trasformatore Nel linguaggio tecnico, t. elettrico, macchina elettrica convertitrice, statica, a corrente alternata, basata sul fenomeno dell’induzione elettromagnetica.
Il t. è schematicamente costituito da un circuito magnetico in genere rappresentato da un nucleo ferromagnetico (b in fig. 1) concatenato con 2 circuiti elettrici, dei quali uno, detto circuito inducente oppure circuito (o avvolgimento) primario, a, riceve energia dalla linea di alimentazione, mentre l’altro, detto circuito indotto oppure circuito (o avvolgimento) secondario, c, è collegato con gli utilizzatori e cede a essi, dedotte le perdite, la potenza ricevuta dal primario. Il flusso di induzione magnetica, variabile, generato nel circuito magnetico dalla corrente che fluisce nell’avvolgimento primario induce nel secondario una forza elettromotrice (f. e. m) alternata; dimensionando opportunamente gli avvolgimenti si può ottenere il trasferimento dell’energia dall’uno all’altro secondo determinate caratteristiche di trasformazione.
I t. si possono classificare in base a diversi criteri: per es., numero delle fasi (t. monofase, trifase, tri-esafase ecc.), frequenza (t. industriali, per frequenze industriali di 50 Hz o 60 Hz; t. per audiofrequenze ecc.), numero degli avvolgimenti (t. a 2, 3, ecc. avvolgimenti), tipo dei materiali isolanti impiegati (t. a secco, in olio), tipo di nucleo ferromagnetico (t. a colonne, a mantello) o di raffreddamento, uso (t. di potenza, di misura, di adattamento, regolatore ecc.).
Storicamente, si possono considerare primo esempio di t. le 2 bobine accoppiate con cui M. Faraday nel 1831 eseguì le sue classiche esperienze sull’induzione elettromagnetica e delle quali egli stesso aumentò l’efficacia munendole di un nucleo di ferro massiccio. Per alcuni decenni ancora si lavorò al perfezionamento dell’unico generatore di corrente variabile allora disponibile, costituito da 2 circuiti mutuamente accoppiati (primo fra tutti il rocchetto ideato da H.D. Ruhmkorff). Spetta tuttavia a L. Gaulard e J.D. Gibbs il merito di avere realizzato per primi a Londra nel 1883 (il brevetto è dell’anno precedente) e di aver presentato nell’esposizione internazionale di Torino del 1884 veri apparecchi industriali per la trasformazione di correnti alternate. Questi, chiamati dagli stessi ideatori generatori secondari, avevano nuclei magnetici mobili, costituiti con fili di ferro; gli avvolgimenti primari e secondari erano suddivisi in sezioni, diversamente raggruppabili fra loro per modificare i rapporti di trasformazione. Gli avvolgimenti primari dei vari t. erano collegati tra loro in serie e, di conseguenza, risultava difficile la regolazione che veniva fatta immergendo più o meno i nuclei ferromagnetici. Il sistema suscitò l’interesse di numerosi tecnici, tra i quali O.T. Bláthy, M. Déry e K. Zipernowsky dell’industria Ganz di Budapest: essi si resero conto degli inconvenienti e brevettarono nel 1885 un impianto di distribuzione con t. aventi il nucleo chiuso e avvolgimenti primari collegati in parallelo; essi stessi usarono per primi il nome di t. e presentarono l’impianto all’esposizione di Budapest dello stesso anno. In America la Westinghouse acquistò il brevetto e sotto la direzione di W. Stanley iniziò la costruzione di impianti con avvolgimenti primari in parallelo (1886). In Inghilterra S.Z. de Ferranti sostituì il collegamento in parallelo a quello in serie. Fondamentali studi sulla teoria e sulla costruzione dei t. furono eseguiti da G. Ferraris (proprio sul t. di Gaulard presentato a Torino), H.F. Weber, C.P. Steinmetz, E. Arnold, J.L. La Cour, G. Kapp.
