Scienza che studia, descrive e classifica sistematicamente le rocce in quanto aggregati di minerali, indagandone la natura chimica e mineralogica (petrochimica), la genesi e le trasformazioni (petrogenesi).
Per denominare il vasto campo di ricerche così definito si preferisce, in alcuni casi, il termine petrologia. Il termine litologia, anch’esso sinonimo di p., è stato molto usato almeno fino alla Seconda guerra mondiale per indicare quella parte della geologia classica che si occupava della descrizione macroscopica delle rocce. Della p. fanno parte la p. strutturale, che studia con metodi ottici gli orientamenti degli elementi cristallografici dei minerali che costituiscono la roccia in esame, mettendoli in relazione con i suoi piani di scistosità, di frattura e di stratificazione, e la p. tettonica, che dai risultati delle predette analisi risale ai fenomeni tettonici subiti dalla roccia stessa.
La petrologia sperimentale si avvale delle più moderne tecniche di laboratorio grazie alle quali, e mediante complessi modelli termodinamici, si tenta di riprodurre le condizioni chimico-fisiche che presiedono alla formazione dei diversi tipi di rocce. Tale studio è rivolto in particolar modo alle fenomenologie connesse con la formazione delle rocce magmatiche e metamorfiche.
I primi studi con una qualche intonazione a carattere petrografico si fanno risalire all’epoca delle polemiche tra nettunisti e plutonisti, iniziate nella seconda metà del 18° sec., quando le osservazioni di campagna erano poste come unico fondamento delle ricerche, in assenza pressoché totale di indagini sperimentali. Restava escluso, quindi, il riconoscimento delle paragenesi mineralogiche (che è, invece, uno dei fondamenti della p.) e solo verso il 1815, a opera di P.-L. Cordier, si giunse a qualche corretta identificazione dei minerali costituenti le rocce, usando la tecnica di sottoporre al microscopio materiali litoidi polverizzati. L’introduzione del microscopio polarizzatore, quale mezzo tra i più idonei per procedere all’esame delle rocce, può considerarsi il primo passo sulla strada della moderna p. e si deve all’inglese H.C. Sorby, che iniziò a studiare le rocce in sezione sottile e pubblicò i risultati di tale indagine nella sua opera fondamentale On the microscopical structure of crystals indicating the origin of minerals and rocks (1858). L’uso di questa nuova tecnica trovò rapida diffusione, determinando la nascita delle prime scuole a indirizzo schiettamente petrografico: nel 1863 in Germania (F. Zirkel, H. Rosenbuch); nel 1879 in Francia (F.A. Fouqué, A. Michel-Lévy) e agli inizi del 20° sec. nei paesi fennoscandinavi (J.J. Sederholm, P.J. Holmquist). Le attività delle singole scuole inizialmente furono disordinate: ne risultò una p. esclusivamente descrittiva, appesantita da nomenclature troppo ricche, talvolta in contrasto tra di loro e non sempre rispondenti all’obiettiva realtà dei fatti naturali. Tuttavia, l’insieme dei risultati raggiunti fu notevole e la sua essenza può considerarsi valida ancor oggi. Intanto si svilupparono polemiche sempre più accese circa i criteri classificativi delle rocce: la descrizione dei singoli aggregati non fu più intesa come l’unico fine delle ricerche petrografiche e cominciarono a palesarsi, con evidenza, i problemi d’ordine genetico. Lo stimolo principale fu dato dalla necessità di migliorare le conoscenze circa l’origine delle masse silicatiche fuse d’ambientazione profonda. Le indagini di campagna assunsero nuovamente un carattere di priorità e, dapprima con la pubblicazione delle opere di W.C. Brögger e A. Osann, successivamente con la diffusione dei metodi di calcolo petrochimico (CIPW), le ricerche per via chimica tornarono in gran conto. Si determinò così, nel campo della p., una svolta decisiva cui non poco contribuirono i risultati delle indagini sperimentali condotte da N.L. Bowen: il primo a riprodurre, in laboratorio, l’ordine di segregazione dei minerali che figurano nelle rocce ignee. Alle esperienze, realizzate con impianti capaci di raggiungere pressioni molto elevate (intorno a 104 bar), sono legati i nomi di O.F. Tuttle, J.R. Schirer, H.S. Yoder e altri ancora: a essi spetta il merito di aver ricostruito numerosi sistemi termodinamici analoghi a quelli che, in natura, controllano la genesi delle rocce. La riproduzione, ove possibile, delle condizioni ambientali di temperatura, pressione e concentrazione responsabili della petrogenesi è l’indirizzo seguito dalle scuole petrografiche moderne, alle quali si deve l’avvio verso la soluzione di importanti problemi concernenti le trasformazioni idrotermali, i processi metamorfici e di anatessi, la natura e l’origine dei magmi.
