In petrografia, miscela complessa naturale, essenzialmente liquida, ad alta temperatura, costituita in prevalenza da fusi silicatici che contengono disciolti nella loro massa quantità variabili di gas (componenti volatili) e in misura subordinata ossidi e solfuri fusi.
Lo stato fisico di un m. viene riferito ad alcuni parametri (temperatura, pressione, viscosità, densità) che cambiano nel corso della consolidazione e in relazione al tipo di ambientazione genetica: internamente alla crosta terrestre (plutonismo), o esternamente a essa (vulcanismo). La temperatura di un m. viene misurata direttamente, attraverso pirometri, quando esso fuoriesce a giorno mediante il processo vulcanico. I valori della temperatura sono variabili in relazione al tipo di m.: essa è compresa tra 1200 e 1300 °C per i m. basici (basaltici), mentre si aggira sui 600-700 °C per quelli acidi (rioliti alcaline). Per quanto riguarda i m. che solidificano in profondità, le informazioni circa le temperature di consolidazione provengono sia dallo studio delle rocce intrusive sia dalle ricerche della mineralogia e della petrologia sperimentale, le quali indicano che l’inizio di tale consolidazione avverrebbe a temperature comprese tra 1100 e 650-700 °C. La viscosità di un fuso silicatico esprime la sua resistenza a fluire; essa è strettamente connessa alla composizione chimica del fuso stesso e, a parità di altre condizioni, aumenta con l’aumentare del contenuto in silice. Così in ambiente vulcanico mentre le colate di un m. a composizione basaltica (basica) possono scorrere per diversi chilometri prima di arrestarsi, quelle dei m. acidi (per es., riolitiche) si arrestano in breve spazio, solidificando in prossimità dei centri di emissione. La densità, come la viscosità, è un parametro legato alla composizione chimica del m. e assume un ruolo molto importante nel controllare la risalita dei fusi silicatici. Essa diminuisce con l’aumentare del contenuto di H2O e si aggira sui 2,2 g/cm3 per un fuso di tipo riolitico, mentre ha un valore di circa 2,8 g/cm3 per fusi che hanno una composizione basaltica.
La consolidazione del m. avviene nella parte più superficiale della crosta terrestre. Gli studi di carattere sperimentale nonché le considerazioni di natura geologica, tettonica e geofisica indicano che il m. trae la sua origine nell’astenosfera dove il materiale allo stato solido, in seguito a un processo di fusione parziale, produce un fuso in grado di migrare verso l’alto; questo raggiunge la crosta terrestre dove può solidificare, dando luogo alla formazione dei plutoni (ambientazione intratellurica), o risalire ulteriormente, fuoriuscendo in superficie (ambientazione vulcanica) dopo aver stazionato per un certo periodo di tempo in una camera magmatica intermedia superficiale. La consolidazione viene così vista attraverso una serie di stadi durante i quali il fuso magmatico cristallizza in condizioni di temperatura decrescente. Nella fase iniziale, prima della cristallizzazione, con temperature dell’ordine di 1000-1200 °C, si ha lo stadio dei m. surriscaldati; a questo segue lo stadio ortomagmatico durante il quale la temperatura scende dai valori di 1000-1200 °C fino a circa 600 °C. Durante questo stadio cristallizza quasi tutta la componente silicatica non volatile del m., originando la maggior parte delle rocce eruttive intrusive e di quelle ipoabissali. Lo stadio pegmatitico rimane grosso modo definito tra le temperature di 750-500 °C. In questo intervallo, mentre si ha la cristallizzazione dei complessi silicatici e della silice, il fuso si arricchisce della componente volatile, la quale controlla il chimismo delle rocce che si vanno formando, la temperatura di cristallizzazione e la viscosità del fuso stesso. Ne consegue un particolare andamento della cinetica della cristallizzazione che favorisce la genesi di termini mineralogici fortemente accresciuti a causa della più bassa densità del mezzo in cui le singole specie di minerali si costruiscono. I prodotti tipici di questo stadio sono rappresentati dalle pegmatiti, rocce che costituiscono masse satelliti intorno ai plutoni consolidati durante lo stadio ortomagmatico. In ambientazione vulcanica a questo