Il terzo pianeta del Sistema solare in ordine di distanza dal Sole.
La parte compatta, solida, della superficie terrestre, che emerge dalle acque, oppure la parte superficiale, esterna, della crosta terrestre, intesa come suolo, o come strato d’una certa profondità.
L’orbita della T. ha un raggio medio di circa 150 milioni di km e si svolge fra quella di Venere, all’interno, e quella di Marte, all’esterno. La T. ha un unico satellite, la Luna. Per dimensioni e per massa, si colloca al quinto posto fra i pianeti, dopo Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Il suo diametro equatoriale misura 12.756 km e la sua massa 5,974∙1024 kg. Corrispondentemente, la sua densità media è 5,515 g/cm3, la più elevata fra quelle di tutti i pianeti e satelliti del Sistema solare. L’accelerazione di gravità media alla superficie è 9,8 m/s2; la velocità di fuga all’equatore 11,2 km/s. La tab. 1 fornisce la composizione chimica globale del pianeta Terra.
Per quanto riguarda il nucleo, si pensa che esso sia costituito da ferro (∼90 %), nichel (∼6 %) e zolfo (∼4 %). Per le sue analogie con Mercurio, Venere e Marte, la T. costituisce, insieme a questi corpi, il gruppo dei pianeti interni (o terrestri). Essa, tuttavia, si differenzia da tutti gli altri pianeti per le condizioni ambientali esistenti sulla sua superficie (per es., la presenza di una grande quantità di acqua allo stato liquido), che vi hanno reso possibile lo sviluppo della vita. Varie circostanze favorevoli hanno messo la T. in questa situazione, unica nel Sistema solare: la sua massa notevole, che le ha consentito di trattenere intorno a sé un’atmosfera abbastanza densa; una giusta distanza dal Sole, per cui l’irradiazione solare non è né troppo intensa, né troppo scarsa; un periodo di rotazione sufficientemente breve, tale da rendere non troppo forti gli sbalzi di temperatura fra il giorno e la notte; un’orbita quasi circolare e una moderata inclinazione dell’asse di rotazione, per cui le variazioni climatiche nel corso dell’anno non risultano troppo marcate.
Nella remota antichità, la T. era pensata come una sorta di disco terracqueo, circondato dall’oceano e ricoperto dalla volta celeste. Per quanto si sa, l’idea che la T. fosse una sfera venne introdotta nel 6° sec. a.C. dai Pitagorici, soprattutto in base alla supposta perfezione geometrica della forma sferica. Nel 4° sec. a.C., Aristotele enunciò, forse riprendendole da altri, le prove della sfericità della T.: la forma circolare dell’ombra che il nostro pianeta proietta sulla Luna durante le eclissi e la graduale scomparsa di una nave al di sotto dell’orizzonte. La prima stima delle dimensioni della T. venne effettuata da Eratostene, che dedusse valori della circonferenza terrestre abbastanza vicini al vero (da 39.000 a 46.000 km). Nel 16° sec. i viaggi di circumnavigazione intorno al globo fornirono la prova diretta della sfericità della Terra. Nel 1670, J. Picard, con misurazioni effettuate fra Parigi e Amiens, ottenne per la circonferenza terrestre un valore di 40.023 km, un dato di grande importanza storica perché I. Newton lo adottò nei calcoli che lo portarono alla formulazione della legge di gravitazione universale. Intorno alla metà del Settecento, l’Accademia delle Scienze di Parigi portò a compimento il progetto, assai ambizioso per l’epoca, di misurare la lunghezza di un arco di 1° in tre zone diverse del pianeta (all’equatore, alle medie latitudini e nelle regioni polari): risultò che la T., come era già stato ipotizzato da Newton e C. Huygens, non era perfettamente sferica, ma presentava un lieve schiacciamento ai poli. Un salto di qualità nelle misure si è avuto nella seconda metà del 20° sec. con il lancio dei satelliti artificiali e l’utilizzazione di tecniche radar e orologi atomici.
Le irregolarità della superficie terrestre, vale a dire le altezze dei monti e le profondità degli abissi marini, sono relativamente piccole: in proporzione, inferiori alla rugosità di una buccia d’arancia. Nella geodesia, comunque, per descrivere la forma del nostro pianeta, non si prendono in considerazione i rilievi topografici. La T. viene rappresentata dal geoide, che è il solido limitato dalla superficie equipotenziale (corrispondente al livello medio dei mari prolungata al di sotto dei continenti) del campo della gravità, risultante dalla forza gravitazionale e dalla forza centrifuga dovuta alla rotazione terrestre. La superficie del geoide è dunque, in ogni punto, perpendicolare alla verticale (individuata localmente dalla direzione di un filo a piombo). La forza centrifuga è, mediamente, solo lo 0,3% della forza di gravità. Essa però varia dall’equatore (dove è massima) ai poli (dove si annulla), giocando così un ruolo essenziale nel determinare la forma della Terra. Se il nostro pianeta fosse fluido, la sua forma sarebbe quella di un ellissoide di rivoluzione con l’asse minore diretto lungo l’asse di rotazione. Ciò, in prima approssimazione, si verifica. La tab. 2 fornisce anche i parametri dell’ellissoide che più si avvicina al geoide.