Caratteri generali.- L’impiego di apparecchiature tecnologicamente assai progredite ha proposto criteri di indagine assolutamente nuovi sicché, per es., l’analisi strumentale eseguita mediante diffrattometria e fluorescenza ai raggi X, termoanalizzatori, microsonde elettroniche ecc., ha pressoché interamente sostituito le metodologie di tipo classico. Le rocce osservabili in natura, trasportate in superficie dai processi tettonici e vulcanici, provengono da una profondità massima di 150 km. Un esempio è rappresentato dagli xenoliti, presenti negli alcali-basalti, e dalle kimberliti. Ciò che riguarda la composizione mineralogica dei restanti 6000 km e oltre di raggio della Terra può essere investigato solo in maniera indiretta. Durante un esperimento minerali e rocce, o i loro equivalenti sintetici, vengono sottoposti a condizioni di pressione (p) e temperatura (T) variabili ma controllate. La determinazione delle reazioni che avvengono all’interno del campione sottoposto a condizioni note di p e T permette di studiare i processi che portano alla formazione delle rocce in natura e di discriminare tra possibili ipotesi sulla loro genesi.
Ai suoi esordi, la petrologia sperimentale era per lo più dedicata alla determinazione sistematica degli equilibri di fase ad alta temperatura. Successivamente, tali equilibri furono studiati mantenendo elevate contemporaneamente p e T: i primi esperimenti di questo tipo riproducevano le condizioni termobariche tipiche della crosta continentale mentre in seguito, intorno agli anni 1980, si giunse a simulare condizioni di pressione prossime al confine mantello-nucleo. È possibile riprodurre pressioni variabili da 1 a 400 GPa e quindi studiare il comportamento dei minerali in un intervallo di pressione che va dalla base della crosta terrestre fino al centro della Terra.
Apparecchiature e approcci sperimentali. - Le apparecchiature utilizzate in petrologia sperimentale appartengono a diverse categorie, che dipendono dai valori di p e T che si intende raggiungere. Per esperimenti che si svolgono a pressione atmosferica vengono utilizzati forni a raffreddamento immediato del campione, con i quali è possibile riprodurre un intervallo di temperatura che va da 0 °C a 1600 °C. Condizioni di alta pressione vengono ottenute pompando un gas all’interno di un’autoclave che contiene il campione o comprimendo il campione tra una coppia di incudini (presse a mezzo solido) che vengono spinte l’una verso l’altra da una pressa idraulica. Il riscaldamento del campione si ottiene ponendo l’autoclave all’interno di un forno (autoclave a riscaldamento esterno) o inserendo un forno all’interno della stessa e riscaldando direttamente il campione (autoclave a riscaldamento interno). L’apparecchiatura in grado di sostenere attualmente le pressioni e le temperature più elevate, fino a 200 GPa e 2500 °C rispettivamente, è l’incudine a diamante. Temperature fino a 900 °C si ottengono con un forno esterno, mentre temperature più alte si raggiungono dirigendo sul campione un fascio laser.
Con le apparecchiature finora descritte l’esperimento viene condotto in maniera statica, mantenendo i campioni a pressione e temperatura costanti durante il verificarsi delle reazioni al loro interno. Un approccio sperimentale di tipo dinamico è invece quello in cui il campione viene frantumato dal passaggio di un’onda d’urto e le sue proprietà ad altissima pressione (anche superiore a 400 GPa) vengono misurate negli ultimi nanosecondi che precedono la sua distruzione. La ricerca basata sull’applicazione delle onde d’urto a un’ampia varietà di rocce terrestri viene utilizzata per comparare le proprietà dei minerali sottoposti ad altissime p e T con le proprietà di varie zone dell’interno della Terra, investigate principalmente con metodi sismologici. Con questa tecnica vengono studiate anche le condizioni che si potrebbero verificare in seguito all’impatto di meteoriti su corpi planetari ghiacciati o con superficie composta da materiale silicatico. In genere, in un esperimento il campione viene sottoposto a condizioni controllate di p e T per diverse ore o giorni, dopodiché esso viene riportato il più rapidamente possibile a pressione e temperatura ambiente per esaminare i prodotti dell’esperimento in termini di coesistenza delle fasi stabili e loro composizione. Ulteriori sviluppi tecnologici consentono di realizzare la misura delle proprietà del campione in situ, e questo è particolarmente importante per le apparecchiature che operano ad alte pressioni, come l’incudine a diamante. La densità e la struttura cristallina vengono determinate tramite tecniche spettroscopiche e diffrattometriche ai raggi X, mentre le velocità sismiche vengono misurate tramite interferometria ultrasonica.
