Sole La stella più vicina alla Terra, per la quale, direttamente o indirettamente, costituisce la fonte unica ed essenziale di energia e quindi di vita.
Per analogia, il nome di s. è usato dagli astronomi anche come sinonimo di stella in genere, specialmente in quanto questa si consideri come centro di un sistema planetario.
La distanza che separa la Terra dal S. è variabile e passa, nel corso dell’anno, da un minimo di 147.100.000 km a un massimo di 152.100.000 km, con un valore medio di 149.598.000 km (unità astronomica, UA). Di conseguenza, la luce solare impiega circa 8 minuti per giungere sulla Terra. Alle variazioni di distanza corrispondono variazioni del diametro angolare del S., che oscilla fra 32′35″ (quando la Terra è al perielio) e 31′ (quando è all’afelio), con un valore medio di ≃32′. Il S. ha raggio R⊙=695.970 km (109 volte quello della Terra), massa M⊙=1,989∙1030 kg (3,3∙105 volte quella della Terra) e densità media ρ⊙=1,409 g/cm3 (1/4 di quella della Terra). Non è stato fino a oggi rivelato un eventuale schiacciamento del disco: comunque, il diametro polare differisce da quello equatoriale per meno di 1/100.000. In superficie, l’accelerazione di gravità è 274 m/s2 (28 volte quella terrestre) e la velocità di fuga 618 km/s. La luminosità del S., cioè l’energia che esso irradia nell’unità di tempo, è L⊙=3,85∙1026 W. Le principali grandezze fotometriche del S. sono: magnitudine visuale apparente (media) mv⊙=−26,8; magnitudine bolometrica assoluta Mbol⊙=+4,74; correzione bolometrica BC⊙=0,08; indici di colore (B−V)⊙=0,66; (U−V)⊙=0,56.
Il S. viene classificato come una stella di popolazione I di disco, appartenente alla classe di luminosità V (formata dalle stelle nane o di sequenza principale) e al tipo spettrale G2 (➔ stella). Ha un’età di ≃4,6 miliardi di anni. Si trova nel braccio di Orione della Via Lattea, a una distanza di circa 10 kpc (≃3∙1017 km) dal centro galattico; ruota intorno a questo punto con una velocità di 220-250 km/s, compiendo una rivoluzione completa in circa 250 milioni di anni. Rispetto alle stelle circostanti, ha una velocità peculiare di 19,7 km/s diretta verso un punto della sfera celeste, detto apice solare, situato in prossimità della costellazione di Ercole.
La fig. 1 illustra schematicamente la struttura del Sole. Partendo dal centro, si distinguono tre regioni fondamentali: a) il nucleo avente raggio di ≃0,25R⊙, sede delle reazioni di fusione nucleare che riforniscono l’astro di energia; b) la regione radiativa, lo strato intermedio, compreso fra ≃0,25R⊙ e ≃0,7R⊙, dove l’energia, prodotta nel nucleo, viene trasmessa soprattutto per irraggiamento; c) la regione convettiva, lo strato esterno, compreso fra ≃0,7R⊙ e R⊙, dove l’energia viene trasmessa soprattutto per convezione. Al di sopra della superficie solare di raggio R⊙ (la cui definizione verrà precisata oltre), si estende l’atmosfera. Questa, a sua volta, viene divisa in tre zone: la fotosfera, uno strato sottile, avente uno spessore di ≃500 km, attraverso il quale la temperatura diminuisce da ≃7000 K, alla sua base, fino a un minimo di ≃4200 K; la cromosfera, avente uno spessore di ≃2500 km, caratterizzata da un rapido aumento della temperatura, che raggiunge circa 106 K al confine con la corona; la corona, che si estende nello spazio interplanetario confondendosi con il vento solare, nella quale la temperatura, dopo avere raggiunto un massimo di ≃2∙106 K, decresce molto lentamente con la distanza (a 1 UA, il vento solare ha ancora una temperatura dell’ordine di 105 K). La massima parte della luce solare proviene dalla fotosfera, che, in condizioni normali, è l’unica regione visibile del Sole. La cromosfera e la corona sono osservabili soltanto durante le eclissi, sia naturali sia prodotte artificialmente con il coronografo, oppure a lunghezze d’onda al di fuori della banda visibile.
