zolfo Elemento chimico di simbolo S, di numero atomico 16, di peso atomico 32,064.
Dello z. sono noti 4 isotopi stabili (3216S, che è il più abbondante, con circa il 95%; 3316S, 3416S, 3616S). In natura si trova allo stato nativo o, più spesso, accompagnato da calcare, gesso, anidrite e anche da bitume, in depositi più o meno abbondanti (Sicilia, Romagna, USA ecc.); si rinviene alla bocca dei vulcani, dove si forma dai gas e vapori solforosi uscenti; sotto forma di combinazione si trova nei solfuri (di ferro, di zinco, di piombo ecc.), nei solfati (di calcio ecc.), nei gas solforosi, nelle acque sulfuree, nei gas di combustione e di distillazione dei combustibili, in molti composti organici (proteine, oli ecc.). Lo z. si presenta in diverse fasi cristalline, delle quali le più stabili sono quella rombica (z. α), costituita da catene cicliche, a zig-zag, a 8 atomi, stabile fino a 95,5 °C a pressione normale, e quella monoclina (z. β), nella quale si trasforma a temperature superiori, stabile fino alla temperatura di fusione (115 °C); le altre forme tendono a trasformarsi nelle prime due. Lo si trova anche sotto forma amorfa, in due varietà, l’una solubile e l’altra insolubile in solfuro di carbonio. Lo z. è presente in forma colloidale nel cosiddetto latte di z., dispersione di z. ottenuta scomponendo soluzioni di polisolfuri con acidi: da esso precipita il magistero di z., formato in massima parte da z. amorfo solubile in solfuro di carbonio. Frequenti gli aggregati di grossi individui cristallini. Allo stato puro e limpido è di colore giallo citrino, trasparente e traslucido, ma spesso è bruniccio per impurità bituminose o grigio chiaro se misto a sostanze calcaree o argillose.
L’origine dello z. può essere varia: vulcanica, per reazione tra idrogeno solforato e anidride solforosa, come nelle solfatare, o per parziale ossidazione dell’idrogeno solforato contenuto in alcune sorgenti termali; sedimentaria, per processi di riduzione del solfato di calcio (gesso) o per alterazione atmosferica dei solfuri metallici. Appartengono al primo tipo i depositi della solfatara di Pozzuoli (Napoli), dell’isola di Vulcano (Eolie), dell’isola di Melo (Grecia), di alcune zone vulcaniche del Giappone. Appartengono invece al secondo tipo i giacimenti della Sicilia (province di Agrigento, Caltanissetta, Catania, Palermo), dove il minerale è associato a rocce sedimentarie (formazione gessoso-solfifera), della Romagna e Marche (province di Forlì-Cesena, Pesaro e Urbino, Ancona), in passato importanti dal punto di vista industriale, della Spagna, della Louisiana ecc.
Allo stato fuso lo z. è un liquido mobile, di colore giallo chiaro, che ispessisce gradualmente al crescere della temperatura; a 160 °C diviene denso e di colore arancio, a 220 °C diviene sempre più scuro e viscoso e la viscosità raggiunge il massimo a circa 260 °C per poi decrescere nuovamente; a 444 °C bolle, dando vapori rosso-bruni, che divengono sempre più chiari al crescere della temperatura. Lo z. liquido è una miscela di due forme, λ e μ, la prima scorrevole e solubile in solfuro di carbonio, la seconda viscosa e insolubile in CS2; versando lo z. fuso in sottile getto in acqua si ottiene lo z. plastico (detto così perché si lascia tirare in fili sottili).
Dal punto di vista chimico lo z. presenta valenza 2, 4, 6; si combina con gran parte degli elementi, brucia all’aria formando anidride solforosa (SO2) e tracce di anidride solforica (SO3). Si combina direttamente con l’idrogeno solforato, reagisce con molti metalli in maniera più o meno energica formando i corrispondenti solfuri; per ebollizione con soluzioni alcaline si ottengono soluzioni di iposolfito e polisolfuri.
Lo z. si ottiene essenzialmente da tre fonti: dai minerali che lo contengono allo stato nativo, dai solfuri, dai gas contenenti idrogeno solforato (z. di recupero).
Produzione dallo z. nativo. Lo z. nativo è associato a minerali sterili (calcare ecc.) dai quali si estrae per riscaldamento, così da far fondere lo z. che fuoriesce dalla massa. In passato in Sicilia si usava il sistema detto dei calcaroni, in cui il minerale veniva riscaldato dal calore sviluppato dalla combustione di una parte dello zolfo. Il sistema è stato in seguito migliorato utilizzando i forni ricuperatori del tipo Gill a più camere in muratura. Il funzionamento è fondamentalmente lo stesso, però i gas prodotti prima di andare al camino cedono parte del loro calore sensibile al materiale accumulato in altre camere che così si preriscalda; analogamente il materiale esausto, ancora caldo, prima di essere scaricato viene raffreddato con aria che così si preriscalda e alimenta poi la combustione in altre camere. Con questi forni si riesce a recuperare non più del 70-75% dello z. presente, a seconda della ricchezza del minerale.