Il tempo. - Ciò che non può essere riprodotto esattamente in un laboratorio di petrologia sperimentale è il tempo, in quanto il petrologo sperimentale lavora per riprodurre nei brevi tempi del laboratorio fenomeni che in natura si compiono in milioni di anni, in tempi talmente lunghi da poter assumere che i sistemi naturali coinvolti raggiungano l’equilibrio fisico-chimico. In petrologia sperimentale esistono molti metodi per rendere più rapido possibile il raggiungimento dell’equilibrio: il materiale di partenza viene polverizzato e ridotto in granuli delle dimensioni del materiale argilloso, allo scopo di aumentare al massimo la superficie di reazione, e miscelato accuratamente per garantirne l’omogeneità chimica. Inoltre è pratica comune aggiungere un agente di trasporto fluido, per es. acqua, e operare a temperature superiori a quelle minime richieste dall’esperimento, perché in questo modo si aumenta la velocità di reazione facilitando il raggiungimento dell’equilibrio.
Ambiti di studio. - La petrologia sperimentale ha avuto grande importanza per gli studi di metamorfismo nella crosta, per es. riguardo alla generazione delle migmatiti, e nel campo del magmatismo, riguardo al processo di solidificazione dei graniti e delle pegmatiti e alla messa in posto di batoliti nell’intervallo di profondità della crosta continentale. È stata anche un utile strumento di indagine per stabilire una correlazione tra le principali discontinuità del mantello osservate con metodi sismologici, a 410 e 660 km di profondità, e le transizioni di fase dei minerali. Si è calcolato che le transizioni di fase ipotizzate nel mantello causerebbero un aumento di densità del 10%, che è consistente con le discontinuità di velocità sismica osservate. Molti studiosi si sono basati su questi risultati per ipotizzare un mantello superiore avente una mineralogia rappresentata da lherzolite dominata dall’olivina, che si converte in perowskite a 660 km di profondità. Altri ipotizzano una minore percentuale di olivina nel mantello (35-40%) e un corrispondente aumento in percentuale di minerali eclogitici (granato+clinopirosseno) a costituire una roccia chiamata piclogite. Per quanto sia difficile una discriminazione tra i due modelli, la correlazione dei risultati di esperimenti sull’equilibrio di fasi ad alta pressione con la fisica dei minerali e la sismologia costituisce un approccio particolarmente promettente.
È così detta la disciplina che studia i minerali, metallici e non metallici, utilizzati nell’industria e i materiali lapidei impiegati nelle costruzioni, in particolare allo scopo di combatterne il degrado. Analogamente a quanto avviene per le rocce in posto (affioramenti), anche le pietre utilizzate come materiali da costruzione sono soggette a fenomeni di alterazione chimico-fisica che tendono a modificarne le caratteristiche originarie. Il degrado delle pietre in opera può essere favorito e accelerato dalle operazioni di estrazione e lavorazione, da una non corretta posa in opera e da precedenti interventi di restauro eseguiti con tecniche e materiali non idonei (per es., l’utilizzazione del cemento Portland).
Cause di alterazione della pietra. - Tra le principali cause di alterazione della pietra si distinguono le azioni di tipo chimico operate dall’acqua (idrolisi, idratazione e dissoluzione), i fattori di tipo fisico (cicli di gelo/disgelo e cristallizzazione salina, sbalzi termici ecc.) e il biodeterioramento; negli ultimi decenni del 20° sec. si sono aggiunte inoltre ulteriori cause strettamente collegate alle attività antropiche. Lo sviluppo industriale, l’avvento e il continuo incremento del traffico veicolare e altri fattori legati alle attività umane hanno provocato l’immissione massiccia nell’atmosfera di inquinanti che hanno prodotto un’accelerazione significativa del degrado delle pietre in opera nei monumenti, soprattutto di quelli situati nei centri storici delle città o comunque in prossimità di aree fortemente antropizzate, dove inevitabilmente gli inquinanti sono più concentrati. Gli inquinanti che più direttamente contribuiscono al deterioramento dei materiali lapidei sono gli ossidi di zolfo e il materiale particolato, prodotti dalla combustione degli idrocarburi e responsabili dei fenomeni di solfatazione delle pietre calcaree e della formazione delle ‘croste nere’.
