 9 marzo 1889 Presidente F. Crispi; interno, F. Crispi; esteri, F. Crispi ad interim; grazia, giustizia e culti, G. Zanardelli; finanze, A. Magliani, B. Grimaldi; tesoro, A. Magliani ad interim, C. Perazzi; guerra, E. Bertolè-Viale; agricoltura, industria e commercio, B. Grimaldi, L. Miceli.
9 marzo 1889 - 6 febbraio 1891 Presidente F. Crispi; interno, F. Crispi; esteri, F. Crispi ad interim; grazia, giustizia e culti, G. Zanardelli; finanze, F. Seismit-Doda, G. Giolitti ad interim, B. Grimaldi; tesoro, G. Giolitti (dimissionario il 9 dicembre 1890), B. Grimaldi ad interim; guerra, E. Bertolè-Viale; agricoltura, industria e commercio, L. Miceli.
6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892 Presidente A. di Rudinì; interno, G. Nicotera; esteri, A. di Rudinì; grazia, giustizia e culti, L. Ferraris (dimissionario il 31 dicembre 1891), B. Chimirri; finanze, G. Colombo (dimissionario il 4 maggio 1892), L. Luzzatti ad interim; tesoro, L. Luzzatti; guerra, L. Pelloux; agricoltura, industria e commercio, B. Chimirri, A. di Rudinì ad interim.
15 maggio 1892 - 28 novembre 1893 Presidente G. Giolitti; interno, G. Giolitti; esteri, B. Brin; grazia, giustizia e culti, T. Bonacci (dimissionario il 24 maggio 1893), L. Eula (m. il 5 luglio 1893), F. Santamaria-Nicolini (dimissionario il 27 settembre 1893), G. Armò; finanze, V. Ellena (dimissionario il 7 luglio 1892), B. Grimaldi ad interim, L. Gagliardo; tesoro, G. Giolitti ad interim, B. Grimaldi; guerra, L. Pelloux; agricoltura, industria e commercio, P. Lacava.
15 dicembre 1893 - 14 giugno 1894 Presidente F. Crispi; interno, F. Crispi; esteri, A. Blanc; grazia, giustizia e culti, V. Calenda di Tavani; finanze, S. Sonnino; tesoro, S. Sonnino ad interim; guerra, S. Mocenni; agricoltura, industria e commercio, P. Boselli.
14 giugno 1894 - 5 marzo 1896 Presidente F. Crispi; interno, F. Crispi; esteri, A. Blanc; grazia, giustizia e culti, V. Calenda di Tavani; finanze, P. Boselli; tesoro, S. Sonnino; guerra, S. Mocenni; agricoltura, industria e commercio, A. Barazzuoli.
10 marzo 1896 - 11 luglio 1896 Presidente A. di Rudinì; interno, A. di Rudinì; esteri, O. Caetani; grazia, giustizia e culti, G.G. Costa; finanze, A. Branca; tesoro, G. Colombo; guerra, C. Ricotti; agricoltura, industria e commercio, F. Guicciardini.
11 luglio 1896 - 14 dicembre 1897 Presidente A. di Rudinì; interno, A. di Rudinì; esteri, E. Visconti-Venosta; grazia, giustizia e culti, G.G. Costa (morto il 15 agosto 1897), A. di Rudinì ad interim, E. Gianturco; finanze, A. Branca; tesoro, L. Luzzatti; guerra, L. Pelloux; agricoltura, industria e commercio, F. Guicciardini.
14 dicembre 1897 - 1° giugno 1898 Presidente A. di Rudinì; interno, A. di Rudinì; esteri, E. Visconti-Venosta; grazia, giustizia e culti, G. Zanardelli; finanze, A. Branca; tesoro, L. Luzzatti; guerra, A. San Marzano; agricoltura, industria e commercio, F. Cocco-Ortu.
1° giugno 1898 - 26 giugno 1898 Presidente A. di Rudinì; interno, A. di Rudinì; esteri, R. Cappelli; grazia, giustizia e culti, T. Bonacci; finanze, A. Branca; tesoro, L. Luzzatti; guerra, A. San Marzano; agricoltura, industria e commercio, A. di Rudinì ad interim.
29 giugno 1898 - 14 maggio 1899 Presidente L. Pelloux; interno, L. Pelloux; esteri, F. Canevaro; grazia, giustizia e culti, C. Finocchiaro-Aprile; finanze, P. Carcano; tesoro, P. Vacchelli; guerra, A. San Marzano; agricoltura, industria e commercio, A. Fortis.
14 maggio 1899 - 24 giugno 1900 Presidente L. Pelloux; interno, L. Pelloux; esteri, E. Visconti-Venosta; grazia, giustizia e culti, A. Bonasi; finanze, P. Carmine; tesoro, P. Boselli; guerra, G. Mirri (dimissionario il 7 gennaio 1900), L. Pelloux ad interim, C. Ponza di San Martino; agricoltura, industria e commercio, A. Salandra.
24 giugno 1900 - 14 febbraio 1901 Presidente G. Saracco; interno, G. Saracco; esteri, E. Visconti-Venosta; grazia, giustizia e culti, E. Gianturco; finanze, B. Chimirri; tesoro, G. Rubini, B. Chimirri ad interim, G. Finali; guerra, C. Ponza di San Martino; agricoltura, industria e commercio, P. Carcano.
15 febbraio 1901 - 29 ottobre 1903 Presidente G. Zanardelli; interno, G. Giolitti (dimissionario il 21 giugno 1903), G. Zanardelli ad interim; esteri, G. Prinetti, E.C. Morin (ad interim dal 9 febbraio e titolare dal 22 aprile 1903); grazia, giustizia e culti, F. Cocco-Ortu; finanze, L. Wollemborg (dimissionario il 3 agosto 1901), P. Carcano; tesoro, E. Di Broglio; guerra, C. Ponza di San Martino (dimissionario il 27 aprile 1902), E.C. Morin ad interim, G. Ottolenghi; agricoltura, industria e commercio, S. Picardi (dimissionario il 18 aprile 1901), G. Zanardelli ad interim, G. Baccelli (4 agosto 1901).
3 novembre 1903 - 12 marzo 1905 Presidente G. Giolitti; interno, G. Giolitti; esteri, T. Tittoni; grazia, giustizia e culti, S. Ronchetti; finanze, P. Rosano (morto il 9 novembre 1903), L. Luzzatti ad interim, A. Majorana; tesoro, L. Luzzatti; guerra, E. Pedotti; agricoltura, industria e commercio, L. Rava.
16 marzo 1905 - 27 marzo 1905 Presidente T. Tittoni ad interim; interno, T. Tittoni ad interim; esteri, T. Tittoni; grazia, giustizia e culti, S. Ronchetti; finanze, A. Majorana; tesoro, L. Luzzatti; guerra, E. Pedotti; agricoltura, industria e commercio, L. Rava.
28 marzo 1905 - 22 dicembre 1905 Presidente A. Fortis; interno, A. Fortis; esteri, T. Tittoni; grazia, giustizia e culti, C. Finocchiaro-Aprile; finanze, A. Majorana; tesoro, P. Carcano; guerra, E. Pedotti; agricoltura, industria e commercio, L. Rava.
24 dicembre 1905 - 8 febbraio 1906 Presidente A. Fortis; interno, A. Fortis; esteri, A. San Giuliano; grazia, giustizia e culti, C. Finocchiaro-Aprile; finanze, P. Vacchelli; tesoro, P. Carcano; guerra, L. Majnoni d’Intignano; agricoltura, industria e commercio, A. Fortis ad interim, N. Malvezzi de’ Medici.
8 febbraio 1906 - 27 maggio 1906 Presidente S. Sonnino; interno, S. Sonnino; esteri, F. Guicciardini; grazia, giustizia e culti, E. Sacchi; finanze, A. Salandra; tesoro, L. Luzzatti; guerra, L. Majnoni d’Intignano; agricoltura, industria e commercio, E. Pantano.
29 maggio 1906 - 10 dicembre 1909 Presidente G. Giolitti; interno, G. Giolitti; esteri, T. Tittoni; grazia, giustizia e culti, N. Gallo (morto il 7 marzo 1907), V.E. Orlando; finanze, F. Massimini (dimissionario il 24 marzo 1907), A. Majorana (ad interim 24 marzo - 19 aprile 1907), P. Lacava; tesoro, A. Majorana (dimissionario il 17 maggio 1907), P. Carcano; guerra, E. Viganò (dimissionario il 29 dicembre 1907), S. Casana (dimissionario il 4 aprile 1909), P. Spingardi; agricoltura, industria e commercio, F. Cocco-Ortu.
11 dicembre 1909 - 31 marzo 1910 Presidente S. Sonnino; interno, S. Sonnino; esteri, F. Guicciardini; grazia, giustizia e culti, V. Scialoja; finanze, E. Arlotta; tesoro, A. Salandra; guerra, P. Spingardi; agricoltura, industria e commercio, L. Luzzatti.
31 marzo 1910 - 2 marzo 1911 Presidente L. Luzzatti; interno, L. Luzzatti; esteri, A. San Giuliano; grazia, giustizia e culti, C. Fani; finanze, L. Facta; tesoro, F. Tedesco; guerra, P. Spingardi; agricoltura, industria e commercio, G. Raineri.
30 marzo 1911 - 19 marzo 1914 Presidente G. Giolitti; interno, G. Giolitti; esteri, A. San Giuliano; colonie (istituito il 6 luglio 1912), P. Bertolini; grazia, giustizia e culti, C. Finocchiaro-Aprile; finanze, L. Facta; tesoro, F. Tedesco; guerra, P. Spingardi; agricoltura, industria e commercio, F.S. Nitti.
21 marzo 1914 - 5 novembre 1914 Presidente A. Salandra; interno, A. Salandra; esteri, A. San Giuliano (morto il 16 ottobre 1914), A. Salandra ad interim; grazia, giustizia e culti, L. Dari; finanze, L. Rava; tesoro, G. Rubini; guerra, D. Grandi (dimissionario l’11 ottobre 1914), V. Zupelli; agricoltura, industria e commercio, G. Cavasola.
5 novembre 1914 - 18 giugno 1916 Presidente A. Salandra; interno, A. Salandra; esteri, S. Sonnino; grazia, giustizia e culti, V.E. Orlando; finanze, E. Daneo; tesoro, P. Carcano; guerra, V. Zupelli (dimissionario il 4 aprile 1916), P. Morrone; agricoltura, industria e commercio, G. Cavasola.
18 giugno 1916 - 29 ottobre 1917 Presidente P. Boselli; interno, V.E. Orlando; esteri, S. Sonnino; grazia, giustizia e culti, E. Sacchi; finanze, F. Meda; tesoro, P. Carcano; guerra, P. Morrone (dimissionario il 15 giugno 1917), G. Giardino; industria, commercio e lavoro (istituito il 22 giugno 1916), G. De Nava.
29 ottobre 1917 - 23 giugno 1919 Presidente V.E. Orlando; vicepresidente T. Villa (18 gennaio - 18 giugno 1919), G. Colosimo (9 marzo 1919); interno, V.E. Orlando, T. Villa ad interim, G. Colosimo ad interim; esteri, S. Sonnino; grazia, giustizia e culti, E. Sacchi (dimissionario il 17 gennaio 1919), L. Facta; finanze, F. Meda; tesoro, F.S. Nitti (dimissionario il 17 gennaio 1919), B. Stringher; guerra, V. Alfieri (dimissionario il 20 marzo 1918), V. Zupelli (dimissionario il 17 gennaio 1919), E. Caviglia; industria, commercio e lavoro, A. Ciuffelli.
23 giugno 1919 - 21 maggio 1920 Presidente F.S. Nitti; interno, F.S. Nitti; esteri, T. Tittoni (dimissionario il 25 novembre 1919), V. Scialoja; grazia, giustizia e culti (dal 16 novembre 1919 giustizia e affari di culto), L. Mortara; finanze, F. Tedesco (dimissionario il 13 marzo 1920), C. Schanzer; tesoro, C. Schanzer (dimissionario il 13 marzo 1920), F. Tedeschi ad interim (dal 21 luglio 1919 per l’assenza di Schanzer), L. Luzzatti; guerra, G. Sechi ad interim, A. Albricci (dimissionario il 13 marzo 1920), I. Bonomi; industria, commercio e lavoro, D. Ferraris.
21 maggio 1920 - 15 giugno 1920 Presidente F.S. Nitti; interno, F.S. Nitti; esteri, V. Scialoja; giustizia e affari di culto, A. Falcioni; finanze, G. De Nava; tesoro, C. Schanzer; guerra, G. Rodinò; industria, commercio e lavoro (dal 3 giugno 1920 industria e commercio), M. Abbiate (dimissionario il 2 giugno 1920), G. De Nava ad interim.
15 giugno 1920 - 4 luglio 1921 Presidente G. Giolitti; interno, G. Giolitti; esteri, C. Sforza; giustizia e affari di culto, L. Fera; finanze, F. Tedesco (dimissionario il 10 agosto 1920), L. Facta; tesoro, F. Meda (dimissionario il 2 aprile 1921), I. Bonomi; guerra, I. Bonomi, G. Rodinò (dal 2 aprile 1921); industria e commercio, G. Alessio.
4 luglio 1921 - 26 febbraio 1922 Presidente I. Bonomi; interno, I. Bonomi; esteri, I. Bonomi ad interim, P. Tomasi della Torretta; giustizia e affari di culto, G. Rodinò; finanze, M. Soleri; tesoro, G. De Nava; guerra, L. Gasparotto; industria e commercio, B. Belotti.
26 febbraio 1922 - 1° agosto 1922 Presidente L. Facta; interno, L. Facta; esteri, C. Schanzer; giustizia e affari di culto, L. Rossi; finanze, G.B. Bertone; tesoro, C. Peano; guerra, P. Lanza di Scalea; industria e commercio, T. Rossi.
1° agosto 1922 - 31 ottobre 1922 Presidente L. Facta; interno, P. Taddei; esteri, C. Schanzer; giustizia e affari di culto, G. Alessio; finanze, G.B. Bertone; tesoro, G. Paratore; guerra, M. Soleri; industria e commercio, T. Rossi.
31 ottobre 1922 - 25 luglio 1943 Presidente (dal 24 dicembre 1925 capo del governo, primo ministro, segretario di Stato) B. Mussolini; esteri, B. Mussolini ad interim, B. Mussolini (17 giugno 1924 - 12 settembre 1929), D. Grandi (12 settembre 1929 - 20 luglio 1932), B. Mussolini ad interim, G. Ciano (11 giugno 1936 - 5 febbraio 1943), B. Mussolini; interno, B. Mussolini ad interim, L. Federzoni (17 giugno 1924 - 6 novembre 1926), B. Mussolini; giustizia e affari di culto (dal 20 luglio 1932 grazia e giustizia), A. Oviglio (dimissionario il 5 gennaio 1925), A. Rocco (dimissionario il 20 luglio 1932), P. De Francisci (dimissionario il 24 gennaio 1935), A. Solmi (dimissionario il 12 luglio 1939), D. Grandi (12 luglio 1939 - 5 febbraio 1943), A. De Marsico; finanze, A. De Stefani (dimissionario il 10 luglio 1925), G. Volpi (dimissionario il 9 luglio 1928), A. Mosconi (dimissionario il 20 luglio 1932), G. Jung (dimissionario il 24 gennaio 1935), P. Thaon di Revel junior (24 gennaio 1935 - 5 febbraio 1943), G. Acerbo; tesoro (fuso dal 31 dicembre 1922 con il ministero delle Finanze), V. Tangorra (dimissionario il 21 dicembre 1922), A. De Stefani ad interim (21-31 dicembre 1922); guerra, A. Diaz (dimissionario il 30 aprile 1924), A. Di Giorgio (dimissionario il 4 aprile 1925), B. Mussolini ad interim, B. Mussolini (3 gennaio 1926 - 12 settembre 1929), P. Gazzera (12 settembre 1929 - 22 luglio 1933), B. Mussolini; industria e commercio (soppresso il 5 luglio 1923), T. Rossi; economia nazionale (istituito il 5 luglio 1923 in sostituzione dei precedenti ministeri dell’Agricoltura, dell’Industria e commercio e del Lavoro e previdenza sociale, soppresso il 12 settembre 1929), M.O. Corbino (dimissionario il 1° luglio 1924), C. Nava (dimissionario il 10 luglio 1925), G. Belluzzo (fino al 9 luglio 1928), A. Martelli (dimissionario il 12 settembre 1929); agricoltura e foreste (istituito il 12 settembre 1929 in sostituzione del precedente ministero dell’Economia nazionale), G. Acerbo (12 settembre 1929 - 24 gennaio 1935), E. Rossoni (24 gennaio 1935 - 1° novembre 1939), G. Tassinari (1° novembre 1939 - 13 giugno 1942), C. Pareschi; corporazioni (istituito il 2 luglio 1926), B. Mussolini (2 luglio 1926 - 12 settembre 1929), G. Bottai (dimissionario il 20 luglio 1932), B. Mussolini (20 luglio 1932 - 11 giugno 1936), F. Lantini (11 giugno 1936 - 1° novembre 1939), R. Ricci (1° novembre 1939 - 5 febbraio 1943), C. Tiengo (5 febbraio 1943 - 17 aprile 1943), T. Cianetti; scambi e valute (istituito il 20 novembre 1937), F. Guarneri (20 novembre 1937 - 1° novembre 1939), R. Riccardi (1° novembre 1939 - 5 febbraio 1943), O. Bonomi.
23 settembre 1943 - 25 aprile 1945 Primo ministro, con funzioni di capo dello Stato, B. Mussolini; interno, G. Buffarini Guidi (fino al 21 febbraio 1945), P. Zerbino; esteri, B. Mussolini; difesa, R. Graziani; giustizia, A. Tringali-Casanova (morto il 2 novembre 1943), P. Pisenti (dall’8 novembre 1943); finanze, D. Pellegrini-Giampietro; economia corporativa, S. Gay (fino al 31 dicembre 1943), A. Tarchi.
25 luglio 1943 - 11 febbraio 1944 Presidente P. Badoglio; interno, B. Fornaciari (fino al 10 agosto 1943), U. Ricci; esteri, R. Guariglia; giustizia, G. Azzariti; finanze, D. Bartolini; guerra, A. Sorice; industria, commercio e lavoro, L. Piccardi (fino al 16 novembre 1943). Dopo l’armistizio, dal 16 settembre 1943 i ministeri i cui titolari non avevano potuto raggiungere Brindisi furono retti da sottosegretari: interno, V. Reale; giustizia, G. De Sanctis; finanze, G. Jung; guerra, T. Orlando; industria, commercio e lavoro, E. Corbino.
11 febbraio 1944 - 17 aprile 1944 Capo del governo P. Badoglio; interno, V. Reale; esteri, P. Badoglio; finanze, G. Jung; giustizia, E. Casati; guerra, T. Orlando; industria, commercio e lavoro, E. Corbino.
22 aprile 1944 - 10 giugno 1944 Presidente P. Badoglio; interno, S. Aldisio; esteri, P. Badoglio; grazia e giustizia, V. Arangio-Ruiz; finanze, Q. Quintieri; guerra, T. Orlando; industria, commercio e lavoro, A. Di Napoli.
18 giugno 1944 - 10 dicembre 1944 Presidente I. Bonomi; interno, esteri (dal 20 luglio 1944) e Africa italiana, I. Bonomi ad interim; grazia e giustizia, U. Tupini; finanze, S. Siglienti; tesoro (ricostituito con d. legisl. lgt. 154/22 giugno 1944), M. Soleri; guerra, A. Casati; industria, commercio e lavoro, G. Gronchi.
12 dicembre 1944 - 19 giugno 1945 Presidente I. Bonomi; interno, I. Bonomi; vicepresidenti U. Rodinò e P. Togliatti; esteri, A. De Gasperi; grazia e giustizia, U. Tupini; finanze, A.M. Pesenti; tesoro, M. Soleri; guerra, A. Casati; industria, commercio e lavoro, G. Gronchi.
19 giugno 1945 - 11 dicembre 1945 Presidente F. Parri; vicepresidente M. Brosio (con incarico della Consulta nazionale e poi, dal 17 agosto 1945, ministro alla Consulta nazionale), P. Nenni (incaricato per la Costituente e quindi, dal 17 agosto 1945, ministro alla Costituente); interno, F. Parri; esteri, A. De Gasperi; grazia e giustizia, P. Togliatti; finanze, M. Scoccimarro; tesoro, M. Soleri (m. il 22 luglio 1945), F. Ricci (dal 31 luglio 1945); guerra, S. Jacini; industria e commercio (istituito il 21 giugno 1945 per scissione del precedente ministero dell’Industria, commercio e lavoro), G. Gronchi.
11 dicembre 1945 - 15 luglio 1946 Presidente A. De Gasperi; interno, G. Romita; esteri, A. De Gasperi; vicepresidente e ministro per la Costituente, P. Nenni; grazia e giustizia, P. Togliatti; finanze, M. Scoccimarro; tesoro, E. Corbino; guerra, M. Brosio; industria e commercio, G. Gronchi.
15 luglio 1946 - 3 febbraio 1947 Presidente A. De Gasperi; interno, A. De Gasperi; esteri, A. De Gasperi ad interim, P. Nenni; grazia e giustizia, F. Gullo; finanze, M. Scoccimarro; tesoro, E. Corbino (fino al 18 settembre 1946), G.B. Bertone; guerra, C. Facchinetti; industria e commercio, R. Morandi.
3 febbraio 1947 - 31 maggio 1947 Presidente A. De Gasperi; interno, M. Scelba; esteri, C. Sforza; grazia e giustizia, F. Gullo; finanze e tesoro, P. Campilli; difesa (istituito il 4 febbraio 1947 in sostituzione dei ministeri della Guerra, della Marina militare e dell’Aeronautica militare), L. Gasparotto; industria e commercio, R. Morandi.
31 maggio 1947 - 15 dicembre 1947 Presidente A. De Gasperi; vicepresidente e bilancio, L. Einaudi; interno, M. Scelba; esteri, C. Sforza; grazia e giustizia, G. Grassi; finanze, G. Pella; tesoro, G. Del Vecchio; difesa, M. Cingolani; industria e commercio, G. Togni.
15 dicembre 1947 - 23 maggio 1948 Presidente A. De Gasperi; vicepresidente e bilancio, L. Einaudi; vicepresidenti senza portafoglio G. Saragat, R. Pacciardi; interno, M. Scelba; esteri, C. Sforza; grazia e giustizia, G. Grassi; finanze, G. Pella; tesoro, G. Del Vecchio; difesa, C. Facchinetti; industria e commercio, R. Tremelloni.
24 maggio 1948 - 23 maggio 1949 Presidente A. De Gasperi; vicepresidente e marina mercantile, G. Saragat; vicepresidente, A. Piccioni; interno, M. Scelba; esteri, C. Sforza; grazia e giustizia, G. Grassi; finanze, E. Vanoni; tesoro, G. Pella; bilancio, G. Pella ad interim; difesa, R. Pacciardi; industria e commercio, I.M. Lombardo.
23 maggio 1949 - 14 gennaio 1950 Presidente A. De Gasperi; vicepresidente e marina mercantile, G. Saragat (dimissionario il 7 novembre 1949); vicepresidenti senza portafoglio A. Piccioni, G. Porzio; interno, M. Scelba; esteri, C. Sforza; grazia e giustizia, G. Grassi (m. il 25 gennaio 1950); finanze, E. Vanoni; tesoro, G. Pella; bilancio, G. Pella ad interim; difesa, R. Pacciardi; industria e commercio, I.M. Lombardo (dimissionario il 7 novembre 1949), G.B. Bertone ad interim (dal 7 novembre 1949).
27 gennaio 1950 - 19 luglio 1951 Presidente A. De Gasperi; interno, M. Scelba; esteri, C. Sforza; grazia e giustizia, A. Piccioni; finanze, E. Vanoni; tesoro, G. Pella; bilancio, G. Pella ad interim; difesa, R. Pacciardi; industria e commercio, G. Togni.
26 luglio 1951 - 7 luglio 1953 Presidente A. De Gasperi; vicepresidente A. Piccioni; interno, M. Scelba, G. Spataro (dall’11 luglio al 18 settembre 1952, durante la malattia di Scelba); esteri, A. De Gasperi; grazia e giustizia, A. Zoli; bilancio, G. Pella; finanze, E. Vanoni; tesoro, E. Vanoni ad interim (fino al 2 febbraio 1952), G. Pella ad interim; difesa, R. Pacciardi; industria e commercio, P. Campilli.
16 luglio 1953 - 2 agosto 1953 Presidente A. De Gasperi; vicepresidente A. Piccioni; interno, A. Fanfani; esteri, A. De Gasperi; grazia e giustizia, G. Gonella; bilancio, G. Pella; tesoro, G. Pella ad interim; finanze, E. Vanoni; difesa, G. Codacci Pisanelli; industria e commercio, S. Gava.
17 agosto 1953 - 12 gennaio 1954 Presidente G. Pella; interno, A. Fanfani; esteri, G. Pella; grazia e giustizia, A. Azara; bilancio, G. Pella; finanze, E. Vanoni; tesoro, S. Gava; difesa, P.E. Taviani; industria e commercio, P. Malvestiti.
18 gennaio 1954 - 8 febbraio 1954 Presidente A. Fanfani; interno, G. Andreotti; esteri, A. Piccioni; grazia e giustizia, M. De Pietro; bilancio, E. Vanoni; finanze, A. Zoli; tesoro, S. Gava; difesa, P.E. Taviani; industria e commercio, S. Aldisio.
10 febbraio 1954 - 2 luglio 1955 Presidente M. Scelba; vicepresidente G. Saragat; interno, M. Scelba; esteri, A. Piccioni (dimissionario il 19 settembre 1954), G. Martino; grazia e giustizia, M. De Pietro; bilancio, E. Vanoni; finanze, R. Tremelloni; tesoro, S. Gava; difesa, P.E. Taviani; industria e commercio, B. Villabruna.
6 luglio 1955 - 15 maggio 1957 Presidente A. Segni; vicepresidente G. Saragat; interno, F. Tambroni; esteri, G. Martino; grazia e giustizia, A. Moro; bilancio, E. Vanoni (m. il 16 febbraio 1956), A. Zoli; finanze, G. Andreotti; tesoro, S. Gava (dimissionario il 30 gennaio 1956), E. Vanoni ad interim, G. Medici; difesa, P.E. Taviani; industria e commercio, G. Cortese.
19 maggio 1957 - 1° luglio 1958 Presidente A. Zoli; vicepresidente ed esteri, G. Pella; interno, F. Tambroni; grazia e giustizia (e coordinamento costituzionale), G. Gonella; finanze, G. Andreotti; tesoro, G. Medici; difesa, P.E. Taviani; industria e commercio, S. Gava.
1° luglio 1958 - 15 febbraio 1959 Presidente A. Fanfani; vicepresidente e difesa, A. Segni; interno, F. Tambroni; esteri, A. Fanfani; grazia e giustizia, G. Gonella; bilancio, G. Medici; finanze, L. Preti; tesoro, G. Andreotti; industria e commercio, G. Bo.
15 febbraio 1959 - 25 marzo 1960 Presidente e interno, A. Segni; esteri, G. Pella; grazia e giustizia, G. Gonella; bilancio, F. Tambroni; finanze, P.E. Taviani; tesoro, F. Tambroni ad interim; difesa, G. Andreotti; industria e commercio, E. Colombo.
25 marzo 1960 - 26 luglio 1960 Presidente F. Tambroni; interno, G. Spataro; esteri, A. Segni; grazia e giustizia, G. Gonella; bilancio, F. Tambroni; finanze, G. Trabucchi; tesoro, P.E. Taviani; difesa, G. Andreotti; industria e commercio, E. Colombo.
26 luglio 1960 - 21 febbraio 1962 Presidente A. Fanfani; vicepresidente A. Piccioni; interno, M. Scelba; esteri, A. Segni; grazia e giustizia, G. Gonella; bilancio, G. Pella; finanze, G. Trabucchi; tesoro, P.E. Taviani; difesa, G. Andreotti; industria e commercio, E. Colombo.
21 febbraio 1962 - 21 giugno 1963 Presidente A. Fanfani; vicepresidente A. Piccioni (fino al 29 maggio 1962); interno, P.E. Taviani; esteri, A. Segni, A. Piccioni (dal 29 maggio 1962); grazia e giustizia, G. Bosco; bilancio, U. La Malfa; finanze, G. Trabucchi; tesoro, R. Tremelloni; difesa, G. Andreotti; industria e commercio, E. Colombo.
21 giugno 1963 - 4 dicembre 1963 Presidente G. Leone; vicepresidente ed esteri, A. Piccioni; interno, M. Rumor; grazia e giustizia, G. Bosco; bilancio, G. Medici; finanze, M. Martinelli; tesoro, E. Colombo; difesa, G. Andreotti; industria e commercio, G. Togni.
4 dicembre 1963 - 22 luglio 1964 Presidente A. Moro; vicepresidente P. Nenni; interno, P.E. Taviani; esteri, G. Saragat; grazia e giustizia, O. Reale; bilancio, A. Giolitti; finanze, R. Tremelloni; tesoro, E. Colombo; difesa, G. Andreotti; industria e commercio, G. Medici.
22 luglio 1964 - 23 febbraio 1966 Presidente A. Moro; vicepresidente P. Nenni; interno, P.E. Taviani; esteri, G. Saragat (fino al 28 dicembre 1964), A. Moro ad interim, A. Fanfani (5 marzo - 28 dicembre 1965), A. Moro ad interim; grazia e giustizia, O. Reale; bilancio, G. Pieraccini; finanze, R. Tremelloni; tesoro, E. Colombo; difesa, G. Andreotti; industria e commercio, G. Medici, E. Lami Starnuti (dal 5 marzo 1965).
23 febbraio 1966 - 24 giugno 1968 Presidente A. Moro; vicepresidente P. Nenni; interno, P.E. Taviani; esteri, A. Fanfani; grazia e giustizia, O. Reale; bilancio, G. Pieraccini; finanze, L. Preti; tesoro, E. Colombo; difesa, R. Tremelloni; industria e commercio, G. Andreotti.
24 giugno 1968 - 13 dicembre 1968 Presidente G. Leone; interno, F. Restivo; esteri, G. Medici; grazia e giustizia, G. Gonella; finanze, M. Ferrari Aggradi; tesoro e bilancio e programmazione economica, E. Colombo ad interim; difesa, L. Gui; industria e commercio, G. Andreotti.
13 dicembre 1968 - 5 agosto 1969 Presidente M. Rumor; vicepresidente F. De Martino; interno, F. Restivo; esteri, P. Nenni; grazia e giustizia, S. Gava; bilancio, L. Preti; finanze, O. Reale; tesoro, E. Colombo; difesa, L. Gui; industria e commercio, M. Tanassi.
5 agosto 1969 - 7 febbraio 1970 Presidente M. Rumor; interno, F. Restivo; esteri, A. Moro; grazia e giustizia, S. Gava; bilancio e programmazione economica, G. Caron; finanze, G. Bosco; tesoro, E. Colombo; difesa, L. Gui; industria, commercio e artigianato, D. Magrì.
27 marzo 1970 - 5 agosto 1970 Presidente M. Rumor; vicepresidente F. De Martino; interno, F. Restivo; esteri, A. Moro; grazia e giustizia, O. Reale; bilancio e programmazione economica, A. Giolitti; finanze, L. Preti; tesoro, E. Colombo; difesa, M. Tanassi; industria, commercio e artigianato, S. Gava.
6 agosto 1970 - 17 febbraio 1972 Presidente E. Colombo; vicepresidente F. De Martino; interno, F. Restivo; esteri, A. Moro; grazia e giustizia, O. Reale (dimissionario il 1° marzo 1971), E. Colombo ad interim; bilancio e programmazione economica, A. Giolitti; finanze, L. Preti; tesoro, M. Ferrari Aggradi; difesa, M. Tanassi; industria, commercio e artigianato, S. Gava.