Il metodo di Frasch (➔ Frasch, Hermann), introdotto alla fine del 19° sec. e applicato ai giacimenti americani costituiti da ammassi lenticolari di z. ricoperti da rocce incoerenti, si affermò rapidamente conquistando una larga porzione del mercato dello zolfo. Il metodo di Frasch mantiene ancora oggi una quota produttiva abbastanza elevata, sia pure in via di diminuzione anche perché alcuni dei giacimenti in sfruttamento tendono all’esaurimento. Hanno trovato applicazione anche metodi di estrazione dello z. nativo basati sul riscaldamento diretto con vapore (in Giappone) e sulla flottazione a caldo (in Polonia).
Produzione da solfuri. La produzione dell’acido solforico (che impiega più dell’80% dello z. complessivamente prodotto) non richiede necessariamente la disponibilità di z. elementare, essendo basata sull’ossidazione catalitica dell’anidride solforosa; tale composto, oltre che dalla combustione dello z., può essere ottenuto, talvolta in condizioni di maggiore convenienza economica, dall’arrostimento dei solfuri. Pertanto lo z. ottenuto da solfuri (piriti) rappresenta una frazione significativa e abbastanza costante della produzione mondiale di zolfo.
Produzione dallo z. di recupero. Tendenzialmente crescente è la produzione di z. di recupero tramite l’utilizzazione dell’idrogeno solforato (H2S) che accompagna i gas naturali ed è presente nei gas di raffinazione dei petroli (le due fonti contribuiscono in misura all’incirca uguale). In questi gas l’H2S è contenuto in concentrazioni che vanno da meno dell’1% ad alcune unità percentuali. In ogni caso l’H2S va separato dai gas che lo contengono con sistemi per via secca o per via umida (cioè facendo passare il gas su uno strato adsorbente di materiale solido o mettendolo a contatto con una soluzione acquosa); entrambi i sistemi possono trattenere l’H2S trasformandolo direttamente in z. o rimettendolo in libertà come gas ricco in H2S. Fra i sistemi che trattengono l’H2S e lo ossidano direttamente a z., quello per via secca è analogo al metodo usato per desolforare il gas di distillazione del carbon fossile, mentre quelli per via umida sono basati sull’uso di soluzioni assorbenti a base di sale sodico dell’acido antrachinondisolfonico (processo Stratford), di politionato ammonio (processo Feld), di arsenito e arseniato alcalino (processo Gianmarco-Vetrocoke). Il gas da trattare attraversa una torre di lavaggio dove incontra una delle soluzioni sopra citate che trattiene l’H2S; la soluzione passa in una seconda torre di ossidazione dove incontra una corrente d’aria che rigenera la soluzione mentre libera zolfo. I sistemi che trattengono l’H2S e lo rimettono in libertà in forma concentrata si basano sul lavaggio del gas con soluzioni capaci di fissare l’H2S sotto forma di composti labili che per debole riscaldamento si decompongono rigenerando la soluzione e rimettendo in libertà l’H2S; possono essere costituite da soluzioni acquose di ammoniaca, di fosfato potassico (processo Shell), di amminoacidi (processo Alkazid), di fenato sodico (processo Koppers), di etanolammine (processo Girbotol). Dall’H2S rimesso in libertà in forma concentrata si passa poi a z. attraverso la reazione di ossidazione parziale:
[1] H2S+0,5O2→S+H2O,
che deve avvenire a bassa temperatura (ca. 300 °C) in presenza di un catalizzatore (bauxite od ossidi di ferro). La reazione è fortemente esotermica e per evitare un eccessivo aumento di temperatura è necessario operare a basse velocità spaziali. Per poter operare con maggiori portate di gas a parità di quantità di catalizzatore, la reazione [1] avviene in due stadi; un terzo dell’H2S viene ossidato ad anidride solforosa (SO2) a 800-1000°C in assenza di catalizzatori:
[2] H2S+1,5O2→SO2+H2O;
la reazione [2], che è fortemente esotermica, ha luogo in uno speciale forno-caldaia dove si recupera la maggior parte del calore di reazione; i gas che così si formano, raffreddati a circa 300 °C, si mescolano con la restante parte di H2S per dar luogo, in presenza del catalizzatore, alla reazione:
[3] 2H2S+SO2→3S+2H2O.
La debole esotermicità della reazione [3] consente di operare a elevate velocità spaziali.