Se la T. fosse un ellissoide di rotazione perfetto, un satellite descriverebbe un’orbita ellittica, soggetta a un moto uniforme di precessione. In realtà si osservano piccole perturbazioni nelle orbite, che indicano uno scostamento del geoide dalla forma dell’ellissoide ideale. L’interpretazione dei dati, tuttavia, non è semplice perché occorre tener conto di parecchi altri effetti perturbativi, legati alla pressione di radiazione solare, ai campi gravitazionali del Sole e della Luna e all’attrito esercitato dalle tracce dei gas atmosferici presenti alla quota del satellite. Misure più dirette della forma del geoide sono state ottenute con osservazioni radar dell’altezza dei satelliti sul livello degli oceani. I risultati di queste ricerche sono riportati nella fig. 1, che illustra gli scostamenti del geoide dall’ellissoide: si vede che le massime deviazioni non superano 50-60 m. Le deformazioni del geoide (o, come anche si dice, le anomalie del campo gravitazionale) possono trarre origine sia da una distribuzione statica, non sfericamente simmetrica, delle densità delle rocce, sia da fenomeni dinamici (correnti convettive nel mantello), anche se il secondo effetto risulta dominante nel produrre le anomalie su grande scala (quelle illustrate in fig. 1). Sulla superficie terrestre si adotta un sistema di coordinate sferiche (latitudine e longitudine), costituito con riferimento al piano equatoriale (origine delle latitudini) e al semipiano meridiano passante per Greenwich (origine delle longitudini): si ha così sulla superficie terrestre un sistema di riferimento, che consiste di meridiani (luogo dei punti aventi uguale longitudine) e paralleli (luogo dei punti aventi uguale latitudine). La lunghezza del grado di parallelo, cioè dell’arco di parallelo sotteso da un angolo al centro avente l’ampiezza di 1°, varia al variare della latitudine; ma, per il fatto che il geoide non è una sfera, varia, con la latitudine, anche il grado di meridiano: il valor medio comunemente assunto per quest’ultimo è 111,13 km. In molte applicazioni, poi, la T. viene assimilata a una sfera, il cui raggio (RT∼6370 km) prende il nome di raggio terrestre medio o, semplicemente, raggio terrestre.
I moti della T. sono molteplici. In primo luogo, essa è animata da una rotazione intorno a un asse, detto asse terrestre o asse polare, quasi coincidente con un suo asse principale di inerzia, in 23h 56m 4,09s (giorno sidereo o siderale). Tale rotazione, per un osservatore che si trovi al polo Nord, si svolge in senso antiorario, da O verso E, ed è osservata dalla T. come un’apparente rotazione diurna della sfera celeste in senso opposto, per cui il Sole e gli altri corpi celesti sono visti spostarsi da E verso O. In particolare, da essa dipende l’alternarsi del giorno e della notte. Benché la velocità angolare di rotazione sia la stessa in tutti i punti della superficie terrestre, la velocità periferica varia con la latitudine, essendo massima (465 m/s) all’equatore e nulla ai poli. La rotazione della T. è perturbata dalle azioni attrattive esercitate dal Sole, dalla Luna e, in misura assai minore, dai pianeti sul rigonfiamento equatoriale. Di conseguenza, l’asse terrestre è soggetto a due moti, illustrati in fig. 2: un moto di precessione, che si svolge in senso antiorario, con un periodo di ∼26.000 anni, intorno all’asse perpendicolare al piano dell’eclittica, e un moto di nutazione consistente in una oscillazione intorno alla posizione media con un periodo di ∼18,6 anni. La precessione dell’asse è accompagnata dalla corrispondente variazione della giacitura del piano equatoriale terrestre, con conseguente spostamento della linea equinoziale in senso orario, opposto al moto orbitale apparente del Sole, che quindi anticipa ogni anno il suo ritorno alla linea degli equinozi: è il fenomeno noto come precessione degli equinozi. L’asse di rotazione terrestre, come accennato, non coincide esattamente con l’asse d’inerzia polare dell’ellissoide. Esso, di conseguenza, non rimane fisso rispetto alla T., ma oscilla intorno a una posizione media, dando luogo alla migrazione dei poli (➔ polo), e, quindi, a una variazione periodica delle latitudini sull’intera superficie terrestre. Il fenomeno, previsto da L. Euler nel 1765, fu scoperto nel 1891 da S.C. Chandler e prende perciò il nome di oscillazione di Chandler, avente un periodo di ∼430 giorni (periodo chandleriano). Inoltre, il periodo di rotazione della T. non è perfettamente costante. Esso è soggetto, innanzi tutto, a un aumento secolare di ∼0,02 ms all’anno, prodotto dalle maree, dagli oceani, dall’atmosfera e dalla T. nel suo insieme.