Funzionamento del t. monofase a due avvolgimenti. Nel funzionamento a vuoto, ossia a circuito secondario aperto, alimentando il primario alla tensione e alla frequenza nominali, si ha nel primario una corrente di intensità I10 (corrente a vuoto). Se N1 è il numero di spire del primario, la forza magnetomotrice N1I10 produce nel circuito magnetico un flusso di induzione magnetica, di valore efficace pari a Φ=N1I10/ℜ (indicando con ℜ la riluttanza del circuito magnetico), che induce nei due circuiti primario e secondario rispettivamente le forze elettromotrici: E1=ωN1Φ, E2=ωN2Φ, essendo ω la pulsazione della corrente e N2 il numero di spire dell’avvolgimento secondario. Il rapporto k delle due f. e. m. è il rapporto di trasformazione del t.: k=E1/E2=N1/N2, pari al rapporto tra le tensioni a vuoto primaria, V10, e secondaria, V20. Se k<1 è V20>V10 e il t. si dice in salita o t. elevatore; se k>1, il t. si dice invece in discesa o riduttore. Se il t. viene caricato, alimenta cioè un circuito esterno, si avranno nei 2 avvolgimenti le intensità di corrente I1 e I2, cui corrispondono le forze magnetomotrici N1I1 e N2I2. Ora, poiché al variare del carico il valore efficace del flusso rimane praticamente lo stesso, può scriversi, con il metodo simbolico: N1I1−N2I2=N1I10. Per condizioni di carico alle quali possa trascurarsi, di fronte a ciascuno dei termini al primo membro, il termine N1I10 (che è piccolo per l’elevata permeanza del circuito magnetico) praticamente si ha: I1/I2≅N2/N1=1/k. Il flusso che induce nei due avvolgimenti del t. le f. e. m. E1 ed E2 prende il nome di flusso principale; esso comprende tutte le linee di induzione che si concatenano con entrambi i circuiti. Esiste tuttavia un flusso che si concatena con il solo circuito primario e inoltre un flusso che si concatena con il solo circuito secondario: questi due flussi sono denominati, rispettivamente, flusso disperso primario e flusso disperso secondario. I quozienti di tali flussi per le correnti dei rispettivi avvolgimenti permettono di definire le autoinduttanze di dispersione, S1 primaria e S2 secondaria. Tenendo presente che ciascuno dei 2 avvolgimenti ha una resistenza ohmica e ponendo Z1=R1+jωS1, Z2=R2+jωS2, si potranno scrivere le equazioni di funzionamento. Nel circuito primario, la tensione V1 applicata deve compensare la caduta di tensione nell’impedenza Z1 nonché la forza controelettromotrice E1; essa sarà pertanto: V1=E1+Z1I1. La f. e. m. E2 indotta nel secondario deve compensare la caduta nell’impedenza Z2, mentre la parte residua rappresenta la tensione applicata al carico: E2=Z2I2+V2. Queste due equazioni, insieme con quella, N1I1−N2I2=ℜΦ, già considerata, definiscono il funzionamento del trasformatore. Nello studio del t. torna utile la considerazione delle grandezze secondarie in termini corrispondenti riferiti al primario; tali grandezze si dicono ‘riportate al primario’. Per la f. e. m. e l’intensità di corrente si ha: E′2=kE1, I′2=I2/k. Con queste relazioni l’equazione del secondario può scriversi: E1=Z′2I′2+V′2, dove Z′2=k2Z2, e quindi: R′2=k2R2; S′2=k2S2. Si può naturalmente operare anche la trasformazione inversa, riferendo tutte le grandezze al secondario, mediante relazioni inverse a quelle sopra indicate. Lo schema equivalente del t. comprende le due resistenze R1 e R′2 (fig. 2) nonché le due reattanze X1=ωS1 e X′2=ωS′2; tra i punti M e N è derivata l’ammettenza Y0, che si compone della conduttanza G0 e della suscettanza B0; tra C e D è derivata l’impedenza di carico, riportata anch’essa al primario Z′c=k2Zc. I parametri della macchina possono essere determinati con buona approssimazione in base a due prove da effettuarsi sul t., quella a vuoto e quella in corto circuito. La prova a vuoto si effettua a circuito secondario aperto, alimentando il primario a tensione e frequenza nominali e misurando la potenza attiva assorbita P10 nonché V1 e I10. In considerazione della esiguità di I10 le perdite per effetto Joule sono trascurabili, quindi P10 può considerarsi