18 febbraio 1972 - 26 giugno 1972 Presidente G. Andreotti; interno, M. Rumor; esteri, A. Moro; grazia e giustizia, G. Gonella; bilancio e programmazione economica, P.E. Taviani; finanze, G. Pella; tesoro, E. Colombo; difesa, F. Restivo; industria, commercio e artigianato, S. Gava.
26 giugno 1972 - 7 luglio 1973 Presidente G. Andreotti; vicepresidente M. Tanassi; interno, M. Rumor; esteri, G. Medici; grazia e giustizia, G. Gonella; bilancio e programmazione economica (e interventi straordinari nel Mezzogiorno), P.E. Taviani; finanze, A. Valsecchi; tesoro, G. Malagodi; difesa, M. Tanassi; industria, commercio e artigianato, M. Ferri.
7 luglio 1973 - 14 marzo 1974 Presidente M. Rumor; interno, P.E. Taviani; esteri, A. Moro; grazia e giustizia, M. Zagari; bilancio e programmazione economica, A. Giolitti; finanze, E. Colombo; tesoro, U. La Malfa; difesa, M. Tanassi; industria, commercio e artigianato, C. De Mita.
14 marzo 1974 - 23 novembre 1974 Presidente M. Rumor; interno, P.E. Taviani; esteri, A. Moro; grazia e giustizia, M. Zagari; bilancio e programmazione economica, A. Giolitti; finanze, M. Tanassi; tesoro, E. Colombo; difesa, G. Andreotti; industria, commercio e artigianato, C. De Mita.
23 novembre 1974 - 12 febbraio 1976 Presidente A. Moro; vicepresidente U. La Malfa; interno, L. Gui; esteri, M. Rumor; grazia e giustizia, O. Reale; bilancio e programmazione economica (e interventi straordinari nel Mezzogiorno), G. Andreotti; finanze, G. Visentini; tesoro, E. Colombo; difesa, A. Forlani; industria, commercio e artigianato, C. Donat Cattin.
12 febbraio 1976 - 29 luglio 1976 Presidente A. Moro; interno, F. Cossiga; esteri, M. Rumor; grazia e giustizia, F. Bonifacio; bilancio e programmazione economica (e interventi straordinari nel Mezzogiorno), G. Andreotti; finanze, G. Stammati; tesoro, E. Colombo; difesa, A. Forlani; industria, commercio e artigianato, C. Donat Cattin.
29 luglio 1976 - 11 marzo 1978 Presidente G. Andreotti; interno, F. Cossiga; esteri, A. Forlani; grazia e giustizia, F. Bonifacio; bilancio e programmazione economica (e regioni), T. Morlino; finanze, F.M. Pandolfi; tesoro, G. Stammati; difesa, V. Lattanzio, A. Ruffini (dal 18 settembre 1977); industria, commercio e artigianato, C. Donat Cattin.
11 marzo 1978 - 20 marzo 1979 Presidente G. Andreotti; interno, F. Cossiga, V. Rognoni (dal 13 giugno 1978); esteri, A. Forlani; grazia e giustizia, F. Bonifacio; bilancio e programmazione economica (e regioni), T. Morlino; finanze, F.M. Malfatti; tesoro, F.M. Pandolfi; difesa, A. Ruffini; industria, commercio e artigianato, C. Donat Cattin, R. Prodi (dal 25 novembre 1978).
20 marzo 1979 - 4 agosto 1979 Presidente G. Andreotti; vicepresidente U. La Malfa; interno, V. Rognoni; esteri, A. Forlani; grazia e giustizia, T. Morlino; bilancio e programmazione economica, U. La Malfa, B. Visentini (dal 29 marzo 1979); finanze, F.M. Malfatti; tesoro, F.M. Pandolfi; difesa, A. Ruffini; industria, commercio e artigianato, F. Nicolazzi.
4 agosto 1979 - 4 aprile 1980 Presidente F. Cossiga; interno, V. Rognoni; esteri, F.M. Malfatti, A. Ruffini (dal 18 gennaio 1980); grazia e giustizia, T. Morlino; bilancio e programmazione economica (e regioni), B. Andreatta; finanze, F. Reviglio; tesoro, F.M. Pandolfi; difesa, A. Ruffini, A. Sarti (dal 18 gennaio 1980); industria, commercio e artigianato, A. Bisaglia.
4 aprile 1980 - 18 ottobre 1980 Presidente F. Cossiga; interno, V. Rognoni; esteri, E. Colombo; grazia e giustizia, T. Morlino; bilancio e programmazione economica, G. La Malfa; finanze, F. Reviglio; tesoro, F.M. Pandolfi; difesa, L. Lagorio; industria, commercio e artigianato, A. Bisaglia.
18 ottobre 1980 - 28 giugno 1981 Presidente A. Forlani; interno, V. Rognoni; esteri, E. Colombo; grazia e giustizia, A. Sarti, C. Darida (dal 23 maggio 1981); bilancio e programmazione economica, G. La Malfa; finanze, F. Reviglio; tesoro, B. Andreatta; difesa, L. Lagorio; industria, commercio e artigianato, A. Bisaglia, F.M. Pandolfi (dal 20 dicembre 1980).
28 giugno 1981 - 23 agosto 1982 Presidente G. Spadolini; interno, V. Rognoni; esteri, E. Colombo; grazia e giustizia, C. Darida; bilancio e programmazione economica, G. La Malfa; finanze, S. Formica; tesoro, B. Andreatta; difesa, L. Lagorio; industria, commercio e artigianato, G. Marcora.
23 agosto 1982 - 1° dicembre 1982 Presidente G. Spadolini; interno, V. Rognoni; esteri, E. Colombo; grazia e giustizia, C. Darida; bilancio e programmazione economica, G. La Malfa; finanze, S. Formica; tesoro, B. Andreatta; difesa, L. Lagorio; industria, commercio e artigianato, G. Marcora.
1° dicembre 1982 - 4 agosto 1983 Presidente A. Fanfani; interno, V. Rognoni, A. Fanfani ad interim (dal 13 luglio 1983); esteri, E. Colombo; grazia e giustizia, C. Darida; bilancio e programmazione economica, G. Bodrato; finanze, F. Forte; tesoro, G. Goria; difesa, L. Lagorio; industria, commercio e artigianato, F.M. Pandolfi.
4 agosto 1983 - 1° agosto 1986 Presidente B. Craxi; vicepresidente A. Forlani; interno, O.L. Scalfaro; esteri, G. Andreotti; grazia e giustizia, F.M. Martinazzoli; bilancio e programmazione economica, P. Longo, P.L. Romita (dal 31 luglio 1984); finanze, B. Visentini; tesoro, G. Goria; difesa, G. Spadolini; industria, commercio e artigianato, R. Altissimo.
1° agosto 1986 - 17 aprile 1987 Presidente B. Craxi; vicepresidente A. Forlani; interno, O.L. Scalfaro; esteri, G. Andreotti; grazia e giustizia, V. Rognoni; bilancio e programmazione economica, P.L. Romita; finanze, B. Visentini; tesoro, G. Goria; difesa, G. Spadolini; industria, commercio e artigianato, V. Zanone.
17 aprile 1987 - 28 luglio 1987 Presidente A. Fanfani; interno, O.L. Scalfaro; esteri e politiche comunitarie, G. Andreotti; grazia e giustizia, V. Rognoni; bilancio e programmazione economica, G. Goria ad interim; finanze, G. Guarino; tesoro, G. Gioia; difesa, R. Gaspari; industria, commercio e artigianato, F. Piga.
28 luglio 1987 - 13 aprile 1988 Presidente G. Goria; vicepresidente e tesoro G. Amato; interno, A. Fanfani; esteri, G. Andreotti; grazia e giustizia, G. Vassalli; bilancio e programmazione economica, E. Colombo; finanze, A. Gava; difesa, V. Zanone; industria, commercio e artigianato, A. Battaglia.
13 aprile 1988 - 22 luglio 1989 Presidente C. De Mita; vicepresidente G. De Michelis; interno, A. Gava; esteri, G. Andreotti; grazia e giustizia, G. Vassalli; bilancio e programmazione economica, A. Fanfani; finanze, E. Colombo; tesoro, G. Amato; difesa, V. Zanone; industria, commercio e artigianato, A. Battaglia.
22 luglio 1989 - 12 aprile 1991 Presidente G. Andreotti; vicepresidente C. Martelli; interno, A. Gava; esteri, G. De Michelis; grazia e giustizia, G. Vassalli; bilancio e programmazione economica, P. Cirino Pomicino; finanze, S. Formica; tesoro, G. Carli; difesa, F.M. Martinazzoli; industria, commercio e artigianato, A. Battaglia.
12 aprile 1991 - 28 giugno 1992 Presidente G. Andreotti; vicepresidente C. Martelli; interno, V. Scotti; esteri, G. De Michelis; grazia e giustizia, C. Martelli; bilancio e programmazione economica, P. Cirino Pomicino; finanze, S. Formica; tesoro, G. Carli; difesa, V. Rognoni; industria, commercio e artigianato, G. Bodrato.
28 giugno 1992 - 29 aprile 1993 Presidente G. Amato; interno, N. Mancino; esteri, V. Scotti, E. Colombo (dal 1° agosto 1992); grazia e giustizia, C. Martelli, G. Conso (dall’11 febbraio 1993); bilancio e programmazione economica (e interventi straordinari nel Mezzogiorno), F. Reviglio, B. Andreatta (dal 21 febbraio 1993); finanze, G. Goria, F. Reviglio (dal 21 febbraio 1993), G. Amato ad interim (dal 31 marzo 1993); tesoro e funzione pubblica, P. Barucci; difesa, S. Andò; industria, commercio e artigianato, G. Guarino.
29 aprile 1993 - 11 maggio 1994 Presidente C.A. Ciampi; interno, N. Mancino; esteri, B. Andreatta; grazia e giustizia, G. Conso; bilancio, L. Spaventa; finanze, V. Visco, F. Gallo (dal 5 maggio 1993); tesoro, P. Barucci; difesa, F. Fabbri; industria, commercio e artigianato (e riordino partecipazioni statali), P. Savona.
11 maggio 1994 - 17 gennaio 1995 Presidente S. Berlusconi; vicepresidenti G. Tatarella, R. Maroni; interno, R. Maroni; esteri, A. Martino; grazia e giustizia, A. Biondi; bilancio e programmazione economica, G. Pagliarini; finanze, G. Tremonti; tesoro, L. Dini; difesa, C. Previti; industria, V. Gnutti.
17 gennaio 1995 - 17 maggio 1996 Presidente L. Dini; interno, A. Brancaccio (dimissionario l’8 giugno 1995), G.R. Coronas; esteri (con incarico per gli Italiani nel mondo), S. Agnelli; grazia e giustizia, F. Mancuso (destituito il 19 ottobre 1995), L. Dini ad interim; bilancio e programmazione economica (e incarico per le politiche comunitarie), R. Masera; finanze, A. Fantozzi; tesoro, L. Dini; difesa, D. Corcione; industria, commercio e artigianato, A. Clò.
17 maggio 1996 - 21 ottobre 1998 Presidente R. Prodi; vicepresidente W. Veltroni; interno (e incarico per il coordinamento della protezione civile), G. Napolitano; esteri (e incarico per gli Italiani all’estero), L. Dini; grazia e giustizia, G.M. Flick; bilancio e programmazione economica, C.A. Ciampi ad interim; finanze, V. Visco; tesoro, C.A. Ciampi; difesa, B. Andreatta; industria, commercio e artigianato (e incarico per il turismo), P.L. Bersani.
21 ottobre 1998 - 18 dicembre 1999 Presidente M. D’Alema; vicepresidente S. Mattarella; interno (e incarico per il coordinamento della protezione civile), R. Russo Jervolino; esteri (e incarico per gli Italiani all’estero), L. Dini; grazia e giustizia, O. Diliberto; tesoro, bilancio e programmazione economica, C.A. Ciampi (dimissionario il 13 giugno 1999 dopo l’elezione alla presidenza della Repubblica), G. Amato; finanze, V. Visco; difesa, C. Scognamiglio; industria, commercio e artigianato, P.L. Bersani.
22 dicembre 1999 - 20 aprile 2000 Presidente M. D’Alema; interno (e incarico per il coordinamento della protezione civile), E. Bianco; esteri (e incarico per gli Italiani all’estero), L. Dini; grazia e giustizia, O. Diliberto; tesoro, bilancio e programmazione economica, G. Amato; finanze, V. Visco; difesa, S. Mattarella; industria, commercio e artigianato, E. Letta.
20 aprile 2000 - 11 giugno 2001 Presidente G. Amato; interno (e incarico per il coordinamento della protezione civile), E. Bianco; esteri (e incarico per gli Italiani all’estero), L. Dini (dimissionario il 6 giugno 2001), G. Amato ad interim; grazia e giustizia, P. Fassino; bilancio e programmazione economica (e incarico per gli interventi straordinari per il Mezzogiorno), V. Visco; finanze, O. Del Turco; difesa, S. Mattarella; industria, commercio e artigianato, e commercio estero, E. Letta.
11 giugno 2001 - 23 aprile 2005 Presidente S. Berlusconi; vicepresidenti G. Fini, M. Follini (dal 3 dicembre 2004 al 18 aprile 2005); interno, C. Scajola (dimissionario il 3 luglio 2002), G. Pisanu; esteri, R. Ruggiero (dimissionario il 6 gennaio 2002), S. Berlusconi ad interim, F. Frattini (dal 14 novembre 2002 al 18 novembre 2004), G. Fini; giustizia, R. Castelli; difesa, A. Martino; economia e finanze, G. Tremonti (dimissionario il 3 luglio 2004), S. Berlusconi ad interim, D. Siniscalco; attività produttive, A. Marzano.
23 aprile 2005 - 17 maggio 2006 Presidente S. Berlusconi; vicepresidenti G. Fini, G. Tremonti; interno, G. Pisanu; esteri, G. Fini; giustizia, R. Castelli; difesa, A. Martino; economia e finanze, G. Tremonti; attività produttive, C. Scajola.
17 maggio 2006 - 6 maggio 2008 Presidente R. Prodi; vicepresidenti M. D’Alema, F. Rutelli; interno, G. Amato; esteri, M. D’Alema; giustizia, C. Mastella; difesa, A. Parisi; economia e finanze, T. Padoa Schioppa; sviluppo economico, P.L. Bersani.
6 maggio 2008 - 16 novembre 2011 Presidente S. Berlusconi; interno, R. Maroni; esteri, F. Frattini; giustizia, A. Alfano (dimissionario il 27 luglio 2011), F. Nitto Palma; difesa, I. La Russa; economia e finanze, G. Tremonti; sviluppo economico, C. Scajola (dimissionario il 5 maggio 2010), S. Berlusconi ad interim (dal 5 maggio 2010 al 4 ottobre 2010), P. Romani (dal 4 ottobre 2010).
16 novembre 2011 - 28 aprile 2013 Presidente M. Monti; interno, A. M. Cancellieri; esteri, G. Terzi di Sant'Agata (dimissionario il 26 marzo 2013), M. Monti ad interim; giustizia, P. Severino; difesa, G. Di Paola; economia e finanze, M. Monti ad interim (dal 16 novembre 2011 all'11 luglio 2012), V. Grilli (dall'11 luglio 2012); sviluppo economico e infrastrutture, C. Passera.
28 aprile 2013 - 22 febbraio 2014 Presidente E. Letta; vicepresidente A. Alfano; interno, A. Alfano; esteri, E. Bonino; giustizia, A. M. Cancellieri; difesa, M. Mauro; economia e finanze, F. Saccomanni; sviluppo economico, F. Zanonato.
22 febbraio 2014 - 12 dicembre 2016 Presidente M. Renzi; interno, A. Alfano; esteri, F. Mogherini (dal 22 febbraio al 31 ottobre 2014), P. Gentiloni (dal 31 ottobre 2014); giustizia, A. Orlando; difesa, R. Pinotti; economia e finanze, P.C. Padoan; sviluppo economico, F. Guidi (dimissionaria il 31 marzo 2016), M. Renzi ad interim (dal 31 marzo al 10 maggio), C. Calenda (dal 10 maggio 2016).
12 dicembre 2016 - 1° giugno 2018 Presidente P. Gentiloni; interno, M. Minniti; esteri, A. Alfano; giustizia, A. Orlando; difesa, R. Pinotti; economia e finanze, P.C. Padoan; sviluppo economico, C. Calenda.
1° giugno 2018 - 5 settembre 2019 Presidente G. Conte; vicepresidenti L. Di Maio, M. Salvini; interno, M. Salvini; esteri, E. Moavero Milanesi; giustizia, A. Bonafede; difesa, E. Trenta; economia e finanze, G. Tria; sviluppo economico e lavoro, L. Di Maio.
5 settembre 2019 - 13 febbraio 2021 Presidente G. Conte; interno, L. Lamorgese; esteri, L. Di Maio; giustizia, A. Bonafede; difesa, L. Guerini; economia e finanze, R. Gualtieri; sviluppo economico, S. Patuanelli.
13 febbraio 2021 - 22 ottobre 2022 Presidente M. Draghi; interno, L. Lamorgese; esteri, L. Di Maio; giustizia, M. Cartabia; difesa, L. Guerini; economia e finanze, D. Franco; sviluppo economico, G. Giorgetti.
22 ottobre 2022 Presidente G. Meloni; vicepresidenti A. Tajani, M. Salvini; interno, M. Piantedosi; esteri, A. Tajani; giustizia, C. Nordio; difesa, G. Crosetto; economia e finanze, G. Giorgetti; imprese e made in Italy, A. Urso.
In I. si parlano dialetti che rappresentano una diretta continuazione della latinità; per gli usi civili e letterari si adopera l’italiano, lingua che ha origine dal fiorentino trecentesco di Dante, F. Petrarca e G. Boccaccio.
Le differenze tra i confini politici e i confini linguistici non sono rilevanti. L’italiano come lingua culturale e ufficiale è usato, oltre che nella Repubblica di San Marino e nella Città del Vaticano, anche nel Canton Ticino e in tre valli (Mesolcina, Bregaglia, Poschiavo) del Cantone dei Grigioni: di conseguenza, è una delle lingue ufficiali della Confederazione Elvetica. Dialetti italiani sono parlati in Corsica (dialetti corsi; la lingua culturale e amministrativa è il francese) e nelle città dell’Istria (dialetti di tipo veneto, e di un particolare tipo arcaico, l’istriano). A Malta si parla un dialetto arabo, ma l’italiano è stato adoperato per secoli come unica lingua culturale. L’italiano è diffuso nei territori africani già soggetti politicamente all’I., e presso gli emigrati italiani nelle varie parti del mondo. Entro i confini politici si hanno territori alloglotti.
La struttura dell’italiano, in confronto con le altre lingue neolatine o con le lingue di altre famiglie, presenta caratteri tipici. L’italiano normale ha un sistema fonologico in cui le vocali (7 toniche, i, é, è, a, ò, ó, u, e 5 atone, i, é, a, ó, u) sono articolate distintamente; le parole di regola terminano per vocale. Esistono consonanti scempie (semplici) e rafforzate, e gruppi di consonanti. L’accento non ha una sede grammaticalmente determinabile (come invece nelle lingue che lo collocano stabilmente sulla prima, sulla penultima, sull’ultima vocale di ciascuna parola), ma ciascuna parola ha il suo accento in sede fissa. I sostantivi hanno due generi e due numeri. L’italiano ha molti suffissi alterativi (accrescitivi, diminutivi, peggiorativi ecc.) applicabili largamente ai sostantivi e ad alcuni aggettivi e verbi. Grande libertà presenta la collocazione delle parole nella frase. Il lessico è di notevole ricchezza.
Si presentano molto differenti fra loro: la diversità è dovuta in parte alla distribuzione delle stirpi che prima dell’imporsi del latino occupavano i territori della penisola, in parte all’effetto delle invasioni barbariche nell’Alto Medioevo, in parte al particolarismo e alla frammentazione politica che hanno caratterizzato per secoli le vicende italiane. Mentre in Toscana e nella zona contermine dell’Umbria e del Lazio settentrionale non si avverte tra la lingua nazionale e le diverse parlate una contrapposizione, nell’I. settentrionale e meridionale e nelle isole la lingua è limitata nel suo uso dai dialetti locali, tuttora adoperati in situazioni comunicative informali.
I dialetti italiani sono classificati in: dialetti gallo-italici, cioè i dialetti piemontesi, liguri, lombardi, emiliano-romagnoli, così chiamati perché hanno affinità con i dialetti francesi e provenzali, dovute a un comune sostrato linguistico gallico; dialetti veneti, fra i quali dal veneto propriamente detto si distingue il trentino, le cui parlate occidentali presentano caratteristiche lombarde; dialetti toscani, in cui accanto al fiorentino, che ha avuto storicamente una posizione preminente, si distinguono i dialetti occidentali (Lucca, Pisa, Livorno), meridionali (Siena), orientali (Arezzo, Cortona); dialetti corsi (e sardi settentrionali), che hanno risentito sensibilmente dell’influenza toscana, esercitata nel tardo Medioevo; dialetti mediani, cioè i dialetti del Lazio e di uno stretto corridoio nell’Umbria, nelle Marche centrali e meridionali e nell’Abruzzo settentrionale, che costituiscono un gruppo di transizione fra i dialetti toscani e quelli meridionali; vi rientra il romanesco moderno, che ha soppiantato nel 16° sec. il precedente dialetto di tipo più meridionale; dialetti meridionali, in cui si distinguono un tipo ‘napoletano’ (dialetti laziali meridionali, abruzzesi, campani, lucani, pugliesi settentrionali) e un tipo ‘siciliano’ (dialetti salentini, calabresi, siciliani).
Completano il quadro dell’I. dialettale tre altri gruppi di parlate, di tipo arcaico: le ladine, le sarde e le istriane.
A una lingua nazionale comune si è giunti attraverso un processo plurisecolare. Nell’Alto Medioevo, le varie parlate dovevano essere meno distanti dal latino, ma per altri aspetti ancora più diverse tra loro che non siano oggi. Come lingua comune scritta si adoperava il latino, quale i chierici imparavano nelle scuole. I primi esempi di frasi scritte in lingua volgare sono le formule contenute in quattro documenti del territorio del principato di Capua-Benevento fra il 960 e il 963, riguardanti i beni del monastero di Montecassino e di altri che ne dipendevano. Si tratta di formule già preparate, che i testimoni ripetevano nel testimoniare. Dice la prima: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti»; cioè: «so che quelle terre, entro quei confini di cui si parla qui, le possedette trent’anni il monastero di San Benedetto». Quando si cominciò a mettere per iscritto la lingua parlata, si tese a dirozzarla: si scriveva in un dialetto perché una lingua comune non esisteva, ma eliminandone le peculiarità locali che lo scostavano troppo dal latino e dai dialetti vicini. Nei primi secoli della lingua è quindi relativamente facile individuare l’area approssimativa di provenienza. Dei sec. 11° e 12° rimane un certo numero di testi in volgare provenienti da varie regioni e di diverso carattere (scritti e ricordi privati, sermoni, ritmi, da cui possiamo ricostruire l’esistenza di giullari che vagavano per le piccole corti ecclesiastiche o laiche e vi cantavano rozze composizioni in versi).
Ai primi del Duecento il volgare era largamente adoperato per scopi pratici, ma ormai il Cantico di frate Sole (1224 circa) e le poesie della Scuola siciliana, tecnicamente molto elaborate, aprivano la via del volgare come lingua letteraria. Si ha una conoscenza incerta delle forme linguistiche dei poeti della Scuola siciliana, perché i manoscritti delle loro liriche furono copiati in Toscana, alla fine del 13° sec., e toscanizzati. L’influenza del siciliano illustre si fece sentire non solo sugli imitatori diretti della prima scuola poetica, sui cosiddetti siculo-toscani (Bonagiunta, Guittone ecc.), ma in tutta la tradizione letteraria posteriore.
Un complesso di circostanze – l’importanza politica, lo sviluppo delle sue compagnie commerciali sparse per tutta l’Europa occidentale, la fioritura artistica – diede a Firenze negli ultimi anni del 13° sec. e nella prima metà del 14° una posizione di assoluto privilegio sulle altre città della Toscana e in tutta l’Italia. L’opera di Dante fu d’importanza decisiva per le sorti della lingua italiana; le sue multiformi esperienze d’arte e di tecnica poetica, le meditazioni teoriche ne fecero un precursore e un propulsore: la fama della Commedia si diffuse in tutta l’I. e cominciarono le imitazioni. Nella generazione seguente si divulgarono le opere di F. Petrarca e di G. Boccaccio; i tre autori, così diversi, formarono ben presto una triade ideale, modelli da imitare sul piano stilistico e grammaticale.
L’affermarsi dell’Umanesimo negli ultimi decenni del Trecento e nei primi del Quattrocento sembrò minacciare le sorti del volgare, per il disprezzo con cui i riscopritori dei classici guardavano alla lingua della plebe. Il volgare tuttavia resistette e di nuovo si impose, anche perché il latino diventò, nel Quattrocento e Cinquecento, più puro per i diretti contatti con gli scrittori antichi, ma insieme più rigido e meno adatto del latino medievale a esprimere le nozioni della vita moderna; inoltre insigni umanisti (Poliziano, I. Sannazzaro, P. Bembo ecc.) coltivarono parimenti, in una duplice esperienza, il latino e il volgare. Durante il Cinquecento la fisionomia dell’italiano, molto oscillante nell’I. settentrionale e meridionale, si andò stabilizzando e precisando: grammatiche e vocabolari ne fissarono le norme. Al primo trattatello grammaticale a stampa di G.F. Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua (Ancona 1516), seguirono le più importanti Prose della volgar lingua di P. Bembo (Venezia 1525) e verso la metà del secolo i trattati si moltiplicarono.
Uno degli aspetti dominanti della cultura del Cinquecento è costituito dalle dispute linguistiche (‘questione della lingua’), che si spinsero sino al limite della sottigliezza pretestuosa e della pedanteria: problema tuttavia vitale, per le sorti stesse della letteratura, in un paese privo di unità politica e di uno stabile punto di riferimento culturale. Si distinguono tre correnti: quella arcaicizzante rappresentata da Bembo, che sosteneva l’adozione della lingua di Petrarca e Boccaccio, una scelta puristica basata solo sul fiorentino letterario, e tesi vincente in quanto più vicina ai gusti del classicismo rinascimentale; la corrente ‘cortigiana’ o ‘italiana’ (B. Castiglione, G.G. Trissino), che si ispirava a un ideale di lingua eclettico, composta da elementi tratti dalla lingua parlata nelle varie corti italiane; la posizione ‘fiorentinista’ (N. Machiavelli), che proponeva un modello geograficamente circoscritto, cioè il fiorentino moderno, parlato dai colti, espressivo e mutevole. Il gusto della codificazione e della norma portò, sul piano del lessico, alla compilazione del Vocabolario promosso dall’Accademia della Crusca, pubblicato nel 1612 ma elaborato nel corso del Cinquecento, che fece proprie le istanze di Bembo (scelta di vocaboli preservati nella loro ‘purezza’ dalla tradizione letteraria, non contaminati dall’uso parlato) e arcaicizzante (scelta di vocaboli tratti da autori antichi, con l’esclusione delle innovazioni contemporanee). Se l’I. non poté giungere nel Cinquecento all’unità politica, giunse a una discreta unità culturale; mancò, tuttavia, la possibilità di un atto di politica linguistica che avesse l’efficacia che ebbe in Francia l’ordinanza di Villers-Cotteret (1539), la quale prescriveva l’uso esclusivo del francese in tutti gli atti giudiziari del regno.
Nel Seicento, più rilevanti del virtuosismo stilistico dei marinisti, furono il consolidamento dell’uso e l’inizio di nuove terminologie nel campo delle scienze sperimentali. Nel Settecento l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, e in seguito le campagne napoleoniche e la risistemazione d’I. sotto l’egida francese aprirono le porte all’imitazione d’oltralpe, con notevoli conseguenze sul lessico e sulla sintassi (trionfo dei periodi brevi sulle ampie strutture di tipo boccaccesco), e all’immissione dei francesismi. Ne nacque una reazione dei puristi, di cui antesignano e principale esponente fu A. Cesari, che propugnò il ritorno alla semplicità e purezza dello stile e del vocabolario dei trecentisti. Una diversa via batté A. Manzoni, che realizzò in pratica nei Promessi Sposi e preconizzò in teoria una lingua viva, moderna, unitaria, modellata non più sull’imitazione della lingua scritta dei trecentisti e dei cinquecentisti, ma sull’uso dei Fiorentini colti. Più di qualsiasi discussione teorica, tuttavia, contribuì a consolidare una norma valida per tutta la nazione l’Unità d’Italia.
Per quel che riguarda invece la lingua parlata, in realtà è soltanto nella seconda metà del Novecento che l’italiano si è diffuso largamente, riducendo l’ambito d’uso dei dialetti, attraverso i grandi mezzi di comunicazione della parola (scuola, giornali, radio, televisione, pubblicità), e la necessità di rapporti sempre più frequenti con l’amministrazione, la burocrazia, i partiti politici, mentre nei primi anni del secolo il periodo di vita militare era spesso l’unica occasione, e soltanto per la popolazione maschile, di distacco dall’ambiente dialettale. Sono dunque aumentati coloro che parlano italiano e si sono italianizzati i dialetti, in quanto numerosi soggetti bilingui hanno iniziato a inserire forme e modi italiani anche quando si esprimono in dialetto. Contemporaneamente all’azione dall’alto, se ne è determinata un’altra dal basso, portando, per certi aspetti, a risultati simili. Finché il fenomeno dell’urbanesimo ha mosso verso i grandi centri dalle campagne circostanti relativamente poche persone, l’elemento nuovo ha potuto introdurre alcuni caratteri rustici nel dialetto cittadino, senza metterlo in crisi; quando le grandi città sono state invase da masse crescenti di emigrati provenienti da regioni lontane, l’unica possibilità d’intendersi fra i vecchi e i nuovi cittadini è stata la lingua nazionale, sia pure in versioni più o meno regionalizzate. Di solito, la seconda generazione degli emigrati non parla il dialetto dei genitori e non tende al dialetto locale; i matrimoni misti accelerano il processo. In pochi decenni le capitali regionali italiane, da centri attivi di dialetto, sono divenute centri di diffusione della lingua nazionale. L’uso allargato della lingua comune e il contemporaneo stemperarsi dei dialetti hanno favorito l’affermazione delle varietà regionali dell’italiano, che risultano dall’adozione della lingua comune attraverso una continua mediazione di elementi dialettali. Le varietà regionali fornite di maggior forza espansiva, per ragioni socioculturali, sono il romanesco e il tipo settentrionale (lombardo).
La parte fondamentale dell’italiano è costituita da parole latine che si sono trasmesse ininterrottamente di generazione in generazione. Si possono compilare lunghe liste di vocaboli che sono, salvo pochi mutamenti fonetici, identici in latino e in italiano: homo = uomo, pater = padre, mater = madre, canis = cane, terra = terra, caelum = cielo, calidus = caldo, frigidus = freddo, credere = credere, dormire = dormire ecc. In altri casi la parola italiana non continua quella usata nel latino classico, ma quella predominante in età imperiale. Per esprimere il concetto di ‘bello’ non si mantennero né pulcher né formosus: sopravvisse bellus, che, usato da Plauto a Cicerone nel significato di «carino, simpatico», in età imperiale assunse il significato più generale di ‘bello’. Numerose parole nel passaggio dal latino all’italiano hanno subito uno slittamento semantico (dal latino cubare «giacere» si perviene a covare, da pullus, il ‘piccolo’ di qualsiasi animale, a pollo ecc.); non meno importante è il nuovo colorito dato dal cristianesimo a vaste sezioni del vocabolario: per es., la parola captivus «prigioniero» è giunta al significato attuale di ‘cattivo’ per l’uso che ne avevano fatto alcuni Padri della Chiesa adoperando captivus diaboli nel senso di ‘indemoniato’, quindi ‘cattivo’.