Oltre che dalla rotazione, la T. è animata da un moto traslatorio di rivoluzione intorno al Sole, che viene compiuto in un anno sidereo, cioè in 365g 6h 9m 9,54s. L’orbita descritta dalla T. è un’ellisse, con piccola eccentricità (≈0,017) e semiasse maggiore di 149.598.000 km (1 UA), che viene percorsa con la velocità media di 29,8 km/s. La massima e la minima distanza della T. dal Sole sono rispettivamente ∼152.000.000 km (1,017 UA) e ∼147.000.000 km (0,983 UA). L’asse di rotazione terrestre è inclinato di 66° 34′ rispetto al piano dell’orbita (eclittica), donde risulta per l’equatore un’inclinazione di 23°26′. A tale inclinazione è dovuto l’alternarsi delle stagioni e la variabilità della durata del giorno e della notte nel corso dell’anno. Come il moto di rotazione, anche quello di rivoluzione è affetto da perturbazioni: conseguenza di esse sono le lievi variazioni secolari nell’eccentricità, nell’inclinazione dell’orbita e nello spostamento della linea degli apsidi, che avviene in senso contrario al moto precessionale della linea equinoziale, abbreviando quindi il periodo della precessione degli equinozi da ∼26.000 anni a ∼21.000 anni. Tali perturbazioni, insieme alla stessa precessione degli equinozi, modificano periodicamente i contrasti stagionali sulla superficie terrestre e possono aver contribuito all’avvicendarsi, attraverso i millenni, dei periodi glaciali e interglaciali.
Infine, la T. partecipa ai moti da cui è animato il Sistema solare nel suo complesso: e cioè alla traslazione, con la velocità di ∼20 km/s, verso un punto della sfera celeste, situato in prossimità della costellazione di Ercole, e alla rotazione intorno al centro della Via Lattea (➔ sole).
La t., intesa come superficie terrestre, è considerata dalla teoria economica classica, insieme al lavoro e al capitale, fattore di produzione. Talvolta nel fattore t. si includono impropriamente anche le materie prime e le energie naturali: però, mentre la t., come sede della produzione, è un elemento indistruttibile, alcune delle sue risorse sono più o meno limitate. Il valore economico della t. è determinato dalla scarsità dell’offerta di t. (soprattutto di quella fertile) rispetto alla domanda. Il prezzo della t., comprensivo del valore originario e di tutto il capitale permanentemente investito in essa, dipende dal valore attuale della rendita che frutta.
La t. è stata a lungo tra i settori preferiti dal risparmio soprattutto perché, nel periodo storico preindustriale, la proprietà fondiaria era fonte di potere economico e politico oltre che di prestigio sociale. Per tale motivo, le prime teorie economiche e in particolare la concezione fisiocratica attribuirono al fattore t. un ruolo di rilievo nella determinazione della ricchezza di uno Stato.
L’età di una roccia (cioè l’epoca in cui essa si è formata) si determina con il metodo delle datazioni radiometriche. Fino alla metà del 20° sec., nessuno dei campioni analizzati superava l’età di 2,5-3 miliardi di anni. Successivamente, in certe regioni dei continenti rimaste quasi immuni dagli sconvolgimenti geologici che, attraverso il tempo, hanno plasmato e riplasmato la superficie terrestre, sono stati rinvenuti grani di minerali che risalgono fino a 4-4,2 miliardi di anni fa. Si pensa, però, che la T. sia ancora più antica, essendosi formata circa 4,6 miliardi di anni fa insieme agli altri corpi che costituiscono il Sistema solare. Come gli altri pianeti, la T. ha tratto origine dalla nebulosa solare (➔ solare, Sistema) attraverso un processo, detto di accrescimento collisionale, che si è svolto in due fasi: dapprima grani di polvere microscopici, urtandosi, si sono aggregati, sotto l’azione di forze di natura elettrostatica, in corpi di dimensioni sub-planetarie (i planetesimi); in un secondo momento, i planetesimi, attirandosi per effetto della forza gravitazionale, hanno subito ulteriori collisioni fra loro e si sono uniti fino a formare la T. e gli altri pianeti.
