vulcano Struttura morfologica formatasi intorno a una fenditura della crosta terrestre, attraverso la quale si ha la fuoriuscita di materiale profondo, generalmente ad alta temperatura, costituito da fasi solide e/o fluide.
L’attività vulcanica (vulcanismo o vulcanesimo) costituisce il principale processo attraverso il quale viene formata la crosta terrestre e viene modificata la composizione originaria dell’atmosfera della Terra.
La vulcanologia è la scienza che ha per oggetto lo studio dei v. e dei fenomeni vulcanici; di conseguenza essa studia i fenomeni di fuoriuscita di masse fluide dalla crosta terrestre e le relazioni con gli altri fenomeni connessi, quali i sismi e le deformazioni del suolo; inoltre, studia gli effetti delle eruzioni sull’atmosfera, i rischi per l’uomo e l’utilizzazione dell’energia termica connessa al vulcanismo.
Abituali elementi costitutivi di un v. sono il condotto, attraverso il quale il materiale magmatico risale verso la superficie da una zona di alimentazione posta a una certa profondità (serbatoio o camera magmatica), e il cratere, che costituisce l’intersezione del condotto con la superficie morfologica esterna (fig. 1). La risalita e la fuoriuscita del magma danno luogo a un accumulo di materiali attorno al cratere e alla formazione di un rilievo, la cui organizzazione interna e morfologia esterna dipendono dal volume di materiali emessi e dal tipo e numero di eruzioni che si sono verificate. Se il condotto è poco esteso lateralmente e ha una forma tubolare la cui terminazione superiore è il cratere, si possono formare i cosiddetti v. centrali; viceversa, se i condotti hanno una morfologia tabulare, la loro intersezione con la superficie del suolo è di forma lineare (v. lineari) e le eruzioni che si producono vengono chiamate fissurali. In un v. centrale i condotti possono essere più di uno (laterali o eccentrici) e dar luogo così a più bocche di uscita (crateri avventizi). Questa schematizzazione ha, tuttavia, un carattere indicativo, in quanto la dinamica dei v. è in realtà molto più complessa, tanto che si preferisce parlare di apparati (o complessi o sistemi) vulcanici.
I criteri con i quali viene identificato un singolo v. e la definizione stessa di v. attivo presentano ancora qualche ambiguità. Infatti, se l’identificazione di un singolo v. come sistema che ha un’unitarietà morfologica, strutturale e magmatologica è abbastanza chiara nei classici apparati centrali (il più tipico dei quali è il rilievo troncoconico simmetrico con cratere sommitale esemplificato nel modo migliore dal v. giapponese Fuji), essa risulta tuttavia meno semplice nel caso di vulcanismo alimentato da estese fratture lineari, come lungo le dorsali medio-oceaniche. Delle migliaia di v. identificabili sulla superficie terrestre vengono considerati attivi quelli che sono ancora capaci di dar luogo a eruzioni. Tradizionalmente venivano definiti tali i circa 500 v. che hanno fornito per lo meno un’eruzione in epoca storica. Questa definizione, oltre ad avere un’ovvia ambiguità dovuta al diverso intervallo di tempo al quale risale la testimonianza storica nelle diverse parti del mondo, è stata messa in crisi dalla violenta ripresa di attività di alcuni vulcani, come il Pinatubo nelle Filippine ed El Chichón in Messico, che erano quiescenti da diversi secoli. Le datazioni delle eruzioni preistoriche, effettuate sia con il metodo del 14C, sia su basi archeologiche, hanno inoltre rivelato che non è infrequente il caso di v. le cui eruzioni avvengono a intervalli di migliaia di anni.