Restauro e conservazione. - L’accelerazione del processo di degrado del patrimonio monumentale ha spinto studiosi di diverse discipline scientifiche a occuparsi del problema del restauro e della conservazione dei materiali lapidei e ha portato alla creazione di centri di ricerca e di laboratori dedicati al problema nell’ambito del ministero per i Beni e le Attività culturali, del CNR, dell’ENEA e delle università. Le indagini tecnico-scientifiche costituiscono parte integrante di ogni progetto di restauro conservativo riguardante i materiali lapidei. Le analisi vengono effettuate sia preliminarmente all’intervento di restauro, che in genere prevede fasi distinte quali la pulitura della pietra, il suo consolidamento e la sua protezione, sia successivamente all’intervento stesso, per valutarne l’efficacia e la non nocività. Tutte queste analisi sono eseguite con procedure standardizzate, seguendo le raccomandazioni riportate nei documenti ufficiali NorMal (normazione materiali lapidei) prodotti da commissioni scientifiche istituite dal ministero per i Beni e le Attività culturali e dal CNR, delle quali fanno parte specialisti di diversi enti e istituti di ricerca nazionali. Le analisi minero-petrografiche preliminari sono finalizzate alla corretta caratterizzazione petrografica del litotipo (o dei litotipi) utilizzato nel manufatto sul quale si deve intervenire; inoltre esse sono necessarie per effettuare una diagnosi dello stato di conservazione e dei fattori di degrado del manufatto stesso, attraverso l’identificazione dei prodotti di alterazione. Le tecniche di analisi utilizzate sono quelle classiche della p., come lo studio in sezione sottile al microscopio polarizzatore, la diffrattometria X, la microscopia elettronica a scansione (SEM, scanning electron microscope). Per una completa caratterizzazione dei prodotti di alterazione è spesso necessario eseguire analisi chimiche, soprattutto per l’identificazione dei sali solubili. I risultati delle analisi di laboratorio indirizzano i restauratori nella scelta del tipo di intervento e dei prodotti più idonei al caso in oggetto.
Per la scelta del tipo di pulitura da eseguire e dei consolidanti e protettivi più idonei da utilizzare si effettuano test su provini di laboratorio trattati con tecniche e prodotti diversi; i provini vengono poi sottoposti a cicli di invecchiamento artificiale per cercare di prevedere il comportamento nel tempo dei diversi prodotti testati. A tale scopo rivestono notevole importanza tutte quelle tecniche di analisi tipiche della p. applicata per la misura delle proprietà fisiche dei materiali lapidei: porosità (totale e aperta), assorbimento d’acqua, durezza, resistenza meccanica, resistenza all’usura ecc.; indagini di laboratorio sono effettuate anche a posteriori per valutare l’efficacia nel tempo dell’intervento eseguito.
Branca della p. che ha per oggetto lo studio delle strutture, tessiture e deformazioni dei cristalli che costituiscono rocce deformate tettonicamente. L’assunto fondamentale della petrotettonica è che tutte le vicissitudini geologiche alle quali un materiale litoide ha partecipato lasciano una traccia nella compagine cristallina che ne è stata coinvolta e, in particolare, nel suo assetto strutturale. Così, per es., in un micascisto, gli allineamenti unidirezionali individuati da alcuni minerali vengono ricondotti ad attività dinamiche di regime orogenetico; i caratteri fisicamente anomali (estinzione ondulata, variazione nell’angolo degli assi ottici), talora reperibili nei costituenti di materiali originatisi per cataclasi, testimoniano gli effetti realizzatisi durante una milonitizzazione o inerenti per es. a episodi di metamorfismo regionale. I mezzi di indagine sono comuni a quelli della p.; il più vasto capitolo della petrotettonica è dedicato ai caratteri strutturali che competono alle metamorfiti, con particolare riguardo alle rocce di metamorfismo regionale: ciò perché in siffatti ambienti opera un regime dinamico (pressioni di carico, pressioni orientate, pressioni della fase fluida) estremamente complesso, la cui esatta valutazione non può prescindere da un’attenta analisi strutturale.