Fondandosi principalmente su questa massa di parole ereditarie e studiando le trasformazioni subite nei suoni, nelle flessioni, nei costrutti passando dal latino al toscano, in particolare al fiorentino, i linguisti hanno costruito la grammatica storica italiana nei vari suoi rami (fonologia, morfologia, sintassi storica). Quando in latino si aveva una ĕ (o una ae) tonica in sillaba libera, questa vocale si presenta di regola dittongata in fiorentino: tĕne[t] = tiene ecc. I gruppi latini pl, bl, fl, cl ecc. si presentano in italiano con l’alterazione della l in i semivocale: plenu[m] = pieno ecc. Quando il toscano appare in piena luce documentaria, nel 13° sec., i mutamenti più caratteristici sono già avvenuti. Altre variazioni avvennero nel corso dei secoli: i dittonghi ie, uo dopo i gruppi pr, br, tr ecc. perdono la i e la u: prieme, truova si riducono a partire dal 15° sec. a preme, trova. Non mancano mutamenti subiti dal fiorentino letterario nell’espandersi fuori dei confini della Toscana.
Oltre all’eredità latina, il lessico italiano conta una quantità di termini di altra provenienza. Un certo numero di parole entrò a far parte del lessico latino come prestito culturale (parole greche come simphonya da cui zampogna, celtiche come carrus, osco-umbre come bufalus) o sopravvisse nei rispettivi territori quando il latino si diffuse in I. e fu accolto da popoli alloglotti (qualche parola dal sostrato mediterraneo, anteriore alla venuta degli Indoeuropei, alcune etrusche, celtiche, osco-umbre).
Un gruppo numeroso di parole latine non si è trasmesso con ininterrotta continuità, ma è stato mutuato dal lessico latino a un certo momento della storia dell’italiano: per es., il latino angustia, trasmesso nel tempo e lentamente trasformato nell’italiano angoscia, è stato successivamente recuperato inalterato, sia nella forma sia nel significato, appunto perché la trasmissione si è interrotta e a un certo momento è stata ravvivata. Molti altri vocaboli italiani sono di latinità adottiva e non ereditaria: vocaboli religiosi e filosofici (anima, spirito, genere, specie), termini scolastici (libro, virgola), del diritto (libero, ufficio, municipio, giureconsulto).
Specialmente dal Cinquecento in poi, l’italiano, al pari delle altre lingue europee e in continuo scambio con esse, ha attinto al latino e al greco per formare molti nuovi termini, politici, scientifici, tecnici, occorrenti per le esigenze della vita moderna, non di rado piegando le parole antiche a nuovi significati; per es., elettrico deriva dal nome greco dell’ambra (ἤλεκτρον), perché i primi fenomeni elettrici si studiarono sull’ambra.
Molti altri termini sono di provenienza germanica, penetrati in parte esigua nella latinità imperiale, in numero maggiore come conseguenza delle invasioni dei Goti, Longobardi, Franchi: vocaboli che si riferiscono alla vita militare (guerra, bega, zuffa), alla casa (stamberga, panca), all’abbigliamento (fodera) ecc. L’influenza della civiltà feudale-cavalleresca portò all’adozione di francesismi: cavaliere, torneo, giostra ecc. Tramite i contatti con la civiltà islamica nel Mediterraneo entrarono parole arabe, alcune direttamente, altre per via dello spagnolo: termini commerciali (fondaco, dogana, sensale), marittimi (ammiraglio), nomi di piante (carciofo, albicocco), di giochi (scacchi), vocaboli riferiti alle scienze coltivate dagli Arabi (algebra, alcali ecc.). L’influenza della Spagna sull’I., specialmente nei sec. 16° e 17°, portò all’adozione di termini militari (rancio, camerata), marittimi (bordo, nostromo) o riferiti alla vita sociale (brio, disinvolto, puntiglio). Molte ripercussioni ebbe nel lessico italiano, per l’importazione di nuovi prodotti, la scoperta dell’America. Da lingue indigene dell’America discendono le parole patata, cioccolato, mais, tabacco; in altri casi si è ricorsi a formazioni nostrane foggiando vocaboli come pomodoro e simili. Nell’età illuministica, per via degli scambi commerciali e culturali, poi per l’occupazione militare e la predominanza politica durante il periodo napoleonico, e ancora durante tutto l’Ottocento, entrarono in I. molti francesismi: nel campo militare plotone, tappa; nella moda giarrettiera, gilè; nella cucina cotoletta, purè, ragù; nella vita pubblica controllare. L’influsso dell’inglese, iniziato a partire dal 18° sec., si è accresciuto nel Novecento, soprattutto nel periodo successivo al secondo dopoguerra, per lo sviluppo dell’industria, del turismo, dei sistemi di comunicazione, dei settori scientifici e tecnologici, e in genere per i contatti sempre più stretti con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Tra i vocaboli inglesi o angloamericani penetrati nell’italiano: nel campo della moda pullover, blue-jeans, casual; nello sport hockey, jogging, windsurf; nella gastronomia roastbeef, hamburger; nell’informatica computer, hardware, software; nei settori dello spettacolo, della pubblicità, dei mezzi di comunicazione di massa cast, slogan, spot, sponsor, network ecc.
Sono stati anche accolti nel lessico vocaboli provenienti da vari dialetti: dalla Liguria, termini per nozioni marinaresche, come darsena, molo, carena; da Venezia arsenale, gazzetta, regata; da Napoli ammainare, alici, pizza; da Roma vocaboli come rione, corso ecc.
Oltre alle parole ereditarie e alle parole assunte da fonti antiche e moderne, l’italiano ha foggiato innumerevoli altri vocaboli con i propri mezzi derivativi. Si è ricorsi ai prefissi (stracotto, ultravioletto), ai suffissi (artista), alle formazioni parasintetiche (con applicazione contemporanea di un prefisso e di un suffisso, per es., incasinare), alla derivazione immediata (congiura tratto senza suffisso da congiurare), a vari tipi di composizione (tagliacarte); un procedimento relativamente nuovo è quello dei prefissoidi (elettrotecnica, motobarca, televisione).
Un’azione rilevante è stata esercitata dall’italiano sulle lingue del bacino orientale del Mediterraneo e sulle lingue colte occidentali. Nel Levante la maggiore influenza si nota nel greco, ma anche il serbocroato, il turco, l’arabo, il maltese, l’ebraico moderno presentano un certo numero di prestiti dovuti alla lunga presenza delle Repubbliche marinare nel Mediterraneo. L’influenza esercitata sul tedesco e, per suo tramite, sulle lingue scandinave è in parte pratica (termini di commercio), in parte si ricollega alle serie di nozioni espresse con termini italiani in tutte le lingue occidentali: voci di belle arti (modello, profilo, busto), di architettura civile e militare (arcata, facciata, casamatta), di vita di corte (cortigiano, favorito), di musica (opera, pianoforte). Si tratta per lo più di voci diffusesi dall’I. nel Rinascimento; successivamente vari altri termini hanno avuto fortuna, come pila, dovuto ad A. Volta.
La letteratura italiana nasce quando si pone come espressione nazionale, intesa a emulare le espressioni di altre nazioni, e in particolare della francese e della provenzale. Non si può perciò parlare di letteratura italiana finché i vari volgari italiani non servono che per i rapporti pratici, dapprima orali e poi anche scritti; e neppure propriamente si può dire che essa sia nata nel 12° sec., quando numerosi documenti di tutta I. attestano che i volgari italiani già in quel secolo servono a fini anche letterari. Quei documenti infatti sono espressione di singoli individui che si avvalgono della propria parlata quotidiana, e non hanno alcuna intenzione di dar voce a una civiltà nazionale. Ancora nel Duecento, quando il latino sembra via via sempre più inadeguato a esprimere le nuove realtà, non pochi scrittori italiani si servono, in verso e in prosa, più o meno correttamente, delle più adulte e diffuse lingue letterarie d’oltralpe, e non già dei volgari italiani: del francese per i romanzi di argomento brettone e per i poemi d’argomento carolingio e classico e persino per la storia (Prophécies de Merlin di maestro Riccardo; Rustichello da Pisa; gli autori dei poemi franco-italiani; la cronaca di Martino da Canale), del provenzale per la lirica (A. Malaspina, R. Buvalelli, L. Cigala, B. Zorzi, Sordello ecc.); o alternano l’uso di un volgare italiano al francese (B. Latini).
È poi da sottolineare un fatto importante: ai suoi albori, la letteratura italiana non è accentrata; vi contribuiscono del pari le regioni padane, le centrali, le meridionali e quella siciliana, e vi hanno diritto di cittadinanza i vari volgari. Questo iniziale decentramento è da tener ben presente, per poter apprezzare storicamente nel suo effettivo valore il successivo accentramento toscano.
La prima età della letteratura italiana può essere compresa tra i primi decenni del 13° sec. e i corrispondenti del 14°: culmina dunque nella figura di Dante, che ne fu anche il primo storico. Si scrive, come già accennato, in latino, in francese o provenzale, e nei vari volgari italiani.
In latino si dettano norme o si offrono modelli grammaticali o retorici (Boncompagno da Signa, G. Fava, Pietro della Vigna ecc.) e si tenta la poesia d’arte nei metri classici, come fanno Arrigo da Settimello, che già nello scorcio del secolo precedente, con la sua Elegia, fornisce a tutta Europa un testo poetico a lungo ammiratissimo, o anche Quilichino da Spoleto e Riccardo da Venosa; ovvero si piega il latino ai ritmi volgari, come fanno gli autori di inni religiosi quali il Pange lingua, il Dies irae, che alcuni peraltro pongono al 12° sec., lo Stabat mater (quest’ultimo assai probabilmente opera di Iacopone da Todi) ecc. Altri narrano in prosa le vicende delle loro città, talora conseguendo notevoli effetti d’arte, come Salimbene da Parma. I più grandi scrittori in latino, per es. i giuristi, i filosofi e teologi, i mistici (Accursio, san Tommaso, san Bonaventura ecc.), esprimono una civiltà che travalica i confini dell’I. e non si propongono fini artistici. Tra il 13° e il 14° sec. fiorisce poi a Padova un cenacolo di intellettuali (letterati, storici, giuristi) che ricerca autori classici e li prende a diretto modello; sì che si può a ragione parlare di un preumanesimo padovano fiorente nell’età di Dante; vi emergono F. de’ Ferreti, L. de’ Lovati e A. Mussato. A sé sta il latino del De vulgari eloquentia e del Monarchia di Dante, nutrito di classicità, ma non vincolato a precisi modelli.
Si infittiscono nel 13° sec. le manifestazioni letterarie in volgare e acquistano ben altra consistenza e importanza rispetto a quelle precedenti; è visibile la tendenza a livellare i dialetti, a eliminare da essi le peculiarità più fortemente idiomatiche. Il processo, che si svolge lungo tutto il 13° sec., ha la sua consacrazione ai primi del 14°, quando Dante, nel De vulgari eloquentia e nel Convivio, vede quasi già in atto e promuove l’adozione di una lingua letteraria comune, diversa dalle altre lingue nazionali pur simili (quelle che ora chiamiamo neolatine) e che non è la lingua parlata in una singola città o regione d’I., ma una superlingua, l’unica a suo avviso legittima, almeno per l’alta letteratura. Il processo di formazione della lingua e della letteratura nazionali ha, con Dante, il suo coronamento anche teorico. Ma è tuttavia da osservare che ai primi del Trecento una lingua letteraria comune si può considerare già formata solo per quel che riguarda la poesia, anzi la sola lirica; la koinè prosastica (e della poesia narrativa) sarà conquistata più tardi. Da ciò la necessità di tener separata, per questa prima età, la storia della poesia da quella della prosa.
Largamente diffusa per tutta l’età, specie nell’I. settentrionale, è la poesia di carattere didattico-allegorico, che, per quanto interessante come documento del tempo, non ha sviluppo storico essenziale. Massimo esempio ne è il Tesoretto di B. Latini, che si accompagna al francese Tresor dello stesso autore. Tale poesia continua, nell’età di Dante e subito dopo, nel Fiore, attribuito da alcuni allo stesso Dante, nell’Intelligenza, di discussa attribuzione, nei poemi di Francesco da Barberino, nel Dottrinale di I. Alighieri, nell’Acerba di Cecco d’Ascoli.
Assai maggiore importanza storica hanno invece altre forme letterarie, e soprattutto la lirica, tanto che comunemente e tradizionalmente si scorge proprio nello sviluppo della lirica l’ossatura dell’intera prima letteratura italiana. La poesia percorre sin dal principio due vie parallele. Una tradizione si incentra su argomenti (secondo la terminologia che userà Dante) quali le armi, la rettitudine, l’amore. Tale tradizione respinge il reale o lo trasfigura nell’atto stesso di assumerlo ed elegge per conseguenza una lingua poetica lontana dalla quotidiana e parlata, una lingua ‘illustre’, per una poesia altamente seria, ‘tragica’ secondo la tripartizione medievale e dantesca (tragedia, elegia, commedia). Appunto in questo filone tenderà soprattutto a confluire la poesia italiana. Ma accanto a questa tradizione e spesso in contrasto, talvolta parodistico, con essa, si afferma anche una letteratura tutta volta al terrestre, all’espressione ed esaltazione delle passioni, anche le più basse, attraverso una lingua lessicalmente e sintatticamente parlata, aperta al dialetto, al gergo, all’estro individuale, una lingua adatta alla poesia ‘comica’. Tra poesia ‘comica’ e ‘tragica’ non esiste una netta linea di separazione; anche la poesia ‘comica’ obbedisce a precisi criteri stilistici, ha un canone di temi che ritornano in tutte le letterature europee (si pensi al precedente, fuori d’I., della poesia goliardica) e consistono nell’esaltazione giocosa del vino, dei divertimenti, dei piaceri carnali. L’apparente immediatezza e antiletterarietà dell’espressione fanno sì che una poesia di tal genere si diffonda in larghi ceti anche incolti, e assuma l’aspetto e le forme della poesia anonima, popolare. Avviene poi che questi temi e modi di poesia, originariamente dotti, siano sentiti come fresche espressioni dell’anima popolare, e sottoposti come tali a un’ulteriore elaborazione letteraria da parte di posteriori poeti d’arte.
La poesia italiana è così percorsa, almeno sino al Cinquecento, da un filone non popolare ma popolareggiante, parallelo all’altro filone, che potremmo chiamare aulico. Di quest’ultimo le espressioni più salienti sono rappresentate, dal 13° al 16° sec., dalla Scuola siciliana, da Guittone e dai guittoniani, dagli stilnovisti, da F. Petrarca e poi dal petrarchismo quattro-cinquecentesco. Alle origini dell’altro filone sta il celebre contrasto (databile tra il 1230 e il 1250) attribuito a Cielo d’Alcamo, al quale fanno eco, dalla Toscana e da Bologna, anonime poesie d’aspetto popolareggiante, anch’esse dialogate; ma Rustico di Filippo, nella seconda metà del secolo, può scrivere una trentina di sonetti giocosi o realistici, e altrettanti seri, fedeli alla tradizione aulica provenzale-siciliana-guittoniana. Lo stile popolareggiante tocca il suo vertice artistico in Cecco Angiolieri e in un abbastanza folto gruppo di poeti tra il 13° e il 14° sec. (a essi si può avvicinare il delicato Folgore da San Gimignano, che ha però una fisionomia tutta sua), ai quali non è estranea un’intenzione polemica contro lo Stil novo, considerato come troppo astruso e lontano dalla vita; continua nel secondo Trecento, con alcune pagine di F. Sacchetti e di A. Pucci, e nel secolo seguente con il Burchiello, in alcuni aspetti di L. Pulci; e culmina nel Cinquecento con F. Berni.
La Scuola siciliana (fiorita tra il 1230 e il 1270 circa) oppone per prima alla letteratura provenzale, alla quale pure s’ispira, uno svolgimento consapevolmente originale. Il volgare siciliano, depurato da quei rimatori, pare per un momento porsi come lingua nazionale; Dante infatti riconoscerà già attuata dalla Scuola siciliana la lingua letteraria comune, non municipale. Ma occorreva per questo che il volgare siciliano e quello toscano, che subito dopo ne prende il posto come volgare predominante, si spogliassero delle peculiarità troppo locali. La materia principe della Scuola siciliana è desunta dalla lirica illustre provenzale: l’amore, inteso come un rapporto d’ideale vassallaggio del poeta verso la sua donna; l’uno e l’altra senza volto e anima individuali, quasi cifre convenzionali di atteggiamenti e sentimenti non necessariamente più autentici. Una lirica dotta, anche quando rielabora motivi popolari, come il lamento di un’abbandonata, attribuito a Odo delle Colonne, o quello per la partenza del crociato di Rinaldo d’Aquino. Esercitazione stilistica raffinata, la Scuola siciliana è alla base della posteriore lirica, anche perché fissa i metri principali di essa, la canzone (derivata con innovazioni da quella provenzale) e il principale dei metri italiani, il sonetto.
Subito dopo la metà del 13° sec., distrutta la potenza sveva, il centro dello sviluppo linguistico-letterario si trasferisce in Toscana: un folto gruppo di rimatori delle varie province di quella regione (il più notevole dei quali è C. Davanzati) interpreta e accoglie come nazionale la letteratura della Scuola siciliana, dalla quale assume come propri i modi di poesia e in parte anche la lingua poetica, accogliendo anche tipiche forme della parlata siciliana che così acquisteranno durevole diritto di cittadinanza nella lingua poetica italiana, la quale, tuttavia, da questo momento diventa essenzialmente toscana, e anzi diventerà presto, più precisamente, fiorentina. Alla materia ancora siciliana, e dunque provenzale, i poeti toscani aggiungono volentieri temi politici e morali, sviluppando quella tendenza della poesia amorosa a trasformarsi in meditazione morale, che era già implicita nella letteratura d’oc. Questo cammino più o meno segreto diventa chiaramente percepibile nella carriera poetico-biografica di colui che esercita, nella generazione anteriore alla dantesca, la funzione di vero e proprio caposcuola, Guittone d’Arezzo, che, abbandonate a un certo punto della sua vita le rime d’amore, si dedicò a quelle morali. Guittone e i guittoniani amano, più dei siciliani, il provenzale trobar clus, ed esasperano gli artifici stilistici, compiacendosi del difficile, del sottile, del lambiccato.
Dalla poesia di Guittone parte, poco più giovane di lui, G. Guinizzelli, ma per contestarne presto la supremazia e rinnegarne i modi. Guinizzelli non innova la poesia nel senso di dar luogo in essa a un’immediata effusione di sentimenti ‘veri’, secondo l’opinione di origine romantica; ma la innova proprio nel senso dottrinale, dando una base filosofica precisa alla tendenza a considerare l’amore come mezzo di elevazione morale (soprattutto nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, che sarà poi assunta come il manifesto della nuova scuola poetica). La generazione successiva, quella di G. Cavalcanti e di Dante, nonché di altri pochi loro coetanei e amici, tutti fiorentini (Lapo Gianni, D. Frescobaldi, G. Alfani, ai quali fa eco un altro giovane, Cino da Pistoia), reagisce alla poesia guittoniana, che viene definita plebea, municipale, persino ‘stolta’. Sono degli aristocratici, alcuni anche per nascita, e inaugurano un ‘nuovo stile’, un nuovo modo di poesia d’amore; il quale deve essere ‘dolce’, cioè per eccellenza rifuggente dal realismo, linguisticamente raffinato, stilisticamente sostenuto ma non artificioso. Essi riconoscono il loro precursore e maestro in Guinizzelli, di cui accettano la dottrina base, dell’amore-elevazione e della donna-angelo, e costituiscono la scuola dello Stil novo (o Dolce stil novo). La conquista della virtù per mezzo dell’amore è il vero tema principe degli stilnovisti; in sostanza l’amore-passione tende a divenire amore-virtù; ma a percorrere per intero questa strada (che culminerà nella Divina Commedia) sarà solo Dante Alighieri. Tuttavia, questa successione siciliani-guittoniani-stilnovisti riguarda solo una parte della lirica, giacché gli stessi Guinizzelli, Cavalcanti e soprattutto Dante scrivono anche poesie di diverso ‘stile’, giocoso-popolareggiante; o anche di amore carnale (si ricordino le petrose di Dante).
Al di fuori di tale successione è anche la poesia religiosa, in piena fioritura già nel Duecento. Proprio per la metà del 13° sec. Gioacchino da Fiore aveva profetizzato l’avvento di una nuova era. È l’epoca in cui sorgono e fioriscono nuovi grandi ordini, il francescano e il domenicano. Risale al primo Duecento, contemporaneo e forse anteriore ai più antichi componimenti italiani di poesia d’arte, il Cantico di frate Sole di s. Francesco. Il moto dei Disciplinati, esploso a Perugia nel 1260 e propagatosi subito in tutta l’I. centrale e settentrionale, ridà vigore a confraternite di laici già esistenti nell’alto Medioevo, il cui principale scopo era quello di riunirsi a cantare le lodi di Gesù, di Maria, poi anche dei santi: il loro canto, la lauda, dapprima lirica, diviene poi drammatica, ed è all’origine del rinato teatro. Un contemporaneo di Dante, Iacopone da Todi, assume la materia e le forme della lauda per esprimere il suo animo energico e fervido di religiosità. 2.2 La prosa. Negli scritti in prosa volgare del Duecento sono rappresentati parecchi volgari italiani; ma poiché tra i prosatori prevalgono sin dall’inizio i toscani, la prosa, diversamente dalla poesia, non diventa ma nasce toscana. Inoltre, i prosatori si propongono all’inizio fini più modesti dei lirici, dedicandosi per lo più a fermare il ricordo di eventi familiari e cittadini, o a educare o divertire lettori poco acculturati; pur desiderando valicare i confini regionali, non hanno una materia ‘illustre’, sono più legati all’esperienza quotidiana, e quindi non si pongono il problema di una lingua anch’essa ‘illustre’.
In prosa, abbiamo dapprima versioni dal francese o dal latino, o rifacimenti italiani più o meno liberi di romanzi brettoni (il Tristano conservato nella Biblioteca Riccardiana di Firenze), o di argomento carolingio o classico. Oppure si tratta di prose morali o di compilazioni storiche, di scritti di retorica. Più importanti sono le cronache, per lo più toscane: da quella di Ricordano e Giacotto Malispini, a quelle (e siamo già nell’età di Dante) assai più notevoli, sia storiograficamente sia artisticamente, di D. Compagni e di G. Villani e suoi continuatori. Numerosissime le prose religiose, specie del Trecento, ma in molti casi si è incerti circa la loro esatta datazione: a cominciare dai Fioretti di san Francesco, opera di un ignoto frate toscano, che non si propone forse fini letterari, né se ne propone per le sue energiche Lettere s. Caterina da Siena. Più dotti sono invece altri scrittori edificanti dell’età di Dante o di poco posteriori (D. Cavalca, Giordano da Pisa, I. Passavanti, il beato G. Colombini). Ma tutti questi scrittori costituiscono modelli di prosa assai più tardi, quando il Romanticismo indurrà ad apprezzare la loro vera o presunta ingenuità letteraria, e il purismo valorizzerà la loro toscanità. Lo stesso è da dire per un’altra opera, pure assai importante, il Novellino, raccolta duecentesca di brevi racconti. Mentre un’altra duecentesca raccolta di novelle, il Libro dei sette savi, è una versione dal francese, l’ignoto Fiorentino autore del Novellino non traduce, anche se riprende la materia novellistica tradizionale, latina e francese; nella sua asciutta, limpida ma tutt’altro che ingenua prosa si riflette il mondo della nuova borghesia alla quale egli certo appartiene.
Quel che avevano fatto i Siciliani per la lirica, tenta di fare il toscano Guittone per la prosa. Ma le sue elaboratissime Lettere, troppo irte di latinismi e di preziosismi linguistici di vario genere, troppo arzigogolate e astruse, non possono costituire un punto di partenza per i prosatori successivi. La generazione seguente impone anche per la prosa il suo gusto più sobrio, e produce due insigni esempi di prosa illustre nelle pagine mistico-narrative della Vita nuova e in quelle dottrinali del Convivio di Dante; e tuttavia il maestro vero per la prosa a venire non è Dante, ma sarà G. Boccaccio. Quello del Decameron sarà tuttavia modello composito: il Rinascimento maturo, con P. Bembo, apprezzerà della prosa boccaccesca la parte illustre, quella lessicalmente raffinata, architettonicamente disposta secondo i modelli di Cicerone e più di Livio e di Apuleio; ma accanto a questi esempi il Decameron ne offre altri e diversi, di un lessico vario sino al dialetto, di una sintassi snodata, nervosa, parlata; e i prosatori dei secoli seguenti terranno l’occhio o all’uno o all’altro di questi due contrastanti aspetti del maestro Boccaccio.
Duplice è anche l’eredità che lascia ai secoli seguenti Petrarca; duplice infatti è stata la sua attività, di poeta in volgare e di umanista. Tutto il Trecento e il primo Quattrocento ammirano in lui quasi unicamente il maestro di studi latini; man mano poi che le generazioni umanistiche allargano, con le grandi scoperte quattrocentesche dei codici, la loro cultura e la estendono al mondo greco, la dottrina umanistica di Petrarca va perdendo credito, mentre l’arte poetica del Canzoniere si fa paradigmatica. Il petrarchismo che domina allora l’Europa non interessa solo la lirica, ma ogni forma di letteratura. In quanto poeta della labilità e dell’inquietudine, Petrarca sarà vicino, oltre il pieno Rinascimento, al poeta che segna l’estremo punto di arrivo di quell’età e l’inizio della nuova, T. Tasso. Comincia con Petrarca la paziente e appassionata opera filologica di scavo del mondo antico, opera nella quale fu affiancato dall’amico Boccaccio, il più grande dei suoi discepoli. Boccaccio non solo procede autonomamente nello sforzo petrarchesco di dare regolarità e quindi nobiltà alla letteratura in volgare, estendendo lo sforzo stesso alla prosa; ma inizia un processo fecondo al quale l’aristocratico Petrarca era estraneo, nobilitando anche l’esperienza quotidiana, facendola diventare materia d’arte (Ninfale fiesolano, Elegia di Madonna Fiammetta, Decameron).
Gli uomini del pieno Rinascimento non partecipano delle inquietudini di Petrarca, anche se egli è il loro maestro letterario; esaltano dunque la potenza dell’uomo, ma nel solo campo dell’agire umano: morale, politico, artistico. In questo, il loro maestro è Boccaccio. Il tema principe del Decameron è infatti la possibilità dell’uomo di dominare gli eventi e sé stesso, che diventerà, nel Rinascimento maturo, energia e volontà di azione, senso di responsabilità e dignità individuale: sarà la ‘virtù’ di N. Machiavelli, la cortigiania di B. Castiglione, la costumatezza di G. Della Casa.
Dalla morte di Boccaccio (1375) per circa un secolo (l’età dell’Umanesimo propriamente detto) la grande poesia tace. Di qua dall’umanesimo sono sostanzialmente alcuni scrittori trecenteschi, come F. degli Uberti (imitatore della Commedia dantesca) o C. Rinuccini; o come Antonio da Ferrara e A. Pucci, che riprendono, variandoli, i modi della poesia giocosa anteriore, rispecchiandovi i modi di vita e gli ideali della borghesia ormai consolidata nel suo predominio. Accanto a questi ultimi è da ricordare colui che del mondo borghese di allora è, soprattutto nelle novelle, l’interprete poeticamente più maturo, F. Sacchetti, mentre altri novellieri di allora (ser Giovanni Fiorentino, G. Sercambi) si limitano all’imitazione boccaccesca. Continua per tutto il secolo il fiorire delle laudi sacre, ma soprattutto interessante è la fioritura dei cantari, poemi e poemetti di argomento cavalleresco, classico o anche contemporaneo, recitati da cantastorie sulle piazze, che costituiscono l’antecedente storico della poesia narrativa quattrocentesca.
Nella seconda metà del 15° sec., per effetto anche del Concilio di Ferrara-Firenze, il quale richiama in I. molti dotti greci (tra cui Giorgio Gemisto Pletone e il cardinale Bessarione), e della caduta di Bisanzio in mano ai Turchi, gli studi greci hanno in I. la loro fioritura. Essi tuttavia influiscono forse più sulla filosofia che sulla letteratura. E in effetti, al ricchissimo bilancio attivo dell’Umanesimo nella storia del pensiero e in genere dello spirito umano, non corrispondono i suoi risultati propriamente poetici, in genere modesti. Tutta l’enorme produzione umanistica, infatti, si raccomanda per altre ragioni che per quelle della poesia. Rimangono notevoli alcune vivaci pagine di P. Bracciolini, che è anche il più fortunato scopritore di antici codici, e di E.S. Piccolomini (divenuto papa con il nome di Pio II); le liriche di T.V. Strozzi e soprattutto le liriche e i dialoghi di G. Pontano.
Lungo il corso del 15° sec., e specialmente nella seconda metà del secolo, lo sforzo di emulare il latino con il volgare diventa sempre più consapevole. Caratteristica essenziale dell’età è il concomitante progresso dell’imitazione latina, in prosa e in versi, e di quella dei grandi trecentisti (Dante, Petrarca, Boccaccio). Di non grande rilievo quella di Dante, troppo lontano dai nuovi ideali letterari e morali; proliferano invece le imitazioni di Petrarca, significativamente quelle degli eruditi Trionfi, nei quali più era dichiarata la gara volgare-latino, ma anche del Canzoniere (ricordiamo solo G. de’ Conti); ai moduli petrarcheschi, tuttavia, sono in generale frammisti sfoggi di erudizione classicheggiante, necessari per i quattrocentisti a dare dignità all’apparente tenuità del modello. Prevale in questi petrarchisti l’elemento intellettualistico; essi infatti apprezzano di Petrarca soprattutto la sapienza dello stile, che esasperano sino al più complicato artificio. Sono questi i caratteri propri del petrarchismo del secondo Quattrocento (A. Tebaldeo, il Cariteo, soprattutto Serafino Aquilano). Un posto a sé occupa la lirica di M.M. Boiardo (Amorum libri), pur essendo anch’essa letterariamente esemplata su Petrarca e sui latini.
Altra essenziale e generale caratteristica dell’età è l’assunzione, da parte di raffinati poeti d’arte, di forme e motivi popolari. Basti pensare a come, presso la corte di Lorenzo il Magnifico, cuore politico e letterario d’I., A. Poliziano rielabori ballate e rispetti, riprenda i modi della sacra rappresentazione e, cambiandone l’argomento da religioso in profano, la trasformi nel suo Orfeo in spettacolo per la corte dei Gonzaga; e lo stesso Lorenzo offre, con la sua Nencia da Barberino, il capolavoro di questa riassunzione sapiente di modi popolari.
Presso un’altra corte culturalmente assai attiva, quella aragonese di Napoli, I. Sannazzaro si dedica al rifacimento di popolari farse, di popolari frottole (dette gliommeri). Tutto ciò è solo apparentemente in contrasto con la classificazione in atto della letteratura in volgare. Essenziale è la considerazione che negli stessi grandi scrittori ora nominati l’assunzione di modi popolari è congiunta strettamente con l’assunzione di modi desunti dai classici, latini e italiani: si tratta d’imitazione, doppia nei modelli, unica nel movente, attraverso la quale quegli scrittori conquistano la loro originalità.
