In astrofisica, il flusso supersonico di plasma (essenzialmente idrogeno ionizzato) prodotto dall’espansione della corona solare nello spazio interplanetario. Nel suo moto radiale (con velocità da ca. 250 km/s a oltre 800 km/s) il v. solare trascina con sé il campo magnetico del Sole, dando origine al campo magnetico interplanetario. La regione circostante il Sole, avente dimensioni di 100 e più UA, permeata dal v. solare e dal campo magnetico interplanetario, prende il nome di eliosfera.
L’ipotesi che il Sole emettesse, almeno saltuariamente, nubi di plasma fu avanzata già nei primi decenni del 20° sec. da alcuni geofisici (K. Birkeland, S. Chapman, V.C.A. Ferraro) per spiegare le tempeste geomagnetiche. Nel 1951, L. Biermann, studiando i moti di nubi di CO+ nelle code delle comete, propose che questi fossero dovuti all’interazione dei gas cometari con un flusso di plasma continuo proveniente dal Sole. Alcuni anni dopo, E.N. Parker sviluppò il primo modello idrodinamico dell’espansione della corona e introdusse il termine v. solare per descrivere il fenomeno. La teoria di Parker trovò una brillante conferma quando lo spazio interplanetario cominciò a essere esplorato dalle sonde e dai satelliti artificiali. Parker sviluppò un modello di espansione isoterma della corona, basato sulle equazioni dell’idrodinamica. Il risultato principale dei calcoli era che la velocità del plasma (V) doveva aumentare monotonamente con la distanza eliocentrica (r), diventando supersonica oltre una certa distanza critica (rc) dell’ordine di 10 R⊙ (dove R⊙=7∙108 m è il raggio del Sole). L’andamento della funzione V(r) dipendeva dalla temperatura coronale (Tcor): la fig. 1 mostra V(r) per vari valori di Tcor da 0,5∙106 a 4∙106 K. La retta verticale tratteggiata, a r=1 UA, serve a visualizzare i valori di V all’orbita della Terra. All’aumentare di r, la velocità aumenta sempre più lentamente e, a grandi distanze eliocentriche, essa diventa quasi costante. D’altra parte, per la legge di conservazione della massa, il flusso attraverso tutte le superfici sferiche con centro nel Sole (4πr2NV) ha lo stesso valore sicché, se V rimane costante, la densità (N) deve tendere a zero all’infinito come 1/r2. Il modello descritto è stato in seguito migliorato includendovi effetti trascurati originariamente da Parker.
La tab. fornisce i valori dei parametri fondamentali del v. solare a 1 UA (velocità, densità, temperatura) forniti da due modelli denominati, rispettivamente, a un fluido e a due fluidi. Entrambi i modelli abbandonano l’ipotesi, poco realistica, di una temperatura costante del plasma: tuttavia, il primo assume che la temperatura dei protoni e degli elettroni abbia uno stesso valore (T), cioè che il plasma si comporti come un unico fluido; il secondo, invece, tiene conto del fatto che protoni ed elettroni, avendo masse e, quindi, conducibilità termiche diverse, possono avere temperature differenti (rispettivamente, Tp e Te), comportandosi, cioè, come due fluidi distinti. L’ultima colonna della tab. dà i valori medi di N, V, Tp e Te misurati dai satelliti artificiali in prossimità dell’orbita della Terra. Si nota che né il modello a un fluido né quello a due fluidi forniscono una descrizione accurata delle proprietà osservate del v. solare. Per quanto riguarda la temperatura, la situazione reale è intermedia fra quelle predette dai due modelli. Per confrontare i valori della velocità, occorre poi ricordare che questo parametro presenta una forte variabilità (da ~250 km/s a oltre 800 km/s), sicché il suo valore medio (400 km/s) ha un significato limitato. Si distinguono due regimi di v. solare: un v. quieto (V~300 km/s), relativamente denso e freddo, e un v. veloce (V>500 km/s), molto rarefatto e caldo. Mentre il primo regime corrisponde abbastanza bene alle previsioni dei modelli, il secondo se ne discosta profondamente.