Nel corso del tempo sono state proposte diverse suddivisioni dell’interno della Terra. Una prima classificazione prevedeva una litosfera rigida, una pirosfera calda e fusa, e una barisfera densa; successivamente, la T. è stata suddivisa, in base alle conoscenze petrografiche, in sial (essenzialmente silicati di alluminio), sima (silicati di magnesio) e nife (lega in Fe-Ni), e poi in crosta, mantello e nucleo. In seguito alla constatazione dell’affidabilità del modello sulle teorie della deriva dei continenti e della estesa mobilità della crosta, l’interno terrestre è stato poi suddiviso in litosfera, astenosfera, mesosfera, nucleo esterno fluido e nucleo interno solido (tab. 3 e fig. 3).
Dal punto di vista petrografico, la crosta oceanica può essere suddivisa in tre strati principali: a) lo strato più superficiale (strato 1), costituito da sedimenti di mare aperto, con uno spessore variabile; in prossimità delle dorsali è molto sottile o del tutto assente, mentre può raggiungere uno spessore di diversi kilometri in vicinanza delle fosse; è composto in particolare da sedimenti calcarei e silicei, misti a fanghi, a globigerina, a pteropodi, radiolari e diatomee, ed è caratterizzato da una velocità delle onde sismiche longitudinali (onde P) di 2-3 km/s; b) lo strato intermedio (strato 2 o strato vulcanico), costituito da basalti a pillows, da dicchi basaltici e da intrusioni gabbriche, con uno spessore dell’ordine di qualche kilometro; in esso la velocità delle onde P risulta di 5-6 km/s; c) lo strato più profondo (strato 3 o strato oceanico), composto ancora da gabbri e da rocce ultrabasiche probabilmente molto vicine a quelle che costituiscono il mantello superiore, con densità intorno a 3,3-3,5 g/cm3 e con valori di velocità delle onde P di 6-7 km/s.
La crosta continentale, più spessa (30-70 km) di quella oceanica, risulta petrograficamente più complessa. Essa è divisa in due strati: la crosta continentale superiore, spessa 20-25 km, ha una densità di 2,5-2,7 g/cm3 ed è costituita da rocce di tipo granitico e da metamorfiti silicatiche, sulle quali poggia una sottile copertura di rocce sedimentarie; quella inferiore ha una densità di circa 2,8 g/cm3 ed è costituita da rocce di tipo gabbrico. Questo modello di crosta viene attualmente considerato appropriato solo per le aree continentali più antiche (cratoni). La differenziazione tra i due tipi di crosta sarebbe legata alla presenza, intorno a una profondità di circa 20 km, di una variazione nell’andamento della velocità delle onde sismiche che viene fatta coincidere con la discontinuità di Conrad. I dati in possesso, corroborati soprattutto dalla profonda perforazione eseguita nella Penisola di Kola (Russia), indicano tuttavia che la variazione della velocità di propagazione delle onde sismiche riscontrata nella crosta continentale è da attribuirsi alla presenza di un materiale simile al granito sovrastante, che, a causa delle elevate pressioni e temperature, presenta una fase più compatta del granito di superficie e quindi un diverso comportamento nei confronti delle onde sismiche. Come tale, secondo alcuni ricercatori, la discontinuità di Conrad, intesa come diversità di composizione chimica, risulterebbe inesistente.
Il mantello si estende sotto la crosta continentale da una profondità fra i 10 (aree oceaniche) e i 40 km (aree continentali) fino a 2885 km e la sua composizione è conosciuta direttamente solo mediante i prodotti vulcanici. La parte superiore è costituita da rocce ultrafemiche, caratterizzate dall’avere nella composizione chimica generale una grande percentuale di ferro e magnesio e minore quantità di SiO2 rispetto alle rocce crostali; la sua densità (3,3 g/cm3) può far pensare a una composizione peridotitica, costituita cioè da olivina, enstatite e diopside; un mantello di natura eclogitica (roccia in gran prevalenza costituita da granato e clinopirosseno) è riscontrabile nelle aree di zone altamente metamorfosate, come nel nucleo delle catene montuose, sotto forma di lenti o bande, e nei basalti di origine profonda. Il materiale costituente il mantello può quindi essere considerato come la somma di due termini, cioè l’unione di una peridotite e di un basalto olivinico. Sulla base di queste considerazioni è stata determinata teoricamente una roccia, detta pirolite, formata da tre parti di roccia ultrafemica e da una parte di basalto. Fino a una profondità di circa 300 km è, quindi, ipotizzabile la presenza della pirolite; al di sotto possono essere presenti gli stessi elementi che, a causa delle elevate pressioni, tenderebbero a comprimersi, a ridursi di volume e ad aumentare di densità. Nell’andamento della densità all’interno della T., dedotto da dati sismologici (fig. 3), si possono osservare due salti piuttosto netti. Il primo alla profondità di circa 400 km, relativo probabilmente al cambiamento di fase dell’olivina in spinello con un aumento della densità dell’8%; il secondo alla profondità di circa 700 km, dove si suppone avvenga la dissociazione del pirosseno in ossido di magnesio e ossido di silicio (rispettivamente periclasio e stishovite) con densità rispettivamente di 3,7 e di 4,5 g/cm3. Al di sotto di 700 km questi materiali possono assumere fasi ancora più compatte, che provocherebbero un ulteriore aumento di densità. Le informazioni provenienti sia da esperimenti sia da modelli teorici indicano infatti che nel mantello inferiore la pressione è circa 200.000 volte la pressione atmosferica; in queste condizioni sarebbe presente una sola fase mineralogica di alta pressione. Questo minerale sarebbe una forma densa di silicato di ferro e magnesio, con una struttura cristallina simile alla perovskite ed è chiamato perovskite a silicato di magnesio. Nel mantello inferiore dovrebbero inoltre essere presenti minori quantità di magnesiowüstite, una combinazione di ossido di magnesio e wüstite.