La risalita del magma verso la superficie è fortemente condizionata da alcuni fattori: viscosità del fluido, densità e gradiente di pressione prodotto dal carico di roccia sovrastante. In ogni caso, maggiore è la viscosità, più lenta è la risalita. Quando il magma si accumula formando un corpo di notevoli dimensioni (per es., qualche centinaio di metri di lunghezza), la spinta verso l’alto può superare la resistenza alla fratturazione delle rocce circostanti e quindi il corpo assume una superficie superiore convessa e si apre la via fratturando, per pressione, la roccia sovrastante. Le masse magmatiche tendono quindi a salire fino al livello in cui la densità diventa uguale a quella delle rocce circostanti; in queste zone, che si localizzano a livello crostale, il magma ristagna (camere magmatiche), si raffredda e tende a cambiare la sua composizione attraverso complessi processi di cristallizzazione e convezione (differenziazione magmatica). La presenza di camere magmatiche al di sotto di alcuni v. attivi è stata mostrata con metodi di tomografia sismica; la loro posizione è stata confermata anche dai modelli costruiti in base ai dati sulle deformazioni del suolo, che accompagnano l’attività eruttiva. Ogni eruzione, infatti, è generalmente preceduta da un lento sollevamento del suolo, che può raggiungere anche un metro di ampiezza, attribuibile al graduale riempimento della camera magmatica. Quando la pressione del magma è sufficiente a fratturare il tetto della camera, ha inizio l’eruzione. Inoltre, l’erosione e il sollevamento di estese regioni di crosta terrestre hanno portato alla superficie le radici di vecchi edifici vulcanici ormai completamente smantellati, che consistono in una serie di dicchi che si diramano da corpi intrusivi; la forma e le variazioni spaziali della composizione di questi ultimi sono quelli che ci si aspetterebbe per una camera magmatica. Tuttavia, la schematizzazione di una camera magmatica come un serbatoio chiuso, limitato da pareti definite, è solo un’astrazione, dal momento che la camera può essere rifornita, più o meno continuamente, dai magmi provenienti dal mantello terrestre, i quali iniettano abbondantemente e fittamente le rocce incassanti.
Lo stile eruttivo di un v. è determinato essenzialmente dalla viscosità del magma che lo alimenta e dalla possibilità che esso interagisca con le falde acquifere. Nei magmi fluidi i gas si liberano facilmente sfuggendo verso la superficie: il magma rigonfia e trabocca fuori dal cratere, formando una colata di lava (attività effusiva). I magmi basaltici sono quelli caratterizzati dalle viscosità più basse (10-100 Pa∙s) e dalle temperature più elevate (1100-1200 °C). Essi danno generalmente luogo a tranquille effusioni laviche. È questa la tipica attività del Kilauea (Hawaii), dell’Etna e dei vulcani islandesi. Le eventuali interazioni con falde freatiche producono deboli esplosioni e fontane di lava.
La viscosità dei magmi aumenta notevolmente con la concentrazione in silice, che diventa dell’ordine di 100-1000 Pa∙s nei magmi andesitici e raggiunge i 100 milioni di Pa∙s nei magmi riolitici. Questi ultimi, quando raggiungono la superficie terrestre, hanno temperature di 700-800 °C. Essi risalgono molto lentamente lungo i condotti e, se non incontrano livelli ricchi di acqua, tendono a raffreddarsi intorno alla bocca eruttiva, formando cupole e domi. Se però essi hanno un elevato contenuto in acqua (o durante la risalita incontrano falde acquifere), l’alta viscosità del magma impedisce la regolare e continua emissione dei gas, che invece avviene attraverso violente esplosioni, le quali si verificano ogni qual volta la pressione interna aumenta fino al punto di vincere la resistenza opposta dal magma stesso (attività esplosiva). Questo tipo di magma è soprattutto diffuso nei v. situati sui margini compressivi delle zolle litosferiche, come, per es., i v. della regione andina e quelli degli archi insulari del Pacifico (Giappone, Indonesia, Filippine ecc.). Le eruzioni esplosive di media e grande violenza liberano in genere energie comprese tra 1015 e 1019 J. Durante queste eruzioni vengono proiettate verticalmente colonne formate da getti di gas che trasportano frammenti finemente triturati di magma liquido e delle rocce che fanno parte del condotto magmatico, le quali possono raggiungere anche un’altezza di alcune decine di kilometri. I prodotti solidi di queste nubi, trasportati dai venti, cadono dall’alto formando depositi di ceneri, pomici e lapilli (depositi di ricaduta). Quando