I modelli idrodinamici sopra trattati trascurano l’influenza che il campo magnetico solare ha sull’espansione della corona. La fig. 2 illustra schematicamente la struttura del campo in una zona della corona: si distinguono i pennacchi (noti anche come streamer), che sormontano le regioni attive della fotosfera, dove le linee di forza di opposta polarità tendono quasi a chiudersi, e un buco coronale, caratterizzato, invece, da linee di forza divergenti (➔ corona). Dai pennacchi, dove il campo magnetico ostacola maggiormente l’espansione, proverrebbe il v. solare quieto, e dai buchi coronali il v. veloce. Quest’ultima associazione, oggi fermamente stabilita, suggerisce che il regime del v. veloce sia quello dominante nelle regioni polari del Sole, dove si trovano i buchi coronali più vasti e più stabili.
I buchi coronali sono strutture di lunga durata, sicché i fasci di plasma veloce, che essi emettono, persistono per parecchie rotazioni solari successive e sono osservati dalla Terra con un periodo di ricorrenza di circa 27 giorni. D’altra parte, i buchi coronali non sono l’unica sorgente del v. veloce: il Sole, infatti, espelle anche, saltuariamente, nubi di plasma veloce. Questo fenomeno, che prende il nome di emissione di massa coronale (CME, coronal mass ejection), è a volte, ma non sempre, accompagnato da un brillamento. Oltre che condizionare l’espansione della corona, il campo magnetico solare, essendo congelato nel plasma (➔ magnetofluidodinamica), viene trasportato nello spazio dal v. solare. Le sue linee di forza rimangono, però, radicate nel Sole, sicché la rotazione di questo si trasmette, in una certa misura, al v. solare; la velocità con cui il v. partecipa al moto di rotazione del Sole è assai piccola: a 1 UA essa è dell’ordine di 1 km/s (da confrontare con la velocità radiale media di 400 km/s). Ciò ha, tuttavia, una conseguenza importante per il Sole, che subisce una continua perdita di momento angolare, rallentando così la sua rotazione.
Si calcola che al ritmo attuale il Sole possa aver perso, nel corso della sua vita (~4,6 miliardi di anni), circa la metà del momento angolare originario. Come si è detto, il campo magnetico interplanetario è l’estensione nello spazio di quello solare. Se la corona fosse statica, l’intensità del campo (di tipo dipolare) varierebbe con la distanza come 1/r3 e, a 1 UA, sarebbe del tutto trascurabile. Parker (1958) ha però dimostrato che, a causa del trascinamento operato dal v. solare (in condizioni di congelamento delle linee di forza nel plasma), il campo decresce assai più lentamente. Assumendo che alla base della corona le linee di forza siano radiali, si trova che, nel piano equatoriale del Sole, il campo B, alla distanza eliocentrica r, ha componenti, in un sistema di coordinate polari sferiche (r, ϑ, ϕ) avente per asse l’asse di rotazione del Sole:
Br=B0(r02/r2); Bϑ=0; Bϕ=B0(r02ω/rV)
dove r0 è il raggio della base della corona, B0 il valore che ivi ha il campo e ω la velocità angolare di rotazione del Sole. Dalle equazioni precedenti si ricava che le linee di forza hanno la forma di spirali di Archimede (fig. 3). Tale andamento è il risultato del moto radiale del v. solare e della simultanea rotazione del Sole: infatti, come mostrato in fig. 4, il plasma emesso da una data zona del Sole si distribuisce, nello spazio interplanetario, lungo una spirale, sicché le linee di forza da esso trasportate devono assumere la medesima forma. Per V=400 km/s si trova che a 1 UA l’induzione magnetica è ~5 nT e l’angolo che le linee di forza formano con la direzione radiale ~45°. Le misure effettuate dai satelliti artificiali hanno pienamente confermato queste aspettative. Al crescere della distanza eliocentrica, il campo diventa sempre più azimutale perché la componente Br diminuisce più rapidamente di Bϕ: pertanto, già all’orbita di Giove (r~5 UA), le linee di forza sono praticamente trasversali, formando un angolo di circa 90° con la direzione radiale.