L’emissione elettromagnetica del S., essenzialmente di origine fotosferica, consiste di uno spettro continuo, al quale sono sovrapposte numerose righe oscure di assorbimento, che costituiscono lo spettro di Fraunhofer. Solo alle lunghezze d’onda più corte (ultravioletto e X) lo spettro è dominato da righe di emissione, prodotte dai gas molto caldi della cromosfera e dalla corona. La fig. 2 confronta lo spettro solare, osservato al di fuori dell’atmosfera terrestre, con quelli di un corpo nero a varie temperature. A parte la presenza delle righe di assorbimento, l’emissione solare corrisponde a quella di un corpo nero che si trovi alla temperatura di 5780 K, detta temperatura efficace della superficie solare. Il massimo dell’emissione cade nella banda giallo-verde dello spettro. L’energia irradiata è compresa per il 40% nel visibile, per oltre il 50% nell’infrarosso e solo per il 7% nell’ultravioletto. La quantità di energia che attraversa, nell’unità di tempo, l’unità di superficie, disposta perpendicolarmente ai raggi del S. al di fuori dell’atmosfera terrestre, prende il nome di costante solare. Il valore della costante solare, S=1367 W/m2, permette di calcolare la luminosità del S.; infatti: L⊙=4πd2S, dove d è l’unità astronomica. Le misure di precisione, condotte a bordo dei satelliti artificiali, hanno rivelato che la costante solare varia, sia pur di poco, nel tempo: dunque, a rigore, il S. è una stella variabile.
La rotazione del S. fu scoperta nel 1610 da Galileo, il quale notò come le macchie comparissero da un bordo del disco solare e si spostassero poi gradualmente, scomparendo dal bordo opposto dopo 13-14 giorni. Nel 1630, C. Scheiner, avendo osservato come le macchie vicine all’equatore ruotassero più rapidamente di quelle poste a latitudini più elevate, propose che la rotazione del S. non fosse rigida. Tuttavia, solo intorno alla metà del 19° sec. si stabilì con certezza che la velocità di rotazione del S. diminuisce, andando dall’equatore verso i poli, per il fenomeno della rotazione differenziale.
La velocità angolare siderea del S. varia con la latitudine λ, secondo la legge: Ω=14,55−2,87sen2λ, dove Ω è espressa in gradi/giorno. Tale rotazione corrisponde, all’equatore, a una velocità di ≃2 km/s. Il periodo di rotazione sidereo è di 25,6 giorni all’equatore, di 26,6 giorni alle latitudini di ±30°, e di ≃33 giorni nelle regioni polari, con λ>70°. Il periodo di rotazione sinodico, vale a dire il periodo osservato dalla Terra, è più lungo (≃27 giorni all’equatore), a causa del moto di rivoluzione del nostro pianeta. L’asse di rotazione del S. è quasi perpendicolare all’eclittica: il piano equatoriale forma un angolo di 7°5′ con tale piano. I valori precedenti della velocità di rotazione e del periodo si riferiscono alla superficie del Sole.
Informazioni sulla rotazione degli strati interni sono state ottenute studiando le oscillazioni solari. Si è trovato che la rotazione differenziale persiste attraverso la maggior parte della regione convettiva: solo alla base di questa, cioè a profondità di ≃0,3R⊙, la rotazione diventa rigida, con una velocità angolare dell’ordine di quella che in superficie si osserva alle latitudini di ±30°.
