Sostanza che, interposta fra altri corpi, è atta a riunirli saldamente fra loro.
Tessuto che riveste la radice dei denti, proteggendone la dentina. Analogo al tessuto osseo, è costituito di una sostanza granulosa, disposta in strati concentrici all’asse maggiore del dente, contenente le cosiddette fibre di Sharpey, e di elementi cellulari (cementoblasti).
In odontoiatria conservativa il c. è un legante a rapida presa usato per il riempimento di cavità (otturazioni) e per fissare sul dente intarsi o capsule.
Materiali polverulenti che, impastati con acqua, forniscono una massa plastica capace di far presa e indurire fortemente anche in acqua.
C. portland artificiale La grande produzione industriale attualmente è unicamente orientata verso il c. portland artificiale, nel quale le materie prime, calcare e argilla, sono esattamente dosate e intimamente mescolate prima della cottura. Tale c. viene infatti definito, dal regolamento italiano, come «il prodotto ottenuto per macinazione di clinker (consistente essenzialmente in silicati di calcio con proprietà idrauliche), con aggiunta di gesso o anidrite dosata nella quantità necessaria per regolarizzare il processo di idratazione».
Il clinker temprato, così come esce dal forno, appare come una ghiaietta di colore verde scuro, durissima; dopo una opportuna stagionatura esso viene macinato finemente per ottenere il cemento. Il c. portland viene sempre addizionato con il 5% di pietra da gesso, per evitare fenomeni nocivi durante la presa. Un clinker di portland contiene 19-22% di silice, 4-10% di ossido di alluminio e di ferro, 62-66% di ossido di calcio; questi ossidi si trovano combinati fra loro sotto forma di silicati, di alluminati e di ferriti di calcio. I principali costituenti cristallini del clinker, rilevabili sia all’analisi petrografica sia a quella con i raggi X, sono il silicato tricalcico [(CaO)3SiO2, indicato, più brevemente, con C3S], il silicato bicalcico [(CaO)2SIO2, o C2S, nelle forme a e b], l’alluminato tricalcico [(CaO)3Al2O3 o C3A] e il ferrito alluminato tetracalcico [(CaO)4Al2O3Fe2O3 o C4AF]. Oltre queste fasi cristalline, è presente una fase isotropa, vetrosa, alla cui composizione, piuttosto complessa, partecipano i diversi ossidi contenuti nel clinker.
C. pozzolanico C. tipicamente italiano, ha il pregio di resistere ad azioni aggressive perché non contiene la calce liberata e inoltre la sua ossatura, formata da granuli di pozzolana, è molto stabile. Secondo il regolamento italiano, «per c. pozzolanico si intende la miscela omogenea ottenuta con la macinazione di clinker portland e di pozzolana o di altro materiale a comportamento pozzolanico, con la quantità di gesso o anidrite necessaria a regolarizzare il processo di idratazione». L’impiego della pozzolana, la quale al setaccio di 10.000 maglie al cm2 deve dare un residuo minore del 20%, viene reso «razionale» nel senso che ne viene impiegata tanta quanta ne occorre per impegnare la calce liberata presente nel clinker.
C. d’altoforno Tale c. non presenta gli inconvenienti del c. portland in quanto la calce liberata viene, per la maggior parte, impegnata a formare composti aventi proprietà idrauliche. Secondo il regolamento «per c. d’altoforno si intende la miscela omogenea ottenuta con la macinazione di clinker portland e di loppa basica granulata di altoforno, con la quantità di gesso o anidrite necessaria per regolarizzare il processo di idratazione».
C. ad alta resistenza Tali c., pur con la stessa composizione dei precedenti, presentano dopo 28 giorni maggiore resistenza a compressione grazie a un più accurato processo produttivo (40-50 N/mm2 invece di circa 30 N/mm2).