stadio viene ricondotta un’attività prevalentemente esplosiva da cui si originano flussi piroclastici che danno luogo a depositi di tipo ignimbritico. Lo stadio pneumatolitico segue in continuità quello pegmatitico, poiché non esiste un limite netto tra i due. In questo stadio la componente volatile costituisce la porzione predominante e tende a condensare con il diminuire della temperatura; anche la tensione di vapore di H2O dopo aver raggiunto i valori massimi durante lo stadio pegmatitico diminuisce piuttosto rapidamente con il diminuire della temperatura. L’aspetto che più caratterizza lo stadio pneumatolitico è rappresentato dall’insieme dei fenomeni di reazione, sostituzione e metasomatismo che vengono operati dai fluidi residuali sulle formazioni incassanti; in queste condizioni si formano diversi minerali la cui genesi è legata o a un processo di reazione tra fluidi juvenili e rocce incassanti (minerali pneumatolitici di contatto o minerali di neoformazione) o a diretta cristallizzazione a partire dai convogli pneumatolitici (minerali di estrazione). Le rocce che si formano durante questo stadio sono chiamate pneumatoliti e si caratterizzano per l’elevata presenza di ossidi e solfuri metallici. Il limite termico inferiore di questo stadio è stato posto a circa 374 °C, che rappresenta la temperatura critica dell’acqua al di sotto della quale la componente volatile, condensando, dà luogo a soluzioni acquose.
Gli studi petrografici condotti sulle rocce ignee hanno evidenziato che esistono raggruppamenti di rocce (province petrografiche) con caratteri peculiari sia dal punto di vista chimico-petrografico sia come ambientazione tettonica. Nell’ambito di queste province le rocce mostrano variazioni continue e graduali, compatibili con i processi di differenziazione che interessano i m. capostipiti; inoltre al loro interno sono state riconosciute serie di rocce (serie comagmatiche) risultate geneticamente legate tra loro.
Lo studio delle serie viene generalmente effettuato attraverso quelli che sono chiamati diagrammi di variazione, i quali danno indicazioni di carattere qualitativo, mettendo in relazione due variabili di cui una è un elemento maggiore e l’altra è un parametro che dà informazioni sulla composizione della roccia, comparandola a quella del probabile m. capostipite. Il parametro che viene normalmente usato è la silice, la cui percentuale varia passando dalle rocce basiche, che sono quelle meno evolute e più vicine composizionalmente al m. capostipite, a quelle acide, che rispetto alle prime sono invece più evolute. È ormai accettato che le diverse serie magmatiche hanno in ogni caso m. capostipiti di composizione basaltica che già all’origine, prima cioè di subire processi di differenziazione, presentano peculiari differenze geochimiche che condizionano la successiva evoluzione del fuso magmatico, e quindi dei prodotti che costituiscono le diverse serie magmatiche. L’origine di questi m. primari va ricercata nel mantello superiore (astenosfera) dove i materiali allo stato solido attraverso processi di fusione parziale originano i fusi silicatici che stanno alla base delle diverse serie di magmatiti.
I criteri che sono stati utilizzati per distinguere queste serie sono basati sui diagrammi di variazione; questo tipo di approccio ha permesso così di distinguere due grossi gruppi che definiscono due serie: la serie alcalina e la serie subalcalina. Esistono tuttavia associazioni di rocce che mostrano caratteri intermedi tra queste due e che costituiscono appunto delle serie transizionali. La distinzione tra le due serie principali è piuttosto evidente quando si prende in considerazione il rapporto alcali (Na2O+K2O)/SiO2; inoltre mentre le rocce della serie alcalina sono caratterizzate dalla presenza di feldspati alcalini e anche di feldspatoidi, con quarzo molto raro tra i minerali sialici e pirosseni e anfiboli alcalini o miche tra i femici, quelle subalcaline hanno tenori più elevati in silice, con maggiore abbondanza di quarzo e presenza dell’ortopirosseno. Questi due raggruppamenti principali contengono al loro interno altre serie, le quali vengono distinte utilizzando altri parametri nei diagrammi di variazione.