uguale alle perdite nel ferro Pfe, per isteresi e per correnti parassite. La prova in corto circuito si effettua collegando in corto circuito i morsetti secondari e alimentando il primario con una tensione ridotta V1c (tensione di corto circuito) tale da fare circolare negli avvolgimenti le correnti nominali. Poiché V1c è molto piccola, risulterà piccolo il flusso e quindi Pfe; pertanto la potenza attiva misurata sarà pari alle perdite per effetto Joule PJ. La tensione di corto circuito V1c è espressa generalmente in percentuale della tensione nominale, assumendo valori compresi tra 3% e 14% quando si passa dai piccoli ai grandi t.; l’impedenza di corto circuito Z1c=R1c+jX1c risulta così di qualche migliaio di volte minore di quella a vuoto Z10 ed è confermata la bontà dell’ipotesi di trascurare l’ammettenza Y0 nel calcolo della variazione di tensione. La V1c, e quindi la Z1c, se da un lato è bene che abbiano piccoli valori per non avere a carico nel t. eccessive cadute di tensione, d’altro canto non possono essere troppo piccole perché è proprio l’impedenza Z1c a limitare la corrente in caso di corto circuito ai morsetti secondari, evitando danni agli avvolgimenti.
Si dice potenza nominale del t. la potenza apparente erogabile, e quindi assorbibile, in modo continuativo senza che in alcuna parte la temperatura raggiunga valori dannosi per gli isolanti; in corrispondenza risultano definite per ciascun avvolgimento la tensione e la corrente nominale.
Funzionamento di un t. trifase. Un t. trifase si può immaginare ricavato dall’associazione di 3 t. monofase, aventi ciascuno gli avvolgimenti posti in una colonna; poiché il t. è destinato a funzionare con tensioni simmetriche e quindi, in particolare, aventi istante per istante somma nulla, i flussi principali avranno anch’essi, con ottima approssimazione, somma nulla così da non richiedere un’altra colonna per la richiusura del flusso risultante. La struttura del nucleo più adottata è quella di fig. 3 e il flusso relativo a una fase ha come richiusura i flussi delle altre 2 fasi. Particolarmente importante è nei t. trifase il tipo di collegamento tra gli avvolgimenti, che può essere a stella, a triangolo o a zig-zag; nello schema a zig-zag ciascuna fase è suddivisa in due gruppi di spire che vengono avvolti su due colonne distinte secondo un certo ordine ciclico. Combinando in diversi modi gli schemi del primario con quelli del secondario si può ottenere una grande varietà di schemi di t. trifase. La designazione si fa usando i simboli Y, y per il collegamento a stella; Δ, D, d per quello a triangolo; Z, z per quello a zig-zag; al simbolo maiuscolo, relativo all’avvolgimento di alta tensione, seguono quello minuscolo della bassa tensione e un numero che indica il gruppo di appartenenza del t., ossia lo sfasamento angolare (in ritardo) del diagramma delle f. e. m. secondarie rispetto a quello delle primarie, misurato come multiplo di 30°; per es., Dy11 significa t. trifase del gruppo undici con alta tensione a triangolo, bassa tensione a stella e sfasamento di 330° in ritardo delle tensioni concatenate secondarie rispetto a quelle primarie.
Funzionamento in parallelo. Due o più t. possono funzionare con primari e secondari in parallelo soltanto se hanno uguali rapporti di trasformazione, uguali cadute ohmiche e induttive (per grossi t. tale condizione si riduce all’eguaglianza tra le tensioni di corto circuito) e, per i t. trifase, se appartengono allo stesso gruppo. Mentre la mancata verifica della terza condizione determina un passaggio insostenibile di correnti di circolazione nei t., la prima condizione può non essere soddisfatta in modo del tutto rigoroso purché risultino limitate le suddette correnti, che causano peraltro perdite per effetto Joule anche nel funzionamento a vuoto. La verifica della seconda condizione garantisce la possibilità di sfruttare tutta la potenza dei t. evitando che un t. funzioni in sovraccarico mentre un altro t. funziona al di sotto della sua potenza nominale.