Le informazioni sul nucleo sono ancora scarse: si conoscono la densità, i moduli di comprimibilità e, sempre dalle informazioni ottenute dallo studio delle onde sismiche, si sa che la parte esterna è fluida e la parte interna solida. Questa differenza è strettamente legata alla composizione del nucleo stesso; le conoscenze fisico-chimiche e le teorie sulla formazione del Sistema solare indicano che il ferro deve essere il principale componente del nucleo. La sua presenza rende altresì possibile che esso contenga la sorgente del campo magnetico terrestre, che si originerebbe tramite un moto di convezione del materiale fluido presente nel nucleo esterno (modello della dinamo autoeccitata). Allo stato delle conoscenze si propende pertanto per un nucleo differenziato, con la parte interna composta principalmente da una lega di ferro-nichel e quella esterna composta da un miscuglio a base di ferro, con un correttivo in grado di diminuire la densità costituito da zolfo e silicio. Gli avanzati studi che sono stati condotti grazie alla tomografia sismica e mediante l’analisi delle caratteristiche del fronte d’onda sismico, hanno inoltre rilevato come la zona di passaggio tra nucleo e mantello svolga un ruolo particolarmente importante per la comprensione dell’evoluzione chimica e termica del pianeta. Le variazioni che avvengono nella regione nucleo-mantello (chiamata strato D e spessa tra 200 e 400 km) influenzano infatti i moti di convezione del mantello terrestre (che sono responsabili dei movimenti dei continenti e delle zone litosferiche), producono l’alterazione nell’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre (la cosiddetta nutazione) e hanno ripercussione anche nel campo geomagnetico. Al passaggio dal mantello al nucleo (a 2800 km di profondità ca.) e dal nucleo esterno a quello interno (a 5000 km ca.) corrispondono tutte discontinuità della densità (fig. 3).
La litosfera, nel modello dinamico, comprende sia la crosta terrestre fino alla moho (la superficie di discontinuità che costituisce il confine tra la crosta e il mantello, individuata da A. Mohorovičić), alla profondità di ∿7 km nella crosta oceanica e di 40-50 km nella crosta continentale, sia parte del mantello superiore. Essa presenta un comportamento rigido, testimoniato dall’elevata velocità delle onde sismiche e dalla capacità di produrre terremoti, e ha uno spessore variabile, funzione anche dello spessore della crosta sovrastante. Il suo spessore al di sotto delle zone continentali di età recente (più giovani di 200-300 milioni di anni) raggiunge una profondità di circa 100 km, mentre nelle aree continentali più antiche risulta molto più spessa, con zone senza un limite netto, come negli scudi continentali. Al di sotto delle zone oceaniche la litosfera ha uno spessore piuttosto costante di 60-80 km. I valori della temperatura indicano un flusso di calore per la litosfera oceanica con valori differenti, dipendenti dall’età delle formazioni, compresi tra 40 e 320 mWm–2. Il flusso termico risulta massimo in corrispondenza delle dorsali oceaniche per diminuire, dapprima bruscamente poi regolarmente, con l’aumentare della distanza dalla dorsale. La composizione litologica della litosfera oceanica è caratterizzata dai tre strati principali della crosta oceanica, mentre la litosfera subcrostale (lid) è probabilmente costituita da rocce ultrabasiche o da eclogiti (velocità delle onde P=8 km/s; densità di 3,2-3,4 g/cm3). Il lid continentale, come la crosta, risulta più complesso di quello oceanico. Il flusso geotermico del lid deriva, essenzialmente, dal decadimento di elementi radioattivi. Per la composizione del lid si parla nuovamente di una transizione da basalto in eclogite o in una composizione ultrabasica con all’interno formazioni eclogitiche.