Nel secondo Quattrocento giunge a maturazione, favorito anche dall’invenzione della stampa, quel processo di unificazione linguistica volgare per tutti i domini letterari, e soprattutto per la prosa, che era da tempo un fatto compiuto per l’alta lirica, e che l’Umanesimo, relegando il volgare negli usi pratici e nelle scritture artisticamente non impegnative, aveva ritardato. E questa unificazione-nobilitazione avviene dapprima a specchio del latino, con l’introduzione pesante nel volgare di costrutti e vocaboli latini, poi, deliberatamente, sulla base del toscano e, di fatto, del fiorentino. La guida è Boccaccio, nelle cui pagine gli uomini del Rinascimento, oltre che i modelli di lingua, trovavano rispecchiato un ideale di vita. Visibile nel salernitano Masuccio, il maggiore dei novellieri quattrocenteschi, lo sforzo di adeguarsi, nonostante i suoi numerosi meridionalismi, al modello narrativo linguistico boccaccesco; sforzo che è pienamente riuscito in Sannazzaro, nel quale è chiaramente determinabile il processo di progressiva toscanizzazione. Il processo sarà concluso, come vedremo, da Bembo.
Sin dalla fine del 13° sec. la letteratura cavalleresca, sia direttamente dai libri francesi sia e soprattutto per il tramite dei poemi franco-italiani, si era acclimatata in Toscana, dando luogo a una ricca fioritura di romanzi e di poemi, in prosa e in ottave, soprattutto di argomento carolingio, che infittiscono lungo il corso del 14° e del 15° secolo. Ricordiamo, in prosa, solo i Reali di Francia e il Guerin meschino di Andrea da Barberino, e in versi gli anonimi poemi Orlando e Spagna. Il poema cavalleresco rappresenta una forma particolarmente congeniale agli spiriti del tempo, nonostante la materia cavalleresca, in sé, sia quanto di più estraneo si possa immaginare al mondo classico. La letteratura italiana comincia quando la cavalleria, come istituzione sociale, era già morta. In Dante la cavalleria è già nostalgia, e rappresenta per lui una realtà storica del passato che egli pensava dovesse e forse potesse ancora tornare. Petrarca come poeta ignora la cavalleria, estranea alla classicità. Boccaccio, come dà l’avvio nelle sue opere giovanili a quella restaurazione del mondo cavalleresco in una zona di alta letteratura, così crea, nel Decameron, l’epopea borghese, ‘moderna’, della cavalleria, nel senso che vede attuabili, anche nel nuovo clima sociale, alcune qualità umane del mondo cavalleresco. I poeti quattro-cinquecenteschi, invece, collocano i cavalieri e i loro ideali nella lontananza incantatrice e illusoria delle fiabe, da godere solo come tali.
Uomo non sfornito di cultura, ma ben lontano dalla raffinatezza di Poliziano o di Lorenzo, L. Pulci nel suo Morgante si diverte a riprendere in chiave comica l’Orlando. Assai più profondo poeta fu Boiardo, che nell’Orlando innamorato diede vita a un poema nel quale il mondo del valore e dell’amore, considerati come emanazione l’uno dell’altro, è calato nell’alone delle belle fiabe popolari.
Nei primi decenni del Cinquecento, il volgare raggiunge nella coscienza di tutti la sua piena dignità di lingua letteraria; del resto, il latino poteva conservare il suo prestigio a patto che il volgare fosse ritenuto idioma letterariamente inferiore, e doveva necessariamente declinare di fronte a una lingua di pari dignità che avesse su di esso l’incommensurabile vantaggio di adeguarsi naturalmente alla sensibilità moderna e di essere intesa da tutti. Sicché non passerà mezzo secolo, e l’uso letterario del latino, pur senza scomparire, cesserà di essere uno dei protagonisti essenziali della nostra storia letteraria. Nel primo Cinquecento peraltro il processo di regolarizzazione, al quale erano state parallelamente sottoposte le due lingue, raggiunge il suo apice, ed esse si pongono in un equilibrio che allora poteva sembrare solido e duraturo. Di tale equilibrio può essere considerato massimo esponente il raffinato e dotto Bembo. A lui risale essenzialmente l’interpretazione rinascimentale di Petrarca, come maestro appunto di armonia spirituale e formale: il petrarchismo, che egli riforma depurandolo dalle sovrastrutture dell’ultimo Quattrocento, e di cui dà nelle Rime un modello ammiratissimo, diverrà uno dei fenomeni essenziali del secolo.
A prescindere da Ludovico Ariosto, le cui liriche sono tuttavia ben lontane dal raggiungere l’eccellenza poetica del Furioso, e dalle poche poesie di Michelangelo, qua e là potenti ma storicamente non feconde, anche i maggiori fra i lirici cinquecenteschi, come A. Caro, M. Bandello, G. di Tarsia, L. Tansillo, B. Tasso, B. Rota, A. di Costanzo ecc., e il folto gruppo delle poetesse (V. Gambara, G. Stampa, V. Colonna ecc.), e anche colui che forse è il maggiore fra tutti, Della Casa (più celebre per il suo Galateo, trattato affine nello spirito al più valido Cortegiano di Castiglione), non si elevano sopra il livello di un illustre artigianato. Tuttavia il petrarchismo è storicamente importante perché attraverso di esso la lingua poetica si consolida definitivamente.
Tema fondamentale del Rinascimento è lo sforzo della virtù (intesa come capacità intellettuale e strenua determinazione) per vincere la fortuna (o il caso, che dir si voglia), cioè dell’individuo per dominare la storia, tema che ha in N. Machiavelli la sua formulazione più precisa. Per primo egli considera la politica come una scienza e la separa dalla morale. Accanto a lui F. Guicciardini è dominato anch’egli dal senso del concreto, pur ritenendo che l’uomo non domini la storia e che la sua virtù consista solo nel trarre, se possibile, profitto dalle circostanze che si verificano di momento in momento. Il suo disincantato culto del particolare è uno degli estremi punti d’arrivo del rinascimentale senso del limite.
La Controriforma consiglia una conciliazione tra politica e morale, che molti si sforzano di operare (massimo tra tutti, sullo scorcio del 16° sec., G. Botero). Tuttavia, a prescindere dagli storiografi-politici, resta il fatto che assai difficilmente si scorgerebbe nelle opere letterarie dell’epoca un riflesso dell’attività politica e pratica dei loro autori. Infatti, la massima espressione della letteratura rinascimentale è costituita dall’Orlando furioso di Ariosto, opera caratterizzata dall’assoluta mancanza di ogni interesse didascalico, accanto alla quale si può annoverare il Baldus di T. Folengo, nel quale prevale però decisamente la burla.
Non così folta come quella dei lirici petrarchisti, ma sempre ragguardevole, la schiera dei novellieri, alla quale appartiene anche Machiavelli con il suo Belfagor. Su essi però l’azione di Boccaccio, pur essenziale, non è così livellatrice come quella di Petrarca; infatti essi obbediscono, oltre che all’esempio boccaccesco, al gusto di narrare piacevolmente (Lasca), di farsi testimoni e pittori di fatti, uomini, costumi dell’epoca (Bandello), alla seduzione della fiaba (G. Straparola) o dell’avventura (di nuovo Bandello, il maggiore fra tutti), ovvero affrontano raffinate esperienze stilistiche (A. Firenzuola); mentre G. Giraldi Cinzio, in clima controriformistico, tenta di far servire a fini morali la spregiudicata novella tradizionale.
Si continua a poetare in latino (G. Cotta, A. Navagero, M.A. Flaminio, G. Vida, G. Fracastoro) o ad alternare le due lingue, come fanno quasi tutti i grandi letterati del primo Cinquecento; ma lo sforzo più importante del Rinascimento maturo è quello di acquisire al volgare, uno per uno, tutti i generi letterari dell’antichità, e di identificarne le regole, a partire dalla Poetica di Aristotele, testo quasi inosservato fino al 1548. La conquista dei generi spesso è una gara con gli antichi scritti, e si manifesta nelle traduzioni, alcune delle quali meritatamente famose (l’Eneide di A. Caro; le Metamorfosi di G.A. dell’Anguillara; B. Davanzati in gara di concisione con Tacito; A. Firenzuola che rifà Apuleio); ma soprattutto nelle opere originali. Naturalmente essa riesce più agevole per i generi più consoni allo spirito rinascimentale: per la satira di stampo oraziano, narrazione di eventi personali, confessione (Ariosto, P. Nelli, L. Alamanni, E. Bentivoglio ecc.); per la ben costruita oratoria (G. Guidiccioni, Della Casa, Lorenzino de’ Medici); per la bucolica (Ariosto, Trissino, Alamanni, B. Rota, B. Baldi ecc.), che bene si presta al rifugio nell’idilliaco; per la didascalica (oltre al già citato Fracastoro, ricordiamo Le Api di G. Rucellai, la Coltivazione di Alamanni, e poi Tansillo, Baldi, Erasmo di Valvason). Anche la storiografia (a parte Machiavelli e Guicciardini) è considerata un genere letterario da continuare sull’esempio degli antichi: sia in latino, come fanno Bembo (che traduce in volgare la sua Historia veneta) e P. Giovio; sia in volgare, come fanno G.B. Adriani, I. Nardi, B. Varchi, P.F. Giambullari, il citato Davanzati, i meridionali A. Di Costanzo e C. Porzio ecc.
Da segnalare anche l’esistenza di una corrente non classicistica, tra i cui maggiori esponenti sono P. Aretino, grande polemista; F. Berni, che riassume i modi della poesia giocoso-burlesca dei secoli precedenti; il Lasca; A.F. Doni; B. Cellini, che nella sua autobiografia descrive l’arte quale scopo supremo della vita; e soprattutto G. Bruno, con la sua energia e passione intellettuale.
Si crea altresì un teatro in volgare a imitazione del classico. Sin dal Trecento si cominciano a scrivere in latino tragedie (Ecerinis di A. Mussato) e commedie (Philologia di Petrarca, perduta): i tentativi si intensificano nel secolo successivo. Alla fine di questo si cominciano a recitare tragedie di Seneca e commedie di Plauto e Terenzio negli originali o tradotte, finché ai primissimi del Cinquecento si hanno la prima commedia (Cassaria di Ariosto) e la prima tragedia (Sofonisba di G.G. Trissino) regolari, cioè condotte secondo le regole classiche. Ricco e nel complesso felice (conta almeno un capolavoro, la Mandragola di Machiavelli, e opere di primissimo piano, come alcune commedie del Ruzzante e la Venexiana) lo sviluppo del teatro comico cinquecentesco, il quale affondava le sue radici, oltre che negli intenti letterari di resurrezione del genere, negli spiriti rinascimentali attenti alla realtà; realtà che prevale di gran lunga nell’ispirazione di Aretino, finché il Candelaio di Bruno segna il pieno affrancarsi anche dalle forme tradizionali.
Accanto al teatro d’arte esiste un teatro che sviluppa intrattenimenti popolari, le origini del quale si confondono con le antiche rappresentazioni giullaresche, e che incontra il gusto anche delle classi signorili; suo tema principale è la satira del villano, per lo più superficiale e grossolana (ma in qualcuno, come nel Ruzzante, la divertita osservazione non esclude l’umana simpatia); suoi strumenti i dialetti. In questo tipo di teatro è il germe della commedia dell’arte che dominerà le scene, non solo in I., dalla metà del 16° sec. alla metà del 18°.
Felice è anche lo sviluppo cinquecentesco di un’altra forma teatrale, che deriva dal gusto per la poesia bucolica. Dall’egloga, infatti, alla fine del Quattrocento nasce il dramma pastorale, di cui massimi esempi sono l’Aminta di Tasso, e, alla fine del Cinquecento, il Pastor fido di B. Guarini. Assai meno felice lo sviluppo della tragedia. Mancando una concezione tragica della vita, si esagera nel sanguinolento e nell’orrido: più degli altri Giraldi Cinzio, che assume come modello Seneca invece dei greci, e si propone fini educativi, come ormai consigliava la Controriforma.
Lo sforzo più tenace e più sfortunato del Cinquecento fu peraltro quello tendente alla risurrezione del più illustre genere classico, il poema epico. Le discussioni e i tentativi in questo senso (Trissino, con la sua Italia liberata da’ Gotti; B. Tasso nell’Amadigi, Giraldi Cinzio nei suoi scritti teorici e nel suo Ercole) costituiscono il clima letterario nel quale sboccerà la Gerusalemme Liberata di T. Tasso.
Con la crisi del Rinascimento, emerge in tutta la sua potenza la figura di Tasso. La vecchia formula critica, secondo la quale il suo dramma sarebbe quello di un uomo spiritualmente del primo Rinascimento costretto a vivere nel pieno della Controriforma, conserva la sua validità, se la si intende nel senso che la Controriforma non è fuori di lui, ma in lui stesso. Il senso del limite, garanzia di serenità, diventa in Tasso senso di soffocazione, ed è da lui sofferto come una ingiustizia. È questo il mondo poetico delle liriche e della Gerusalemme liberata, che è aspramente avversata dai nostalgici cultori dell’antico ed esaltata da quanti ne intuiscono il significato di svolta nella storia letteraria.
Ai primi del 17° sec. la scena letteraria italiana è tenuta da T. Campanella, G. Galilei, P. Sarpi, T. Boccalini, A. Tassoni, G.B. Marino, diversissimi tra loro per temperamento e valore, eppure chiaramente apparentati dal comune antitradizionalismo. Degli altri loro maggiori coetanei, anche G. Chiabrera (lontano maestro dell’Arcadia) inneggia al ‘nuovo’, anche se la sua novità, applauditissima, resta nel campo metrico e ritmico, e fruttifica storicamente solo in una certa predilezione per il tenue e l’elegante; G. Basile e O. Rinuccini, anziché obbedire a una tradizione, ne fondano essi stessi delle nuove, nella fiaba e nel melodramma. Dei maggiori dell’età, forse solo F. Della Valle resta sostanzialmente appagato dei moduli cinquecenteschi, pur rinnovandoli dall’interno con la sua forza di poeta, rimanendo però ignoto ai contemporanei. Se si escludono Galilei e Rinuccini, tutti questi scrittori non sono toscani, e come già Tasso rifiutano un toscanismo programmatico; irrompono nella letteratura le province: la Calabria, il Veneto, le Marche, l’Emilia, Napoli, la Liguria, il Piemonte. Anzi, gli stessi dialetti, non più semplice mezzo di comicità realistica come nel Cinquecento, sono consapevolmente innalzati a dignità letteraria: come fanno a Napoli G.C. Cortese e il suo amico Basile, che nel Cunto de li cunti tratta il dialetto con la stessa sapienza letteraria (ma con assai migliori risultati d’arte) con cui tratta l’italiano, lo spagnolo e il latino; come farà più tardi, a Milano, C.M. Maggi. L’egemonia toscana è finita.
Proprio nel pieno della Controriforma, Campanella e Galilei contribuiscono in maniera determinante alla distruzione dei principi dell’aristotelismo. Soprattutto, la grande novità del secolo è l’affermazione della superiorità dei moderni sugli antichi, affermazione che trova proprio in I., nella terra del classicismo, in un libro dei Pensieri di A. Tassoni (1620), la sua prima netta formulazione e sistemazione logica, e mezzo secolo più tardi metterà a rumore il campo letterario francese, con la querelle des anciens et des modernes: polemica che si propagherà in I. e altrove, costituendo una delle premesse storiche del Romanticismo. Il tono del primo Seicento è dato dunque dalla polemica, implicita o esplicita, contro i più vari bersagli.
Campanella sente il disagio di una cultura ferma nella contemplazione di un mondo morto; tenta d’instaurare nella sua Calabria una repubblica com’egli la sogna, e che disegna nella Città del Sole; ma il valore letterario di questo famoso scritto è forse superato da molte pagine di prosa latina e italiana delle grandi opere più propriamente filosofiche, dalle Lettere, e soprattutto da alcune delle Poesie filosofiche, che tuttavia restano quasi ignote fino all’Ottocento.
Al Rinascimento, inteso come esigenza intima di ordine, è invece orientato il gusto di Galileo, che letterariamente non è un innovatore, anche se è praticamente il primo a scrivere di scienza in volgare. Intanto, Sarpi inflessibilmente combatte, nella vita e nell’opera, per la separazione del potere spirituale da quello civile; mentre anche scrittori come T. Boccalini e Tassoni, combattono l’aristotelismo, il petrarchismo, le regole, la Crusca. Per conto suo, Tassoni ci dà nella Secchia rapita una caricatura parodistica del poema eroico e cavalleresco al quale aveva mirato con tanto impegno il Quattro-Cinquecento.
Peraltro, la polemica più clamorosa, e al momento più fortunata, fu quella che ebbe come vessillifero Marino. Il marinismo è l’aspetto che assume in I. l’orientamento letterario dominante allora in tutta Europa, detto secentismo, o barocco, sebbene esso sia ben lungi dal costituire la caratteristica unica del 17° secolo. I marinisti, per i quali la poesia ha il suo fine in sé stessa, concentrano il loro sforzo sul fatto tecnico, giungendo all’esasperazione del decorativismo e concentrandosi sul concettismo, cioè su accostamenti mai prima operati tra cose lontanissime l’una dall’altra. Se Marino è ammirato e largamente imitato, in I. e fuori, non gli mancano, già ai suoi tempi, numerosi e fieri oppositori, e del resto il concettismo nella poesia non si estende oltre i primi tre o quattro decenni del Seicento, mentre continua per quasi tutto il secolo a dominare la prosa.
La storia della letteratura italiana del Settecento può essere schematicamente rappresentata come una progressiva estensione dell’area delle riforme: dal moderato riformismo poetico promosso dall’Arcadia alla vera e propria riforma metastasiana del melodramma, a quella goldoniana della commedia, a quella alfieriana della tragedia. L’Arcadia non propugna cose nuove, ma nuovo è il suo piglio polemico, il suo proposito preciso di estirpare il cattivo gusto marinistico; nuova è la costituzione, in un’accademia, di un centro dell’antimarinismo, dal quale poi questo s’irradia e s’impone. G.V. Gravina, la personalità maggiore della prima Arcadia, è un cartesiano, per il quale la ragione prende il posto dell’autorità. Classicista e razionalista, come razionalista è tutta la cultura europea di allora, l’Arcadia tenta quella conciliazione tra i due termini a cui aveva aspirato N. Boileau-Despréaux e con lui tutto il classicismo francese. Ma in I. l’esigenza classicistica prevale su quella razionalistica. Il classicismo arcadico si configura anzitutto in una rinata ortodossia petrarchistica. Il carattere specifico non è peraltro conferito all’età dal petrarcheggiare, né dal pindareggiare nella direzione dell’eroico e dell’eloquente, ma dall’anacreonteggiare, derivato da Chiabrera e dai suoi ‘scherzi’ (derivati da P. de Ronsard e dalla Pléiade francese).
I maggiori poeti dell’età sono P. Metastasio, P. Rolli, C.I. Frugoni. La lirica del primo Settecento è essenzialmente melica, scritta in funzione della musica che l’avrebbe rivestita, anzi essa stessa musica potenziale; non per nulla il più importante poeta del momento, Metastasio, che è forse l’ultimo poeta italiano che domini in Europa, è essenzialmente autore di melodrammi. Il primo Settecento è inoltre l’età di G.B. Vico, che getta le basi dell’estetica moderna, ed è anche l’età che dà vita alla storiografia intesa come attenta raccolta di documenti e loro interpretazione (L.A. Muratori), o come arma per difficili lotte politico-religiose (P. Giannone); alla scienza (G.B. Morgagni, poi L. Spallanzani); alla divulgazione di essa (F. Algarotti, che precorre in ciò una tendenza tipica del secondo Settecento); alla grande erudizione (S. Maffei, autore anche di una buona tragedia); alla storiografia letteraria, della quale sarà più tardi campione G. Tiraboschi; all’estetica (soprattutto Muratori).
La riforma teatrale di C. Goldoni, pur attuata gradualmente, con cauto innesto del nuovo sul vecchio, rappresenta una svolta decisiva nella storia del teatro italiano; per due secoli, nella commedia dell’arte, aveva dominato l’attore, che aveva rappresentato solo sé stesso; ora l’autore riprende il sopravvento, e costringe l’attore a impersonare ‘caratteri’ diversi, a diventare elemento per la ricostruzione di un ambiente. Entra nel teatro il quotidiano: non più avventure e intrighi straordinari, ma fatti comuni; non uomini eccezionali, nel bene e nel male, ma borghesi e popolani osservati nell’atto di vivere una giornata della loro vita, ascoltati nei loro discorsi consueti, spesso in dialetto. Goldoni scopre la poeticità del dimesso, del consueto, venendo per questo attaccato da Carlo Gozzi (fratello del letterato Gasparo, più vicino nello spirito a Goldoni), che negli scritti polemici e nelle fiabe sceniche rivendica il diritto dell’artista alla libera creatività fantastica, contro la copia ‘materiale’ della realtà.
Il secondo Settecento è dominato dalla filosofia sensistica e razionalistica che giunge attraverso l’insegnamento francese (sono gli anni in cui si diffonde l’Encyclopédie, di cui sono pubblicate due edizioni anche in I.). Prevale in questa età l’esigenza di una letteratura di carattere educativo, e in quest’ottica la letteratura illuministica si pone come reazione diretta all’Arcadia e a tutte le espressioni letterarie che, oltre a non svolgere una funzione educativa, mancano di quella energia creativa che è tipica della grande letteratura e soprattutto della poesia. Il maggior critico letterario dell’epoca, G. Baretti, nella sua Frusta letteraria conduce una veemente battaglia contro arcadi, petrarchisti, scrittori antichi e imitatori pedissequi dell’antico, retori, letterati non ‘utili’ alla vita civile. Ma se tutti, con maggiore o minore slancio combattivo, sono concordi in questa presa di posizione antitradizionalistica (da cui partirà la ribellione romantica), non sono invece d’accordo circa lo strumento di cui si dovrebbe servire l’auspicata nuova letteratura, vale a dire la lingua. Giacché, mentre la veneziana accademia dei Granelleschi con i fratelli Gozzi, la milanese dei Trasformati, e Baretti (che appartiene all’una e all’altra) propugnano il toscanesimo, l’accademia milanese dei Pugni (e il suo organo, Il caffè) rinnega invece violentemente, con la Crusca, la tradizione toscana. Tale posizione diventa meditato sistema nel Saggio sulla filosofia delle lingue di M. Cesarotti, il quale combattendo la Crusca e la pedanteria, auspica una lingua aperta alle innovazioni imposte dalle sempre nuove cose da esprimere, purché le innovazioni non ripugnino alla struttura linguistica già consolidata.
La voce propriamente poetica dell’Illuminismo italiano è, però, quella di G. Parini, che, diversamente dagli scrittori de Il Caffè, accetta in pieno la tradizione letteraria, specie quella cinquecentesca, alla quale aspira a riallacciarsi (Orazio è il suo modello). Con Parini, uno stesso rigore presiede sia alla giustificazione morale della letteratura sia al perseguimento della sua efficacia espressiva.
Parini è perciò anche vicino a quella tendenza di poetica e di gusto che ha assunto il nome di neoclassicismo. Tale tendenza reagisce all’antitradizionalismo di buona parte della letteratura illuministica, con la quale ha in comune, in genere, gli intenti educativi. I pensieri sono e vogliono essere nuovi, ma i versi con cui li si esprime si vuole siano antichi: è questo il precetto base del neoclassicismo, secondo una formula di A. Chénier subito accolta in Italia. Alla tendenza neoclassica non è del tutto estraneo il maggiore dei lirici del periodo, G. Meli, che usa il dialetto siciliano, ma non popolarescamente, a fini realistico-romantici, come faranno subito dopo altri scrittori in dialetto, P. Buratti e soprattutto i grandi C. Porta e G.G. Belli, bensì con la coscienza di usare una lingua letteraria, anzi la più illustre, perché la prima, delle lingue letterarie italiane; ed è in pieno nell’ambito arcadico-illuministico. D’altra parte, il neoclassicismo tende, sempre con sensibilità figurativa, alla rappresentazione della bellezza, specie a quella del corpo umano, intesa come armonia: è la tendenza che si esprime nella scultura di A. Canova, intorno al quale si può dire gravitino questi scrittori, e anche colui che di gran lunga è il maggiore tra essi, U. Foscolo. Grandi autori neoclassici sono V. Monti, nel quale sono ben percepibili, oltre a quelle di Dante e della Bibbia, risonanze della poesia sepolcrale inglese e della ossianica, cioè di forme di poesia preromantica; e P. Giordani, che esercita, insieme a Monti, una vera dittatura letteraria.
Con l’avanzare del 18° sec. infittiscono e sempre meglio si precisano i segni premonitori dell’imminente rivoluzione romantica. Nell’ottimismo illuministico, nella serenità e nel decoro neoclassici s’insinua a poco a poco una sempre più rilevante vena di scontento; a esprimerlo si scelgono, soprattutto per influsso inglese e francese, nuovi temi di poesia; l’Arcadia inaugura una nuova sezione, che sarà detta lugubre; s’impone rapidamente la moda della poesia sepolcrale sulle orme degli inglesi E. Young e T. Gray, della quale peraltro gli Italiani spesso si servono per l’espressione dei loro spiriti morali e civili (Notti romane di A. Verri, fratello di Pietro; soprattutto, poi, i Sepolcri foscoliani). Accanto alla sepolcrale, con questa spesso confusa, s’impone la poesia bardita (➔ bardo) o ossianica (➔ Ossian). Si diffonde, insomma, la moda di una poesia in vario modo malinconica, ritenuta testimonianza di una sensibilità più moderna e raffinata. Inizia a sorgere un mito che sarà presto romantico: il mito della poesia considerata ‘ingenua’ effusione dell’anima. Tuttavia, si resta sempre sulle soglie della nuova età. Tipico a questo riguardo è I. Pindemonte, il più dotato, forse, dei poeti preromantici, mentre un posto a sé occupa V. Alfieri, strettamente apparentato con i poeti tedeschi dello Sturm und Drang e considerato un protoromantico, nonostante la sua fedeltà alla più rigorosa poetica classicistica.
La letteratura italiana del nuovo secolo eredita dal precedente due problemi che ne influenzeranno lo sviluppo: l’assenza di una prosa d’invenzione paragonabile a quella dei grandi romanzi settecenteschi inglesi o francesi e il permanere di un linguaggio poetico troppo legato alla tradizione della poesia lirica. Quanto alla prosa d’invenzione, l’ormai inevitabile confronto con il genere principe della modernità (il romanzo), non può avvalersi né di una lingua d’uso comune, né di una consuetudine all’osservazione e alla valorizzazione della realtà, a prescindere dal modello anomalo costituito dalle commedie goldoniane. Non bisogna dimenticare che, dei capolavori della nostra narrativa settecentesca, non a caso tutti ascrivibili al genere autobiografico, quelli dello stesso Goldoni e di G. Casanova sono scritti in francese, mentre quello di Alfieri si identifica con una idiosincrasia personale e con una geniale irregolarità che ne escludono ogni ripresa, almeno a breve termine. Quanto alla poesia, l’esperienza del neoclassicismo rinvia ogni radicale revisione del linguaggio lirico. L’inedita tensione culturale e intellettuale che in tutta Europa sorregge l’attività letteraria, fondata nei termini filosofici dell’Idealismo tedesco, in Italia rimane inespressa, e non solo in paragone con le manifestazioni più caratteristiche e clamorose della grande letteratura romantica.
Proprio per la peculiarità di tale situazione, che comporta un solo parziale e ritardato accoglimento delle nuove istanze europee, è possibile assegnare alla letteratura romantica italiana una precisa data iniziale, il 1816, quando un articolo di Madame de Staël nel primo numero della Biblioteca italiana, che esorta gli Italiani allo studio delle letterature straniere, dà il via alla polemica durante la quale diverse tendenze, potenzialmente innovative e non solo letterarie, acquistano nella parola romantico una bandiera intorno alla quale stringersi. È G. Berchet che nello stesso anno provvede, nella sua Lettera semiseria di Grisostomo, a precisare le esigenze del nuovo indirizzo poetico. Nonostante la scarsa originalità del pensiero estetico di Berchet (meno agguerrito per es. rispetto a quello di un suo compagno di battaglia, L. di Breme), la chiarezza e la semplicità della sua posizione polemica fanno sì che sia la Lettera a dare la parola d’ordine, subito raccolta da un nutrito gruppo di scrittori lombardi e piemontesi.
Da Milano, suo primo centro, il Romanticismo s’irradia presto dappertutto. Obiettivo di quella prima battaglia è il rifiuto di ogni imitazione, di ogni regola prestabilita e tradizionale, e in particolare della consuetudine più radicata, l’uso della mitologia; il poeta deve attingere la sua poesia soltanto da sé stesso, e deve destinarla non ai soli letterati, ma al ‘popolo’; la poesia, quindi, deve rispondere alle idee, ai sentimenti, ai bisogni attuali e, per essere immediatamente comprensibile, deve rinunciare all’eccessiva raffinatezza letteraria e linguistica. A differenza dei loro predecessori nordici, che puntano sulla natura mistica, strettamente individuale della poesia, i romantici italiani partono dai principi della settecentesca ragionevolezza. Volendo conciliare antico e moderno (e Conciliatore s’intitola il loro giornale), si sforzano di dimostrare che anche i poeti classici avevano trasgredito le regole dei loro tempi, e che comunque la loro grandezza non consisteva nell’averle osservate. La mitologia era giustificata nei poeti greci e latini, perché quelle credenze erano in essi spiritualmente vive. Quel che si deve respingere è l’imitazione, non lo studio dei classici. I destinatari della poesia non sono i troppo civilizzati, ma neppure i selvaggi o gli ignoranti: cioè il ‘popolo’ di cui si parla non è in sostanza altro che borghesia, ‘terzo stato’.
Nelle premesse stesse del Romanticismo, è del resto insita un’antinomia: da una parte la concezione della poesia come espressione autentica e irriducibilmente individuale; dall’altra la sua destinazione al popolo, di cui deve interpretare i bisogni. Già i nostri primi romantici sono consci del contrasto; diversamente dagli stranieri, essi, se non possono conciliare i due doveri, obbediscono all’imperativo civile, eredi come sono degli illuministi del Caffè e di Parini. Vogliono educare, e soprattutto allo scopo di formare nei loro contemporanei una coscienza di uomini liberi. Ciò non legittima affatto la diffusa equiparazione tra Romanticismo e Risorgimento, giacché liberali e patrioti sono anche molti di quelli che si proclamano classicisti (per es. P. Giordani), e anzi in un primo tempo i romantici sembrano meno patriottici dei classicisti, in quanto disconoscono la supremazia letteraria degli Italiani. Per molte ragioni, peraltro, i romantici si orientano di fatto, salvo qualche rara eccezione e con diverse sfumature di pensiero, verso gli ideali d’indipendenza.
I poeti più rappresentativi del periodo, anche se in nessun modo semplicisticamente ascrivibili al Romanticismo, al quale anzi non risparmiano le loro critiche, sono U. Foscolo e G. Leopardi, che denunciano il destino umano di dolore e l’insensatezza della vita. Tuttavia, mentre per Foscolo il riscatto si realizza nel culto della memoria, negli affetti, nella poesia e in quant’altro permette momentaneamente di dimenticare le disgrazie e addirittura illude di sopravvivere dopo la morte, per Leopardi il riscatto è nell’esercizio della ragione e della umana solidarietà, pur nella consapevolezza che anche questa lucida contemplazione pessimistica rappresenta una ulteriore illusione. In Foscolo e Leopardi, e soprattutto nel più anziano dei due, oltre alla recente esperienza classicistica di una poesia capace di emulare quella antica, agiscono potenti reminiscenze vichiane, di un pensiero cioè che avrebbe da allora in poi corretto in maniera peculiarmente italiana l’eredità dell’Illuminismo e che già era pervenuto a una revisione della convenzionale immagine del mondo greco-romano. Inascoltato nei tempi cartesiani e illuministici, l’insegnamento di Vico è accolto ora in clima idealistico postkantiano, per il tramite soprattutto di V. Cuoco e del suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801), che giunge quando già si è constatato il fallimento della stessa Rivoluzione francese in quanto espressione del mito illuministico della ragione: l’avvento di quest’ultima nel campo politico non ha dato agli uomini la sperata felicità, ma il Terrore, e poi Napoleone. Stretti tra la convinzione razionalistica che di là della tomba non ci sia nulla di eterno e la recente disillusione storica, i grandi poeti del primo Ottocento romanticamente vedono nella vita disordine, ingiustizia, dolore. Ecco che allora il pensiero razionalistico è sconfitto nell’atto stesso d’imporre la sua validità, giacché esso non spiega quale scopo abbia il vivere, se questo non è che lunga sofferenza.