La serie alcalina sulla base dei rapporti alcali/silice, nonché in funzione del contenuto in alcali e del rapporto K2O/Na2O, viene distinta in una fortemente alcalina e in una normale alcalina. Se inoltre prevale quantitativamente Na2O su K2O la serie è definita sodica o atlantica, mentre viceversa se è K2O a prevalere su Na2O la serie si definisce potassica o mediterranea. Le rocce della serie alcalina in generale non sono presenti in ambientazione orogenica, tuttavia esistono alcuni tipi di queste rocce, generalmente potassiche, che invece si possono riscontrare in tale ambientazione e che costituiscono le cosiddette serie shoshonitiche.
La serie normale alcalina sodica è molto diffusa; questa sequenza comprende termini che dai basalti alcalini, leggermente sottosaturi, passano attraverso termini mugearitici e trachitici a rocce di tipo fonolitico. La serie normale alcalina potassica è invece caratterizzata da elevati valori del rapporto K2O/Na2O e mostra una sequenza di rocce che sempre dai basalti alcalini attraverso trachibasalti e tristaniti perviene a termini trachitici. Entrambe le due serie sono diffuse nelle aree interne delle zolle oceaniche dove possono costituire isole vulcaniche; tuttavia esse si rinvengono anche all’interno delle zolle continentali, in corrispondenza di aree che hanno subito inarcamenti litosferici e che sono state interessate successivamente da una tettonica tensionale (per es., Rift Valley africana). La serie fortemente alcalina presenta sempre sia una sequenza sodica sia una sequenza potassica, mentre le rocce capostipiti sembrano essere termini foiditici (nefeliniti o leucititi) che evolvono verso rocce di tipo fonolitico. Questa serie caratterizza il magmatismo interno alle zolle litosferiche sia continentali sia oceaniche ed è soprattutto presente in corrispondenza di aree interessate da rift continentali. Un esempio di vulcanismo fortemente alcalino e potassico è ben rappresentato in Italia lungo la costa tirrenica, dal Lago di Bolsena fino alla Campania passando per il Lazio, dove durante il Quaternario sono stati emessi ingenti quantitativi di lave e piroclastiti che costituiscono la cosiddetta provincia comagmatica romana.
Le serie subalcaline sono particolarmente diffuse in ambiente orogenico; si distinguono due sequenze o serie (calcalcalina e tholeiitica), differenziate utilizzando un diagramma triangolare (diagramma AFM) che mette in relazione gli alcali (K2O+Na2O=A), il ferro totale (FeO+0,9 Fe2O3=F) e il magnesio (MgO=M). La serie calcalcalina, chiamata anche alcalicalcica o pacifica, presenta una sequenza vulcanica che da basalti, attraverso termini andesitici, dacitici e riodacitici, perviene a rocce di tipo riolitico. È caratterizzata da incrementi continui di SiO2 con il procedere del processo di differenziazione e decrementi nel contenuto di alcali che si traducono in valori più bassi del rapporto alcali/silice; contemporaneamente si ha anche una diminuzione di FeO. Il contenuto di TiO2 è generalmente basso, mentre i tenori di Al2O3 sono relativamente alti tanto che i basalti di questa serie vengono anche chiamati basalti alti in allumina. Questa serie è particolarmente diffusa lungo i margini continentali attivi delle zolle litosferiche (zone di subduzione) e degli archi insulari che bordano l’Oceano Pacifico.