L’astenosfera presenta un comportamento meno rigido della litosfera, da considerare cioè plastico, sottolineato da una brusca diminuzione della velocità delle onde sismiche a una profondità compresa tra 80 e 200 km. Riguardo alla sua composizione chimica, e più in generale a quella di tutto il mantello, si può proporre nuovamente la pirolite. Un problema che rimane del tutto aperto è la natura fisica dell’astenosfera. L’ipotesi più probabile è che la peridotite di cui è costituita contenga piccole quantità di acqua e anidride carbonica (la cui presenza è stata dimostrata dall’esistenza di minerali idrati) che sono sufficienti a produrre un abbassamento della curva del solidus (cioè della curva di solidificazione della peridotite) verso temperature minori e perciò a creare zone del mantello parzialmente fuse, e quindi plastiche.
Circa il 71% della superficie terrestre, pari a 361 milioni di km2, è occupata da acque; le terre emerse (il restante 29% ca., pari a 149 milioni di km2) si raggruppano principalmente nell’emisfero boreale, sebbene (fig. 4) la calotta antartica sia occupata da una vasta estensione di terre. L’esame della curva ipsografica (fig. 5) evidenzia che l’8,4% delle terre emerse ha altitudini superiori ai 1000 m e che il 28,8% ha altitudini comprese tra i 1000 m e il livello del mare. I rapporti esistenti tra movimenti tettonici ed erosione, oltre a rendere conto dei caratteri topografici locali e regionali, sono fondamentali per capire la distribuzione, su scala mondiale, delle altitudini. Infatti, se da una parte le forze tettoniche spingono per originare rilievi, dall’altro sono esse stesse a mettere in moto i processi erosivi, i quali tendono a portare la superficie dei continenti quasi a livello del mare. Sempre dalla curva ipsografica si può dedurre come l’attività tettonica recente, che ha dato luogo alle attuali catene montuose e alle fosse oceaniche, sia ristretta a fasce poco estese che occupano aree piuttosto limitate della superficie terrestre; queste fasce coincidono con i margini delle zolle litosferiche, dove sia i fenomeni di erosione sia quelli di sedimentazione sono piuttosto intensi, tanto che i margini di zolla più antichi sono stati ampiamente obliterati da questi processi, anche se in alcuni casi essi sono ancora individuabili.
Le superfici emerse di maggior estensione, dette continenti, si raggruppano in tre principali masse: una è formata dall’Europa e dall’Asia saldate insieme (Eurasia), dall’Africa e dall’Australia, legata all’Asia da vastissimi arcipelaghi di isole grandi e piccole; la seconda è formata dalle due Americhe; la terza dal Continente Antartico o Antartide, che mostra tuttavia un collegamento con l’America Meridionale. Usualmente però si distinguono il Continente Antico (l’insieme dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa: 84 milioni di km2), il Continente Nuovo (l’insieme delle due Americhe: 42 milioni di km2), il Continente Nuovissimo (l’Australia con le isole vicine: 9 milioni di km2), l’Antartide (13,6 milioni di km2). Gli oceani, cioè le più estese superfici acquee, sono tre: Oceano Pacifico (o Grande Oceano), tra l’Asia, l’Australia e le Americhe; l’Oceano Atlantico, tra le Americhe, l’Europa e l’Africa; l’Oceano Indiano, tra l’Asia, l’Africa e l’Australia. Nell’emisfero australe questi oceani si fondono in una massa unica, che fa da corona all’Antartide e viene da taluni chiamata Oceano Australe. Le minori distese di acqua si chiamano mari; tra questi hanno particolare importanza i mediterranei, circondati da terre emerse.
Risulta ormai sempre più evidente che la disposizione delle terre emerse e dei mari non è stata sempre la stessa; dall’esame della corrispondenza dei contorni delle coste delle Americhe con quelle dell’Eurasia e dell’Africa, nonché dalla somiglianza delle strutture geologiche, della flora e della fauna, già A. Wegener nel 1910 aveva formulato la teoria della deriva dei continenti, secondo la quale gli attuali continenti si sarebbero staccati, verso la fine dell’era paleozoica, da un unico grande continente (Pangea) contornato da un unico grande mare (Pantalassa) fino a portarsi, migrando sopra gli oceani, nelle attuali posizioni (fig. 6). Tale teoria fu a lungo considerata una mera ipotesi, finché nei primi anni 1960 i dati paleomagnetici, permettendo di ricostruire il moto relativo dei continenti nel corso dei tempi geologici, le conferirono piena dignità di teoria scientifica. Attualmente si ritiene accertato che la distribuzione delle terre e dei mari sia cambiata e cambi in continuazione, con periodi dell’ordine di centinaia di milioni di anni, a seguito di moti convettivi circolatori che avvengono nel mantello e che sono responsabili dei movimenti dei continenti e delle zolle litosferiche (➔ tettonica).