U. Foscolo imposta il problema in qualcuno dei sonetti e soprattutto nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, convulso atto di accusa alla vita e prima dimostrazione del destino antiromanzesco della narrativa italiana, inevitabilmente concepita a ridosso della poesia. Ma, rinnovando il titanismo alfieriano alla luce di una moderna consapevolezza materialistica, giunge infine alla conclusione che l’impulso superiore verso il bene e il bello non può restare senza scopo, scomparire con l’ultimo respiro. È il tema fondamentale dei Sepolcri, che piegano uno spunto ormai convenzionale a personali esigenze spirituali e poetiche.
Un’analoga animosità ispira fin dagli esordi anche G. Leopardi, che dal mito del titanismo dell’azione perviene al titanismo del pensiero. Tutta la sua opera è percorsa da una vena dolente di pietà che ne condiziona il titanismo, ed è da sottolineare il rifiuto giovanile di Leopardi nei confronti della poetica romantica, di cui pure condivide l’idea di una poesia come effusione dell’anima, puro lirismo. Dal suo punto di vista, per esprimersi con assoluta purezza non c’è bisogno di rinnegare la tradizione, dalla quale anzi si può ricavare l’esempio della nativa semplicità di una lingua non modellata sul parlato, ma come il parlato duttile e universalmente intelligibile, senza rinunciare all’eleganza, né alla sostenutezza.
Anche per A. Manzoni la vita è disordine e male. Se però ai suoi esordi, in continuità non solo esteriore con il classicismo di Parini o di Monti, il razionalismo illuminista dell’ambiente nel quale è stato educato lo può illudere che alla tragedia universale si possa ancora porre rimedio, la conversione al cattolicesimo, proprio mentre gli consente di trovare un senso e di concepire una compensazione all’irrazionalità della storia, lo persuade anche definitivamente del destino di dolore comunque riservato agli uomini. Così, la sua ulteriore conversione dal classicismo al Romanticismo, di cui sarà il più autorevole esponente in I. e il più acuto sostenitore, sembra la conseguenza inevitabile della volontaria mortificazione cui sottopone la propria individualità e gli ideali letterari a essa connessi, l’una e gli altri sacrificati a una missione di verità che è innanzitutto ammissione della vanità di ogni sforzo di salvezza individuale e recupero della propria identità di fedele.
Le nuove idee si concretano in una poetica e nei minori danno luogo a un facile ricettario di situazioni e di motivi poetici. Per es., s’istituisce subito una mitologia cristiana medievale popolata di stereotipi, a partire da un’indebita equiparazione fra Romanticismo e Medioevo, anche se appare subito chiaro che la sostituzione di una mitologia a un’altra non ha alcun senso. Il principale dei miti poetici è tuttavia quello del conflitto tra individuo e società, che si esprime o nel senso di un titanismo che nei poeti minori si configura essenzialmente in byronismo, o nel senso di un sentimentalismo che trova la sua espressione in personaggi-vittime, che sanno di essere tali e si compiacciono segretamente di esserlo. Ed è questo sentimentalismo a prevalere nel primo Ottocento, tanto che presto il Romanticismo italiano viene confuso con esso.
C’è però la via maestra del realismo. Quello di C. Porta e, in un primo tempo, di T. Grossi (Prineide) prende le forme tradizionali della satira e del comico, e supera l’impaccio della lingua ricorrendo semplicemente al dialetto. Pochi anni dopo, G.G. Belli dà al suo realismo uguale soluzione linguistica. Per la via comico-dialettale si raggiunge di colpo il contemporaneo e il quotidiano, cui il Romanticismo pure tende. Dalla satirica Prineide l’amico di Manzoni, Grossi (autore dell’ultimo dei poemi eroici italiani, I Lombardi alla prima crociata), passa alla patetica Fuggitiva, cioè affronta il contemporaneo anche dal lato ‘serio’, ma l’affronta ancora in dialetto, per passare poi al romanzo storico in lingua. Ed è proprio il racconto storico a dilagare in I., come in tutta Europa, sulle orme di W. Scott; sorge un genere nuovo, la novella in versi, per lo più storica anch’essa, ma che talvolta si avventura nel contemporaneo (oltre a Grossi, C. Cantù, G. Torti e S. Pellico con alcune sue Cantiche), e che più del romanzo fa battere l’accento principale sulla psicologia. Quanto ai romanzi storici (di G.B. Bazzoni, C. Varese, Grossi, Cantù, G. Rosini ecc.), basterà notare che essi, derivati direttamente da Scott o dall’assai diverso Manzoni, forzano le tinte del patetico e dell’avventuroso, o, come il Fieramosca e il Niccolò de’ Lapi di M. d’Azeglio, tendono esplicitamente all’educazione del carattere a fini patriottici. In molti scrittori gli intenti realistici s’intersecano strettamente con quelli sentimentaleggianti, che spesso travolgono i primi. A parte stanno i molti romanzi storici di F.D. Guerrazzi, di byroniana virulenza che pur non esclude il patetico, e le memorie, di cui l’Ottocento è tanto ricco (Pellico, d’Azeglio). Quanto alla lirica, o si rivolge verso il narrativo nella ballata (Berchet, L. Carrer) o sprona alla libertà e all’indipendenza (Berchet, G. Mameli, L. Mercantini ecc.). I soli lirici di quella generazione che si possono ancora ricordare sono A. Poerio e N. Tommaseo, personalità quest’ultima di primissimo piano nei molti campi della sua attività (narrativa, filologia, storia, critica letteraria ecc.).
Il quindicennio 1840-1855 è il periodo di maggior fortuna dello sfumato dell’espressione e del sentimento: vi dominano G. Prati, e A. Aleardi. In campo poetico, prendono posizione contro l’esibizionismo del dolore gli ‘scherzi’ di G. Giusti, notevoli anche nella storia del Risorgimento. Le vie che la reazione alla lirica vaporosa percorre, dal momento che acquista coscienza di sé, intorno al 1860, sono diverse tra loro e conducono a risultati d’arte differentissimi: quella della Scapigliatura; quella della poesia realistico-familiare o realistico-borghese o ‘veristica’; quella carducciana.
Ai più rappresentativi degli scapigliati, E. Praga e A. Boito, il canone consueto aggiunge altri scrittori (G. Rovani, I.U. Tarchetti, C. Boito, G. Camerana, C. Dossi), ma in realtà non tutti gli aspetti della Scapigliatura sono ravvisabili in ciascuno di essi. Gli scapigliati, che sono stati persino considerati i soli autentici romantici italiani, si proclamano antiromantici, perché oppongono alle immagini edulcorate pratiane e aleardiane il loro ‘vero’, e sono proprio loro a dare avvio alla lotta contro lo spirito ‘borghese’, anche se permane in essi, e soprattutto in Praga, un desiderio di affetti sereni. Ciò spiega come dal loro stesso ambiente spirituale nasca la poesia, così diversa, di V. Betteloni, che, sempre alla ricerca del concreto, punta proprio sui valori della vita borghese. Contemporaneamente, i Postuma di L. Stecchetti (pseudonimo di O. Guerrini) suscitano vaste ma non durature ondate di ammirazione, fomentando un’aspra polemica tra ‘idealisti’ e seguaci del ‘verismo’ propugnato da Stecchetti. Appartato, G. Zanella passa dalle ambiziose sintesi, dal tentativo di conciliazione poetica di scienza e fede, ai nitidi quadretti dell’Astichello.
A modo suo, G. Carducci obbedisce anche lui all’esigenza realistica; combatteva l’ideale, il mistico, il vapore, le sfumature. Auspica insomma una poesia concreta, aderente alla vita, ma senza staccarsi dalla tradizione greco-latina-italiana, anzi rinvigorendola. Partito da Giusti, dopo il noviziato classicheggiante imbocca dapprima, nei Giambi ed epodi, la solita via della satira e dell’invettiva, per approdare, dopo la crisi intorno al 1870, alle Rime nuove e alle Odi barbare, poesie di massima concretezza fantastica e insieme estremamente elaborate. I modelli sono i neoclassici sette-ottocenteschi. Ma il neoclassicismo carducciano, salvo alcuni momenti, non è parnassianesimo: questo contempla nostalgicamente il passato come un tempo di sogno, mentre per Carducci il passato può e deve ritornare; da ciò la sua fede patriottica e politica, la sua ispirazione epica, a tratti così robusta, la sua funzione di educatore che ne fa l’ultimo, e il più grande, poeta del Risorgimento. Ma Carducci non è esente dalle inquietudini e dagli squilibri del suo tempo, anche se questi tratti spesso sfuggirono ai suoi raffinati successori, che lo condannano come un retore.
Nel teatro il quadro è ancora più mediocre. Dalle tragedie storiche primo-romantiche alla Pellico si passa ai drammi storici di P. Cossa, alle commedie di P. Ferrari, a quelle di costume come I mariti di A. Torelli. Mentre G. Gallina sentirà sempre più il bisogno d’immettere nella sua bonarietà goldoniana fermenti veristici, G. Giacosa alterna l’idillio sentimentaleggiante di ambiente storico (La partita a scacchi), il dramma medievale in versi, quello ibseniano e quello psicologico borghese (Tristi amori, Come le foglie ecc.).
Nella narrativa, personalità notevole dell’epoca è quella di Tommaseo, che con Fede e bellezza (1840) dà vita a un romanzo nel quale l’analisi psicologica è sottile e, trattandosi di motivi autobiografici, spietata, carattere in singolare contrasto con la letteratura del tempo in cui apparve. Fondamentale per la storia del romanzo in I. è il celebre Confessioni d’un italiano di I. Nievo. Anche Rovani compone un grande affresco nel suo Cento anni, ma, mentre nel suo romanzo l’intento storiografico prevale su quello psicologico, nel romanzo di Nievo l’interesse dello scrittore verte essenzialmente proprio sulla psicologia, delineando a posteriori l’ideale biografia capace di fare da sfondo alla grande poesia romantica. Più che da Rovani, che pure passa per il capo di quella tendenza, lo spirito della Scapigliatura è testimoniato nella narrativa da altri scrittori di quel gruppo, e soprattutto da Tarchetti e da Boito.
In mezzo a essi opera anche il giovane Verga, destinato a condurre il romanzo italiano, nella maniera più conseguente con le sue premesse e insieme più europea, sulla strada del verismo, in un processo evolutivo che la Francia ha già affrontato passando dal realismo di G. Flaubert al naturalismo di É. Zola. Nella teoria dell’impersonalità il Verga maturo trova un fondamento, quando, dopo il sentimentalismo della Storia di una capinera e altri romanzi di impostazione convenzionale, scopre l’essenziale umano e letterario nella sua Sicilia, con le novelle e i due romanzi maggiori, I Malavoglia e Mastro don Gesualdo. Alla narrazione di argomento siciliano lo ha incoraggiato l’amico L. Capuana, il quale trova anche lui nella Sicilia la fonte d’ispirazione per la sua opera più significativa, Il marchese di Roccaverdina.
L’ultimo scorcio del 19° sec. è caratterizzato da una più accentuata dipendenza della nostra letteratura dalla cultura europea, che è valsa in genere agli scrittori del periodo l’accusa di provincialismo. Le formule del positivista H.-A. Taine accompagnano quasi insensibilmente gli scrittori italiani dal determinismo esasperato a un atteggiamento irrazionalistico che di quel determinismo si nutre e conserva molte cose. È questo il periodo del decadentismo. Altra forma di provincialismo è quella che si rivela in un ripiegamento sulle tradizioni locali, senza porsi il problema del ritardo rispetto all’Europa. A parte il caso di narratori atipici come E. De Marchi o A. Oriani, che si rifanno, con accenti propri, alle esperienze prossime del verismo, in quest’area meno appariscente raggiunge maturità d’arte il bozzetto, quadretto nitido e compiuto nei suoi brevi limiti, in una lingua piana e precisa (bozzettista è da considerare anche, nelle sue pagine migliori, E. De Amicis). A un più alto livello si colloca l’opera narrativa del veneto A. Fogazzaro, tributaria delle teorie darwiniane e alla fine portavoce del modernismo cattolico. Il verismo meridionale ha i suoi migliori rappresentanti in F. De Roberto, che con I Viceré produce anche l’unica esperienza narrativa ottocentesca paragonabile ai capolavori verghiani, e in M. Serao.
È proprio la mancanza di riferimenti certi, tipica della modernità, che bisogna tenere presente se si vuole comprendere la poetica di colui che inaugura la poesia italiana moderna, G. Pascoli, per il quale la poesia non è propriamente neppure nell’anima individuale, ma addirittura nelle cose, esiste indipendentemente non solo dalla pagina che la registra, ma dagli occhi e dall’anima che guardano. Per Pascoli, la poesia è solo slancio lirico dell’anima, che si esprime in una notazione, in un’illuminazione istantanea. A essa è assolutamente estraneo ogni intento educativo. Tuttavia, nella concreta opera pascoliana, questi assunti vengono a patti, non senza contraddizioni, con altre e diverse persuasioni e tendenze. Allo stesso modo, nella lingua poetica, che costituirà un punto di riferimento per i poeti posteriori, la tendenza alla suggestione musicale e all’analogia si compone in lui con il bisogno estremo del concreto, di eredità carducciana, proprio a tutta la generazione di poeti da cui egli direttamente discendeva.
Sensibile ai più diversi influssi della letteratura europea contemporanea si dimostra G. D’Annunzio. Muove dal panismo carducciano per esprimere la gioia sensuale che si manifesta nella fusione uomo-natura (soprattutto in Alcyone); esordisce come narratore nell’ottica del verismo, interpretandone l’impersonalità come osservazione acuta e crudele, in un compiacimento sensuale di colori; accoglie influenze dall’estetismo inglese e francese; procede, infine, in senso autonomo, individuando nel romanzo l’unico tramite moderno verso l’esperienza della poesia e la sua inseparabilità dalla critica e dal commento. L’attivismo irrazionalistico, diffuso a livello europeo, trova in D’Annunzio, colorandosi di nazionalismo, un formidabile campione italiano, la cui efficacia supera i confini della letteratura, contribuendo al sorgere ed affermarsi del fascismo. Al di là della sua immagine forzatamente autocelebrativa, gli scrittori successivi trarranno ispirazione dalla sua vena frammentista (Le faville del maglio, prose di confessione e di ricordi) e diaristica (Notturno ecc.), nonché dal suo importante esempio di innovazione metrica, oltre che linguistica, nella poesia.
La novità della critica romantica consiste nella promozione di una storia letteraria non più concepita come cronologia e neppure, settecentescamente, come ‘storia filosofica’ (quella che nel 1796 progettava di scrivere anche Foscolo), ma come storia dello spirito italiano, disposta secondo una linea che, sia pure qua e là interrotta e spesso tortuosa e magari retrocedente, sia in definitiva progressiva. Tra i critici si distinguono, nel primo Ottocento, F.S. Salfi e G. Scalvini, che non ebbero tuttavia eco nel loro tempo. Ma ben più notevole di loro è U. Foscolo, che nella sua opera critica sente l’esigenza di storicizzare il singolo più che quella di scoprire la successione storica. L’individualità della poesia si manifesta per lui nella concretezza della parola del poeta, e l’esame puntuale dello stile e della parola, così intesi, è la grande e feconda novità foscoliana.
Tommaseo non esce dall’ambito delle notazioni e dei giudizi particolari, ma il titolo da lui dato a una sua raccolta, Storia civile nella letteraria, indica quale fosse il fine a cui tutti tendevano. Una storia civile nella letteraria disegna, breve ed eloquente, V. Gioberti nel Primato. Anche G. Mazzini cerca costantemente nella letteratura la testimonianza dello spirito italiano e la linea del suo progresso; considera anzi l’arte come «elemento di sviluppo collettivo», sviluppo sociale oltre che politico, internazionale oltre che nazionale. L’esigenza di una storia letteraria così concepita avanza anche il mazziniano e foscoliano C. Tenca, il maggiore, forse, dei critici tra Foscolo e De Sanctis. Dissolta interamente nella civile è la Storia letteraria del ‘ghibellino’ P. Emiliani Giudici; su questa linea è, infine, L. Settembrini, che concepisce tutta la storia italiana, e anche la letteraria, come contrasto tra libero pensiero e Chiesa.
Una vera storia comunque la scrive solo F. De Sanctis, che considera sia i fatti letterari sia gli avvenimenti civili come testimonianze diverse dell’evolversi nel tempo di uno spirito unitario: la sua Storia non è dunque propriamente storia della letteratura, ma dello spirito italiano come si riflette nella letteratura. Contemporaneamente a De Sanctis e subito dopo, Capuana svolge un’opera critica di grande efficacia nella letteratura contemporanea. Altri studiosi costituiscono la prima generazione della cosiddetta scuola storica o del metodo storico, tra i quali, per ricordare solo quelli che si occuparono di letteratura italiana, Carducci, A. D’Ancona, A. Bartoli, D. Comparetti, F. D’Ovidio, P. Rajna. Anche essi obbediscono, come dice la loro stessa denominazione, all’esigenza storica: solo che il positivismo ormai dominante li persuade a concepire deterministicamente la storia letteraria. La reazione al gusto erudito e alla mentalità positivista della scuola storica sarebbe poi culminata nella negazione crociana della legittimità stessa di una storia letteraria.
La storia letteraria del Novecento risulta caratterizzata dalla persistenza di alcune coppie oppositive: prima fra tutte la progressiva estensione dell’area sociale dei fruitori, e il costante allontanamento della letteratura dal senso comune, in una ricerca dell’originalità ai limiti dell’esoterismo. Come si specializza una letteratura, e soprattutto una narrativa, destinata al più comodo intrattenimento, così l’esoterismo reagisce programmaticamente, in nome di una nozione più problematica e impegnativa di letteratura, alla banalizzazione che sarebbe implicita nella fruizione del pubblico di massa e che comunque viene perseguita da autori prigionieri di una logica meramente commerciale. Solo subordinatamente la storia letteraria del Novecento può essere quindi rappresentata come un’ininterrotta controversia tra l’innovazione e la conservazione, che in alcune circostanze sono diventati ideali autosufficienti.
Data dall’inizio del secolo la polemica, mai esaurita, contro una letteratura destinata solo ai letterati o comunque sprovvista di serie motivazioni e attendibili fondamenti. Più ovvia da parte di chi si ribella alla superstizione passatista, la polemica è coerente anche con il rifiuto di una letteratura ridotta alle mere apparenze esteriori. È in questo senso antiletteraria l’opera stessa dei poeti che potrebbero legittimamente dare il proprio nome alla letteratura primonovecentesca: i crepuscolari, come sono definiti dal critico G.A. Borgese. Nonostante l’apparenza dimessa, i poeti crepuscolari (S. Corazzini, A. Palazzeschi, M. Moretti, C. Govoni) fomentano un moto di rivolta anarchica: la loro consapevolezza ironica assume il punto di vista straniante del lettore comune, invitando a reagire contro la ridicola sontuosità dei miti dannunziani. G. Gozzano è il solo poeta ascrivibile all’area crepuscolare per il quale il distacco critico da D’Annunzio non comporti la perdita di un più complesso senso della storia e della cultura. La lezione gozzaniana giunge al termine della parabola storica crepuscolare; a essa, più che al crepuscolarismo stesso, guarderanno con interesse poeti e critici delle generazioni successive.
L’opera di demolizione dei tradizionali istituti poetici avviata dai crepuscolari è portata a compimento da G.P. Lucini, alfiere di un riscatto pansimbolista di marca ottocentesca della poesia, e dal padre del futurismo F.T. Marinetti, che propugna lo scardinamento della sintassi, l’esaltazione dell’onomatopea, l’accantonamento di aggettivi e avverbi, il ricorso ai simboli matematici in luogo della punteggiatura, il simultaneismo. Tutte le arti vengono interessate dalla progettazione sovvertitrice del futurismo, mentre emerge la portata politica del fenomeno, che avrà un suo ruolo almeno fino all’avvento del fascismo. Una analoga conversione alla politica è del resto implicita nell’atteggiamento apparentemente antiletterario della cultura del tempo, espresso da personalità come G. Papini e G. Prezzolini.
La centralità rivendicata da B. Croce all’estetica e soprattutto la coincidenza postulata tra intuizione ed espressione artistica si muovono nella stessa direzione dei programmi eroici del blocco avanguardista. Con il complesso della sua opera, filosofica, storiografica, critico-letteraria ed erudita, Croce riuscirà a mantenere per oltre un cinquantennio la sua egemonia culturale in Italia. L’autorevolezza della Critica, la rivista che Croce fonda e dirige dal 1903, non rappresenta un modello per le più giovani riviste fiorentine dei primi anni del secolo (il Leonardo, l’Hermes e il nazionalista Il Regno), ma è perseguita con strumenti diversi e un’incidenza sicuramente maggiore, almeno sul breve periodo, dagli uomini della Voce. Fondata da Prezzolini nel 1908, questa rivista ha il merito di verificare in concreto l’esistenza di un pubblico prima individuato solo in via ipotetica e di scoprire la convenienza di uno stile di pensiero e di una maniera di porgere capaci di coniugare la scelta di un pubblico intellettuale con la consapevolezza dei meccanismi delle comunicazioni di massa. Sulla rivista di Prezzolini scrivono Papini e G. Salvemini, G. Amendola e A. Soffici, Croce e S. Slataper, G. Gentile e G. Boine, G. Lombardo-Radice e B. Mussolini, R. Serra e G. Fortunato, F.S. Nitti e L. Einaudi. Accanto alla Voce, presso i suoi stessi collaboratori, si manifesta una linea coerente di ricerca poetica, i cui esponenti sono C. Rebora, C. Sbarbaro, Boine, A. Onofri, M. Novaro, P. Jahier, anche D. Campana e C. Michelstaedter. Con questi poeti si celebra il divorzio tra scrittura e lettura, nel momento stesso in cui più nettamente si avverte la problematicità del loro rapporto: autori e lettori sembrano aver perso il ricordo delle ragioni che avevano presieduto alla modificazione del linguaggio poetico.
Di un analogo itinerario compiuto quasi sotterraneamente dai narratori ci si rende conto solo dopo la guerra e per effetto della risonanza europea delle opere di M. Proust e J.Joyce. Con I. Svevo (pseudonimo dello scrittore Ettore Schmitz), il romanzo perviene agli esiti più francamente antinaturalisti di La coscienza di Zeno (1923). Con L. Pirandello, già in Il fu Mattia Pascal (1904), prima ancora dunque di approdare agli esiti maggiori della produzione drammaturgica, si inaugura felicemente quella specie di riduzione didattica della rappresentazione che giustifica l’impulso a raccontare. È invece un genio cupamente visionario quello con cui F. Tozzi ripropone un’immagine ancora ottocentesca di narrativa paesana o piccolo-borghese.
Narratore di diversa cultura è R. Bacchelli, uno scrittore che l’estraneità alla logica del modernismo e il rifiuto delle mode spingeranno a tornare al romanzo storico alla Rovani e alla Nievo, inserendosi nel tradizionalismo più estrinseco della Ronda, rivista che per la verità coltiva un progetto più conciliativo che seccamente restauratore. Persino l’asprezza polemica di colui che è il suo principale animatore, V. Cardarelli, non riesce a nascondere di pensare a un ritorno ai classici nutrito di ragioni modernissime e comunque finalizzato al recupero e semmai alla normalizzazione delle esperienze della poesia immediatamente precedente. Accanto alla poesia cardarelliana e alla sua lezione di rigore formale prolifera una produzione in prosa, dello stesso Cardarelli, oltre che di E. Cecchi, A. Baldini, B. Barilli.
La Prima guerra mondiale e il dopoguerra, con l’avvento al potere del fascismo, costituiscono un’interruzione drammatica del dibattito culturale. Quando gli intellettuali riprendono a discutere sono posti davanti a una scelta senza possibilità di compromesso: con la letteratura scelgono il ripiegamento sul privato e sulla tradizione; con la politica sono costretti a rinunciare alla complessità di una ricerca appena incominciata, abbandonando tra l’altro al regime la riflessione sulla comunicazione sociale insieme con il suo esercizio. Ciò non riguarda ovviamente le iniziative politiche ed editoriali di P. Gobetti e il lavoro teorico condotto soprattutto in carcere da A. Gramsci, fondatore del Partito comunista e ispiratore dei Consigli di fabbrica torinesi, che avvia una revisione critica dello storicismo crociano destinata a dominare la scena del secondo dopoguerra. In G. Ungaretti, alla nettezza della formula stilistica delle prime opere (Il porto sepolto, 1916, poi confluito in Allegria di naufragi, 1919), segue un lavoro di ripensamento e sistemazione, se non di restaurazione, alla luce della tradizione petrarchesca, con la scoperta delle ragioni della poesia classica nella propria e il conseguente reciproco riscatto (Sentimento del tempo, 1933). Da questa posizione di forza, non Ungaretti ma i poeti dell’ermetismo riusciranno a chiudere perfettamente il cerchio della poesia pura.
Programmaticamente meno eroica, l’opera di E. Montale comincia (Ossi di seppia, 1925) mettendo a frutto l’esempio di Gozzano, anche al di là dell’accostamento stridente di aulico e prosaico. La poesia mette in scena, con l’insufficienza del linguaggio, quella del pensiero, rassegnandosi a esibire gli oggetti-feticcio al di là dei quali non è capace di andare e attraverso i quali soltanto riesce impropriamente a significare. La poetica del correlativo oggettivo, come si chiama con una definizione mutuata da T.S. Eliot l’ossificazione del simbolo in ‘amuleto’, e la tentazione allegorica forniranno ai ripetitori, e allo stesso Montale minore, un repertorio di oggetti e situazioni topiche.
Di misura classica è anche la poesia di U. Saba, figura centrale della cultura triestina (e non solo) del Novecento, il cui itinerario poetico si snoda in un passaggio da una critica crepuscolare contro la retorica dannunziana, a una stagione degli entusiasmi avanguardisti vissuta polemicamente, a un paradossale classicismo antiletterario, ispirato ai modelli ottocenteschi.
La stagione ermetica, di cui C. Bo è il teorico, G. Contini il critico migliore, S. Quasimodo il poeta più rappresentativo, corrisponde nelle sue generalità a un ulteriore consolidamento della tradizione del nuovo. Nasce, come poesia pura, un linguaggio in cui si è perso il senso comunicativo del gesto e della figura, ma non il loro carattere distintivo, che diviene solo sempre più intellettualizzato. La chiusura iniziatica della poesia ermetica è stata interpretata come una risposta polemica al fascismo. Al fascismo dal canto loro reagiscono, sempre in termini puramente letterari ma con una più immediata capacità di provocazione, i letterati che riprendono il tema annoso della sprovincializzazione della cultura italiana. Meglio degli ermetici, con la loro dipendenza dal dibattito letterario francese, e della rivista 900 di M. Bontempelli, fautore di un internazionalismo troppo legato all’avanguardia, si comportano i collaboratori di Solaria (diretta a partire dal 1926 da A. Carocci e A. Bonsanti), rivista che promuove gli esordi di E. Vittorini e C.E. Gadda.
Lo scrittore che imprime una svolta decisiva al romanzo italiano muove tuttavia da altri presupposti. Con Gli indifferenti (1929), prima di una lunga serie di opere di successo, A. Moravia propone un realismo aggiornato sulla sensibilità post;bellica. Elevando le sue ossessive fantasticherie di degradazione a rappresentare la media società italiana, Moravia riesce a superare i limiti della finzione, chiama alla ribalta le manie e i vizi autentici dei tempi moderni, e rende ulteriormente persuasiva la loro condanna, mostrando come essi siano spesso il frutto di una recita alla quale lo stesso autore non riesce a sottrarsi.
È in ogni caso il romanzo il veicolo più efficace della sprovincializzazione della nostra cultura letteraria tra le due guerre. Oltre alla fantasia di realismo di Moravia e al vero e proprio ‘realismo fantastico’ di Bontempelli, cui vanno associati A. Savinio e T. Landolfi, c’è l’attenzione sperimentale per l’attualità di C. Pavese ed E. Vittorini, che si rivolgono alle tecniche d’importazione, soprattutto americane, praticandole di fatto nel senso di una restaurazione lirica del soggetto e di una ripresa quindi di una spregiudicata problematicità del raccontare.
All’indomani della liberazione, il Politecnico, rivista fondata e diretta da Vittorini, si afferma come organo ed emblema di un nuovo progetto pedagogico, con l’intento di affermare il ruolo centrale della cultura e degli intellettuali nel processo di rinnovamento nazionale, che viene concepito come un lavoro di acculturazione delle masse e come un aggiornamento di strumenti concettuali e riferimenti letterari. La difesa dell’indipendenza della cultura contro le prevaricazioni della politica, nel corso di una celebre polemica tra Vittorini e l’apparato del Partito comunista, è però un messaggio che non viene recepito inizialmente dai letterati, che trovano un sicuro orientamento nell’engagement e nella poetica realista. Così, sotto l’etichetta del neorealismo, più ancora attraverso il cinema che la letteratura, scrittori affermati ed esordienti si cimentano con i temi canonici di una narrativa ridotta a cronaca. Nello stesso periodo, raggiunge risultati personalissimi B. Fenoglio. Di una prosa senza radici, che non siano quelle prossime del calligrafismo liricizzante o di una certa spartana sobrietà (il miglior frutto della voga neorealista), si può certamente parlare per molta narrativa degli anni 1950, nella quale si segnalano i più disparati recuperi (da H. James a De Roberto) a opera di G. Bassani, C. Cassola e G. Tomasi di Lampedusa.
Contro il conformismo modernista, un P.P. Pasolini modernamente sperimentale torna a Pascoli e a Verga per cercare una via non ancora battuta verso il moderno e per dimostrare come, giunti in fondo al moderno, non si possa non ritornare alle sue origini. È dunque con attitudine di filologo che lo scrittore riconsidera a freddo il problema del romanzo, puntando sul dialetto e riconoscendo nel romanesco la lingua della realtà (Ragazzi di vita, 1955), come il friulano era stato per lui la lingua della poesia. Una lingua della realtà che poi coerentemente sarà individuata nel cinema. Avvicinato approssimativamente al Pasolini narratore, Gadda viene conosciuto dal grande pubblico solo a partire dagli anni 1950. Ed è lui lo scrittore al quale va assegnato il ruolo principale nel rinnovamento novecentesco della nostra prosa d’invenzione. Ufficiale e nello stesso tempo appartata, la poetica della seconda generazione ermetica sceglie un percorso meno impervio, di aggiustamento e moderazione degli eccessi (M. Luzi, G. Caproni, V. Sereni, A. Bertolucci).