C. per sbarramenti di ritenuta Secondo il regolamento italiano, sono i normali c. (portland, pozzolanico, d’altoforno) con la condizione che soddisfino a determinati valori minimi della resistenza a compressione.
C. alluminoso Detto anche c. fuso o c. elettrico, è definito dal regolamento italiano come «il prodotto ottenuto con la macinazione di clinker costituito essenzialmente da alluminati idraulici di calcio». Gli unici suoi difetti sono il costo elevato e il suo alto calore di idratazione, per cui non può essere usato per getti di grande mole.
C. bianco Caratterizzato dalla quasi totale assenza del ferro, è ottenuto per cottura di calcare puro e caolino poverissimo di ferro e di manganese, in forni rotativi utilizzanti combustibili con scarsissime ceneri.
C. ferrico Detto anche c. Ferrari, si ottiene dalla cottura di una miscela di calcare, argilla e ceneri di pirite (o loppe basiche d’altoforno) assai ricche di ferro. È un c. a basso calore di idratazione, quindi adatto per grandi getti; inoltre, non contenendo praticamente alluminato tricalcico C3A, resiste bene all’attacco dello ione solforico SO4– –, e ciò lo rende particolarmente adatto per impieghi in ambiente marino.
Altri c. idraulici sono: il c. romano, ottenuto per calcinazione e successiva macinazione di calcari argillosi con percentuali piuttosto forti di silice; il c. di grappiers, fatto macinando i grappiers cioè i residui dell’estinzione della calce idraulica; i c. misti, ottenuti mescolando grappiers con cementi naturali o c. portland con calci idrauliche.
C. bituminoso (o di legno) Miscela plastica impiegata come materiale di copertura per terrazzi piani o tetti con pendenza minima (da 1/20 a 1/100): è costituito da catrame di carbone (60%), asfalto (15%) e zolfo (25%) e viene disteso a caldo in più strati separati da cartoni con sabbia fina o ghiaietto.
C. fibroso (o fibrocemento) Materiale composto di una pasta di acqua, c. idraulico a lenta presa e fibre sintetiche che, con una lavorazione analoga a quella seguita per fare i cartoni, viene ridotto in fogli. Questi, allo stato umido, possono essere foggiati in varie forme, sotto forte pressione, nonché sovrapposti per formare maggiori spessori, arrotolati a tubo ecc. Con la stagionatura e il conseguente indurimento, il materiale acquista caratteristiche ottime di elasticità, resistenza alla trazione e alla flessione, inattaccabilità da parte degli agenti atmosferici, requisiti che ne suggeriscono l’impiego per lastre e tegoloni da copertura, serbatoi, canne fumarie ecc. Fino alla fine degli anni 1980 il materiale era formato prevalentemente con fibre di amianto (cemento-amianto), ma la pericolosità dei manufatti confezionati con tali fibre ha orientato la ricerca verso fibre sostitutive (di grafite o di vetro).
C. intercristallino In metallografia, secondo un’ipotesi (Tammann, Rosenhain e Ewen), c. omogeneo, costituito dello stesso metallo allo stato amorfo, che circonda gli aggregati cristallini (cristalliti) di una struttura di cristallizzazione ottenuta per solidificazione, dopo lento raffreddamento, di una massa metallica fusa.
C. di linoleum Prodotto intermedio nella fabbricazione del linoleum (➔), ottenuto per mescolanza della linossina con colofonia in caldaia a camicia di vapore.
C. magnesiaco (o c. Sorel) Legante costituito da ossido di magnesio impastato con una soluzione all’80% di cloruro di magnesio: ha presa rapidissima e raggiunge una durezza notevole; si presta per riparare difetti di marmi (mescolato con sostanze coloranti), per cementare metalli con pietre e laterizi, per fare pavimenti di getto, impastandolo con legno granulato (lignolite). Ha trovato uso anche in odontoiatria.