I termini intrusivi che sono associati a queste rocce vulcaniche sono rappresentati da una sequenza costituita da gabbri e dioriti in misura subordinata e da tonaliti, granodioriti e graniti che rappresentano invece i termini litologici più diffusi nell’ambito del plutonismo orogenico. Le associazioni plutoniche orogeniche vengono distinte in due tipi fondamentali: associazione plutonica calcalcalina e associazione plutonica a graniti dominanti. La prima è costituita da termini litologici così rappresentati percentualmente: dioriti + gabbri 15%; tonaliti + granodioriti 50%; graniti 35%. Questo plutonismo ha consentito la formazione di batoliti di enormi dimensioni prevalentemente di età meso-cenozoica, che si sono formati su lassi di tempo variabili dalle decine a circa un centinaio di milioni di anni e oltre. Esso è stato denominato anche plutonismo andinotipo poiché è particolarmente diffuso lungo le Ande (Perù e Cile), ma interessa anche le catene occidentali degli USA e del Canada (California, Sierra Nevada, Idaho, Oregon, Columbia Britannica). Nelle catene montuose come le Alpi il plutonismo andinotipo si riscontra nel batolite dell’Adamello-Presanella e in quello delle Vedrette di Ries. L’associazione plutonica a graniti dominanti è costituita percentualmente dai seguenti litotipi: dioriti + gabbri 0-5%; tonaliti + granodioriti 15-20%; graniti circa 80%. Questo plutonismo è stato denominato anche ercinotipo, in quanto è particolarmente abbondante nei complessi ercinici, anche se non esclusivo, poiché questo tipo di associazione è stata riscontrata anche in plutoni di età precambriana, caledoniana e mesozoico-terziaria. La messa in posto di questi plutoni è avvenuta con lassi di tempo simili a quelli dei plutoni andinotipo (diverse decine di milioni di anni) con i quali spesso si associano, ma in posizione più interna verso il continente. Un’altra associazione che si riscontra nell’ambito del plutonismo orogenico è quella definita associazione monzonitica, che comprende termini litologici con gabbri, monzogabbri e monzoniti; questa associazione non è spiccatamente subalcalina ma mostra caratteri transizionali con quella alcalina e in particolar modo con quella shoshonitica. Si tratta comunque di un plutonismo interno al continente e generalmente post-orogenico.
La serie tholeiitica non presenta marcate differenze mineralogiche rispetto a quella calcalcalina, dalla quale si distingue però per un deciso arricchimento in FeO, soprattutto nelle fasi iniziali e intermedie della differenziazione, senza che vi sia un parallelo arricchimento in SiO2. La silice invece aumenta consistentemente solo nella fase finale della cristallizzazione. Presenta inoltre bassi tenori di K2O e un basso rapporto K2O/Na2O, mentre ha un contenuto in TiO2 variabile. La sequenza vulcanica parte da basalti tholeiitici e perviene attraverso termini di tipo andesitico, dacitico e riodacitico a vulcaniti riolitiche. L’olivina, quando presente, è in fenocristalli. Le rocce della serie tholeiitica sono molto diffuse nella crosta terrestre sia nelle aree continentali sia in quelle oceaniche dove vanno a costituire la quasi totalità del fondale oceanico stesso. Sulle aree continentali le rocce tholeiitiche costituiscono enormi espandimenti basaltici, come quelli del Deccan (spessore circa 1000 m) e del Paranà (spessore sugli 800 m), che si estendono per decine e centinaia di kilometri in quanto queste lave, avendo una bassa viscosità, hanno potuto scorrere per lunghissime distanze. In ambiente oceanico troviamo le rocce della serie tholeiitica (principalmente basalti) in diverse ambientazioni tettoniche. Esse si rinvengono in diverse isole vulcaniche, ma soprattutto nelle aree dove le zolle litosferiche convergono (zone di subduzione), in corrispondenza degli archi insulari e delle aree di retroarco (bacini marginali), e dove le zolle litosferiche si allontanano, cioè lungo le dorsali oceaniche. In quest’ultimo ambiente vengono eruttate lave basaltiche poco evolute, denominate anche tholeiiti abissali o MORB (mid oceanic ridge basalts) che vanno a costituire il cosiddetto strato 2 della crosta oceanica. Lo strato 1 è rappresentato da sedimenti mentre il 3 da gabbri e diabasi. Questa associazione di litotipi, unitamente a rocce ultrabasiche (peridotiti), è stata rinvenuta in diverse catene montuose di età sia paleozoica sia meso-cenozoica; esse costituiscono le cosiddette ofioliti, le quali vengono interpretate da molti autori come frammenti alloctoni di antica crosta oceanica. Alla serie tholeiitica appartengono inoltre dei m. che essendo risaliti nella crosta, in aree soggette a una tettonica tensionale, hanno stazionato al suo interno, consolidando in camere magmatiche e andando a formare dei plutoni costituiti da gabbri e altre rocce ultrafemiche. Le loro dimensioni sono piuttosto variabili, da pochi kilometri (Skaergaard, Groenlandia) fino alle decine e in qualche caso centinaia di kilometri (Bushveld, Sudafrica; ‘Gran Dicco’ della Rhodesia; Stillwater e Duluth, USA), mentre la loro età è prevalentemente precambriana o del Paleozoico inferiore. Alcuni di questi comunque sono anche di età più recente (Cenozoico), come per es. lo Skaergaard, che deve la sua genesi alla risalita di un m. tholeiitico in connessione dell’apertura dell’Oceano Atlantico.