Se da una parte le osservazioni spaziali hanno dimostrato l’esattezza del modello di Parker, dall’altra hanno rivelato caratteristiche del tutto inattese del campo interplanetario, gettando una nuova luce sul magnetismo solare. I due fenomeni più interessanti sono la struttura a settori del campo magnetico interplanetario e l’effetto della polarità dominante. Per quanto riguarda il primo punto, le osservazioni del satellite IMP-1, nel 1963-64, mostrarono che il campo interplanetario, nel piano equatoriale del Sole, aveva una struttura assai stabile, che si riproduceva quasi inalterata in rotazioni solari successive: come illustrato in fig. 5, essa consisteva di 4 settori, ciascuno dei quali caratterizzato da una polarità coerente delle linee di forza, dirette via dal Sole (polarità positiva) o verso il Sole (polarità negativa). Gli esperimenti successivi hanno confermato l’esistenza di questa struttura, ma è risultato che in certi periodi del ciclo di attività solare essa consiste di 4 settori (come osservato da IMP-1) e in altri di 2 soli settori. Per quanto riguarda il secondo fenomeno, già alla fine degli anni 1960 fu messa in evidenza una correlazione fra la polarità del campo e la latitudine eliografica: si scoprì, infatti, che al di sopra del piano equatoriale veniva osservata più frequentemente la polarità corrispondente a quella del polo nord del Sole, mentre al di sotto di tale piano prevaleva la polarità opposta (corrispondente a quella del polo sud). Il fatto più notevole era che, quando al massimo del ciclo di attività il campo dipolare del Sole (➔) si invertiva, anche la polarità dominante del campo interplanetario subiva un’analoga inversione. I due fenomeni descritti sono stati interpretati da H. Alfvén, nel 1973, col modello illustrato in fig. 6. Il campo magnetico dipolare del Sole, che, sulla fotosfera, viene rivelato soltanto intorno ai poli, si estenderebbe nello spazio anche alle basse latitudini: d’altra parte, il confine fra i due emisferi magnetici dell’astro non sarebbe il piano dell’equatore geografico, ma la superficie ondulata, indicata in fig. come strato neutro (perché ivi il campo magnetico, dovendo invertire la sua polarità, si annulla). Secondo questa interpretazione, oggi largamente accettata, la struttura del campo magnetico, osservata nel piano equatoriale, dipende dalla forma dello strato neutro che può, a seconda dei casi, intercettare l’equatore formando 4 oppure 2 soli settori di polarità opposte. Il campo interplanetario rappresenta dunque l’estensione del campo dipolare del Sole e non dei campi, assai più intensi, localizzati nelle regioni attive: ciò non è sorprendente, se si pensa che il plasma può difficilmente sfuggire dalle regioni attive, proprio perché vi è trattenuto da campi magnetici intensi e con linee di forza chiuse.
Il v. solare consiste soprattutto di idrogeno ionizzato, ma in esso sono presenti anche altre specie chimiche, di cui la più abbondante è l’elio, anch’esso completamente ionizzato (cioè nella forma di particelle α), seguito dall’ossigeno. Altri elementi individuati nel v. solare sono il silicio, lo zolfo, il ferro, il magnesio e alcuni gas nobili (argo, neon).
L’espansione della corona non è, in generale, né uniforme (in quanto certe regioni del Sole emettono un v. più veloce di altre) né stazionaria (data la presenza di fenomeni transienti, come i CME). Una conseguenza notevole di queste disomogeneità è la formazione di onde d’urto. La fig. 7 illustra ciò che accade quando una nube di plasma veloce, emessa per es. in un brillamento, comprime davanti a sé il v. più lento (v. solare ambiente). Se la differenza di velocità fra i due plasmi è maggiore della velocità del suono, si sviluppa un’onda d’urto che si propaga nello spazio interplanetario a velocità dell’ordine di 1000 e più km/s. Onde d’urto stazionarie si producono, poi, quando il flusso del v. solare urta contro un ostacolo fermo, per es., quello costituito dalla magnetosfera della Terra.
In analogia al v. solare, il flusso di plasma prodotto dall’espansione dell’atmosfera di una stella.
Movimento, più o meno regolare e più o meno violento, di masse d’aria atmosferiche, diretto in senso prevalentemente orizzontale (ai movimenti in senso prevalentemente verticale si dà il nome di movimenti convettivi o di correnti verticali).