C. retinato È costituito da una o più reti metalliche (massa da 0,4 a 1 kg/m2) ‘allettate’ con malta di c. di qualità, a formare uno strato sottile (di spessore 1-2 cm). È impiegato per intonaci impermeabilizzanti nelle pareti interne di manufatti murari o di conglomerato cementizio, destinati a contenere liquidi (vasche, piscine, serbatoi idrici ecc.): così pure, da solo, è impiegato nella costruzione di manufatti non molto grandi, destinati a contenere acqua o che comunque possano venire a contatto con l’acqua (piccoli serbatoi idrici, cassette per fiori ecc.). L’armatura metallica conferisce alla malta di c. maggiori capacità resistenti impedendo, entro certi limiti, il formarsi di lesioni. La dosatura di c. varia nella pratica corrente da 0,5 a 1 t a m3 di sabbia.
Il c. siderurgico è una miscela impiegata per la cementazione dell’acciaio; il c. inglese è un impasto di gesso con soluzione acquosa di allume o di borac, utilizzato per manufatti di notevole resistenza.
Spesso indicato con la sigla CA e detto anche calcestruzzo armato, il c. armato è il materiale costruttivo, dotato di grande resistenza allo schiacciamento e alla trazione, risultante dall’unione di calcestruzzo e barre di acciaio. La collaborazione fra i due costituenti è resa possibile dalla fortissima aderenza che s’instaura tra di essi e dal fatto che posseggono, all’incirca, lo stesso coefficiente di dilatazione termica lineare (circa 12•10–6 °C–1). Concetto informatore è quello di realizzare strutture di calcestruzzo inglobando in esse, nei punti in cui sono soggette a sollecitazioni di trazione, delle armature di tondini di acciaio che assorbono tali sollecitazioni, mentre resta affidata al calcestruzzo la resistenza alle sollecitazioni di compressione. Quali siano questi punti, si determina con i metodi della scienza delle costruzioni, mediante l’analisi statica delle strutture nelle condizioni di vincolo e di carico previste dal progetto. La denominazione c. armato definisce anche il sistema costruttivo introdotto, indipendentemente, verso la metà del 19° sec. dai francesi J. Lambot, J. Monier e F. Coignet.
Sviluppi del c. armato. - I modesti prototipi di J. Lambot (barca), F. Coignet (soletta per terrazza) e J. Monier (recipienti e serbatoi) destarono subito l’interesse dei tecnici. I brevetti Monier (1868-78) furono acquistati dalla grande impresa Wayss e Freytag che li applicò in Austria e Germania, perfezionando il sistema con la collaborazione di eminenti scienziati (M. Koenen, J. Melan, J. Bauschinger e altri). In Francia, E. Coignet, fratello di François, e F. Hennebique, che realizzò il primo ponticello ad arco (1898), si cimentarono nelle prime costruzioni importanti. Il ponte sulla Vienne a Châtellerault (Hennebique, 1899), con arcate di 50 m di luce, presenta già le caratteristiche di un’opera razionale e modernissima. Con l’inizio del 20° sec. il c. armato, mentre è oggetto di indagine scientifica organizzata, permette realizzazioni che segnano una serie successiva di primati. I 100 m del ponte Risorgimento a Roma (Hennebique-Porcheddu, 1911) furono superati nel 1930 dagli archi di 172 m del viadotto di Plougastel (E. Freyssinet) che a loro volta cedettero il primato al ponte ferroviario sull’Esla, in Spagna, con arco di 200 m (Christiani e Nielsen). In tempi più recenti, diverse sono le strutture ad arco con la luce superiore ai 200 m. Tra queste ricordiamo il ponte Bisantis sul torrente Fiumarella a Catanzaro, con una luce di 231 m, il ponte di Sandö sul fiume Angerman in Svezia, con una luce di 260 m, e finalmente il ponte di Gladesville presso Sydney in Australia, con una luce di ben 300 m. Anche in tutti gli altri campi il c. armato rappresenta una tecnica insostituibile e in continua evoluzione.