Il circuito magnetico di un t. è costituito generalmente da pacchi di lamierini di ferro-silicio; in particolari applicazioni, e soprattutto per frequenze elevate, si ricorre a impasti di ferriti al fine di contenere le perdite; per frequenze ancora superiori si rinuncia all’impiego di materiali magnetici e le linee di forza del campo magnetico si sviluppano in aria (t. in aria). Dopo il 1950 si sono diffusi i lamierini a grani orientati, ottenuti con una laminazione a freddo e con speciali trattamenti termici e chimici; l’isolamento tra i lamierini è costituito da un sottilissimo strato di ossido di magnesio.
Per quanto riguarda, invece, i materiali conduttori impiegati negli avvolgimenti, si può affermare che il rame è quello largamente più usato, sotto forma di filo di sezione circolare per piccole correnti o di piattine di sezione rettangolare; per correnti molto intense si impiegano più conduttori, sempre a sezione rettangolare, collegati tra loro in parallelo; in quest’ultimo caso, per evitare correnti di circolazione bisogna effettuare opportune trasposizioni tra le spire dei conduttori in parallelo. Al posto del rame talvolta viene usato l’alluminio, più economico ma con un aggravio nei problemi tecnici.
Per quanto riguarda il sistema di isolamento bisogna distinguere i t. a secco, in cui i conduttori sono in contatto diretto con l’aria o con un sistema di isolamento composito solido, dai t. in olio (quest’ultimo viene adottato anche per facilitare il raffreddamento). Riguardo alle forme costruttive, i t. industriali possono essere principalmente di due tipi: il tipo a colonne e il tipo a mantello. Il t. a colonne (o a nuclei) è così denominato in quanto gli avvolgimenti sono disposti intorno a colonne verticali e il circuito magnetico viene chiuso mediante gioghi orizzontali; gli avvolgimenti sono disposti concentricamente l’uno rispetto all’altro, con quello a tensione inferiore più vicino alla colonna (avvolgimenti concentrici), e separati da cilindri isolanti. Le singole spire sono circolari per poter resistere meglio agli sforzi elettrodinamici (l’avvolgimento interno è sollecitato a compressione mentre quello esterno è sollecitato a trazione); le sezioni delle colonne, per avere un migliore adattamento alla forma circolare degli avvolgimenti, e quindi per un migliore sfruttamento dello spazio, sono del tipo a gradini. I t. a mantello (o corazzati) hanno avvolgimenti con asse orizzontale e sezione rettangolare, con il lato maggiore verticale; i lamierini sono disposti in modo da circondare il più possibile gli avvolgimenti. Gli avvolgimenti primario e secondario sono suddivisi in più bobine, che vengono disposte alternativamente (avvolgimenti a bobine alterne); le due bobine estreme appartengono all’avvolgimento a bassa tensione. Va detto che si ricorre eccezionalmente ad avvolgimenti con bobine alternate anche con struttura a colonne, qualora si desideri avere reattanze di corto circuito particolarmente basse. L’insieme nucleo-avvolgimenti è sistemato di norma entro un recipiente, denominato cassone, di lamiera di ferro, attraversato da isolatori passanti aventi lo scopo di portare all’esterno, isolandoli dal cassone, gli estremi degli avvolgimenti; il cassone è poi collegato elettricamente all’impianto di terra. Per quanto riguarda il raffreddamento, nei t. a secco (costruiti per modeste potenze) esso avviene per ventilazione naturale, raramente con aria soffiata esternamente da ventilatori. Per grandi potenze ed elevate tensioni si adottano esclusivamente t. immersi in olio, il quale funziona insieme da isolante e da refrigerante; per le potenze inferiori l’olio circola naturalmente ed è raffreddato da una circolazione naturale di aria che lambisce la superficie del cassone oppure una serie di radiatori o di fasci di tubi addossati al cassone entro i quali circola l’olio; per potenze maggiori, la circolazione dell’aria attraverso i radiatori viene attivata da ventilatori; per potenze elevate si attua anche una circolazione forzata dell’olio mediante pompe e talvolta per la sua refrigerazione si ricorre a serpentine con circolazione forzata di acqua.