La sacralità della t è testimoniata, in misura maggiore o minore, su scala universale; in numerose civiltà d’interesse etnologico e antiche, poi, la t. riveste un’importanza religiosa elevatissima. Molti miti cosmogonici (soprattutto fra i Turco-Tatari, Paleoasiatici e i popoli dell’America Settentrionale) sono centrati sulla ricerca da parte di un demiurgo di una misura embrionale di t. nel fondo delle acque primordiali, che in seguito a questo o quel trattamento ulteriore acquisterà l’estensione attuale. Il motivo di una misura minima di t. fatta cadere dal cielo e poi estesasi sull’oceano originario (Voguli, Camciadali), come pure la variante di una massa acquea «resa spessa dal vento» (Mongoli) o che in superficie «si copre di una pelle simile a quella che si forma sul latte» (Calmucchi) restano concordi con la versione più diffusa nel porre l’accento su un abisso acqueo primordiale, sul quale prende gradualmente consistenza la superficie solida della terra. In questi miti il rapporto cielo-t. si attua come l’azione di figure (l’Essere celeste, eventualmente insieme ad altri personaggi mitici) che in sé e per sé costituiscono realtà già compiute, come già compiuta è la sfera uranica alla quale appartengono quando suscitano la t. dall’abisso primordiale.
Un’altra serie di miti di fondazione del rapporto fra cielo e t. parla di una primordiale aderenza delle due realtà cosmiche principali (Australia, Micronesia, Polinesia) che talora impediva che la t. potesse essere il teatro del normale svolgimento dell’operatività umana (Mantra della Malacca, Lolo, Miao ecc.) fino al momento in cui il cielo viene allontanato per un evento fisico (per es., la rottura, presso i Dieri australiani, dei pilastri che sostenevano il cielo primordiale contiguo alla t., con la conseguente formazione del pariwilpanina, «grande apertura», cioè il cielo attuale) o, com’è nella maggior parte dei casi, per l’azione di una divinità (Mahatara, fra i Daiacchi; Na Reua, nelle Isole Gilbert, Micronesia), un eroe (Maui, in Polinesia), un uomo primordiale (Blo, nella mitologia dei Mantra della Malacca, che solleva il cielo perché vi urtava con il pestello del riso) e una donna primordiale (Ewe del Togo, Birhor dell’India, folclore rumeno ecc.). Là dove cielo e t. sono esplicitamente concepiti come vere e proprie figure divine questo tema si svolge nel senso della separazione di una coppia divina primordiale e con ciò la t. entra nella dinamica dell’evento cosmico, mentre nel tema precedente resta il presupposto inerte di quello che in fondo si riduce a un puro sollevamento del cielo. Questo mito, che a sua volta s’inquadra nella concezione ierogamica del rapporto cielo-t., trova le sue espressioni più salienti nel racconto esiodeo (Teogonia) di Urano e Gaia separati da Crono, e in altri racconti che si possono trovare in molte culture.
La t. è sempre una figura divina materna, T. madre, su scala quasi universale e con ogni verosimiglianza a partire dal Paleolitico; oltre all’intera sfera della vegetazione, che visibilmente trae esistenza e crescita dal sottosuolo, l’umanità stessa è concepita come progenie tellurica in numerosissime mitologie arcaiche e antiche, mentre la vita intrauterina individuale viene omologata all’esistenza embrionale della specie umana nel grembo («viscere») della t.; dalla sua vastissima diffusione emerge che l’immagine della t. come dea madre sia indipendente dalle società che praticano l’agricoltura, anche se dalla distribuzione della figura si constata anche che nell’orizzonte religioso di queste società può acquisire un altissimo livello di valorizzazione. La sua caratteristica di nutrice universale nelle civiltà greche fa sì che le operazioni agrarie, specie la semina, vengano avvolte da un simbolismo sessuale.
La t., in quanto luogo naturale di sepoltura, fa sì che le dee di cui la t. forma come il sostrato naturale abbiano spesso un aspetto legato alla morte e agli inferi; morte e fecondità costituiscono i due aspetti opposti, ma inseparabili, che caratterizzano la loro figura divina.
Da un punto di vista elettrico il terreno (come anche la maggior parte dei manufatti sovrastanti) si comporta come un conduttore e come tale è talvolta utilizzato. La messa a t. di un impianto elettrico è l’esecuzione del collegamento elettrico tra alcuni conduttori, o tra elementi metallici, dell’impianto e il terreno. L’insieme dei collegamenti e dei conduttori utilizzati per eseguire la messa a t. è chiamato impianto di t. o impianto di messa a terra. La messa a t. viene fatta per varie ragioni: per il buon funzionamento dell’impianto, per la protezione dell’uomo dai pericoli dell’elettricità ecc.