Le serie transizionali mostrano caratteristiche chimiche, petrografiche e geochimiche intermedie tra quelle delle serie alcalina e subalcalina. Esse contengono tenori più bassi in alcali (i rapporti dei quali sono variabili), almeno nei termini meno evoluti, e hanno come rocce di partenza dei basalti in cui sono presenti olivina e iperstene. Questi basalti transizionali evolvono verso termini sovrasaturi ed alcalini, rappresentati da rocce trachitiche o riolitico-alcaline che possono evolvere ulteriormente, in presenza di liquidi peralcalini, in rocce di tipo comenditico (a basso indice di colore) o pantelleritico (a più elevato contenuto in minerali femici). Le ambientazioni tettoniche di queste serie sono piuttosto simili a quelle della serie alcalina; si rinvengono infatti nelle isole oceaniche e nelle aree continentali interessate da processi di rifting, dove sono prevalenti litotipi pantelleritici e trachitico-pantelleritici.
La maggior parte dei m. terrestri si origina per fusione parziale del mantello, in particolare quello superiore, in seguito a decompressione adiabatica indotta dai moti convettivi ivi presenti. I m. che si originano direttamente per fusione di un aggregato mineralogico del mantello e che non si modificano (per cristallizzazione frazionata o contaminazione) nel loro percorso verso la superficie terrestre sono detti m. primari. I m. primari del mantello raramente raggiungono la superficie perché frazionano rapidamente olivina, (Mg, Fe)2SiO4, durante il raffreddamento e la decompressione, dando origine a serie di m. più evoluti; tuttavia, quando questo accade, essi sono riconoscibili per l’alto contenuto in MgO e per l’elevato rapporto Mg/Fe. La composizione di un m. primario è molto vicina a quella di un liquido picritico, ovvero un fuso basaltico contenente più del 12% in peso di MgO. Un esempio di m. primario è quello che alimenta i vulcani delle isole Hawaii, anche se non tutte le lave eruttate sono primitive, in quanto in alcuni casi esse sono contaminate dal mescolamento con m. più evoluti. Per l’identificazione dei m. primari un indice chimico molto utile è l’Mg, che rappresenta la proporzione molare dell’MgO rispetto all’FeO nel magma. I m. primari devono originarsi in equilibrio con le olivine del mantello, e l’indice Mg di un fuso in equilibrio con l’olivina è 0,73. Un valore più basso indica che il m. ha subito modificazioni per cristallizzazione frazionata, assimilazione o mescolamento di m. durante la risalita verso la superficie. Pochi basalti campionati sulle dorsali oceaniche hanno composizioni simili a quelle dei m. primari. La maggior parte delle lave presenti sul fondo oceanico ha infatti un valore Mg inferiore a 0,71. Studi su rocce vulcaniche di età diversa hanno dimostrato che gli equivalenti archeani e proterozoici di m. primitivi tipo OIB (oceanic island basalts) sono più ricchi di Fe del 30% rispetto agli stessi m. di età terziaria e attuale. Un progressivo affondamento di questo elemento nel nucleo o l’isolamento di materiale ricco in Fe in reservoirs del mantello inferiore potrebbero spiegare la differenza nel contenuto in Fe delle sorgenti di m. primitivi nel mantello dall’Archeano al presente.
Le magmatiti sono rocce che derivano dalla consolidazione di un magma. Il termine ha accezione generica e non discrimina i prodotti di ambiente abissale (intrusivi) da quelli superficiali (effusivi); imprecisate rimangono anche la genesi e la natura del m. dal quale il materiale litoide si origina.