la colonna è molto densa, perché molto carica di ceneri e lapilli, essa collassa sotto il proprio peso, generando così flussi di ceneri, lapilli e gas (colate piroclastiche) che, sotto la spinta della forza di gravità, si propagano a velocità maggiori di 100 km/h lungo i pendii della montagna. Le parti più diluite, e quindi più veloci, di queste colate sono chiamate in inglese surges «ondate». Un fenomeno analogo si genera quando le esplosioni avvengono a piccola profondità e quindi non vi sono le pareti del condotto a ostacolare la propagazione dell’onda in direzione orizzontale. In questo caso si genera una ondata di base (base surge), che è costituita da una emulsione turbolenta e molto diluita di gas caldi e ceneri, la quale si propaga con enorme rapidità lungo i fianchi del vulcano. Le eruzioni esplosive sono le più pericolose e sono quelle che hanno prodotto in epoca storica le maggiori devastazioni. Basti ricordare l’eruzione del 1902 della Montagne Pelée, che distrusse la cittadina di Saint-Pierre, nella Martinica, o quelle del Saint Helens nel 1980, del Chichón, in Messico, nel 1982, del Pinatubo, nelle Filippine, nel 1991. L’esplosività di una eruzione viene classificata attraverso un indice in scala logaritmica chiamato indice di esplosività o VEI (volcanic explosivity index); questo indice ha valore da 0 a 2-3 per l’attività essenzialmente effusiva, mentre raggiunge valori da 5 a 7 per una attività quasi esclusivamente esplosiva.
L’attività vulcanica si esplica dunque in condizioni e con caratteri piuttosto differenti, tanto da consentire una classificazione dei vari tipi di eruzione basandosi, per es., sul diverso grado di esplosività, a cui compete una differente altezza della colonna eruttiva (colonna di materiali piroclastici, eiettati verso l’alto dal v., fortemente sostenuta dall’espansione dei gas), una differente dispersione e un diverso grado di frammentazione dei depositi di ricaduta.
La morfologia complessiva dei v. è condizionata da diversi fattori: le locali situazioni geologiche e tettoniche; la presenza di un condotto relativamente stabile nel tempo (v. centrali); la presenza di fratture eruttive lineari (v. lineari); la migrazione dell’asse eruttivo nel tempo, che può dar luogo a strutture complesse; il chimismo delle lave; il contenuto dei volatili; l’intensità energetica dell’eruzione; il ritmico ripetersi di fasi effusive ed esplosive; il volume di prodotti piroclastici emessi durante un’eruzione in rapporto al volume totale di materiali eruttati, cioè l’indice di esplosività.
Nei v. dove il magma ristagna in corrispondenza della bocca si formano accumuli di lava di differente forma e dimensioni, a cui si dà il nome di cupole o domi di lava. Questi costituiscono dei rilievi con fianchi piuttosto ripidi condizionati dall’elevata viscosità del magma. In alcuni casi si formano delle protrusioni solide che danno luogo a obelischi o spine di lava; gli esempi più tipici sono quelli dei v. con lave a composizione calcalcalina. La struttura interna dei domi è variabile e dipende dal tipo di accrescimento; se avviene all’esterno (effusioni laviche) si parla di domi esogeni, viceversa se l’accrescimento avviene per espansione dall’interno si parla di domi endogeni. Se le lave sono molto viscose e l’accrescimento è discontinuo, le parti più esterne si fratturano a blocchi (domi a blocchi) e all’interno delle fessure si inietta nuovo magma (fig. 2). I v. che hanno un indice di esplosività piuttosto basso (0-3) hanno una attività effusiva e i rilievi che si formano, poco accentuati e con diametri basali molto grandi rispetto all’altezza (v. a scudo), sono il prodotto della sovrapposizione di colate di lava molto fluide ed estese (fig. 3). La pendenza dei fianchi è compresa fra 4 e 6 gradi. Le dimensioni sono variabili, da 2 a 400 km di diametro e l’altezza varia da meno di 100 m (v. a scudo di tipo islandese) a 10.000 m di altezza (v. a scudo di tipo hawaiano). Questi ultimi presentano sovente un profilo tipicamente convesso nella parte superiore. I v. misti (o stratovulcani o vulcano strati o v. compositi, fig. 4) presentano una morfologia molto diffusa che deriva da una attività mista sia effusiva, sia esplosiva. V. di questo tipo caratterizzano le cordigliere nord- e sudamericane e gli archi insulari del Pacifico; vi appartengono anche i maggiori v. italiani. Inoltre, si suole distinguere tra v. che si possono originare a seguito di diverse eruzioni (v. poligenici) o che possono essere il prodotto di una sola eruzione (v. monogenici).