Tecnologia del c. armato. - Il c. armato è stato paragonato a una fusione a freddo mediante la quale si ottengono elementi e membrature costruttive anche di forme complicate, uniti monoliticamente tra loro a formare strutture di grandissima rigidità e resistenza. La prima fase di una costruzione di c. armato è quindi la preparazione delle forme, o casseforme, di legno o metalliche, queste in specie quando debbano essere reimpiegate molte volte. Dentro le casseforme, nella posizione assegnata dal calcolo, si dispongono le armature, fatte di norma con sbarre a sezione circolare di acciaio, piegate e sagomate, collegate tra loro da altre armature trasversali, generalmente di minor sezione, ben legate con filo di ferro in modo che non si spostino durante il getto. Si procede quindi all’impasto del calcestruzzo, la cui composizione è stata determinata in precedenza secondo le caratteristiche che se ne richiedono, mediante lo studio della granulometria degli aggregati lapidei e la determinazione della dose di legante idraulico e di acqua d’impasto. Il calcestruzzo viene gettato nelle casseforme fino a riempirle e deve essere in esse accuratamente costipato perché avvolga bene le armature e non lasci vuoti. Si è generalizzato a questo scopo l’uso dei vibratori: dispositivi speciali che inducono nella massa del conglomerato vibrazioni di adatta frequenza, facilitandone il costipamento. Seguono la presa e l’indurimento, durante i quali il c. armato deve essere protetto da urti e scuotimenti che lo potrebbero danneggiare; trascorso un periodo sufficiente di tempo, che varia con il tipo del legante e con la natura dell’opera e il carico che essa deve sopportare, si procede al disarmo, cioè alla rimozione delle casseforme e dei puntelli e sostegni sui quali si scaricava il peso del getto. Un disarmo prematuro può danneggiare irrimediabilmente una costruzione anche bene eseguita; una temperatura ambiente bassa (fino a 3-4 °C) richiede un tempo più lungo per l’indurimento. Con temperature intorno a 0 °C, o inferiori, il getto del c. armato viene di norma sospeso, a meno che non si adottino particolari accorgimenti (riscaldamento degli agglomerati e dell’acqua, copertura termoisolante dei getti ecc.). Naturalmente il getto di costruzioni complesse viene fatto in più tempi, per successive riprese. A tal fine vengono lasciati, nei punti di saldatura, dei ferri sporgenti per una certa lunghezza. Le superfici di attacco vengono lasciate scabre e ben pulite prima del nuovo getto. Con i procedimenti costruttivi di prefabbricazione strutturale, sono costruite in stabilimento o a pie’ d’opera alcune o quasi tutte le parti nelle quali può essere scomposta la struttura complessiva da costruire, parti che sono poi assemblate in opera con opportuno montaggio (➔ prefabbricazione). Oggi nel c. armato è comune l’impiego di barre d’acciaio ad aderenza migliorata, dette anche barre taccate.