Le sorgenti dell’energia solare. L’energia solare è prodotta dalla fusione nucleare dell’idrogeno in elio. Questo processo può compiersi attraverso due cicli diversi di reazioni, detti, rispettivamente, ciclo CNO (H. Bethe, 1938), e il ciclo protone-protone o p-p (W. Fowler e T. Lauritsen, 1950). Quest’ultimo ciclo si articola, a sua volta, in tre catene di reazioni, dette pp-I, pp-II e pp-III: in tutti i casi, il risultato finale è la fusione di 4 protoni in un nucleo di elio, 4He, con la liberazione, fra l’altro, di 2 neutrini e di un’energia di 26,7 MeV. Le reazioni dei due cicli sono descritte nelle fig. 3 e 4. Lo svilupparsi dell’uno o dell’altro ciclo di reazioni in una stella dipende, oltre che dalla sua composizione chimica, dalla temperatura centrale: si trova che, in una stella di sequenza principale qual è il S., al di sopra di circa 20∙106 K domina il ciclo CNO, mentre a temperature inferiori prevale quello p-p. Nel S., secondo la teoria comunemente accettata (detta del modello solare standard), la temperatura centrale si aggirerebbe intorno a 1,6∙107 K e, di conseguenza, circa il 99% dell’energia verrebbe prodotta col ciclo p-p. Ci si aspetta anche che, nell’ambito di questo ciclo, la catena pp-I sia dominante, producendo da sola oltre il 90% dell’energia solare. È importante sottolineare come la fusione nucleare dell’idrogeno, con qualunque modalità avvenga, assicuri al S. un adeguato rifornimento di energia. Infatti, assumendo che il 10% della massa del S., costituito principalmente di idrogeno, possa convertirsi in elio, si trova che l’energia sviluppata nel processo di fusione può permettere all’astro di brillare con la luminosità attuale per 10 miliardi di anni, un tempo assai più lungo di quello trascorso dall’epoca della sua formazione (4,6 miliardi di anni).
Modelli solari. Il modello più comunemente accettato, modello solare standard, parte dall’ipotesi che il S. sia sfericamente simmetrico, che il nucleo ruoti abbastanza lentamente e i campi magnetici interni non siano più intensi di quelli superficiali. Il modello solare consiste, in realtà, di una successione di modelli, che partono dalla descrizione della nube di gas primordiale, dalla quale il S. trasse origine 4,6 miliardi di anni fa, fino a giungere al S. attuale. Il modello finale deve soddisfare le proprietà osservabili del S., e cioè fornire valori corretti per la sua massa, luminosità e temperatura superficiale. I risultati del modello standard sono sintetizzati nella fig. 5, dove i parametri fondamentali (densità ρ, temperatura T e abbondanza dell’idrogeno X) sono in grafico, in funzione della distanza radiale r, dal centro alla superficie. I valori di ρ e di T sono normalizzati a quelli esistenti al centro del S., rispettivamente di 150 g/cm3 e 1,6∙107 K. Si può notare come X dal valore centrale di ≃35% aumenti rapidamente raggiungendo, alla distanza di ≃0,25R⊙, il valore del 71%, che poi rimane costante fino alla superficie. Questo andamento si spiega tenendo conto del fatto che le reazioni nucleari, che provocano la progressiva distruzione dell’idrogeno, hanno luogo soltanto nel nucleo, avente un raggio di ≃0,25R⊙. D’altra parte, la materia solare si rimescola nella regione più esterna, sede di moti convettivi, ma non in quella intermedia (0,25R⊙<r<0,7R⊙), che si trova in equilibrio radiativo: di conseguenza, l’abbondanza dell’idrogeno, al di fuori del nucleo, deve rimanere quella primordiale. L’ipotesi del modello standard di assumere come composizione chimica iniziale del S. quella attuale della fotosfera è giustificata appunto dall’assenza di rimescolamento fra il nucleo e gli strati esterni.