Gli edifici vulcanici che derivano essenzialmente da attività di tipo esplosivo danno luogo a diverse morfologie: a) coni di scorie, il prodotto di una attività di tipo stromboliano e composti da scorie sciolte; la presenza di magma particolarmente fluido può determinare la saldatura delle stesse e dar luogo così a un cono di scorie saldate; b) anelli di tufi (tuff rings), edifici piccoli, con altezze poco elevate e crateri molto ampi; c) coni di tufi (tuff cones), più alti dei precedenti e con pendenza dei fianchi più accentuata; si formano essenzialmente a seguito di eruzioni freatomagmatiche.
Altri edifici sono rappresentati dai diatremi (camini vulcanici di forma cilindrica, generalmente svasati all’orifizio, aperti da esplosioni gassose) e dalle caldere, strutture più o meno circolari e depresse, di diametro generalmente superiore al kilometro, caratterizzate da pareti interne molto ripide. La loro formazione è connessa a eruzioni durante le quali vengono emesse enormi quantità di magma che determinano il collasso di una parte, più o meno cospicua, del tetto della camera magmatica superficiale, a seguito dello svuotamento della stessa (fig. 5).
4.1 Distribuzione dell’attività vulcanica. Attualmente, l’attività vulcanica è concentrata lungo strette fasce che rappresentano meno dello 0,6% della superficie della Terra (fig. 6). Questa distribuzione non è casuale, ma mostra una marcata correlazione con strutture geologiche e lineamenti tettonici ben definiti. La teoria della tettonica a zolle ha permesso di spiegare le cause di questa distribuzione e la sua relazione con la dinamica della parte più esterna del pianeta. Circa il 94% delle eruzioni avvenute in epoca storica (esistono 538 v. le cui eruzioni sono state storicamente registrate, e 1300 v. sono stati attivi negli ultimi 10.000 anni) ha avuto luogo in v. ubicati in corrispondenza dei margini divergenti e subducenti delle zolle litosferiche. La grande maggioranza di queste eruzioni, e le più violente, sono avvenute lungo i margini compressivi delle zolle (zone di subduzione). Le eruzioni che avvengono lungo le dorsali oceaniche consistono in genere in tranquille effusioni laviche che sfuggono all’osservazione, essendo ricoperte da uno strato di Oceano spesso da 1 a 4 km.
Circa il 6% delle eruzioni avviene in v. che sono ubicati all’interno delle zolle litosferiche. Questi v. vengono alimentati da punti caldi (hot spots), che sono l’espressione superficiale di zone di anomalia termica del mantello estese probabilmente fino a circa 2900 km di profondità, dove è situato il confine con il nucleo. Tali anomalie termiche sono chiamate pennacchi caldi (hot plumes), a causa della loro forma, lunga e sottile. I punti caldi sono fissi nell’astenosfera e costituiscono in pratica delle zone di accumulo di magma che, a causa della minore densità, tende a risalire verso la superficie terrestre, perforando la litosfera sovrastante e formando un vulcano. Pertanto il passaggio di una zolla litosferica sopra un punto caldo è marcato da una traccia costituita da una catena di v., allineata lungo la direzione di movimento della zolla, e la cui età aumenta all’aumentare della distanza dal punto caldo. 4.2 Formazione dei magmi. L’origine dell’attività vulcanica va cercata nell’interno della Terra, a profondità comprese tra qualche decina e qualche centinaia di kilometri, dove possono sussistere condizioni termiche favorevoli alla fusione parziale del materiale roccioso ivi esistente. Gli studi sulla propagazione delle onde sismiche hanno permesso di stabilire che il mantello terrestre è essenzialmente un solido di composizione peridotitica, cioè costituito in gran parte da silicati di ferro e magnesio, tra i quali predomina l’olivina. La temperatura nel mantello è forse leggermente minore di quella alla quale la peridotite inizia a fondersi. Solo in una zona compresa tra 50 e 300 km di profondità, il rallentamento e l’assorbimento anomalo delle onde sismiche indicano che la temperatura è leggermente maggiore di quella di inizio della fusione e che nel solido sono presenti piccole percentuali (inferiori