C. armato precompresso (CAP). - Nel c. armato ordinario, il valore massimo della tensione unitaria ammissibile sulle barre di armatura, oltreché dalle caratteristiche meccaniche dell’acciaio impiegato, è limitato dalla necessità che la massa di calcestruzzo che le circonda non sia sottoposta a dilatazioni eccessive onde evitare fessurazioni di entità inammissibile: da ciò l’impossibilità di sfruttare le elevatissime qualità meccaniche di alcuni tipi di acciai. Tale limitazione è eliminata con la messa in tensione preventiva delle armature metalliche: quale che sia il sistema impiegato, il risultato è sempre quello di una compressione preventiva del conglomerato. Lo stato di coazione elastica impresso all’insieme conglomerato e acciaio va studiato, per ogni singola parte della struttura, in vista delle sollecitazioni cui la struttura stessa, una volta entrata in esercizio, andrà soggetta per l’azione dei carichi esterni. La precompressione deve essere tale che nelle condizioni più sfavorevoli essa venga annullata dagli effetti del carico esterno o al più sia tale che nel calcestruzzo si abbia una risultante sollecitazione di trazione di piccola entità (0,5-1 N/mm2). In queste condizioni, la sezione generica di una trave inflessa, per es., risulta tutta reagente anziché parzializzata, come nel c. armato ordinario: il calcestruzzo contribuisce integralmente alla resistenza, e l’acciaio può essere sfruttato fino al più alto limite delle sue qualità meccaniche (tensioni di lavoro dell’ordine di 900 N/mm2). A queste due fondamentali ragioni teoriche di economia, rispetto alle strutture in c. armato ordinario, fanno riscontro maggiori difficoltà esecutive, la necessità di impiego di conglomerati di qualità, l’adozione, spesso indispensabile, di sistemi costruttivi e di impianti speciali; il bilancio economico, però, nella maggior parte dei casi, è favorevole; comunque il CAP rende attuabili strutture che non sarebbero realizzabili in c. armato ordinario.
I sistemi di messa in tensione delle armature metalliche possono distinguersi in due tipi: a) ad armature inizialmente non aderenti al conglomerato cementizio; b) ad armature aderenti al conglomerato cementizio. Con il primo sistema la messa in tensione delle armature è effettuata quando il conglomerato risulta già perfettamente indurito. È necessario perciò, durante la fase del getto, proteggere i cavi di armatura a mezzo di guaine (metalliche o di altro materiale adatto) entro cui essi possano scorrere all’atto della messa in tensione. I martinetti idraulici impiegati per tendere il cavo prendono appoggio direttamente sul conglomerato: questo viene perciò gradualmente compresso a mano a mano che si tende il cavo di acciaio. Raggiunta la tensione voluta, il cavo è bloccato all’estremità mediante speciali ancoraggi, di tipi diversi. Con il sistema a cavi aderenti, l’acciaio, generalmente in fili del diametro di 2-3 mm (acciaio armonico), viene teso preliminarmente tra due blocchi di ancoraggio, indipendenti dalla struttura da eseguire; viene quindi gettato il calcestruzzo facendolo aderire ai fili di acciaio; indurito che sia il conglomerato, i fili vengono tagliati alle estremità: questo sistema ha l’inconveniente di una maggiore caduta di tensione nell’acciaio, ed è anche difficilmente adattabile al variare delle condizioni di sollecitazione dovute ai carichi esterni nelle diverse parti della struttura; la sua adozione è perciò limitata a strutture di piccola portata con possibilità di notevoli produzioni in serie (per es. quella dei travetti per solai). Lo stato di coazione impresso nella struttura non si conserva inalterato nel tempo, ciò che determina una caduta di tensione nell’acciaio di entità considerevole (200-300 N/mm2): se i sistemi di ancoraggio non consentono la ripresa dei cavi e la regolazione nel tempo della tensione, si deve compensare questa caduta aumentando corrispondentemente il valore della tensione iniziale.
Le prime grandi strutture in CAP risalgono agli anni della Seconda guerra mondiale, ma la grande diffusione della nuova tecnica risale alla metà degli anni 1960. Ricordiamo in particolare i ponti costruiti da E. Freyssinet sulla Marna in Francia (1941-49), la copertura della Schwarzwaldhalle a Karlsruhe in Germania, i ponti sul Reno a Worms e a Coblenza, a più campate con luci massime rispettivamente di 122 m e di 114 m, il ponte di R. Morandi sulla laguna di Maracaibo in Venezuela, a più campate con luce massima di 235 m, e il viadotto sul Polcevera, anche di Morandi, con luce massima di 207,89 m. Sono ormai innumerevoli i ponti e viadotti con luci anche notevoli, costruiti in CAP in tutte le parti del mondo, essendo tale tecnica quella maggiormente impiegata per la costruzione di ponti e viadotti con luci comprese tra 30 e 150 m.