All’inizio degli anni 1960, ben al di là dello svolgimento del tema sulla letteratura industriale (nel quale tuttavia cominciano a distinguersi O. Ottieri, G. Parise e P. Volponi), è in gioco la ripresa della riflessione sul moderno e sulla letteratura in genere. I letterati recuperano la funzione propulsiva dell’avanguardia storica, alla luce di nuovi parametri culturali: la fenomenologia, il marxismo critico, la Scuola di Francoforte, la psicanalisi, il nouveau roman, il Gruppo 47 tedesco. Ed è in questa atmosfera che nasce la neoavanguardia, per molti identificata nel Gruppo 63. Se in poesia i neoavanguardisti riescono a stabilire una leadership duratura, le loro proposte narrative incidono solo in superficie su una zona particolarmente fertile come quella del romanzo, dove prosegue la ricerca di alcuni scrittori che sfuggono a qualsiasi etichetta, da E. Morante a Volponi, da L. Sciascia a I. Calvino. Tra i poeti del periodo si ricordano in particolare A. Pierro, A. Zanzotto, G. Giudici.
La letteratura in prosa e in poesia del dopo 1968 non riconosce figure-guida, ma subisce l’egemonia della neoavanguardia. In poesia, anziché linee, emergono nomi isolati: D. Bellezza, M. Cucchi, M. De Angelis, V. Magrelli. Dei narratori, meno soggetti ai ricatti della generazione precedente ma anche schiacciati dal confronto con gli scrittori più anziani in attività (tra i quali conoscono una felice stagione G. Bufalino, R. La Capria, G. Bonaviri, L. Malerba, V. Consolo, G. Pontiggia), si salvano solo quelli con una vocazione letteraria più pronunciata (G. Celati, F. Cordelli, A. Tabucchi, G. Montefoschi), per i quali l’arte del racconto ha ancora un senso che non sia puramente commerciale, ma non si riduce nemmeno più a una ricerca astratta di prototipi.
Nel Novecento un ruolo sempre più importante viene svolto dalla critica, che arriverà a condizionare in una misura precedentemente impensabile il lavoro degli scrittori e gli orientamenti del pubblico, e in alcuni momenti si affermerà come il genere letterario più rappresentativo. Sull’esempio di Croce si muovono inizialmente un po’ tutti i critici letterari. L’ispirazione crociana della critica ammette una amplissima gamma di variazioni e sembra escludere ogni vera conflittualità, lasciandosi esprimere da una parte da una sorta di annalismo letterario, in cui eccellono E. Falqui e P. Pancrazi, oltre a E. Cecchi, e dall’altra dalla vocazione storiografica di alcuni studiosi (F. Flora, L. Russo, M. Sansone, N. Sapegno). Nel periodo tra le due guerre e in quello immediatamente successivo, si ha accanto all’ermetismo una produzione critica che tenta di assecondare l’angoscia metafisica e le ricerche di un nuovo linguaggio poetico da parte degli scrittori italiani ed europei del Novecento (Bo, O. Macrì, L. Anceschi, P. Bigongiari ecc.), ma anche in questo caso, se cambia il linguaggio dei critici e si allarga il loro orizzonte culturale, non viene meno la loro dipendenza dal quadro di riferimento crociano. Accanto alla critica estetica di Borgese, Russo, A. Gargiulo, Pancrazi, A. Momigliano, M. Fubini, ottiene risultati veramente notevoli e duraturi una nuova fioritura della scuola storica, sia pure rimanendo nell’ambito specifico della filologia, o muovendosi in una direzione che sembra preludere alla critica stilistica (C. De Lollis, E.G. Parodi, D. Petrini) e poi della più penetrante critica stilistica diventa la sede deputata. Dalle edizioni critiche esemplari di M. Barbi si passa ai lavori filologici ed eruditi di S. Battaglia, V. Branca, G. Petrocchi, G. Billanovich, L. Caretti, D. Isella, e agli studi di storia della lingua italiana di B. Migliorini, A. Schiaffini, G. Devoto, G. Folena, I. Baldelli. Un’azione di primo piano in questo campo esercita G. Contini, mentre risentono positivamente della spinta verso il gusto e la cultura contemporanea del crocianesimo, a esso rimanendo a loro volta lungamente fedeli, vari filologi classici o filosofi o linguisti, da M. Valgimigli a G. Pasquali, da E. Garin ad A. Pagliaro e a B. Terracini; e anche critici di altre letterature come F. Neri, P.P. Trompeo, M. Praz, G. Macchia.
Una frattura più formale che sostanziale nella vicenda della critica novecentesca si determina, dopo la Resistenza, nella stagione dell’engagement degli intellettuali, per l’affermazione, fortemente polemica nei confronti del crocianesimo, dell’ideologia marxista e in particolare del pensiero di Gramsci. A esso si riferiscno studiosi come Sapegno, G. Trombatore, G. Petronio, C. Muscetta, C. Salinari, che per la verità sviluppano le stesse indicazioni storicistiche cui si rifanno negli stessi anni anche W. Binni e G. Getto, non distaccandosi mai del tutto dal crocianesimo. Analogamente conservativo, in giornali e periodici, è l’atteggiamento di gran parte della critica militante degli anni 1950, mentre se ne distingue, prendendo altresì le distanze anche dalla critica accademica, il lavoro di S. Solmi e soprattutto di G. Debenedetti.
Una nuova stagione della critica letteraria si apre all’insegna di scienze quali linguistica, psicologia, e in particolare psicanalisi. Alla linguistica si rifanno inizialmente i seguaci italiani, spesso ancora crociani ortodossi, di E. Auerbach e L. Spitzer, come il già citato Schiaffini, o, viceversa, sia critici marxisti eterodossi (F. Fortini), sia filologi romanzi (A. Roncaglia). Successivamente la linguistica, riprendendo le indicazioni di F. de Saussure, originerà la gran voga strutturalista e semiologica, destinata a protrarsi dall’inizio degli anni 1960 alla fine degli anni 1980. In Italia la critica strutturalista, presto convertitasi alla semiotica, è degnamente rappresentata soprattutto da M. Corti, C. Segre e U. Eco. Si rifanno all’approccio sociologico, oltre agli studiosi attenti ai generi letterari di consumo e alla paraletteratura (V. Spinazzola), i critici marxisti formatisi sulla lezione della Scuola di Francoforte, ed esponenti di spicco della critica sociologica sono Fortini, E. Sanguineti, A. Asor Rosa, R. Luperini. L’estremo frutto della grande illusione scientista della critica è costituito dal decostruzionismo, ancora una volta importato (J. Derrida, P. de Man). Quanto alla critica militante, essa subisce un drastico ridimensionamento, per il maggior peso dell’industria culturale, e può contare solo su poche personalità (P. Citati, C. Garboli, G. Pampaloni, E. Siciliano). Scompaiono le riviste letterarie, mentre si moltiplicano i periodici di informazione libraria.
La crisi ideologico-politica che accompagna i grandi eventi della fine del 20º sec. accelera la fine della teoria che vede la cultura letteraria legata a un progetto di sviluppo sociale. Di qui il diffuso ripiegamento degli scrittori sulle proprie ragioni individuali. Alla percezione sempre più diffusa di una situazione di vuoto intellettuale, si viene quindi contrapponendo l’esigenza di un rinnovamento culturale che, riconoscendo alla letteratura le sue speciali finalità conoscitive e di testimonianza critica, restituisca agli scrittori la capacità di misurarsi, fuori da schemi e sudditanze ideologiche, con gli interrogativi e le attese del mondo contemporaneo.
Nel campo della poesia, dopo la scomparsa di E. Montale (1981), continuano le esperienze esemplari di Bertolucci, Caproni e Luzi. Si è confermata nello stesso periodo la vitalità di alcune voci impostesi all’attenzione a partire dalla metà circa del secolo: quella di Fortini e quella di Zanzotto. La scelta dell’isolamento nel proprio laboratorio accomuna altre significative esperienze: da quella anticipatrice della neoavanguardia di E. Cacciatore, a quelle di A. Parronchi, T. Scialoja, N. Risi, G. Orelli, L. Erba. Alla sua vocazione di poeta eminentemente civile continua a rifarsi R. Roversi. Portato avanti la loro attività protagonisti della lontana stagione della neoavanguardia come A. Giuliani, E. Pagliarani, E. Sanguineti, N. Balestrini. Particolare rilievo va dato a Giudici, restio fin dal suo esordio a ogni aggregazione scolastica e di tendenza (si veda il volume complessivo I versi della vita, 2000). Sul filo di un’ansiosa quanto ironica interrogazione sulla propria condizione di malessere si svolge, in parallelo a quella narrativa, la produzione poetica di Ottieri. Decisamente a sé stante, la ricerca formale di A. Rosselli (Le poesie, postumo, 1997). In equilibrio fra tradizione e innovazione si colloca la poesia di F. Bandini, mentre C. Villa rimane fedele alle ragioni di una ricerca letteraria fondata sulla reciproca necessità della prosa narrativa (Fino all’ultima fermata, 1999) e della lingua poetica (Dedicamenta, 1999). G. Raboni completa con estrema coerenza il proprio percorso artistico (Tutte le poesie (1951-1998), 2000; Ultimi versi, postumo, 2006). Significativo è il contributo di altri poeti, da lungo tempo attivi sulla scena letteraria: B. Marniti (pseudonimo della poetessa Biagia Masulli); M.L. Spaziani; L. Frezza; G. Neri; G. Majorino; G. Leto; e la più celebre A. Merini. Molti dei poeti esordienti intorno agli anni 1960 consolidano la loro fama: Bellezza, approdato dall’iniziale concitazione ai toni di una meditazione raccolta nelle opere mature; Cucchi; G. Conte. Tra gli altri poeti meritevoli di attenzione: L. Mariani (da Indagine di possibilità, 1972, a Qualche notizia del tempo, 2001); E. Pecora (Poesie 1975-1995, 1997); V. Zeichen (Metafisica tascabile, 1997); G. Scalise (Poesie dagli anni ’90, 1997); B. Frabotta (Terra contigua, 1999); l’ironica e fintamente ingenua V. Lamarque (da L’amore mio è buonissimo, 1978, a Una quieta polvere, 1996). In C. Viviani lo sperimentalismo verbale, in connessione con la chiave psicanalitica, sembra contenersi nelle forme di una comunicazione resa accessibile, mentre De Angelis continua a verificare le ragioni di una poesia chiusa nell’autonomia del proprio linguaggio. Tra i poeti della generazione degli anni 1950 vanno ricordati almeno R. Mussapi, P. Valduga, Magrelli.
Rare nel campo della narrativa sono le eccezioni a una produzione esposta, ben più della poesia, ai condizionamenti dell’industria culturale e del mercato. La morte di Sciascia (1989) e di Volponi (1994) sembra lasciare pressoché vuoto il campo della denuncia civile e sociale, che tuttavia torna clamorosamente alla ribalta con il romanzo Gomorra (2006) di R. Saviano. In un panorama assai mosso, e piuttosto eclettico, risaltano alcune figure di autori ormai classici: A.M. Ortese, M. Prisco, D. Rea, La Capria. Tra gli scrittori appartenenti alla stessa generazione: G. Saviane, M. Rigoni Stern, G. Bonaviri, la cui inclinazione alla poesia è inseparabile da quella narrativa; L. D’Eramo; F. Sanvitale. Breve ma intensa, dagli esordi tardivi fino alla sua improvvisa scomparsa, è la presenza di Bufalino, uno dei non molti scrittori del pieno e tardo Novecento in grado di vantare il meritato apprezzamento della critica oltre che del pubblico. Questo vale in parte anche per Malerba, come per Eco. Tenacemente radicato nella realtà siciliana, Consolo ne deriva la materia di un narrare acre, moralmente risentito e stilisticamente teso. Memoria autobiografica e reinvenzione delle proprie esperienze contraddistinguono la produzione di A. Bevilacqua, mentre sui temi di una memoria storica e insieme privata insiste, variamente e con diversa fortuna, una larga parte della narrativa italiana. Sul tracciato di un doloroso e scoperto autobiografismo si muove L. Canali, attivo anche come poeta. Ma vanno aggiunti i nomi di G. Lagorio e di R. Loy, o quelli di D. Maraini e di F. Ramondino. Fuori dei circuiti consueti Corti, in margine alla sua attività filologica e critica, coltiva i propri interessi di scrittrice con opere che infrangono i confini abituali del genere narrativo. Una posizione eccentrica, per diversi motivi, occupano autori come G. Manganelli, la cui opera continua ad arricchirsi di titoli postumi, o come L. Meneghello, scrittore di singolarissima inventività espressiva, o anche G. Gramigna e G. Soavi. Altrettanto fuori della norma, G. Ceronetti si conferma moralista coltissimo e sconcertante. Critico e saggista, P. Citati si rivela anche narratore di larga inventività, mentre sempre più significativa appare la lunga militanza letteraria di A. Arbasino tanto per la lezione anticipatamente postmoderna della sua scrittura narrativa, quanto per il suo spericolato saggismo o per la verve scanzonata dei suoi versi d’intervento civile. Un posto di rilievo occupa la produzione di C. Magris, scrittore di ricercata misura oltre che saggista. In R. Calasso, infine, gli spiccati interessi culturali rifluiscono in una densa scrittura narrativo-saggistica. In altri autori si individua il progressivo affrancamento della cultura narrativa italiana dalle ragioni più usurate del realismo, nonché dalle tentazioni della pura sperimentazione formale: P.M. Pasinetti; G. Cassieri; C. Sgorlon; Pontiggia; e ancora F. Camon e F. Tomizza. Siciliano, critico e drammaturgo oltre che narratore, scandaglia complesse verità interiori. Scendendo alla generazione degli autori nati negli anni 1940, va registrato il successo ottenuto da S. Vassalli con i suoi romanzi calibrati fra la ricostruzione storica e un’accattivante qualità affabulatoria, ma anche la scrittura, segnata da una strenua attenzione metaletteraria, di Cordelli, saggista e narratore. Consolida la sua fama a livello internazionale anche Tabucchi. In equilibrio fra umorismo e pathos, vanno ricordati i romanzi di N. Orengo, poeta oltre che narratore. Sensibile evocatore di atmosfere romane, fra realtà e sogno, è Montefoschi. Sul filo di una mossa osservazione della realtà prende forma la produzione di S. Benni. Irruentemente trasgressivo, nella lingua oltre che nelle scelte tematiche, è A. Busi, mentre D. Del Giudice si pone sulle tracce di una narrativa saggistica. L’improvvisa e piena affermazione all’inizio degli anni 1990 di A. Camilleri costringe a rompere il filo cronologico e generazionale, ma occorre segnalare la presenza anche di narratrici e narratori della generazione degli anni 1950, variamente orientati nella prospettiva piuttosto eclettica che si delinea tra la fine del 20° sec. e gli inizi del 21°: M. Morazzoni, L. Pariani, A. De Carlo, S. Atzeni, C. Piersanti, M. Mari, P.V. Tondelli, alla cui lezione guardano con particolare interesse gli scrittori delle ultime generazioni; S. Onofri; E. Affinati. Possono inoltre contare su un pubblico di fedeli lettori autori come A. Baricco, M. Lodoli, M. Mazzucco, S. Tamaro, S. Veronesi.
L’arte preistorica in I. ha inizio durante il Paleolitico superiore. Fuori stratigrafia sono state rinvenute alcune statuine femminili, dalle caratteristiche sessuali quasi sempre molto accentuate, del tipo delle cosiddette Veneri aurignaziane, ma che in realtà non sono affatto riconducibili a tale cultura: sono le Veneri dei Balzi Rossi, di Chiozza, di Savignano sul Panaro, del Trasimeno, di Parabita. I centri d’arte paleolitica e mesolitica parietale e mobiliare italiani appartengono alla provincia mediterranea, caratterizzata sia da un grande sviluppo di tendenze astratte, simboliche, sia da espressioni naturalistiche molto semplici, spesso limitate al solo profilo delle figure. I reperti d’arte mobiliare sono costituiti, oltre che da graffiti su ciottolo e su osso della Barma Grande (Balzi Rossi) e delle Arene Candide, dai graffiti della grotta Polesini (Tivoli) e, in Puglia, dalle belle incisioni della grotta Paglicci, da un ciottolo con una testa di bue incisa della grotta di Monopoli e dai numerosi oggetti incisi, graffiti e dipinti della grotta Romanelli. L’arte mobiliare è presente anche alla grotta del Romito presso Papasidero (Cosenza), ed è noto il bovide inciso su pietra trovato in stratigrafia a Levanzo. Quanto all’arte rupestre, alcune figurazioni talora di grande bellezza si trovano nelle grotte Paglicci, Romanelli, della Cala Genovese a Levanzo, dell’Addaura a Niscemi. Nei livelli mesolitici delle Arene Candide e della grotta della Madonna a Praia a Mare sono venuti in luce ciottoli dipinti con schemi simili a quelli dell’aziliano francese; nell’Armalo dei Bufali (Sezze Romano) si trova dipinto sulla roccia il cosiddetto uomo a phi, primo esempio di figura antropomorfa in Italia.
Per le fasi preistoriche più recenti, dal Neolitico all’età del Ferro, fra le più conosciute sono le pitture rupestri di Levanzo, neolitiche o eneolitiche, e le numerosissime figurazioni della Valcamonica, incise a martellina. Incisioni rupestri dell’età del Ferro si trovano in vari punti della penisola: Monte Pellegrino (Triora), Arma della Moretta (Liguria), grotta Coalghés (Brescia), Val Chisone (Alpi Cozie). Vari sono i rinvenimenti di stele riproducenti la figura umana, più o meno stilizzata, e interpretate quali idoli, cippi sepolcrali o defunti eroicizzati. Sono generalmente attribuite all’età del Bronzo (stele di Pontevecchio, di Moncigoli, di Filetto) o all’età del Ferro (stele di Campoli, di Malgrate, di Filattera). Le stele di Lagundo e di Termeno, in Alto Adige, sono caratterizzate da un’estrema astrazione della figura umana e dalla rappresentazione di armi.
Nel periodo storico la penisola, sede di genti varie e di civiltà diverse, offre un panorama archeologico e artistico quanto mai complesso e multiforme. Non si può quindi parlare delle origini e dello sviluppo di una civiltà unica e unitaria, ma di tante civiltà quante furono le popolazioni che l’abitavano. Santuari e necropoli appaiono i luoghi del ‘consumo’ artistico, dove forme devozionali legate al singolo o a gruppi trovano espressioni formali semplificate, anche quando dipendono da modelli ‘colti’, greci o etruschi, che si caratterizzano per la loro facilità comunicativa. A prescindere dal problema delle manifestazioni figurative, scoperte archeologiche ed epigrafiche hanno consentito lo sviluppo di una ‘archeologia italica’ come disciplina che studia le culture sviluppatesi tra l’età del Ferro e la romanizzazione fra le genti parlanti lingue del ceppo ‘italico’ (celtico e venetico in I. settentrionale; umbro, sabino e latino in I. centrale; lingue del gruppo osco in I. meridionale). La differenza di contatti con culture più avanzate, quali quella dei coloni greci nel Meridione e degli Etruschi al Centro, e la diversità delle stesse realtà ambientali favorirono la formazione di culture regionali nelle quali processi di autoidentificazione politica si affermarono in tempi diversi oggettivandosi in comunità di prevalente tipo territoriale e cantonale piuttosto che urbano.
La Sicilia e le coste dell’I. meridionale, dove si formarono le colonie greche, furono subito profondamente ellenizzate, dando luogo a manifestazioni artistiche in cui affiorava sempre peraltro il gusto locale, mentre nelle aree più interne l’elemento indigeno mantenne più a lungo i propri caratteri, e specialmente nella parte occidentale dell’isola si affermò anche la civiltà punica. La Sardegna, sede dell’originale e autonoma civiltà nuragica del Bronzo, perdurata anche in età storica, subì profondamente l’influsso punico durante il 6° sec. a.C., finché non fu romanizzata. Nell’I. centrosettentrionale la civiltà villanoviana e laziale, che sviluppò la decorazione geometrica durante tutto l’8° sec. a.C., si trasformò nel 7° sec. per l’attiva recezione della corrente orientalizzante, soprattutto attraverso la mediazione fenicia, grazie agli intensi commerci che facevano capo specialmente agli scali tirrenici dell’area etrusca meridionale, dando luogo a una splendida fioritura artistica nei principali centri lucumonici.
Nel 6° sec. a.C. un’ondata di cultura ionica, per tramite in gran parte di commercianti e coloni focesi e anche per immigrazione di artisti ionici, diede nuovo vigore all’arte etrusca, che alla fine del 6° sec. e nei primi del 5° agì potentemente non solo a Roma, ma anche al Sud (Campania) e al Nord, dove Spina, alla foce del Po, rappresentava un fiorente avamposto etrusco, verso il quale confluivano i prodotti artistici greci. Particolari aspetti locali assumono le produzioni artistiche di alcune genti più isolate, come i Veneti, gli Atestini, e forme preistoriche persistono in aree più arretrate, come quelle liguri. La fiorente cultura artistica orientalizzante picena di gusto locale non mancò di risentire dell’influsso etrusco e poi dell’apporto gallico, mentre le popolazioni italiche dell’interno, lungo l’Appennino centromeridionale, mantennero caratteri artistici più genuini e più popolareschi.
L’influsso della superiore civiltà artistica greca divenne sempre più normativo e nel periodo ellenistico determinò una certa koinè in tutta la penisola, pur con varietà di livello e di accenti. In mezzo a questo vasto confluire di correnti artistiche e nella varia azione e reazione dei sostrati locali, con l’affermarsi di Roma nasceva un’arte derivata dalla convergenza dell’insegnamento greco, della tradizione etrusca e del gusto italico. Questi vari filoni, che diedero luogo nel 1° sec. a.C. a espressioni artistiche di vario tono, si fusero sempre più, creando un’arte imperiale che seppe interpretare originalmente gli ideali della civiltà romana, dalla ritrattistica al rilievo di soggetto storico, dal sarcofago alla scultura decorativa, e che arrivò a geniali creazioni nel campo dell’architettura, sviluppandosi fino alla crisi determinata dalle invasioni barbariche.
Le prime manifestazioni della nuova civiltà cristiana sono costituite dalle pitture delle catacombe a Roma, a Napoli, in Sicilia, e dalle sculture dei sarcofagi. L’iconografia fu tratta in parte da schemi figurativi pagani, con significato simbolico cristiano; notevole fu anche l’influsso di raffigurazioni simboliche di ambiente ebraico. Nell’architettura le comunità cristiane tendevano a non caratterizzare in alcun modo le domus ecclesiae – case di riunione – o, nel linguaggio romano, tituli, che erano considerati luoghi di assemblea. Una certa sistemazione era data ai sepolcri dei martiri illustri, come l’edicola eretta da Gaio nel tardo 2° sec. sulla tomba di s. Pietro. Costruzioni più ambiziose e di origine orientale sono le celle trichorae (a tre absidi) o le prime basiliche (S. Sebastiano sulla via Appia, prima del 313). Caratteristiche dell’Adriatico sono le costruzioni abbinate (doppie cattedrali), come quella di Aquileia (prima del 319).
Lo sviluppo dell’architettura divenne importante dopo l’editto di Costantino; a Roma la cattedrale dedicata al Salvatore (od. S. Giovanni in Laterano), da lui costruita, o S. Pietro, acquisirono valore normativo e ideale per l’architettura religiosa di tutto il Medioevo. Dal 350 in poi grandissima fu l’importanza di Milano, con edifici notevoli e differenziati: l’antica S. Tecla e il suo battistero ottagonale, S. Lorenzo e le fondazioni ambrosiane della chiesa dei Ss. Apostoli (incorporata nella struttura romanica di S. Nazzaro), S. Sempliciano e S. Ambrogio, la cui tipologia basilicale si diffuse a Vicenza, Verona, Brescia, Pavia, con la caratteristica cappella dei martiri posta su un fianco della chiesa presso l’abside. Il trasferimento della sede imperiale a Ravenna (402) diede l’avvio a programmi costruttivi (mausoleo di Galla Placidia, battisteri degli Ortodossi e degli Ariani, S. Apollinare Nuovo, S. Apollinare in Classe, S. Vitale) che, pur collegati per struttura e materiali con la tarda architettura romana, appartenevano, per le soluzioni architettoniche e per lo stile delle monumentali decorazioni musive, all’orbita dell’arte orientale. Per l’I. meridionale ebbe grande importanza la costruzione di Cimitile a opera di s. Paolino. Splendidi mosaici di quest’epoca si conservano ad Albenga, Milano, Roma, Napoli, S. Prisco presso Capua, Cimitile, Casaranello in Puglia. Roma, dopo la breve rinascita del 6° sec. (mosaico dei SS. Cosma e Damiano), da un lato si avvia verso una stilizzazione linearistica, con caratteri consoni all’orientamento dell’arte bizantina; dall’altro rivela costanti apporti del filone ellenistico, la cui maggiore espressione sono gli affreschi di S. Maria Antiqua e alcune icone.
Monumenti fondamentali della pittura in I. fra 7° e 9° sec. sono gli affreschi di Castelseprio, di S. Salvatore a Brescia, di Cividale (di datazione discussa), di Malles in Val Venosta (cui si collegano quelli di Müstair), di Naturno, oltre ai celebri affreschi e mosaici di Roma e ad alcuni affreschi di Napoli e di Benevento. Importante apporto è costituito dall’arte promossa dai Longobardi. Discussa è stata l’attribuzione all’età longobarda del S. Salvatore di Spoleto e del cosiddetto tempietto del Clitunno; capolavoro dell’epoca è la chiesa di S. Sofia a Benevento. Notevoli gli stucchi (Cividale, Brescia) e la scultura (Cividale, Ferentillo, Roma). Discusso è anche lo scambio di influenze fra l’arte carolingia e l’arte longobarda. Nella miniatura sono importanti il codice di Eginone (Berlino, Deutsche Staatbibliothek), scritto a Verona negli ultimi anni dell’8° sec., e alcuni codici di Vercelli (Biblioteca Capitolare). Importantissimi alcuni rilievi in avorio, ora a Trento, a Ravenna e in musei stranieri, e, nell’oreficeria, l’altare di S. Ambrogio a Milano, di Vuolvinio. Nell’Adriatico settentrionale, accanto a temi paleocristiani, si avverte una conoscenza aggiornata della pittura bizantina.
Il rinnovamento dell’età ottoniana è sensibile in Lombardia, in ogni campo. Grande promotore delle arti fu l’arcivescovo di Milano Ariberto d’Intimiano, cui si devono gli affreschi di Galliano e un crocifisso d’argento sbalzato nel duomo di Milano. Importanti, e in relazione con Galliano, gli affreschi del battistero di Novara. Altri affreschi significativi nell’I. settentrionale in età ottoniana sono quelli di S. Orso ad Aosta. Particolare la produzione di mosaici pavimentali, che sulla riviera adriatica risentì di modelli bizantini, mentre in Lombardia e in Emilia ebbe un carattere di grande originalità. Singolare il mosaico della cattedrale di Otranto.
Nell’I. meridionale, Bari, Benevento, Capua (Sant’Angelo in Formis) sono portatrici di uno stile di forte influsso bizantino, come si può notare nelle miniature degli Exultet e negli affreschi superstiti in piccole chiese della Campania, spesso di qualità alta, come a Sessa Aurunca, Ventaroli ecc. Un legame diretto con Bisanzio fu stabilito con nuova grandezza a Montecassino dall’abate Desiderio.
A Roma si definì uno stile inconfondibile, lineare ma di viva ispirazione classica, che si espresse in affreschi e mosaici (S. Clemente), dipinti su tavola (Tivoli, duomo), miniature in Bibbie di grande formato. Dello stile elaborato a Roma risentirono altre regioni, particolarmente l’Umbria. La Bibbia della certosa di Calci (1169, Pisa, Museo Nazionale di S. Matteo) mostra l’affermarsi di uno stile bizantineggiante, che ebbe seguito nelle croci di Pisa, Lucca, Sarzana.
Le grandi imprese decorative normanne si riallacciano alla seconda età d’oro bizantina (12° sec.) con opere quali i mosaici di Palermo, Monreale, Cefalù; il gusto e la tecnica orientali informarono profondamente l’arte attraverso le miniature dei testi sacri, gli intagli in avorio, i lavori in agemina (come le porte di Montecassino, di S. Paolo fuori le Mura a Roma, di Salerno ecc.), i tessuti e i ricami. Venezia è allora un centro intimamente bizantino, ma che guarda nello stesso tempo all’Oriente islamico e alla Lombardia.
L’arte islamica aveva avuto grande influenza nella manifattura dei tessuti a Palermo. Con la caduta della dinastia normanna, fabbriche di tessuti si stabilirono a Genova, a Venezia e, in particolare, a Lucca. Importante ed estesa fu la produzione di avori intagliati o dipinti, come il paliotto di Salerno, le cassette e gli olifanti d’ispirazione islamica o bizantina.
Dall’inizio dell’11° sec. alla fine del 13°, affermandosi e differenziandosi dalle grandi civiltà dell’Europa occidentale, l’arte e l’architettura del periodo romanico e gotico sviluppano aspetti propriamente italiani. In Lombardia, da Campione, Como, Mendrisio s’irradiano in tutta I. e oltre confine costruttori e scalpellini; sorge – realizzazione massima dell’età comunale – il S. Ambrogio di Milano (seconda metà 11° sec.); quindi il S. Michele di Pavia. Nell’architettura come nella decorazione scultorea la scuola lombarda attesta la sua vitalità per tutto il 12° sec., negli edifici sacri delle città lombarde ed emiliane. Il romanico si sviluppò con caratteristiche diverse nelle varie regioni, connotate da particolari tradizioni o da congiunture storiche: in Veneto fu segnato dall’influsso bizantino (S. Marco); in Toscana, a Firenze con architetture caratterizzate da classico equilibrio e dal sobrio cromatismo di un geometrico opus sectile (battistero, basilica di S. Miniato al Monte), mentre a Pisa, nella cattedrale, Buscheto realizzava una sintesi di motivi classici e orientali poi diffusa nel territorio e in Sardegna, e altre province risentivano di influenze d’oltralpe (S. Antimo, nel Senese); nel Lazio, alla ricerca strutturale lombarda (come in S. Maria di Castello a Tarquinia) si sostituì spesso una nitida semplicità costruttiva di tradizione classica (cattedrale di Civita Castellana), caratterizzata dalla tipica decorazione policroma di marmi e paste vitree dei marmorari romani (chiostri di S. Giovanni e di S. Paolo fuori le mura a Roma; ➔ Cosmati) della quale in I. meridionale (Palermo, Salerno, Sessa Aurunca) si era diffuso il gusto tramite i contatti con l’Oriente; nell’I. meridionale l’iniziativa costruttiva di Desiderio a Montecassino (di cui rimane testimonianza in S. Angelo in Formis) propose rigorosamente la ripresa di schemi paleocristiani, introducendo contemporaneamente motivi arabi (come gli archi acuti) e bizantini; influenze lombarde e d’oltralpe furono sensibili nelle Puglie, dove si costituì una scuola con caratteri propri. In Sicilia il dominio normanno aveva accettato talora i preminenti caratteri arabi (la Zisa e la Cuba a Palermo), ma nella costruzione delle grandi chiese reali, rielaborando una tradizione secolare e accogliendo elementi arabi e bizantini, realizzò opere di potente originalità (cattedrali di Cefalù, Monreale, Palermo). Nella scultura, la Lombardia partecipò sensibilmente al rinnovamento romanico dell’Europa occidentale influenzando tutta l’I. settentrionale, con un culmine al principio del 12° sec. con Wiligelmo, poi, alla fine dello stesso secolo, nella complessa personalità di B. Antelami. Nelle altre regioni prevalse l’adesione al gusto bizantineggiante (Venezia) o a suggerimenti transalpini (Piemonte). Quasi ovunque si guardò ai modelli classici, nel Lazio, nell’Umbria, e specie in I. meridionale, con consapevole volontà di reviviscenza dell’antico.