al 5%) di liquido. Riproducendo in laboratorio la fusione delle peridotiti alle condizioni di temperatura e pressione che si suppone esistano fino a 200 km di profondità, è stato osservato che i tipi principali di magmi alimentanti l’attività vulcanica possono essere prodotti dalla fusione parziale delle peridotiti. I magmi che alimentano l’attività lungo le dorsali medio-oceaniche e le zone di vulcanismo interno alle placche sono essenzialmente di composizione basaltica, cioè caratterizzati da un contenuto in ferro più elevato del 10%, contenuto in alcali inferiori al 4% con concentrazione in potassio inferiore all’1%. In particolare, la maggior parte dei magmi delle dorsali medio-oceaniche appartiene a una categoria di basalti, chiamati tholeiitici, impoveriti in elementi alcalini, titanio e fosforo.
Un’altra categoria di basalti, diffusa soprattutto nei v. interni alle placche, è quella dei basalti alcalini, caratterizzata da un contenuto di potassio che raggiunge l’1,5%, da elevate concentrazioni di sodio e dalla presenza di altri elementi alcalini, titanio e fosforo. I magmi basaltici delle dorsali e delle zone interne alle placche sono probabilmente formati per fusione prodotta da decompressione; infatti, gli studi sperimentali e l’applicazione di principi termodinamici al mantello mostrano che la temperatura alla quale inizia la fusione della peridotite diminuisce al diminuire della pressione di circa 4-5 K per km di roccia. Il processo di formazione dei magmi nelle zone di subduzione è alquanto diverso; in queste zone, infatti, alcune placche di litosfera, costituite da crosta oceanica con il sottostante mantello superiore, sprofondano nel mantello.
La crosta oceanica contiene diversi minerali idrati, quali cloriti, anfiboli e serpentini, che si deidratano man mano che la litosfera sprofonda nel mantello e viene riscaldata per attrito. L’acqua liberata dalla litosfera si diffonde nel mantello sovrastante, causando una drastica riduzione della temperatura di fusione della peridotite; vengono così prodotti magmi caratterizzati da elevato tenore in allumina (Al2O3, superiore al 16%), da concentrazioni in alcali intorno al 4-5%, da contenuti in ferro non superiori all’8%. Questi magmi danno luogo alla formazione di rocce appartenenti alla serie calcalcalina, i cui termini più diffusi sono le andesiti.
Il diastrofismo che si verifica in una regione vulcanica quando l’attività eruttiva dà origine a faglie e fratture radiali o perimetrali, sprofondamenti a caldera e anulari in seguito allo svuotamento del serbatoio magmatico, sollevamenti e intumescenze per la pressione del magma e dei gas verso l’esterno, si chiama vulcanotettonica. 4.3 Gas vulcanici. Una parte fondamentale dell’attività vulcanica è rappresentata dai gas vulcanici (➔ gas). In pochi casi è possibile ridurre o eliminare fisicamente la pericolosità delle emissioni gassose, come è accaduto in occasione del degassamento artificiale del Lago Nyos, in Camerun (2001). Nella maggior parte dei casi gli unici mezzi per ridurre il rischio sono il continuo controllo e la limitazione dell’accesso del pubblico nelle aree interessate dal fenomeno. 4.4 Tsunami vulcanici. Una conseguenza spesso disastrosa dell’attività di un v. è costituita dai cosiddetti tsunami (➔) vulcanici, che sono generati quando una parte dell’enorme quantità di energia prodotta durante un’eruzione viene trasmessa all’acqua degli oceani o di laghi di grandi dimensioni situati nelle immediate vicinanze. Sono stati documentati almeno 9 diversi meccanismi con i quali un v. produce tsunami: terremoti vulcanici, eruzioni di vulcani sottomarini, afflusso di colate piroclastiche in mare, collasso di caldere, frane detritiche, immissione di lahar (➔) in mare, esplosioni freatomagmatiche, collassi di banchi di lava durante le eruzioni effusive, accoppiamento tra acqua e onde di aria turbolenta provenienti da un’eruzione esplosiva. Gli tsunami vulcanici possono trasmettere l’energia delle eruzioni vulcaniche a grandi distanze, producendo una devastazione maggiore di quella che si avrebbe per effetto diretto della sola eruzione.