Si distinguono normalmente la messa a t. di funzionamento dalla messa a t. di protezione e dalla messa a t. di riferimento. Negli impianti ad alta tensione si parla di messa a t. per lavori per indicare la norma di collegare i conduttori e le parti dell’impianto su cui si deve intervenire per manutenzione all’impianto di t. mediante sezionatori ben visibili, al fine di avere la costante garanzia di non venire in contatto con elementi in tensione. È chiamato contatto a t. il collegamento accidentale e non desiderato di un conduttore con la t.; si parla di perdita verso t. quando c’è una corrente deviata a t. a causa di un difetto di isolamento. La messa a t. di funzionamento (o di esercizio) è il collegamento con il terreno di un conduttore dell’impianto, che generalmente è il centro stella di un sistema trifase o il polo di un impianto in corrente continua. Nelle reti di trasporto e di distribuzione dell’energia elettrica si parla di messa a t. del neutro, che si attua collegando a t. il centro stella di un trasformatore trifase o del generatore, i quali devono ovviamente avere gli avvolgimenti collegati a stella. La messa a t. può essere diretta o indiretta (quando è effettuata attraverso una resistenza o, in generale, un’impedenza). La messa a t. di protezione è quella che si attua negli impianti elettrici sia ad alta sia a bassa tensione al fine di proteggere le persone contro il pericolo della folgorazione se, a seguito di anomalie di funzionamento dell’impianto o di guasti, elementi metallici con cui le persone possono venire in contatto (come, per es., involucri di apparecchiature e di cavi, quadri elettrici, cassoni di trasformatori, sostegni di linee aeree ecc.) assumono una rilevante differenza di potenziale rispetto al suolo su cui si trova l’uomo. Per questa ragione tutte le parti metalliche con cui si può venire anche casualmente a contatto devono essere messe a t. e il principio informatore per la realizzazione di un buon impianto di t. è quello di ottenere un’equipotenzialità la più spinta possibile tra il terreno e tutti gli elementi metallici, anche in condizioni anormali di esercizio, come in presenza di un guasto. Per avere una sufficiente equipotenzialità tra il suolo e parti metalliche di impianti bisogna far sì che la corrente di dispersione verso t. incontri una resistenza sufficientemente bassa; questa resistenza è data dalla somma di quella dei conduttori che collegano l’elemento metallico al dispersore infisso nel terreno e della resistenza della presa di t., o resistenza di t., che è definita come la resistenza che incontra una corrente che viene inviata nel dispersore e viene raccolta in punti infinitamente lontani. È chiamato tensione totale di t. di un impianto di t. il prodotto della resistenza di t. per l’intensità della corrente in base alla quale l’impianto stesso è proporzionato. La normativa CEI (Comitato Elettrotecnico Italiano) stabilisce in 50 V il limite per la tensione delle parti metalliche rispetto al suolo. Tale valore deriva dalla soglia di pericolosità di una corrente elettrica per il corpo umano (esperienze l’hanno indicata dell’ordine di 20-30 mA) e dal valore della resistenza complessiva (interna e di contatto) che una persona può presentare in condizioni normali (1500-2300 Ω). Di conseguenza, la resistenza RT dell’impianto di t. deve essere non maggiore di 50/Ig, dove Ig è l’intensità della corrente di guasto. La normativa impone che correnti di guasto capaci di stabilire tensioni di contatto superiori a 50 V vengano interrotte entro 5 s, e a tal fine è utile installare un interruttore differenziale capace di essere azionato da correnti derivate verso t. molto deboli e di aprire il circuito anche senza che si sia superata la corrente nominale dell’impianto; in questo modo la RT può avere valori anche relativamente elevati e si è sicuri che la tensione di contatto è limitata. La normativa impone anche che l’impianto di t. sia unico, per evitare che si verifichino differenze di potenziale tra punti collegati a impianti di t. differenti, e obbliga a collegare a tale impianto tutti i sistemi di tubazione metallica (acqua, gas) e tutte le masse metalliche. Un buon impianto di t. (che per le ragioni indicate sopra deve esser collegato agli altri) è indispensabile per la realizzazione della protezione contro le scariche atmosferiche. In questo caso però non ha molto senso parlare di valori massimi per la resistenza della presa di t., in quanto le correnti di scarica hanno un’intensità elevatissima (50-100 kA) e andamento impulsivo. È invece fondamentale effettuare molto bene i collegamenti equipotenziali fra tutte le parti metalliche e adottare un’opportuna geometria per la presa di t. al fine di portare, in caso di fulminazione, tutto il sistema a uno stesso potenziale.
È chiamato messa a t. di riferimento uno speciale sistema di conduttori con presa di t. particolarmente adatta a disperdere anche correnti ad alta frequenza, utilizzato come riferimento zero del potenziale elettrico per apparecchiature di precisione o di misura in laboratori di ricerca.