Questo classicismo fu in parte promosso da Federico II, sotto il quale stili anticheggianti ancora immersi nella tradizione medievale acquistano nuova energia. Gli si devono grandiose architetture del Duecento, specie di carattere civile (Castel del Monte, porta di Capua, i loca solaciorum a Lucera, Gravina ecc.), rara fusione di cultura classica, esperienze arabe e spirito gotico. Oltralpe l’architettura gotica si sviluppò da presupposti romanici, cioè la volta a crociera, i contrafforti, i costoloni. In I. fu introdotto il gotico borgognone fra la fine del 12° sec. e gli inizi del seguente dai monaci cistercensi (abbazie di Fossanova, di Casamari e, più tardi, di S. Galgano); esempi del gotico di influsso francese si ebbero nei domini angioini e in Puglia, e manifestazioni del gotico compaiono in ogni regione d’I., sebbene attraverso un’interpretazione particolare, da Firenze, a Bologna, a Venezia, a Orvieto, secondo una ricerca di spaziosità, di un equilibrio ritmico, più che della resa estrema della tecnica costruttiva.
Al problema della facciata delle cattedrali diedero un contributo originale Giovanni Pisano a Siena e L. Maitani a Orvieto. Al problema dello spazio interno della chiesa diede una soluzione mirabile l’impianto di S. Croce a Firenze. Altre esperienze originali del gotico italiano furono le costruzioni di broletti, arenghi e palazzi della ragione, monumentali espressioni della vita comunale, con il definirsi di due tipi distinti: quello settentrionale, con grandi portici, e quello toscano e dell’I. centrale, chiuso e raccolto intorno alla torre. Diversa la vicenda del duomo di Milano, iniziato soltanto alla fine del 14° sec. e condotto con larga partecipazione di artisti francesi e tedeschi. L’I. settentrionale aderì alla tradizione gotica internazionale, così come il Regno di Napoli sia sotto la dominazione angioina sia sotto quella aragonese. A Venezia il gotico trasse particolare impronta dall’incontro con temi bizantini e si protrasse con singolare vitalità fino all’inoltrato Quattrocento (Palazzo Ducale, Ca’ d’oro), con il cosiddetto gotico fiorito.
Nel 13° e 14° sec. la scultura trovò a Pisa (dove già nel 12° sec. emergevano le personalità di Guglielmo, Gruamonte, Bonanno) il suo centro vitale con le sculture classicheggianti di Nicola Pisano (pergami del battistero di Pisa e del duomo di Siena). Dalla scuola di Nicola Pisano uscirono fra Guglielmo (arca di S. Domenico a Bologna, pergamo in S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia); Arnolfo di Cambio, affermatosi con prorompente individualità; Giovanni Pisano, pienamente gotico (pergami di S. Andrea a Pistoia e del duomo di Pisa); mentre l’influsso di quest’ultimo prevale in Toscana, Tino di Camaino e Giovanni di Balduccio, suoi discepoli, ne diffondono i modi l’uno in I. meridionale, l’altro in Lombardia. Alla scultura pisana si riallacciano in parte Maitani (duomo di Orvieto) e Goro di Gregorio, attivo a Messina. Ad Andrea Pisano Firenze affidò le porte del Battistero (1330): assertore di ritmi gotici, ma sicuro interprete della plasticità di Giotto nei rilievi del campanile, iniziati sui disegni di lui e ultimati, con la serie dei Sacramenti, da A. Arnoldi. Continuatore di Andrea Pisano, con proprie raffinate espressioni, fu il figlio Nino. Nella seconda metà del Trecento a Verona, a Venezia, con I. e P.P. Dalle Masegne, in Lombardia, con i Campionesi, G. De’ Grassi, Anovelo da Imbonate, si sviluppa una tendenza realistica, pur nella tradizione gotica internazionale. Nell’intaglio in avorio, oltre ai Siciliani, sono attivi i Veneziani, in particolare con gli Embriaci; altri avori di aspetto oltramontano furono eseguiti a Milano e a Bologna; l’oreficeria conta capolavori supremi: dal reliquiario del Corporale di Ugolino di Vieri a Orvieto, alla pala d’oro e ai reliquiari in S. Marco, ai reliquiari nella chiesa del Santo a Padova ecc.
La pittura italiana del 13° sec., pur nell’orbita della tecnica e dei modi bizantini, si articola in scuole dalla fisionomia ben precisa: Padova, Venezia, le zone costiere adriatiche, con caratteristiche comuni e peculiari; Lucca, Pisa, Firenze che emergono sugli altri centri della Toscana; Bologna (attivissima nella produzione di codici illustrati), Parma (affreschi nel Battistero); la pittura lombarda (che si estende al Piemonte e alla Liguria attuali); Roma e l’Umbria con una scuola di raffinato classicismo. Emergono ovunque personalità di rilievo, come i pittori attivi ad Anagni. La Sicilia, che aveva già una sua scuola nel 12° sec., accentua certi caratteri bizantini, unendoli a sottili osservazioni del reale d’ispirazione gotica e promosse dall’importante consuetudine alla ricerca scientifica tradizionale in I. meridionale. Grandiose sono le personalità di artisti come, a Roma, Pietro Cavallini; a Firenze, Cimabue; a Siena, Duccio di Buoninsegna.
Tra Duecento e Trecento la figura di Giotto risolve ogni formula tradizionale, preparando a Firenze la frattura con il Medioevo, mentre a Siena si afferma nel 14° sec. e si affina con S. Martini il diverso linguaggio tardo gotico dalle linee ondulate, dal colore irreale e splendente. Pur nell’orbita di tale gusto, Ambrogio Lorenzetti realizza nuova potenza plastica e suo fratello Pietro raggiunge un’espressione drammatica parallela a quella di Giovanni Pisano. Fuori dalla Toscana, primi riflessi dell’arte di Giotto sono nei pittori riminesi; Modena (Barnaba e Tommaso da Modena), Bologna (Vitale da Bologna), Milano (Giovanni da Milano) trovano accordi geniali tra le due scuole toscane; a Verona e Padova, l’esempio giottesco è alla base dell’arte di Altichiero; a Venezia si crea una fusione di tradizione bizantina e di gusto gotico (Paolo Veneziano), cui si riallaccia a Padova, con influssi giotteschi, Guariento. Al gotico internazionale si riferiscono alla fine del Trecento i pittori di Bologna e quelli della Lombardia, di Verona e delle Marche, tutti legati alla cultura delle corti e quindi in stretto rapporto con le correnti oltramontane.
La miniatura, dal 13° sec. vicina ai modi bizantini e collegata alle vicende della pittura monumentale, fu particolarmente attiva e aperta agli influssi francesi nell’I. settentrionale soprattutto a Bologna e in Lombardia con Giovannino de’ Grassi.
Partecipi del nuovo atteggiamento culturale che dalla fine del Trecento si era andato maturando a Firenze, F. Brunelleschi, Donatello e Masaccio sono gli interpreti della nuova concezione dell’arte e dello spazio; misura e proporzione sono alla base della struttura architettonica, della composizione scultorea e pittorica. Altro protagonista dell’architettura del Quattrocento è L.B. Alberti, massimo teorico, che al linearismo brunelleschiano alternò le volumetrie e la varietà dei dettagli dell’architettura dei Romani. A Brunelleschi si riallacciano Michelozzo (al quale si deve la creazione del palazzo privato, esemplato nel Palazzo Medici di via Larga a Firenze), Giuliano e Benedetto da Maiano (attivi anche a Faenza, a Loreto, a Roma, a Napoli), il Cronaca e più tardi G. da Sangallo e A. da Sangallo il Vecchio, attivi anche a Roma, a Napoli, a Loreto, a Lione e ad Avignone, vivacissimi interpreti delle antichità romane, autori di innovative strutture fortificate (Sarzana, Civitacastellana, Nettuno ecc.). Notevole fu l’impresa, connotata da modi classici, del Palazzo Ducale di Urbino, con il contributo di figure come L. Laurana, F. di Giorgio Martini ecc.
I principi della nuova architettura toscana si diffusero in tutta Italia. Filarete, autore di un trattato sull’architettura e sensibile ai problemi della conformazione urbana (Sforzinda), e Michelozzo lavoravano a Milano, tentando di conciliare il nuovo ordine con la tradizione gotica lombarda, mentre con pieno dominio del proprio linguaggio, pur fra difficoltà pratiche, operava Alberti a Rimini e Mantova. Stili del tutto particolari furono realizzati in Lombardia dai Solari, da G.A. Amadeo, dai Rodari, e a Venezia dai Lombardo e da M. Codussi. Altri architetti notevoli del primo Rinascimento furono L. Fancelli, B. Rossellino. Continuarono ad essere attivissimi i tagliapietre e gli architetti lombardi, fra i quali Pietro da Milano a Napoli e A. Barocci a Urbino. La posizione di F. di Giorgio Martini, grande architetto militare e trattatista, merita di esser ricordata a parte.
Scultura. All’inizio del Quattrocento l’egemonia nella scultura passa da Pisa a Firenze, centro d’irradiazione del Rinascimento: Nanni di Banco affronta con linguaggio classicistico il tema umanistico della statua; L. Ghiberti è raffinato mediatore tra sensibilità tardogotica e nuovi mezzi espressivi; Donatello (attivo anche a Padova) è assertore deciso delle forme antiche, ma sempre più lontano dalla serenità della sua concezione. A Siena notevole innovatore fu Iacopo della Quercia (attivo anche a Bologna), che trae ispirazione dall’arte romana e dai valori drammatici dell’arte gotica. Le naturalistiche terrecotte policrome e invetriate, impiegate anche in architettura, furono prodotto tipico dei Della Robbia, protrattosi sin nel Cinquecento. Fantasioso ideatore di figure a tenue rilievo, con linearismi neoattici raffinati, fu Agostino di Duccio, attivo anche a Perugia, a Rimini, a Modena; ritrattista di acuta penetrazione fu Desiderio da Settignano, che ebbe largo seguito (Antonio Rossellino, Benedetto da Maiano) e che propose soluzioni esemplari del tema del busto ritratto e del tipo di tomba rinascimentale. A. del Pollaiolo sviluppò nella scultura fiorentina un nuovo dinamismo lineare; A. del Verrocchio trattò il problema del movimento e del rapporto della scultura con lo spazio atmosferico. Tra le personalità eminenti, a Bologna Niccolò dell’Arca; a Modena G. Mazzoni; in Liguria e in Sicilia D. Gagini; in Lombardia Amadeo e A. Bregno, attivo specialmente a Roma; dalla Dalmazia vennero Giovanni da Traù e F. Laurana. Le tradizioni del tardogotico permangono in Lombardia e soprattutto a Venezia per opera di B. Bon e Giorgio da Sebenico, mentre il veronese A. Rizzo unisce ai ricordi gotici l’esperienza dell’arte di F. Laurana.
La pittura del Quattrocento inizia con il successo del gotico internazionale: in Toscana, con Lorenzo Monaco, con il quale è in relazione Beato Angelico, mentre vi aderisce con minore carica drammatica, ma con più complessa cultura, Masolino da Panicale; fuori dalla Toscana, con Gentile da Fabriano, poi con Pisanello, I. Bellini, Giovanni d’Alemagna, Antonio Vivarini a Venezia, comunque vicini alle prime novità rinascimentali; mentre alle estreme conseguenze stilistiche del gotico giungono i pittori della Lombardia (Michelino di Besozzo, Belbello da Pavia, B. Bembo e una schiera di maestri anonimi, specialmente miniatori) e, in Piemonte e in Savoia, J. Jaquerio e J. Bapteur. A Firenze, Masaccio interpreta le nuove istanze umanistiche e rinascimentali; l’esempio di Masaccio agì profondamente su Beato Angelico (che lavorò anche a Roma e a Orvieto; suo allievo fu anche B. Gozzoli), sullo stesso Masolino, su Filippo Lippi, su Domenico Veneziano. Paolo Uccello elaborò un’interpretazione fiabesca, di superstite gusto gotico, nella risoluzione prospettica degli elementi compositivi in zone di colore; Piero della Francesca portò all’estrema espressione la regolarità delle forme geometriche e la loro dipendenza dalla composizione prospettica: lavorò anche a Rimini, Ferrara e Venezia; Andrea del Castagno sviluppò il dinamismo lineare e il plasticismo legato al chiaroscuro: la sua presenza in Veneto ebbe grande influenza. Lavora anche in pittura sul dinamismo lineare Antonio del Pollaiolo. Allievo di Filippo Lippi, S. Botticelli raggiunge una spiritualità intensa; nei dipinti profani affronta temi di profonda complessità. Narratore e ritrattista equilibrato fu D. Ghirlandaio. A. del Verrocchio fu innovatore anche in pittura, su problemi di luce e chiaroscuro.
A Siena, la pittura rivela la crisi del mondo gotico con Sassetta e Giovanni di Paolo: più conservatrice con Matteo di Giovanni, partecipa delle novità rinascimentali con Domenico di Bartolo e poi con F. di Giorgio. Legato a Piero della Francesca, come ai grandi formalisti fiorentini, è L. Signorelli. A Piero fa riferimento Melozzo da Forlì, a Roma rappresentante della pittura monumentale, profondo interprete della pittura fiamminga conosciuta a Urbino. Del suo insegnamento risentirono Antoniazzo Romano e vari pittori delle Marche e della Romagna. In Umbria si distinsero G. Boccati, G. Caporali e, soprattutto, Perugino; tra i suoi numerosi allievi è Raffaello.
Dalla Toscana le nuove conquiste giunsero in I. settentrionale attraverso A. del Castagno, P. Uccello, Piero della Francesca: rappresentante massimo delle istanze umanistiche fu A. Mantegna, educatosi nel gusto antiquario a Padova, alla bottega di F. Squarcione; a Ferrara, C. Tura, F. Cossa, E. de Roberti traducono con drammatica incisività la lezione di Donatello e di Mantegna. I pittori ferraresi furono attivi anche in altre parti dell’Emilia, dove lasciarono opere M. Zoppo, L. Costa e il modenese B. Bonascia.
Antonello da Messina recò a Venezia le esperienze fiamminghe, elaborate poi forse dall’incontro con le opere di Piero della Francesca; fu di grande impatto sulla pittura veneziana, basata sul colore, sensibile ai valori della luce e dell’atmosfera. Mentre la scuola di Murano, coi Vivarini, si distaccava dal gusto tradizionale (Alvise risentì di Antonello, Bartolomeo della prima fase di Giovanni Bellini, e di Mantegna), interprete massimo di questo momento dell’arte veneta fu Giovanni Bellini, che ne riassume ogni precedente conquista preparandone gli sviluppi cinquecenteschi; condivide in parte tale funzione V. Carpaccio, grande narratore. Consapevole delle esperienze rinascimentali, ma più legato alla tradizione, fu C. Crivelli, attivo soprattutto nelle Marche. In Lombardia primeggiano V. Foppa e il Borgognone, i primi a dare un’interpretazione autenticamente lombarda della pittura del Rinascimento; importante fu l’attività anche pittorica di D. Bramante.
A partire soprattutto dalla seconda metà del Quattrocento, Roma con la corte pontificia frequentata da umanisti, artisti, architetti diviene il nuovo centro nell’elaborazione dell’architettura, che trova nelle opere realizzate e nei disegni (progetti, taccuini ecc.) dei Sangallo, di Bramante e di Raffaello le testimonianze più significative. Bramante, operoso dapprima in Lombardia con la sua ricerca sul classico, a Roma trasse, dallo studio e dall’analisi tecnica delle architetture antiche, una coerenza nuova, nell’ordinare gli spazi in un perfetto statico ritmo di proporzioni. Alla sua lezione si riallacciarono, con declinazioni proprie, Raffaello, B. Peruzzi, Giulio Romano, I. Sansovino, M. Sanmicheli.
Michelangelo trasformò la coordinazione statica di Bramante in dinamismo di masse definite e potenti, subordinando i singoli elementi a un’unità monumentale. Seguirono e rielaborarono questi fermenti culturali A. da Sangallo il Giovane, G. Vasari, B. Ammannati, B. Buontalenti. L’espressività del disegno michelangiolesco trovò in Vignola e in G. Della Porta, attivi soprattutto a Roma e nel Lazio, una semplificazione di forme di accento classicistico. La Regola delli cinque ordini (1562) di Vignola, con il recupero e con la canonizzazione del linguaggio classico che aveva avuto in Serlio un precursore (1537), s’inserisce con autorità nella produzione dei trattati, che trova in Palladio e in Scamozzi ulteriori elaborazioni.
Dalla seconda metà del 16° sec. si assiste a un’esasperazione delle tendenze classiciste (D. Fontana, M. Longhi, G.A. Dosio ecc.), mentre il prevalere dell’interesse per l’ornato connesso a quello costruttivo genera un’architettura emblematica (Pirro Ligorio, Girolamo da Carpi, L. Leoni) anche con risultati bizzarri e curiosi (F. Zuccari, sue case a Firenze e a Roma). Nasce il giardino manierista, che deriva dall’antico (tempio di Palestrina) e da Bramante (Belvedere) la squadratura a terrazze e a gradinate, arricchito di capricciosa fantasia nelle ville di Pratolino, Bomarzo, Boboli e Tivoli. Fra i principali interpreti del tema della villa intorno a Roma sono Vignola, G. della Porta, G. del Duca. Nel Nord, la villa Borromeo nell’Isola Bella è documento di una diversa declinazione. Sansovino, giunto a Venezia dopo il Sacco di Roma, porta nella città un’interpretazione del classicismo romano. A lui si affianca Sanmicheli, attivo soprattutto a Verona, anche come architetto militare; A. Palladio, grande architetto e teorico veneto, rinnova profondamente tutti i temi dell’architettura civile e religiosa; la sua azione è decisiva per tutta l’architettura europea. L’umbro G. Alessi rinnova l’architettura genovese; fu attivo anche a Milano dove, come in altri centri della Lombardia, lavorava anche il bolognese P. Tibaldi, espressivo interprete del manierismo.
Nel Cinquecento la scultura risente anche dello spirito innovatore di Leonardo, contribuendo al diffondersi di una visione pittorica della forma. In Toscana se ne colgono i riflessi in F. Rustici e Pierino da Vinci. La tradizione quattrocentesca fu rappresentata in I. centrale da A. Sansovino (che ebbe largo seguito in I. settentrionale), dal Bambaia e dai Solari; in I. meridionale da Giovanni da Nola e Girolamo da Santa Croce; in Emilia dai plasticatori locali (A. Begarelli). Michelangelo, partito dallo studio dell’arte classica, diede alle sue immagini l’espressione di una passionalità tormentata. I suoi modi dominarono la scultura di ogni regione; in I. centrale i seguaci furono innumerevoli: dal Tribolo a B. Bandinelli, ad A. Montorsoli. B. Cellini, scultore e orafo geniale, diffuse anche in Francia la maniera italiana. A Venezia, oltre all’influsso di Sansovino, fu importante A. Vittoria, vitale interprete del michelangiolismo. Nel tardo Cinquecento, rappresentano la scultura del manierismo fiorentino Giambologna, T. Landini, P. Tacca, F. Mochi, V. Danti.
A Firenze, tra la fine del 15° sec. e gli inizi del 16°, Leonardo si volse allo studio della natura in tutte le sue complesse articolazioni: la sua pittura, attraverso la sensibilità atmosferica, supera la solidità della forma quattrocentesca. La sua influenza fu notevole nel Rinascimento maturo: in Lombardia su G.A. Boltraffio, A. Solario, Giampietrino, B. Luini; la sua ricerca fu importante per Giorgione, Correggio, Andrea del Sarto e i primi manieristi fiorentini, nonché per lo stesso Raffaello.
Michelangelo rappresentò anche in pittura la rottura con il primo Rinascimento. Raffaello, attivo dapprima a Firenze, si avvicinò alle correnti fiorentine; a Roma guardò a Michelangelo e anche ai pittori ferraresi (Dosso Dossi) e veneziani (Sebastiano del Piombo), accogliendo esperienze tanto diverse in una sintesi personalissima, esempio irripetibile tanto nell’ispirazione alla pittura antica (le grottesche) quanto nella naturalezza di esecuzione e ideazione, germi del Seicento italiano. Fra la schiera degli allievi primeggiò Giulio Romano, attivo a Mantova; divulgò le sue invenzioni M. Raimondi, il più noto degli incisori del 16° secolo. In Emilia, dove operava il bolognese F. Francia e dove emergeva il ferrarese Dossi, prorompe l’arte delicata e monumentale del Correggio, che apre la via alla decorazione barocca.
A Venezia, Giorgione inaugura una visione volta a integrare paesaggio e figura in una fusione intuitiva, avviando la pittura tonale. Tiziano sviluppa tali premesse, raggiungendo risultati altissimi. Furono suoi contemporanei L. Lotto, dalla sensibilità raccolta e penetrante, I. Palma il Vecchio, Bonifacio de’ Pitati, Pordenone e i due grandi che conclusero il periodo aureo della pittura veneta: Tintoretto e Veronese. Sensibile all’arte dei maggiori veneziani fu I. Bassano, capostipite di una famiglia di pittori che sviluppò in tipiche scene di genere il tema agreste, con sensibilità formale cui si riferì il Greco. Ai confini veneto-lombardi furono attivi G. Romanino, G. Savoldo, A. Moretto, G.B. Moroni, mentre Sebastiano del Piombo, emigrato da Venezia a Roma, fondeva la sua educazione veneta con i modi di Michelangelo.
A Firenze, oltre l’attività di B. Della Porta e Andrea del Sarto, si sviluppò la pittura del manierismo, con Pontormo e Rosso, geniali ricercatori di espressioni nuove; A. Bronzino, F. Salviati, Iacopino del Conte, G. Vasari, più ligi ai modi michelangioleschi. Il manierismo ebbe caratteri michelangioleschi a Roma con Daniele da Volterra; fu rappresentato a Siena, aggiornata da Sodoma nel linguaggio cinquecentesco, da D. Beccafumi; a Bologna da P. Tibaldi; nelle Marche da F. Barocci; trovò una significativa espressione a Parma, con l’eleganza stilistica di Parmigianino. Dalla Toscana con Rosso, dall’Emilia con Primaticcio e con Nicolò dell’Abate, si irradiò in Francia nella scuola di Fontainebleau.
Alla fine del secolo, due fatti salienti di opposta spiritualità segneranno le vie alla pittura del secolo seguente: la cosiddetta riforma dei bolognesi Carracci, che si rifanno a Raffaello, Correggio e Tiziano, e la nuova visione instaurata da Caravaggio, artista rivoluzionario che contrappose all’imitazione aulica e sapiente i disadorni aspetti del vero.
Il Rinascimento informò, spesso per opera di importanti artisti, anche le arti suntuarie e decorative, tendenzialmente più lente a staccarsi dalla tradizione gotica. La tarsia lignea, in Toscana, nella nuova tradizione pittorica e prospettica, tradusse i disegni dei migliori artisti. La tarsia in pietra dura iniziò a Firenze nel Cinquecento la sua grande fortuna. Insuperato nell’arte della medaglia resta il Pisanello: tra i molti seguaci, Matteo De’ Pasti. Faenza, Firenze, Cafaggiolo, Deruta, Urbino sono centri di eccellenza per la ceramica italiana; Venezia, per il vetro e il tessuto. Dopo la grande fioritura della miniatura nel Trecento, il Rinascimento dà nuovo impulso all’arte del libro. Caratteristica della miniatura italiana è la decorazione a girali o a gemme preziose; la miniatura veneta inaugura il tipo delle grandi inquadrature architettoniche, che ritroviamo anche a Ferrara e a Roma. Molte sono le botteghe: particolare significato per la stessa pittura a Siena ebbe quella di Liberale da Verona. Con il Cinquecento la miniatura italiana decade; si distingue per abilità tecnica il dalmata G. Clovio. Nell’incisione, si devono grandi capolavori in libri stampati a Firenze e a Venezia.
Rispondendo alla varietà degli assunti ideologici del pubblico cui si rivolgono e delle varie funzioni cui sono destinate, l’arte e l’architettura del Seicento mostrano una differenziata gamma di espressioni. Accanto a un persistente atteggiamento classicista, s’impone il concetto dell’immaginazione ponendo le premesse di un linguaggio illusionistico e spettacolare che coinvolge emotivamente lo spettatore. In pittura, con la specializzazione tecnica, si affermano i generi. Roma, muovendo dall’eccezionale fervore di opere e d’idee del secolo precedente e dell’azione spirituale della Controriforma, attraverso una corrente di transizione (con G. Della Porta, F. Ponzio, M. Longhi, C. Maderno, S. Maderno, C. Mariani, F. Mochi), diviene centro dell’elaborazione e dell’irradiazione dell’arte e dell’architettura barocche. G.L. Bernini non pose limiti alla ricerca tipologica, spaziale, scenografica, formale. A. Algardi si attenne a un nobile classicismo; le innovazioni berniniane fornirono il carattere dominante alla scultura a Roma (M. Caffà, A. Raggi, E. Ferrata), a Napoli (G. Finelli), a Firenze (G.B. Foggini), a Genova e a Venezia (F. Parodi). F. Borromini fu geniale ricercatore di soluzioni originali, interessato alla struttura, alla varietà formale, ai molteplici punti di vista: le sue soluzioni furono stimolo per l’architettura del secolo successivo anche all’estero. Pietro da Cortona, architetto e pittore di grande rilievo, elaborò una personale e anticipatrice interpretazione del barocco. Altri protagonisti, a Roma, G. e C. Rainaldi, i Longhi, C. Fontana. In pittura, a Roma, oltre la pittura ancora tardocinquecentesca del Cavalier d’Arpino, l’esempio di Caravaggio fu di larga imitazione (O. e A. Gentileschi, O. Borgianni, B. Manfredi); premessa alle correnti naturalistiche, operò in modo particolare a Napoli ed estese la sua influenza anche fuori d’Italia. Sempre a Roma, i Bamboccianti elaborarono un realismo antiretorico in scene di vita popolare (M. Cerquozzi); N. Poussin, C. Lorrain e il romanizzato G. Dughet segnarono l’evoluzione della pittura di paesaggio.
Più vasto seguito ebbe in tutta I., particolarmente in Emilia e a Roma, la scuola bolognese, iniziata dai Carracci, sostenuta da sicuro mestiere e vasta cultura letterario-figurativa. Raggiunsero alta fama G. Reni, Domenichino, F. Albani, G. Lanfranco, Guercino. A Roma, A. Sacchi accolse la tradizione classicista, proseguita e consolidata, alla fine del secolo, da C. Maratta. Contrapposta è la ricerca di Pietro da Cortona, proseguita poi nella tradizione decorativa barocca da Baciccia e da A. Pozzo, che portò alle più ardite attuazioni la quadratura illusionistica, nata alla fine del 16° sec. a Bologna dove proseguì, da G. Dentone ai Bibbiena.
A Napoli l’architettura del 17° sec. partendo dalla grande attività edilizia di D. Fontana si collegò agli esempi romani, specie con il lucano F. Grimaldi; ma la personalità dominante fu il bergamasco C. Fanzago: operosissimo anche come scultore, svilup;pò dalle premesse del manierismo toscano (G. A. Montorsoli, Giambologna, M. Naccherino, P. Bernini) un barocco ricco e ricercato. A Napoli si sviluppò una tra le più importanti scuole pittoriche, legate all’influsso caravaggesco, alla corrente carraccesca-reniana e al gusto spagnolo: B. Caracciolo, M. Stanzione, A. Vaccaro, B. Cavallino; il battaglista A. Falcone; Micco Spadaro; S. Rosa, paesista e battaglista di grande levatura. Nell’inoltrato Seicento il calabrese M. Preti fuse l’insegnamento caravaggesco con influssi veneti ed emiliani, mentre L. Giordano, sensibile al gusto veneto e alla grande decorazione barocca romana, preparava il Settecento. Eccelsero nella natura morta P. Porpora, G. Recco, G. B. Ruoppolo e A. Belvedere.
Nell’I. meridionale centro di una specifica architettura fu Lecce, ove la duttile pietra locale e l’infiltrazione del gusto plateresco favorirono una particolare ornamentazione plastica a opera di A. Landucci, G.C. Penna, G. Zimbalo e G. Cino. Messina e Palermo svilupparono forme permeate d’influssi toscani, romani, spagnoli, liguri, lombardi, ma il fenomeno saliente in Sicilia fu la ricostruzione, dopo il terremoto del 1693, di Catania, guidata nel secolo successivo da G.B. Vaccarini, palermitano di formazione romana, e quella di Noto. Nella scultura, oltre i confini del secolo, s’impone G. Serpotta. Pur nell’orbita napoletana, la pittura siciliana ebbe accenti propri con P. Novelli, che guardò a Ribera e ad A. van Dick.
In Toscana si assiste ad un progressivo isolamento culturale: in architettura rimasero legati a schemi tardomanieristi N. Nigetti e G. Silvani, nella scultura P. Tacca e G. Caccini; vicini ai modi di Bernini, a fine secolo, sono G. Baratta e G.B. Foggini; nella pittura tentarono un aggiornamento il Cigoli, il Passignano, C. Allori; la presenza di Pietro da Cortona a Firenze fu sentita da F. Furini e dal Volterrano; frescante libero e fantasioso fu Giovanni da San Giovanni; di grande abilità tecnica, nel gusto dominante, fu C. Dolci. Nel campo dell’incisione, hanno vasto respiro le acqueforti di S. Della Bella.
In Piemonte, A. Vitozzi e C. e A. Castellamonte sono architetti di eclettica correttezza; a G. Guarini, di ampia cultura filosofica e matematica, si devono ardite invenzioni, sviluppo dell’eredità borrominiana. L’ascesa politica ed economica della città di Genova nel 17° sec. si riflette nella fioritura delle arti. Scenografica e grandiosa fu l’architettura, sviluppando il tipo del palazzo bifronte (B. Bianco). La scultura, dominata dalla tradizione cinquecentesca lombarda, accolse da P. Puget le nuove tendenze berniniane (G.F. Parodi). In pittura la tradizione locale rappresentata da L. Cambiaso risentì della penetrazione fiamminga di P.P. Rubens e A. van Dyck, sviluppando una fisionomia ben determinata fondata sul colore e la libera pennellata (G. Assereto, G.A. De Ferrari, B. Strozzi, G.B. Castiglione). La decorazione monumentale, non esente da influenze veneto-emiliane, è rappresentata da V. Castello, G.B. Carloni, D. Piola e G. De Ferrari.
Le idee del cardinale Federico Borromeo segnarono in modo decisivo l’architettura e l’arte lombarda. Secondo una secolare tradizione, la Lombardia produsse intere famiglie di costruttori e di scultori, importanti nel barocco romano, meridionale e genovese; per contro gli artisti rimasti in patria (operosi alle due colossali imprese della certosa di Pavia e del duomo di Milano) seguirono le tradizioni del tardo Cinquecento, in F.M. Richini piegate a originali soluzioni spaziali dai forti effetti dinamici. Gli ideali controriformisti del cardinale Borromeo trovarono soprattutto espressione nella pittura del Cerano, del Morazzone e di G.C. Procaccini, in Tanzio da Varallo e F. Cairo. Singolare pittore di nature morte con strumenti musicali fu il bergamasco E. Baschenis. L’involuzione economica e politica si riflette, a Venezia, anche nella sua produzione artistica: la grande eredità di Palladio e Sansovino determinò una sostanziale fedeltà a quel classicismo, dal quale B. Longhena sviluppò un originale stile barocco. Nell’ambito della pittura un rinnovamento fu portato dal romano D. Fetti, dal tedesco J. Liss e dal genovese B. Strozzi, del quale partecipano soprattutto F. Maffei e S. Mazzoni.