5.1 Obiettivi della vulcanologia. Uno dei fini principali delle ricerche vulcanologiche è quello di giungere a una previsione delle eruzioni, cioè del tempo, del luogo, della tipologia e delle dimensioni del prossimo evento eruttivo di un vulcano. Rispetto al problema della previsione dei terremoti, quello delle eruzioni è facilitato dal fatto che esse avvengono generalmente all’interno di un’area, nota e di dimensioni limitate, spesso minore di un centinaio di kilometri quadrati. È noto da diversi secoli che le eruzioni, in special modo quelle esplosive, sono precedute da intensa attività sismica e da notevoli deformazioni del suolo. Esempi storici, ormai classici, sono l’eruzione vesuviana del 79 d.C. e quella del Monte Nuovo, nei Campi Flegrei, del 1538. Pertanto, attività sismica e deformazioni del suolo sono i fenomeni premonitori classici sui quali si è concentrata l’attenzione dei vulcanologi. 5.2 Metodologie. Solo nella seconda metà del 20° sec. si sono cominciate a utilizzare con la dovuta sistematicità altre metodologie, basate sulle variazioni di parametri fisici e chimici che vengono verosimilmente prodotte dall’avvicinarsi del magma alla superficie terrestre; tra esse, le più promettenti appaiono le variazioni locali del campo magnetico ed elettromagnetico terrestre, della composizione chimica dei gas emessi dal v. e del regime termico. La ricerca di correlazioni valide da un punto di vista statistico richiede comunque la raccolta di un gran numero di dati sperimentali nel corso delle varie fasi di attività di un vulcano. L’intervallo di riposo tra successive eruzioni di uno stesso v. aumenta notevolmente all’aumentare dell’indice di esplosività. V. basaltici, con VEI compreso tra 0 e 2, hanno tipicamente periodi di riposo di 1-10 anni, mentre gli intervalli di riposo tipici di v. fortemente esplosivi (VEI=5-6), e quindi più pericolosi, sono di 100-1000 anni. L’ovvia conseguenza è che le conoscenze sulla previsione delle eruzioni sono progredite molto più rapidamente per i v. ad attività prevalentemente effusiva che per quelli ad attività esplosiva.
L’attività sismica di un v. consiste in due tipi diversi di eventi. Un tipo è costituito da terremoti della stessa natura di quelli tettonici, che avvengono quando la roccia circostante il magma si frattura, generalmente a causa di variazioni della pressione esercitata dal magma sulle pareti del condotto o da sforzi indotti da differenze di temperatura. Un altro tipo è costituito da un tremore più o meno continuo e da eventi quasi monocromatici, chiamati eventi a lungo periodo. Quest’attività trova la sua origine nel magma stesso ed è dovuta a una combinazione di oscillazioni della colonna magmatica, dei gas in essa contenuti e di risposte di risonanza di parti del condotto a variazioni della pressione magmatica. Esempi analoghi di chiare correlazioni tra attività sismica, movimenti del magma e deformazioni del suolo esistono nei v. basaltici, come il Kilauea, i v. islandesi e il Piton de la Fournaise (Isola della Riunione) oppure in v. a condotto aperto, come il Sakura-jima (Giappone).