Lo z. può essere ottenuto anche dai gas di scarico di centrali termoelettriche, o simili, dove si bruciano forti quantitativi di combustibili solidi o liquidi contenenti z., il quale compare nei gas di scarico sotto forma di SO2. Si hanno vari sistemi per recuperare l’SO2, per es., il lavaggio con soluzioni alcaline. Dati i forti quantitativi di gas da trattare, la loro temperatura piuttosto alta, la bassa concentrazione in SO2, il recupero di questo composto presenta ancora notevoli difficoltà tecnico-economiche; l’SO2 eventualmente recuperata viene usata per produrre direttamente acido solforico.
Raffinazione e trasporto. Lo z. greggio ottenuto dalle varie fonti può essere raffinato mediante distillazione frazionata: i vapori di z. si fanno raffreddare e lo z. si raccoglie fuso entro stampi o sotto forma di cristallini (fiori di z.) entro ampie camere costruite in piombo (per ottenere un miglior controllo della temperatura).
Nel passato lo z. veniva trasportato allo stato solido, in pezzi o in polvere; attualmente la maggior parte dello z. viene convogliato allo stato fuso attraverso condotti riscaldati, sia a vapore sia elettricamente; si sfrutta la proprietà dello z. di presentare, allo stato fuso, un minimo di viscosità in corrispondenza di 155-160 °C. Per trasporti a più grande distanza si usano anche autocisterne o navi cisterna con serbatoi riscaldati, dove lo z. viene introdotto allo stato fuso, in partenza, e così viene estratto all’arrivo. In qualche caso, quando si deve trasportare lo z. in polvere, si preferisce agglomerarlo in piccole sferette (spruzzando lo z. fuso in ambiente freddo), perché così si riducono le perdite dovute allo sviluppo di polvere.
Lo z. trova largo impiego allo stato elementare (in agricoltura come fungicida, nella vulcanizzazione della gomma, nell’industria della carta, nella produzione di coloranti, nella fabbricazione della polvere nera, in medicina ecc.), e come materia prima di numerosi composti, fra i quali, oltre all’acido solforico, hanno particolare importanza il solfuro di carbonio e i sali dell’acido solforico e dell’acido solforoso (solfati, bisolfati, solfiti, bisolfiti). Dello z. utilizzato si calcola che circa l’85-90% sia destinato alla preparazione di acido solforico, il rimanente 15-10% comprende essenzialmente gli usi diretti (antiparassitario in agricoltura, coloranti, gomma ecc.).
I principali giacimenti di z. nativo sono ubicati negli Stati Uniti meridionali. Altri paesi che vantano consistenti giacimenti sono il Canada, la Cina, alcune delle Repubbliche ex sovietiche, la Polonia. Per quanto concerne, invece, lo z. di recupero, i principali produttori, per l’abbondanza di giacimenti petroliferi, sono l’Arabia Saudita e l’Iraq.
La produzione mondiale di z. (69.600.000 t nel 2008) è andata aumentando costantemente nel corso del 20° sec., con una punta massima negli anni 1960 e 1970, quando quasi triplicò, passando da 19 a 55 milioni di t. Al vertice dei produttori mondiali si alternano Stati Uniti e Canada, paesi dove sono ubicati i più consistenti giacimenti di z. nativo. Gli Stati Uniti hanno prodotto nel 2008 9,2 milioni di t, seguiti dal Canada (8,8), dalla Cina (8,5) e dalla Russia (7,1). Paesi con abbondanza di giacimenti petroliferi, come l’Arabia Saudita, il Kazakistan, gli Emirati Arabi Uniti, l’Iran, sono pure importanti produttori di z. recuperato dai gas naturali e dai gas di raffinazione dei petroli.
Per quanto concerne l’Italia, dopo un periodo che ha visto l’industria estrattiva dello z. dominare la scena internazionale, in particolare con il notevole contributo proveniente dalle miniere siciliane, a partire dagli anni 1960 i volumi si sono drasticamente ridotti a causa della antieconomicità sia del processo di estrazione sia del successivo processo di purificazione per ottenere un minerale di qualità adeguata. La fine della posizione di predominio dell’Italia sul mercato dello z. è stata sancita alla fine degli anni 1970 dalla liquidazione del settore zolfifero siciliano.
Lo z. è un elemento essenziale degli organismi, nei quali è presente come acido solforico, acido solfocianico (sotto forma di solfocianati) e come gruppo solfidrilico. L’acido solforico, allo stato di sale o di estere, si rinviene nei solfati, nei solfatidi, negli acidi mucoidinsolforico e condroitinsolforico nonché nei prodotti delle cosiddette sintesi protettive.