T. di adattamento T. atto a trasferire energia con il massimo rendimento tra un circuito avente una certa impedenza Z1 e un altro circuito avente impedenza Z2; perché ciò avvenga si dimostra che, detto k il rapporto di trasformazione, deve valere la relazione: k2= Z1/Z2. T. d’antenna T. ad alta frequenza usato per accoppiare a un’antenna un radiotrasmettitore o un radioricevitore. T. differenziale Dispositivo in grado di rilevare spostamenti molto piccoli, dell’ordine della frazione di micrometro: un nucleo cilindrico ferromagnetico a (fig. 4 ) è concatenato con due circuiti, un primario e un secondario, come un t. elettrico: il primario b è alimentato a una frequenza dell’ordine del kilohertz; il secondario c è costituito da due parti con avvolgimenti opposti. Il nucleo è solidale a un’astina d (non ferromagnetica) che, a contatto con la superficie di un pezzo, e, risulta sensibile agli spostamenti da rilevare: se il nucleo è nella posizione simmetrica g rispetto ai due avvolgimenti del secondario, la tensione uscente da quest’ultimo è nulla; se il nucleo si sposta (in alto, f, o in basso, h) aumenta linearmente la tensione concatenata con uno dei due avvolgimenti e diminuisce quella concatenata con l’altro (da ciò la denominazione LVDT, linear variable differential transformer); con un demodulatore sensibile alla fase si ottiene in uscita dal secondario una tensione il cui segno dipende dal verso dello spostamento. Il t. differenziale trova applicazione nella realizzazione di comparatori elettrici, di dilatometri, di dispositivi di elevata sensibilità come i rugosimetri. T. di isolamento T., a rapporto unitario, impiegato per isolare il circuito di alimentazione da quello alimentato. T. di misura Speciale t. riduttore, usato per l’esecuzione di misurazioni voltmetriche (t. di tensione o voltmetrico) o amperometriche (t. di corrente o amperometrico) allorché le grandezze da misurare hanno ampiezze troppo elevate per l’inserzione diretta degli strumenti nei punti di misura, oppure quando il potenziale del sistema in cui operare è troppo elevato e quindi pericoloso per la sicurezza dell’operatore. In queste apparecchiature si deve garantire che le grandezze di misura, sia sul primario sia sul secondario, siano sempre in un rapporto di trasformazione costante e in fase tra loro. Pertanto in un t. di misura si deve garantire che la tensione secondaria, nel caso di t. di tensione, o la corrente secondaria, nel t. di corrente, siano sempre in un rapporto costante e in fase con le corrispondenti grandezze negli avvolgimenti primari. In un t. di tensione si deve fare in modo che le cadute di tensione siano assai modeste e quindi occorre ridurre al minimo le resistenze e le reattanze di dispersione degli avvolgimenti. In un t. di corrente si deve fare in modo che la corrente magnetizzante sia molto piccola rispetto alla corrente da misurare. Di conseguenza la prestazione di un t. di tensione è tanto migliore quanto più bassa è la corrente erogata, ovvero in prossimità del funzionamento a vuoto; viceversa, la prestazione di un t. di corrente è tanto migliore quanto più bassa è la tensione, ovvero in prossimità del funzionamento in corto circuito; in particolare, se un t. di corrente non deve alimentare alcuna apparecchiatura, i suoi morsetti secondari devono essere posti in cortocircuito. T. di potenza Denominazione generica con la quale sono indicati i t. utilizzati nella trasmissione e nella distribuzione dell’energia elettrica. T. a prese variabili (o a rapporto variabile) T. in cui un avvolgimento ha un certo numero di prese intermedie facenti capo ai contatti di un commutatore: manovrando questo è possibile variare il numero di spire primarie o secondarie, modificando così, secondo le esigenze, il rapporto di trasformazione. I t. a prese variabili possono essere essenzialmente di due tipi a seconda che il commutatore debba essere manovrato con il t. funzionante a vuoto oppure si possa variare il rapporto di trasformazione con il carico inserito. Nel secondo caso il commutatore deve essere costruito tenendo conto del fatto che il gruppo di spire da inserire o da escludere viene a trovarsi, anche se per breve tempo, in corto circuito.