I progressi nella previsione delle eruzioni basati sulle caratteristiche dell’attività sismica sono legati strettamente all’accrescimento delle conoscenze sul meccanismo di origine della sismicità dei vulcani. A partire dagli anni 1980 queste sono notevolmente progredite grazie all’utilizzazione di reti sismiche digitali a grande dinamica, che permettono di superare problemi di saturazione e quindi di analizzare nella sua completezza il segnale emesso da un terremoto e non solo i primi arrivi delle onde longitudinali e trasversali. Si è messo quindi in evidenza che l’energia degli eventi a lungo periodo e del microtremore è correlata alla pressurizzazione del sistema magmatico. I terremoti vulcanotettonici riflettono invece una variazione di sforzo nel mezzo solido, che non indica necessariamente l’imminenza di una eruzione, ma che riveste una enorme importanza nel rilevamento della distribuzione geometrica degli sforzi in profondità e della sua variazione nel tempo.
La previsione del risveglio eruttivo di v. ad alta esplosività è un compito ancora molto arduo. Le violente eruzioni di questo tipo avvenute a partire dal 1980 hanno confermato che esse sono sempre precedute da attività sismica molto intensa, ma le relazioni tra questa e l’attività eruttiva variano da v. a v. e, a volte, anche da eruzione a eruzione dello stesso vulcano. Queste eruzioni, essendo dovute a magmi con grande viscosità, sono probabilmente precedute da notevoli deformazioni del suolo, ma le tecniche tradizionali di rilevamento di queste ultime sono spesso di difficile utilizzazione negli impervi e tormentati paesaggi vulcanici. 5.3 Approccio quantitativo. Negli ultimi venti anni del 20º sec. lo sviluppo e l’applicazione di modelli fisici e numerici hanno contribuito in maniera significativa alla conoscenza dei processi vulcanici. Questo approccio quantitativo supporta e completa quello tradizionale, più qualitativo, basato sulla ricostruzione della storia di un v. attraverso l’analisi dei prodotti emessi. Il comportamento di un v. (in particolare il passaggio dalla condizione di quiete alla fase di apertura del condotto, alla fase eruttiva e da qui nuovamente alla quiete) viene simulato calcolando i valori assunti dalle variabili in gioco (pressione, temperatura del magma ecc.) nello spazio e nel tempo. I processi vulcanici che vengono comunemente studiati e riprodotti con queste tecniche sono quelli legati alla genesi e alla segregazione del magma, alla formazione e all’evoluzione delle camere magmatiche, alla formazione di colonne sostenute e collassi al cratere, allo scorrimento di colate laviche e flussi piroclastici sulle pendici del v., all’interazione magma-acqua; tuttavia la modellazione di questi processi richiede ancora, nella grande maggioranza dei casi, l’uso di schemi molto semplificati, e quindi non del tutto realistici.
L’interpretazione ottimale dei dati provenienti dal monitoraggio di un v., specie allo scopo di prevedere il verificarsi di un’eruzione, dipende in maniera critica dalla conoscenza della struttura e dei processi vulcanici, sia generale sia riferita a ciascun vulcano. Il monitoraggio di un v. comprende il controllo sistematico di vari tipi di dati geologici, geochimici e geofisici. Queste diverse tipologie di dati forniscono informazioni sui processi fisici ricollegabili al movimento del magma o ad altri fenomeni precursori di un’eruzione e la loro sintesi dovrebbe garantire un’interpretazione coerente con tutte le osservazioni. Tuttavia la situazione è talvolta complicata dal fatto che i dati giungono ai centri di elaborazione in tempi diversi e inoltre, mentre alcuni di essi forniscono informazioni immediate, altri necessitano di fasi di elaborazione successive che causano inevitabili ritardi nella conoscenza dello stato di attività del vulcano. 5.4 Strumenti. Gli strumenti utilizzati per il controllo dell’attività dei v. sono di diverso tipo, sofisticazione, costo ed efficacia. Alcuni strumenti sono permanenti e, una volta installati, raccolgono dati per lunghi periodi di tempo (per es., una rete sismica), altri sono installati temporaneamente o addirittura trasportati in aree vulcaniche solo per il tempo necessario a effettuare misurazioni; dei circa 600 v. attivi o potenzialmente attivi della Terra solo un piccolo numero è tenuto sotto controllo, per motivi logistici ma anche economici, e comunque su nessun v. sono operativi per lunghi periodi di tempo simultaneamente tutti i possibili tipi di strumenti. Poiché su alcuni v. l’installazione di strumenti a terra è impedita dall’elevata pericolosità, il monitoraggio dei v. si avvantaggia dell’uso di tecniche di telerilevamento. Per quanto riguarda il caso di v. che non sono stati attivi in tempi storici, o che non dispongono di sistemi di sorveglianza a terra, la prima informazione di uno stato preeruttivo può provenire da dati telerilevati nell’infrarosso termico, in quanto l’area del cratere appare molto più calda della zona circostante. Con le tecniche di telerilevamento si può inoltre osservare la comparsa di un nuovo lago di lava all’interno di un cratere, prima che sia possibile rilevarne la presenza da terra.