Sullo sfondo degli avvenimenti politici e culturali che segnano l’Europa, l’arte e l’architettura italiana si presentano dense di fermenti, pur perdendo la posizione di dominio e guida. L’I. rimane ancora punto di riferimento nella grande decorazione (artisti italiani sono attivi dall’Inghilterra all’Europa orientale) e meta del grand tour; le culture francese, inglese e tedesca prendono tuttavia il sopravvento. Il carattere d’internazionalità soprattutto in pittura si accentua; le precedenti tendenze naturalistiche e classiciste sono arricchite con una nuova attenzione al colorismo veneto, alla tradizione fiamminga e olandese e alle esperienze francesi contemporanee. A Roma il classicismo di tipo marattiano (G. Chiari, B. Luti) conduce a una grazia arcadica, d’impronta galante o devozionale (F. Trevisani); P.L. Ghezzi, accademico nelle opere religiose, è argutamente ironico nelle scene di genere e nelle caricature; M. Benefial rappresenta un severo naturalismo. Nella pittura di paesaggio emergono A. Locatelli e G.P. Pannini. In scultura, istanze classiciste e barocche si compenetrano in C. Rusconi; con grazia tardobarocca, in F. Della Valle e P. Bracci. In campo architettonico e urbano A. Specchi, F. De Sanctis, F. Raguzzini, N. Salvi elaborano soluzioni scenografiche; G. Valvassori e G. Sardi operano con un aggraziato barocco; a una tendenza classicista si rifanno F. Fuga, A. Galilei, C. Marchionni. F. Juvarra, formatosi a Roma, opera con brillante inventiva nella trasformazione di Torino in capitale di livello europeo; lo seguirono B. Alfieri e B. Vittone. In campo pittorico e decorativo lavorarono alla corte sabauda, oltre al torinese C.F. Beaumont, G. Crosato, i Cignaroli, C. Giaquinto, il francese C.-A. Vanloo. All’inizio del sec 18° l’architettura napoletana risentì di F. Solimena, più noto come pittore; una scuola partenopea si forma con F. Sanfelice e D. Vaccaro. Alla metà del secolo sono a Napoli F. Fuga e L. Vanvitelli (suo capolavoro la reggia di Caserta); la scultura raggiunse sottili preziosismi con G. Sammarini, F. Queirolo, A. Corradini. Nella pittura dominò Solimena; suo allievo, F. De Mura. S. Conca e C. Giaquinto furono attivi soprattutto a Roma il primo, a Torino e in Spagna il secondo. Genovese è A. Magnasco, dall’intensa pittura di tocco, attivo anche a Milano; mantovano, G. Bazzani. A Milano, più che nell’architettura, che solo con G. Piermarini trova alla fine del secolo l’espressione più originale, è la pittura che presenta interessanti risultati con C.I. Carlone, i fratelli Galliari, l’opera di G. Tiepolo. A Bologna, sullo sfondo della tradizione emergono il classicismo di C. Cignani, quello di D. Creti e soprattutto G.M. Crespi. Nella scultura i modi classicheggianti di G. Mazza tendono ad ammorbidirsi nel suo allievo più significativo, A.G. Piò. Ruolo di protagonista nella pittura europea del Settecento torna ad avere Venezia, a opera di S. Ricci, G.B. Piazzetta e Giambattista Tiepolo, nelle grandi imprese decorative, nelle tematiche religiose o allegoriche. Con approcci realistici nuovi operano P. Longhi e, nella veduta e nel paesaggio, Canaletto e F. Guardi. Un classicismo segnato da un recupero della lezione palladiana caratterizza l’architettura veneta, con G. Scalfarotto, A. Tirali, G. Massari e T. Temanza.
Se gli scavi di Ercolano e Pompei e le testimonianze dell’antichità della Sicilia attirano con sempre maggiore frequenza colti e sensibili viaggiatori, è Roma che nella seconda metà del Settecento diviene luogo privilegiato della poetica neoclassica: a Roma vivono J.J. Winckelmann e A.R. Mengs; riallacciandosi al razionalismo illuminista di C. Lodoli e F. Algarotti, F. Milizia pone le basi dell’architettura e dell’urbanistica neoclassica, mentre del tutto personale è l’approccio con l’antico di G.B. Piranesi; significativa la presenza di J.-L. David e A. Canova. Il movimento neoclassico con le sue complesse componenti lasciò tracce significative, in architettura anche a scala urbana, a Milano con Piermarini, S. Cantoni, C.F. Soave, L. Pollack e, per la decorazione degli interni, G. Albertolli; a Venezia G. Selva, a Roma G. Valadier, oltrepassando i confini del secolo.
La realizzazione, o l’elaborazione rimasta in fase di progetto, di importanti imprese urbanistiche e monumentali segna l’apertura del secolo: la sistemazione di G. Valadier di piazza del Popolo a Roma, i progetti del foro Bonaparte di G.A. Antolini e di L. Canonica, quello per la piazza del Duomo di G. Pistocchi, i propilei di Porta Ticinese e l’arco della Pace di L. Cagnola a Milano, gli interventi a Genova di C. Barabino, a Torino di F. Bonsignore, le opere di A. Niccolini e P. Bianchi a Napoli, di P. Poccianti in Toscana, di G. Jappelli a Padova e, infine, l’emblematico tempio di Canova a Possagno. In pittura, se A. Appiani, V. Camuccini, G. Bossi, G. Landi, P. Benvenuti, L. Sabatelli rientrano nell’ambito del gusto neoclassico, più complessi si presentano G. Giani e T. Minardi, promotore del purismo, corrente che ebbe nella scultura esponenti come P. Tenerani, G. Duprè e L. Bartolini, primi a contrapporsi all’accademismo dominante nel corso del secolo.
Anche il movimento romantico in I. assunse particolare accezione, innovando i soggetti (storici e patriottici) e i mezzi espressivi. Milano fu il principale centro del Romanticismo italiano, avviato da F. Hayez, che raggiunse i più significativi risultati nella seconda metà del secolo. In architettura la rivalutazione romantica del Medioevo e, in sede tecnica, il restauro delle antiche cattedrali (a Roma S. Paolo fuori le mura; a Bologna, a opera di A. Rubbiani, S. Francesco) portarono al gusto per l’imitazione del romanico e del gotico, ma netta fu in I. la preferenza per le forme rinascimentali. Ai vastissimi compiti imposti dall’incremento urbanistico corrisposero in realtà singoli interventi circostanziati, come il viale dei Colli a Firenze, la sistemazione del Po a Torino e corso Vittorio a Roma. Tra le personalità più originali emergono in Piemonte A. Antonelli; a Milano G. Mengoni; a Roma G. Koch.
In scultura, dopo la metà del secolo l’accademismo dominante è superato dal verismo di V. Vela. Al verismo si affiancarono aspirazioni ideologiche di carattere sociale, a cui reagirono G. Grandi, vicino agli scapigliati milanesi, C. Marocchetti e D. Calandra a Torino. L’impressionismo fu portato alle estreme conseguenze da M. Rosso. Verista fu il ligure G. Monteverdi; a Napoli aderì alle ideologie umanitarie il verista A. d’Orsi; partecipe di tendenze varie, con sensibile tecnica, fu V. Gemito.
In campo pittorico le premesse innovative di inizio secolo si attuarono con G. Carnevali detto il Piccio, F. Faruffini, T. Cremona, D. Ranzoni e gli altri della scapigliatura lombarda. La pittura di genere fu rappresentata a Milano da D. e G. Induno, a Venezia da G. Favretto. V. Grubicy importò dalla Francia le teorie alla base del divisionismo; esponente autorevole ne fu G. Previati; seguaci furono A. Morbelli e G. Pelizza da Volpedo. Vi aderì anche G. Segantini, tra i maggiori paesisti italiani. Concluso l’episodio divisionista, la pittura lombarda si rifece all’eredità del gusto romantico con E. Gola e C. Tallone.
In Toscana emerse, sull’esempio della Francia, il movimento dei macchiaioli, con una pittura immediata, all’aperto, fatta di luce e colore, esperienza ricca di conseguenze: ne furono teorizzatori T. Signorini e A. Cecioni; tra gli artisti, S. de Tivoli, C. Banti, V. d’Ancona, O. Borrani, R. Sernesi, G. Abbati, V. Cabianca, e soprattutto G. Fattori; ne divenne figura eminente S. Lega. G. Boldini, trasferitosi a Parigi, ne sviluppò le premesse con estrosa genialità. In Piemonte si affermò il paesaggio soprattutto con A. Fontanesi, poi con V. Avondo e L. Delleani. A Napoli la pittura di paesaggio si rifà a esperienze locali (S. Rosa, D. Gargiulo) e all’olandese A. Pitloo; la scuola di Posillipo fu in I. la prima ad affrontare la pittura en plein air, con G. Gigante e i Palizzi. Ebbe interferenze con i macchiaioli la scuola di Resina (fondata da A. Cecioni), dalla quale uscì G. De Nittis che risentì in seguito del soggiorno a Parigi e a Londra. Caposcuola della pittura storica romantica a Napoli fu D. Morelli, tramite, con S. Altamura, delle esperienze francesi. Sottilmente malinconica fu la pittura di G. Toma. L’abruzzese F.P. Michetti passò da un’esigenza verista a ispirazioni letterarie.
L’esposizione di Torino del 1902, con i padiglioni progettati da R. D’Aronco, contrapponendosi al protrarsi dell’eclettismo monumentalistico (emblematici esempi, a Roma, il Vittoriano di G. Sacconi e il palazzo di Giustizia di G. Calderini) è una delle espressioni più significative dei fermenti innovativi dell’ultimo decennio del 19° secolo. Il modernismo, con ascendenze che vanno dal preraffaellismo estetizzante al simbolismo socio-umanitario, si manifestò come tentativo di elaborazione di un linguaggio unitario nazionale, alternativo allo storicismo architettonico e all’accademismo figurativo, senza ignorare i nuovi fermenti internazionali. Nelle arti applicate, dalle arti grafiche e dalla pubblicità al mobile e all’oggetto artigianale di pregio, si ebbero i più interessanti risultati (D. Cambellotti, G. Cometti, M. Dudovich, A. Mazzucotelli, E. Quarti, A. Terzi), stimolati anche dall’impegno teorico di E. Thovez, A. Melani, V. Pica. Protagonisti dell’architettura furono, oltre a D’Aronco, a Torino P. Fenoglio, a Milano G. Sommaruga, a Firenze G. Michelazzi, in Sicilia E. Basile; nella scultura spiritualismo e simbolismo presero forma con accezioni diverse in L. Bistolfi, G. Monteverde, E. Bazzaro e A. Wildt.
G. Previati e G. Segantini possono considerarsi gli iniziatori della corrente liberty in pittura; G.A. Sartorio e A. De Carolis, legati all’ambiente dannunziano, si espressero in formule più retoricamente neorinascimentali. Di fronte ai caratteri selettivi di ufficialità che andava assumendo la Biennale veneziana (istituita nel 1893), nuovi fermenti di ricerche espressive emersero attraverso le mostre alternative di Ca’ Pesaro (vi esposero, tra gli altri, G. Rossi, T. Garbari, F. Casorati, A. Martini, U. Boccioni), mentre a Firenze A. Soffici pubblicava provocatori articoli su La Voce. Contrastato fu anche il rapporto di Soffici con il movimento futurista che s’impose con forza innovatrice nel panorama internazionale. Le mostre della Secessione romana (1913-15) portarono alla ribalta G. Rossi, A. Martini, L. Viani e permisero la conoscenza di artisti stranieri quali Gauguin, Munch, Matisse. Estraneo al clima ufficiale fu anche A. Modigliani che elaborò la sua solitaria ricerca a Parigi. La Prima guerra mondiale segnò la fine del futurismo, con l’evoluzione verso nuove soluzioni formali.
La pittura metafisica avviata da G. De Chirico intorno al 1912, affiancata dai contributi teorici di A. Savinio, si sviluppò dopo il 1916 coinvolgendo brevemente C. Carrà, F. De Pisis, G. Morandi. Portavoce dell’esigenza di un ritorno all’ordine, comune a tutte le esperienze europee del dopoguerra, con il recupero di una figuratività dalla tradizione culturale nazionale, il movimento Valori plastici, legato all’omonima rivista (1918-21) di M. Broglio, accolse le diverse esperienze di De Chirico, Carrà, Morandi, Soffici, Martini. Ricerca di chiarezza compositiva e formale emerge in diverse accezioni in F. Casorati, F. Carena, M. Sironi, mentre l’eredità dell’impressionismo informa l’opera di A. Tosi e De Pisis.
L’esperienza dei pittori del movimento Novecento, che espose alla galleria Pesaro di Milano (1923), appoggiato dal regime, estese la propria influenza fino al quarto decennio del secolo. La scultura monumentale, non sempre estranea alle pressioni del regime, ricercava naturalezza formale con L. Andreotti, A. Minerbi, P. Canonica, A. Maraini, A. Dazzi, E. Drei, A. Selva, F. Messina, mentre continuava la ricerca di Martini e si avviava quella di M. Marini. In campo architettonico, il regime fascista, dopo un’iniziale appoggio alle tendenze nuove, si volse a reviviscenze monumentali: significativo esponente ne fu M. Piacentini, pur in opposizione allo scoperto tradizionalismo di A. Brasini e C. Bazzani. Ma si devono ricordare le interessanti personalità di P. Aschieri, G. Muzio, E. Del Debbio, M. De Renzi.
Il razionalismo ebbe la sua espressione più significativa nel Gruppo 7 milanese (1926) seguito dal MIAR, presto disciolto; aperto alle esperienze europee, ebbe come figure salienti G. Pagano, G. Terragni e, in sede critica, E. Persico; vi aderirono, tra gli altri, A. Libera, L. Piccinato, M. Ridolfi, G. Vaccaro, L. Figini, G. Pollini, P. Lingieri, G. Michelucci, L. Moretti, F. Albini. G. Ponti svolse un’importante attività nell’arredamento e nelle arti decorative; P.L. Nervi realizzava strutture di grande originalità.
In campo pittorico, intorno al 1930 si determinò – in reazione al Novecento – la ricerca di Scipione, M. Mafai, A. Raphael, R. Melli (Scuola romana), ai quali si riallacciarono C. Cagli, G. Capogrossi, Mirko e Afro Basaldella, G. Stradone, F. Pirandello, A. Ziveri. A Torino vi fu una reazione in senso espressionistico con il Gruppo dei sei (N. Galante, L. Chessa, F. Menzio, E. Paolucci, J. Boswell, C. Levi) e con L. Spazzapan. A Milano nel 1927 A. Sassu e B. Munari con il manifesto del Dinamismo avevano ripreso motivi del futurismo. Nel 1931 il movimento accolse F. Tomea, R. Birolli e il critico Persico, e più tardi Fontana e Migneco e sfociò nel gruppo di Corrente, al quale aderirono B. Cassinari, R. Guttuso, E. Morlotti, G. Santomaso, E. Vedova.
A Milano intorno al 1930 apparvero i primi tentativi astratti di A. Soldati, e il manifesto dell’Astrattismo italiano (1934) redatto da O. Bogliardi, G. Ghiringhelli, M. Reggiani, legati alla galleria del Milione, ai quali nel 1937 si unirono O. Licini ed E. Prampolini. Altro centro di pittura astratta fu Como (M. Radice, M. Rho), mentre a Parigi si evolveva definitivamente in senso astratto A. Magnelli. Nella scultura apparvero le prime esperienze di F. Melotti e L. Fontana. Isolato e in opposizione alla retorica novecentista rimane Morandi. Singolare opposizione è quella di M. Maccari, spirito caustico e satirico; L. Bartolini è noto specialmente per le sue acqueforti.
L’organicismo rifacentesi a F.L. Wright e l’interesse per la passata esperienza razionalista sono i due poli principali che magnetizzarono la cultura architettonica italiana dell’immediato dopoguerra. Unanime fu l’impegno ad affrontare temi impellenti come quello della casa, della pianificazione regionale e urbana. A Milano, in coincidenza con la prima Triennale del dopoguerra, P. Bottoni promosse la costruzione del cosiddetto QT8 (Quartiere dell’8ª triennale). Molti dei migliori architetti operarono con entusiasmo per la qualificazione tipologica e per un funzionale assetto urbanistico nella progettazione dei primi quartieri INA-Casa (Tiburtino di Roma: Ridolfi, Quaroni e Fiorentino; Tuscolano: Libera; Ponticelli a Napoli; Cesate a Milano: Albini, Albricci, Castiglioni, Gardella, BBPR; Borgo Panigale a Bologna; Falchera a Torino: Astengo; la Martella a Matera: Quaroni). Primo momento significativo del rifiuto di ogni monumentalismo è la sistemazione delle Fosse ardeatine di G. Perugini, M. Aprile e M. Fiorentino. La stazione Termini di Roma di E. Montuori, M. Castellazzi, V. Fadigati e A. Vitellozzi costituisce un interessante episodio; notevole per rigore concettuale la produzione di G. Michelucci. Una delle correnti stilistiche più rappresentative degli anni 1950 è il cosiddetto neo-liberty, sviluppatosi prevalentemente in area padana con R. Gabetti, A. Isola, Meneghetti, Gregotti e Stoppino. Nella corrente storicistica si colloca la Torre Velasca di Milano (BBPR). Un interesse verso lo styling si manifesta nel grattacielo Pirelli (G. Ponti). Al recupero del razionalismo tendono L. Cosenza e M. Nizzoli (Olivetti a Napoli e a Ivrea); Figini e Pollini, impegnati anch’essi nelle opere per Olivetti, assumono una matrice propria del lessico wrightiano. Nervi e R. Morandi si confermano come i più noti e coerenti operatori nel campo dello strutturalismo. Gli edifici dell’ENI di M. Nizzoli a San Donato Milanese, la chiesa di Baranzate di A. Mangiarotti e B. Morassutti, gli uffici della Zanussi-Rex di Pordenone di G. Valle chiudono in chiave neo-razionalista il panorama architettonico degli anni 1950. Fra i più incisivi operatori nella diffusione della cultura architettonica vanno ricordati L. Quaroni, F. Albini e I. Gardella.
Nel clima produttivo degli anni 1960 operano V. Viganò, L. Ricci e L. Savioli. Il passaggio a una dimensione urbanistico-funzionale è segnato da personalità come G. De Carlo. Gli anni 1970 sono decisamente ricchi dal punto di vista dell’elaborazione teorica (Quaroni, P.L. Cervellati, G. Samonà, L. Benevolo, C. Aymonino, A. Rossi); si distinguono proposte di strutture urbane con valori formali utopici o eclettici (gruppo Metamorph, M. Dezzi Bardeschi, C. Dardi), proposte di architetture effimere, nuovi modelli culturali e nuove metodologie progettuali (Gabetti e Isola, V. Gregotti, G. Canella, V. De Feo, R. Piano, G. Grassi, F. Purini, G. Aulenti).
L’inizio degli anni 1990 è caratterizzato dalle varie realizzazioni promosse per adeguare le strutture sportive alle necessità dei campionati mondiali di calcio (1990), per lo più ristrutturazioni dell’esistente (stadio Luigi Ferraris di Genova, V. Gregotti; stadio di Firenze, progettato da Nervi nel 1932, riadattato da I. Gamberini) e rare strutture di nuova realizzazione (stadio San Nicola a Bari, di Piano).
Alla fine del 20° secolo l’architettura si è confrontata prevalentemente sul tema del recupero dell’esistente, oltre a occasioni di nuove realizzazioni, per lo più appannaggio dei progettisti già affermati: Gabetti e Isola (Museo dell’Architettura, Torino, 1998); De Carlo (Facoltà di lettere e filosofia e scienze politiche nel monastero di S. Nicolò l’Arena, Catania, 1984-91; Facoltà di economia in Palazzo Battiferri, Urbino, 1999); Gregotti (trasformazione dell’area della Bicocca, Milano, dal 1988); Piano (ristrutturazione della fabbrica Lingotto, Torino, 1988-2002; Banca popolare di Lodi, 2001; Auditorium, Roma, 2002); e inoltre, P. Portoghesi (Moschea, Roma, 1993); F. Venezia (residenze e servizi a San Pietro a Patierno, Napoli, 1999); A. Anselmi (Facoltà di giurisprudenza, Catanzaro, 2000; Municipio, Fiumicino, 2002); M. Bellini (ampliamento della Fiera di Milano, 1997); M. Carmassi (complesso S. Michele a Pisa, 2002); M. Fuksas (Nuovo Polo Fiera di Milano, 2005).
Dallo scorcio del secolo è significativa l’attività di figure internazionali: T. Ando (Centro Benetton, Treviso, 2000; Teatro Armani, Milano, 2001); R. Meier (a Roma, Chiesa di Tor Tre Teste, 2000; Museo dell’Ara Pacis, 2006); M. Botta (MART, Rovereto, 2002); Z. Hadid (MAXXI, Roma, dal 1998) ecc. Per l’architettura del paesaggio si segnala F. Zagari. Tra le giovani generazioni emergono: M. Galantino, C. Zucchi, Studio Archea, P. Desideri, C. Andriani, A. Aymonino. 13.2 Pittura e scultura. Nel secondo dopoguerra, a un filone neocubista (Corpora, Turcato, Monachesi) si affianca, nel 1947, il gruppo astratto di Forma (Turcato, Perilli, Dorazio, Accardi, Attardi, Sanfilippo), mentre a Milano sorge il Movimento spazialista con L. Fontana. La Nuova secessione artistica del 1946 con R. Birolli, Cassinari, Guttuso, Morlotti, Santomaso, Vedova, A. Pizzinato, sfociò nel 1947 nel Fronte nuovo delle arti, che per altro non riuscì a superare le sue interne antinomie (realismo, astrattismo); tra gli scultori, vi aderirono P. Fazzini, A. Viani, N. Franchina, P. Consagra. Nel 1948 a Milano A. Soldati, G. Dorfles, B. Munari, G. Monnet, fondavano il Movimento per l’arte concreta (MAC), volto a potenziare l’arte non figurativa. Nel 1952 si formò il gruppo degli Otto pittori italiani (Birolli, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova, Corpora, Afro, Moreni) improntato all’astrattismo lirico. Seguono le esperienze surrealiste di R. Crippa, G. Dova; in ambito figurativo operano G. Aimone, A. Carmassi; in ambito materico-informale E. Brunori, V. Bendini; E. Baj e G. Bertini fondano a Milano il Movimento dell’arte nucleare. L’Art autre (informale) ha avuto tra i più validi rappresentanti A. Burri, Leoncillo, Fontana, Morlotti, Vedova. Anche la scultura si è rivolta verso l’astrazione e l’uso di nuovi materiali: F. Garelli; Mirko; A. Viani, allievo di A. Martini; Leoncillo. E ancora sono da ricordare L. Minguzzi; A. Fabbri; U. Mastroianni; R. Crippa; E. Colla. Tra i più originali interpreti delle tendenze astrattiste materiche e sensibili al problema del rapporto scultura-spazio urbano sono B. Lardera, Arnaldo e Giò Pomodoro, U. Milani, Franchina, Consagra, P. e A. Cascella, F. Somaini.
Parallelamente al trionfo dell’informale, avviene un aggiornamento sulla cultura americana, ponendo soprattutto in risalto, tramite la mediazione dei mass media, la nuova oggettualità, di cui un precursore è M. Rotella. Nelle opere di G. Novelli e di A. Perilli il segno è assunto come racconto puramente formale condotto con ritmi grafici. L’immagine fotografica è base di elaborazione per M. Schifano, L. Patella, M. Pistoletto. La nuova oggettività, come riproposizione degli oggetti della realtà torna in T. Festa, P. Pascali, J. Kounellis; M. Ceroli riutilizza il legno grezzo da imballaggio.
Nella linea di superamento dell’astrattismo si sono sviluppate ricerche in direzione di soluzioni visuali e ottiche, in relazione al rapporto arte-scienza e al prodotto industriale (B. Munari e E. Mari). Ricerche di arte visiva, cinetica, ottica si devono al Gruppo T di Milano e al Gruppo N di Padova. A Milano, alla scuola di Fontana, si propongono i casi di antipittura di P. Manzoni e di E. Castellani. Elementi visuali sono alla base anche dell’uso di laminati di alluminio, di G. Alviani, e delle ricerche anche tattili di A. Bonalumi e P. Scheggi. Analoghe ma differenziate ricerche visive sono quelle di F. Lo Savio, del Gruppo Uno, a Roma; in scultura, N. Carrino, G. Uncini e, soprattutto dagli anni 1980, C. Lorenzetti.
Negli anni 1980 si sviluppa anche la cosiddetta nuova-figurazione in cui echi dell’informale si uniscono a recuperi del surrealismo in un nuovo realismo figurativo: si ricordano U. Attardi e R. Vespignani, seguiti da S. Vacchi, G. Fieschi, C. Pozzati, G. Ferroni e gli scultori A. Cavaliere, G. Vangi, V. Trubbiani. Verso la fine degli anni 1970 l’arte povera tenta attraverso l’uso di materiali poveri una nuova forma di comunicazione culturale e sociale (L. Fabro, G. Paolini, G. Zorio, A. Boetti, M. Merz). Provocazioni di carattere concettuale volte alla critica sociale conducono alle azioni di rottura comportamentale degli happening.
Dalla fine degli anni 1970 si verifica anche il fenomeno del recupero di tecniche e modi puramente pittorici: da una parte in un’arte citazionista, o ispirata a un raffinato e colto, quanto ambiguo filologismo (in Salvo, C.M. Mariani, S. Di Stasio, F. Piruca ecc., o nelle parallele esperienze di L. Ontani), dall’altra, all’insegna di un selvaggio neoespressionismo, nella cosiddetta arte della transavanguardia (S. Chia, F. Clemente, E. Cucchi, M. Paladino, N. De Maria), i cui protagonisti proseguono poi con diversi indirizzi le proprie ricerche. Tra astrazione e figurazione operano B. Ceccobelli e O. Galliani. In una grande varietà di linguaggi e mezzi espressivi, anche in relazione alle esperienze dell’arte povera e concettuale, hanno proseguito le proprie ricerche Kounellis, Merz, G. Penone, Paolini, e si sono affermati artisti come M. Staccioli, G. Spagnulo, R. Barni, L. Mainolfi, E. Spalletti, Nunzio, L. Cecchini, Icaro, M. Cattelan. Fanno uso di mezzi espressivi diversi M. Mochetti, M. Bartolini, E. Marisaldi. Conducono particolari ricerche anche A. Botta, G. Dessì, A. Pirri, M. Dompé, A. Catelani. Prediligono soluzioni non figurative R. Missaglia, P. Iacchetti, P. Pizzi Cannella, M. Tirelli. B. Esposito lavora con installazioni e azioni; creano opere e installazioni che fondono oggetti, video, linguaggi multimediali S. Lucariello, M. Airò, L. Moro, A. Tesi, F. Vezzoli, G. Toderi; prediligono la fotografia M. Vitali, Botto & Bruno, M. Mazzucconi, V. Beecroft, N. Cingolani, D. Landi, L. Lambri, S. Arienti, T. Tozzi; utilizzano tecnologie avanzate e computer art P. Gilardi, M. Basilé, Studio Azzurro.
Dopo aver ereditato elementi dalle tradizioni musicali greca, etrusca e romana, l’I. nell’alto Medioevo svolse una funzione fondamentale per la formazione e lo sviluppo del canto liturgico cristiano. In tale opera spiccano le figure di s. Ambrogio (4° sec.), vescovo di Milano, cui si deve l’introduzione degli inni e delle antifone nel corpus della musica sacra, e s. Gregorio Magno (6° sec.), che provvide alla raccolta e alla sistemazione di tutto il preesistente patrimonio musicale religioso. In seguito, accogliendo gli influssi della scuola provenzale e contemporaneamente alla nascita del volgare, si delinearono anche i primi esempi di una musica profana. Accanto a questa si sviluppò una fiorente scuola di teoria musicale (Guido d’Arezzo). La Chiesa di Roma, dapprima restia ad accogliere forme di derivazione profana, dovette con il tempo accettare le conquiste musicali dei tempi nuovi e in particolare l’uso della polifonia. Si assistette così al fiorire di una vasta produzione musicale che culminò nell’opera monumentale di G. Pierluigi da Palestrina, compendio di tutte le aspirazioni stilistiche del gusto musicale del Rinascimento.
A partire dal 16°-17° sec., in cerchie ristrette della società si sviluppò un repertorio di danze, concerti e variazioni che costituiscono l’origine più remota di un’arte propriamente strumentale. Nel 18° sec. tale forma di stile incontrò grande fortuna nella musica per violino e fu sviluppata da artisti come T. Albinoni e A. Corelli. La loro lezione culminò poi nell’opera di A. Vivaldi, con il quale il concerto raggiunse vertici ineguagliabili. Successivamente l’arte violinistica vide i maggiori esponenti in G. Tartini, G.B. Viotti, L. Boccherini e infine N. Paganini, nella cui produzione il virtuosismo ascende a valori assoluti. Nel ricco panorama musicale settecentesco si configura anche una vasta produzione clavicembalistica, in particolare con D. Scarlatti, le cui sonate rivelano la geniale e moderna concezione di una nuova scrittura strumentale, e M. Clementi, la cui produzione segnò il passaggio dal clavicembalo al nuovo pianoforte.
Il diffondersi della poetica del ‘recitar cantando’ agli inizi del 17° sec., dapprima nella Camerata fiorentina De’ Bardi e poi con C. Monteverdi, diede origine al melodramma, anche se le origini del teatro musicale in I. possono essere ricondotte alle prime manifestazioni sorte nell’ambito del dramma religioso medievale. Nel Seicento operistico particolare menzione meritano la scuola romana (D. Mazzocchi, S. Landi, L. Rossi e P.A. Cesti) e quella veneta (oltre a Monteverdi, P.F. Cavalli, G. Legrenzi ecc.). La creazione dell’opera buffa rafforzò il successo di questo genere e G. B. Pergolesi, D. Cimarosa e G. Paisiello ne mantennero inalterato lo splendore, anche per il felice contributo di illustri librettisti.
Dopo l’esperienza di musicisti come L. Cherubini, G. Spontini e S. Mayr, nei primi anni del 19° sec. l’I. vide il predominio artistico di G. Rossini, che eccelse sia nelle opere serie sia in quelle buffe. I successivi sviluppi a opera di V. Bellini, G. Donizetti e G. Verdi furono caratterizzati dal progressivo arricchimento del linguaggio musicale, non solo per quanto riguarda la struttura melodica e armonica, ma anche per la nuova concezione del dramma musicale. Alla fine del 19° sec. e al principio del 20° la musica italiana si orientò quasi esclusivamente verso l’opera lirica e dopo Verdi si affidò ai nomi di P. Mascagni, R. Leoncavallo e U. Giordano, ispirati dall’estetica verista, e di G. Puccini, figura dominante. Al di fuori del campo operistico, va segnalata l’attività di F. Busoni.
Analogamente al generale risveglio musicale europeo, anche in I. il tentativo di emanciparsi dal melodramma ottocentesco portò a un rinnovato interesse per la musica strumentale da parte di musicisti nati intorno al 1880, quali O. Respighi, I. Pizzetti, G.F. Malipiero e A. Casella. Tra le due guerre L. Dallapiccola assimilò e ricreò in maniera personale la dodecafonia. Il tentativo di stabilire più solidi legami con le avanguardie europee fu portato avanti da altri compositori come L. Berio, V. Bucchi (1916-1976), F. Donatoni, F. Evangelisti, B. Maderna, L. Nono, S. Sciarrino e M. Zafred, difficilmente inseribili in una corrente definita. Una delle personalità di maggiore spicco del Novecento musicale, non solo in I., è stato G. Petrassi, prolifico autore di opere sinfoniche e cameristiche e di musica da film. Nel campo delle ricerche sulla musica elettronica sono da segnalare, oltre alla creazione dello Studio di fonologia musicale della RAI di Milano da parte di Maderna e Berio, le esperienze di P. Grossi. Infine, vanno ricordati N. Rota, E. Morricone e N. Piovani, che hanno firmato memorabili colonne sonore cinematografiche.