Il v. è provocato da differenze di pressione atmosferica ed è essenzialmente caratterizzato dalla direzione e dall’intensità, e dalla frequenza con cui queste variano. Se non vi fossero azioni perturbatrici, la direzione del v. coinciderebbe con quella del gradiente di pressione, poiché il movimento dell’aria è diretto dai punti a pressione più alta verso i punti a pressione più bassa, cioè perpendicolarmente alle isobare (v. di gradiente). In realtà, esistono tre notevoli cause di perturbazione: le irregolarità del suolo, la forza deviatrice dovuta alla rotazione terrestre e l’attrito (interno e al suolo). A causa di esse si hanno scostamenti più o meno sensibili della direzione del v. rispetto alla direzione del gradiente di pressione, dipendenti anche dalla latitudine, dall’altezza sul mare, dalla natura del suolo. L’intensità risulta direttamente proporzionale al gradiente di pressione e, a parità di questo, dipende anch’essa dalla latitudine, dall’altezza sul mare e dalla natura del suolo. Direzione e intensità dipendono, a parità di altri fattori, anche dalla forma delle isobare. Un caso particolarmente interessante è quello delle isobare chiuse che circondano un centro di bassa pressione (centro ciclonico) o un centro di alte pressioni (centro anticiclonico): la situazione che, in conseguenza della diversa influenza della forza deviatrice, si determina per i v. ciclonici e anticiclonici nei due emisferi è schematizzata nella fig. 8. Ai v. di gradiente corrispondenti a isobare chiuse o comunque aventi piccolo raggio di curvatura si dà anche il nome di v. ciclostrofici, mentre quello di v. geostrofici si dà ai v. di gradiente corrispondenti a isobare parallele o comunque aventi un raggio di curvatura relativamente grande.
L’intensità del v. è misurata dalla sua velocità (espressa in m/s; nella pratica, anche in km/h o in nodi); in base a essa i v. vengono classificati in vari gradi d’intensità (o anche, come spesso si dice, di forza): di uso generale è la scala Beaufort (➔ Beaufort, sir Francis).
Altro importante criterio di classificazione è costituito dall’andamento nel tempo: si possono così distinguere v. costanti (per es., gli alisei) e periodici (per es., le brezze e i monsoni), detti nel complesso v. regolari, e v. irregolari, v. pulsanti, che spirano intermittentemente da una direzione costante, v. dominanti, quelli che in una data località sono in media i più intensi, v. regnanti, quelli che in una data località sono più frequenti.
I v. infine possono essere anche classificati in rapporto alla loro origine: a) v. dovuti a riscaldamenti o raffreddamenti locali (per es., le brezze); b) v. periodici dovuti a differenze termiche tra vaste zone (monsoni, v. di gradiente ecc.); c) v. aperiodici dovuti a differenze di pressione tra vaste zone (v. ciclonici e anticiclonici); d) v. causati da altri v. (vortici, tornado ecc.).
La velocità del v. viene misurata mediante anemometri e anemografi; la direzione del v., quella cioè da cui il v. stesso spira, viene determinata mediante anemometri o anemografi muniti di banderuola mostravento. Viene indicata generalmente mediante il simbolo dell’ottante relativo (N, NE, E, SE ecc.); molto usate sono anche le indicazioni intermedie (N-NE, E-NE ecc.). L’insieme delle 8 direzioni principali e intermedie costituisce la rosa dei v.; in questa spesso vengono anche trascritte le denominazioni locali dei v.; in fig. 9 è una rosa dei v. con le denominazioni usate in Italia, e che risalgono alla tradizione delle antiche repubbliche marinare.
Il v. anabatico è un v. locale ascendente come, per es., le brezze marine che risalgono le ripe montuose delle coste, le brezze di valle ecc. Il v. catabatico è un v. costituito da aria fredda discendente per azione della gravità; ne è esempio la bora. Il v. inferiore e il v. superiore sono quei v. che scorrono a quote prossime al suolo, sino a 1000 m di altezza nell’aria, o rispettivamente oltre tale altezza. I primi sono dovuti principalmente a differenze termiche del suolo e alle sue differenze di livello, i secondi sono determinati quasi esclusivamente da condizioni barometriche. Il v. laminare è un v. regolare nel quale vi è scorrimento dell’aria per filetti paralleli; si sviluppa più facilmente in quota, per la lontananza degli ostacoli del terreno. I v. locali sono quei v. che non hanno un nesso con la circolazione generale atmosferica, sono legati essenzialmente a un territorio e sono tipici di esso. Sono v. locali, per es., il mistral, lo scirocco ecc. Un v. turbolento è un v. che presenta variazioni continue sia di direzione sia di intensità; fattori di turbolenza possono essere gli ostacoli del suolo o cause accidentali, come interferenze con altri v., interposizioni di orografia accentuata e varia ecc.