Nello z. solfidrilico (al quale, funzionando da donatore-accettore d’idrogeno nei processi di ossidoriduzione cellulare, spetta la massima importanza biologica) si distinguono una quota proteica e una quota non proteica. La prima, a eccezione delle protammine e della fibroina (scleroproteina della seta), si rinviene in tutte le proteine (le albumine e le cheratine ne sono particolarmente ricche), alle quali è fornito dagli amminoacidi metionina e cisteina. La formazione dei ponti disolfuro (−S−S−) tra questi amminoacidi, presenti sia nella stessa catena polipeptidica (intramolecolari) sia in catene diverse in contatto tra loro (intermolecolari), ha un ruolo particolarmente importante nella formazione della struttura secondaria e terziaria delle proteine, in quanto ne determina la funzionalità. Ne è un chiaro esempio l’insulina che, se denaturata, perde del tutto la sua attività biologica.
Lo z. è di fondamentale importanza anche perché costituisce il centro reattivo di molti enzimi, ai quali permette di svolgere la loro funzione catalizzatrice. La quota non proteica è costituita dalle sostanze in rapporto con detti amminoacidi (glutatione, taurina, omocisteina, cistationina, cistina), dall’ergotioneina, dall’acido tioctico, dalle vitamine B1 (appunto perciò detta tiammina) e H (biotina), dall’uratione. Il glutatione è sicuramente il più importante tra questi, in quanto è capace di reagire direttamente con numerosi radicali dell’ossigeno dotati di elevata tossicità, evitando in questo modo che tali molecole altamente reattive danneggino sia le macromolecole biologiche (proteine, acidi nucleici) sia le strutture cellulari.
In natura, la mutua conversione ciclica dello z. e di diversi suoi composti si svolge in acque marine, salmastre o dolci (lacustri o paludose), con fondi limacciosi e ricchi di sostanze organiche, per via biologica e con processi non biologici. L’importanza biologica dello z. è rilevante per la notevole quantità di solfati presenti sulla Terra. I numerosi microrganismi (Beggiatoacee, Tiorhodacee, Clorobatteriacee ecc.) nonché diversi altri organismi non specializzati (Batteri, Attinomiceti, Funghi) che partecipano al ciclo possono operare in ambiente aerobio o anaerobio e, a seconda dell’una o dell’altra condizione, alcune reazioni risultano a essi alternativamente precluse. Il ciclo dello z. si può così riassumere: i solfati vengono ridotti a H2S da Batteri della specie Desulfovibrio desulfuricans, in anaerobiosi e in presenza di sostanze organiche o di idrogeno. Questo genere ha forme marine e di acqua dolce ed è assai diffuso in ambienti saturi di acqua, come le torbiere. La riduzione anaerobica si compie in particolare sui solfati ma anche sui solfiti, tiosolfati, zolfo colloidale e su materiali organici, utilizzando le riserve di ossigeno dei solfati. L’idrogeno solforato (H2S), in aerobiosi viene ossidato nelle acque sulfuree a z. elementare dai Batteri del genere Beggiatoa, e si accumula in granuli in tali cellule batteriche, dove costituisce una sostanza di riserva. Se, peraltro, viene a mancare l’H2S, cessa il deposito di z. intracellulare e quello già presente viene riossidato ed escreto come solfato. La presenza di H2S in acque sulfuree determina un abbondante pullulare di microrganismi che lo utilizzano. Per es., le Tiorhodacee causano la comparsa di estese masse rosse nelle acque marine intorno a Copenaghen e Odessa; altri germi formano grandi concrezioni di z. nelle acque che sgorgano da sorgenti sulfuree; all’attività di microrganismi si devono le reazioni riduttive che hanno provocato la formazione di grandi depositi sedimentari di zolfo. In ambiente anaerobico, le Beggiatoacee, mancando l’ossigeno, non accumulano z. e possono riossidare quello presente. Thiobacillus thiooxidans, autotrofo aerobio, può produrre notevoli quantità di acido solforico, partendo da z. elementare; Thiobacillus thioparus, anch’esso diffuso nel terreno, esige un pH prossimo alla neutralità, e ciò richiede la presenza di CaCO3 come neutralizzante. Alcuni Batteri del ciclo dello z. sono pigmentati (Chromatius è rosso, Chlorobium è verde) e atti a compiere fotochemiosintesi ossidando H2S o H2 o sostanze organiche in reazioni che forniscono energia per la riduzione della CO2. Il ciclo principale presenta diverse vie secondarie di circolazione dello z., tra cui alcuni percorsi di autossidazione.
Tecnopatie da z. Possono essere dovute a solfuro di carbonio (solfocarbonismo), a idrogeno solforato (sulfidrismo), ad anidride solforosa (che può agire per via inalatoria, provocando sindromi irritative delle vie respiratorie o, quando sia in forma liquida, per contatto, agendo come congelante dei tessuti) e ad acido solforico (che può agire come vapore, sulle vie respiratorie oppure per contatto, in forma liquida e con altre modalità).