Le eruzioni esplosive immettono nell’atmosfera enormi quantità di composti dello zolfo che, attraverso una serie di reazioni fotochimiche, formano nella stratosfera una nube di aerosol composto da goccioline di acido solforico, aventi in media un diametro di decine di nanometri. Il tempo di residenza dell’aerosol nell’atmosfera dipende dalla velocità di nucleazione e di crescita delle goccioline, che rimangono anche per alcuni anni nella stratosfera prima di coagularsi in gocce di dimensioni tali da depositarsi sulla superficie terrestre. Questo aerosol stratosferico altera il bilancio termico globale. La dimensione media delle goccioline è infatti 10 volte più grande della lunghezza d’onda della radiazione proveniente dal Sole e 6-7 volte più piccola della lunghezza d’onda della radiazione riflessa dalla Terra; di conseguenza, le nubi di aerosol si lasciano attraversare preferibilmente dalla radiazione riflessa dalla Terra e assorbono e riflettono verso lo spazio quella proveniente dal Sole. L’effetto globale è quello di raffreddare la bassa atmosfera.
Fenomeni vulcanici sono presenti o si sono manifestati, oltre che sulla Terra, su tutti gli altri pianeti interni del Sistema solare (Mercurio, Venere e Marte), sulla Luna e su numerosi satelliti dei pianeti esterni. Su ognuno di questi corpi, il vulcanismo ha assunto caratteristiche diverse. Sulla Luna e su Mercurio, le eruzioni sono state prevalentemente di tipo lineare: la lava, molto fluida, è fuoriuscita da fessure apertesi nella crosta, lunghe anche parecchi kilometri, formando i ‘mari’ (sulla Luna) e le ‘pianure’ (su Mercurio). Su Marte e su Venere si sono formati grandi v. a scudo nei ‘punti caldi’ della crosta, cioè al di sopra di correnti convettive ascendenti di materiale caldo del mantello. Su Venere, però, oltre a questi v., alimentati da lave basaltiche piuttosto fluide, vi sono anche domi vulcanici a pareti ripide, formati da lave più viscose. I v. di Venere, e ancor più quelli di Marte, raggiungono dimensioni assai più grandi di quelli terrestri: la ragione principale è che su questi pianeti, mancando una tettonica a zolle, un pennacchio dà origine a un singolo edificio vulcanico, anziché a una catena di v. più piccoli come avviene sulla Terra. Per quanto riguarda la durata dell’attività vulcanica, sulla Luna e su Mercurio essa è cessata da oltre 3 miliardi di anni, mentre su Marte e su Venere si è protratta fino a epoche geologicamente recenti. Il corpo più vulcanicamente attivo del Sistema solare sembra essere il satellite di Giove, Io: infatti, le sonde Voyager, nel 1979, hanno fotografato 8 eruzioni in corso su di esso; successivamente la missione Galileo ha consentito di stabilire che Io possiede un’attività vulcanica 100 volte superiore a quella terrestre. Le eruzioni vulcaniche di Io si manifestano con getti di anidride solforosa (simili a enormi geyser), che raggiungono altezze di centinaia di kilometri, e con colate di zolfo liquido e, probabilmente, di rocce basaltiche. Tracce di un vulcanismo estinto sembrano essere presenti su parecchi altri satelliti dei pianeti esterni; per es., Teti, Dione e Giapeto (del sistema di Saturno); Miranda, Ariele, Titania e Oberon (di quello di Urano).