In geomorfologia, il v. costituisce uno dei principali agenti atmosferici dell’erosione. La sua azione meccanica provoca il trasporto di frammenti solidi, che avviene prevalentemente per sospensione e per saltazione; minore importanza hanno il trasporto per rotolamento e per reptazione (trasporto eolico). L’azione eolica si esercita su tutte le terre emerse; tuttavia, assume particolare rilevanza nelle zone di alta montagna e in quelle aride e semiaride a copertura vegetale ridotta o assente. L’effetto più evidente dell’azione del v. si ha infatti nei deserti; in queste zone le correnti atmosferiche denudano i rilievi, sollevano e trasportano grossi quantitativi di materiali detritici fini provenienti dalla degradazione delle rocce e trascinano quelli più grossi che non riescono a sollevare. Questa azione di denudazione prodotta dal v. prende il nome di deflazione (➔); nei deserti come il Sahara essa dà luogo sia a regioni, molto estese e più o meno elevate, dove affiora solo un pavimento roccioso continuamente ripulito dei detriti che si formano per effetto delle accentuate escursioni termiche (deserto roccioso o hamada), sia ad aree in cui si hanno grandi estensioni di detriti molto grossolani (deserto ciottoloso o serir), che rappresentano i materiali lasciati in loco dal v. dopo che questo ha rimosso i granuli di sabbia più fini. L’azione erosiva del v. si esplica proprio grazie alle particelle trasportate, che esercitano un’azione abrasiva (corrasione) contro le rocce coerenti, consumandole esternamente e modellandole in forme particolari su lassi di tempo abbastanza lunghi. I granuli più fini (sabbie) risultano così arrotondati e opachi proprio a causa dell’attrito prodotto durante il movimento, mentre quelli più grossolani (ciottoli) sono levigati, sfaccettati e assumono anche forme allungate aerodinamiche. Sempre legate alla corrasione, ma di dimensioni maggiori, sono alcune forme di paesaggio come gli yardang; questi costituiscono dei rilievi allungati, paralleli tra loro e alla direzione del v., e rappresentano appunto il risultato di un’erosione eolica che ha scavato profondi solchi tra l’uno e l’altro.
Il v., oltre a produrre forme di erosione, modella il paesaggio anche attraverso le forme di accumulo che si sviluppano quando cessa il trasporto, in quanto diminuisce l’energia del vento. I depositi eolici, che sono rappresentati tipicamente dalle sabbie e dai materiali più fini, costituiscono i sedimenti principali per le forme di accumulo più tipiche del v., le dune.
I v. (gr. ἄνεμοι, lat. venti) furono personificati dagli antichi in figure di demoni o di veri e propri dei. Già nei poemi omerici compaiono, in forma umana, Borea, Zefiro, Euro e Noto. Il signore dei v., Eolo, li teneva rinchiusi in un otre di pelle. Nella religione romana v. e le affini tempestates erano collegati al culto di Nettuno. Gli otto v. (oltre quelli citati, Kaikìas, Apeliote, Lìps e Skyron) sono raffigurati nell’edificio costruito da Andronico di Cirro ad Atene nel 1° sec. a.C., la cosiddetta Torre dei V., quali figure maschili in volo, alate.
In età romana diventano quattro o due, prevalentemente raffigurati con teste alate.
L’azione del v. sugli edifici e sui manufatti in genere si traduce in pressioni e depressioni sulle superfici sia esterne, sia interne; l’azione si considera in genere a carattere statico, anche se per particolari costruzioni può essere necessario tener conto di fenomeni dinamici (effetto di raffiche); essa inoltre si assume orizzontale. La forza che il v. esercita su una costruzione è data dalla risultante di tutte le forze che si esercitano sulle varie parti della costruzione. Per la determinazione di queste ultime è necessario calcolare la pressione del v. sulle superfici.
Per la sua estrema variabilità nel tempo e secondo la quota il v. costituisce una delle maggiori difficoltà per l’esattezza del tiro delle artiglierie. Dai dati osservativi riguardanti la direzione e l’intensità del v. a varie quote si ricava il cosiddetto v. balistico, le cui caratteristiche equivalgono alla media dei valori che il v. ha effettivamente alle varie quote. In questo modo si ottengono le correzioni da apportare ai dati di tiro sia in gittata sia in azimut. Galleria del v., o aerodinamica, impianto per esperimenti aerodinamici su modelli in scala (➔ galleria).
Nel linguaggio di marina, il v. può essere rispetto alla nave: di prora, quando spira dritto di prora; di bolina, quando fa con la prora un angolo compreso fra 30° e 70°; al traverso o a mezza nave, quando è perpendicolare alla chiglia; al giardinetto o a gran lasco, quando spira in direzione dell’anca di poppa, circa 70° dal traverso; in fil di ruota, quando è dritto da poppa.