La validità del modello standard può essere verificata misurando il flusso dei neutrini generati nel nucleo che, a causa della loro debolissima interazione con la materia, fuoriescono dal S. praticamente indisturbati. Le misure fino a oggi effettuate sembrano contraddire il modello: infatti, il flusso dei neutrini più energetici, prodotti nelle catene pp-II e pp-III del ciclo p-p, risulta nettamente inferiore a quello atteso. Poiché l’efficienza delle catene pp-II e pp-III diminuisce fortemente al decrescere della temperatura, il disaccordo sembrerebbe implicare che il nucleo del S. sia più freddo di quanto predetto dal modello standard. Sono stati allora sviluppati modelli solari non standard, che, abbandonando alcune delle ipotesi sopra citate, assumono, per es., che il nucleo del S. si trovi in rotazione rapida oppure che esso sia permeato da campi magnetici assai intensi. Per questa via si riescono a ottenere temperature centrali più basse, sanando così la discrepanza con le osservazioni dei neutrini. Tuttavia, tali teorie appaiono poco plausibili. Oggi, perciò, ci si orienta ad accettare il modello standard e a ricercare la soluzione del problema dei neutrini nell’ambito della fisica della propagazione di queste particelle (➔ neutrino).
Generalità. Sulla superficie del S. si distinguono campi magnetici localizzati in aree più o meno ristrette e un campo globale di tipo dipolare. I campi localizzati, di gran lunga i più intensi (con induzione magnetica fino ad alcune migliaia di gauss), vennero scoperti nel 1908 da G. Hale sfruttando l’effetto Zeeman. L’esistenza del campo generale fu a lungo sospettata per spiegare il fenomeno dei raggi coronali (filamenti luminosi, che si estendono nella corona al di sopra delle regioni polari, la cui forma richiama quella delle linee di forza uscenti dalle estremità di un dipolo magnetico). Tuttavia, soltanto nel 1955 H. Babcock riuscì a misurare questo campo, che ha un’induzione magnetica dell’ordine di 1 gauss (10−4 tesla).
Pori, nodi magnetici, punti facolari. Le strutture magnetiche più piccole, che si individuano nella fotosfera, sono di tre tipi: i pori, aree oscure aventi diametri ≥1000 km, permeate da campi di 1500 gauss o più; i nodi magnetici, aventi dimensioni leggermente minori, ≃700 km, che hanno la luminosità fotosferica normale e si distinguono soltanto per la presenza di campi magnetici di induzione fra 1000 e 2000 gauss; i punti facolari, aree brillanti ancora più piccole, ≃200 km, che si raggruppano formando le facole. Per quanto riguarda i punti facolari, le loro dimensioni sono così piccole che non esistono ancora magnetogrammi in grado di risolverli singolarmente: tuttavia, la loro natura magnetica è rivelata dal fatto che il campo medio di una facola, dell’ordine di 100 gauss, è all’incirca proporzionale al loro numero per unità di area. Si pensa che pori, nodi e punti facolari siano strutture sostanzialmente simili: essi rappresenterebbero la sezione di tubi di forza magnetici, di dimensioni più o meno grandi, che emergono dalla superficie del Sole. La loro diversa luminosità dipenderebbe da due fattori: una temperatura più bassa di quella fotosferica ordinaria e una maggiore trasparenza dell’atmosfera. Nei pori, più grandi, l’effetto della temperatura sarebbe dominante, determinando una luminosità inferiore a quella della fotosfera circostante più calda. Nei punti facolari, più piccoli, prevarrebbe, invece, l’effetto della trasparenza, che renderebbe visibili gli strati solari più interni e, quindi, più caldi e luminosi. Nei nodi, che hanno dimensioni intermedie, i due effetti si compenserebbero.
Macchie. Sono regioni oscure della fotosfera, con diametri fra ≃7000 km e ≃50.000 km (➔ macchia). Differiscono dai pori, dai quali peraltro derivano, non soltanto per le dimensioni maggiori, ma anche perché hanno una struttura più complessa, nella quale si distingue una zona centrale più oscura (ombra) e una zona periferica (penombra), formata da filamenti radiali alternativamente luminosi e oscuri. Esse di solito si presentano in gruppi aventi dimensioni di ≃105 km o più. Sono permeate da campi magnetici con una polarità coerente: positiva, cioè uscente dalla superficie solare, o negativa, entrante. Nell’ombra, l’induzione del campo magnetico può raggiungere 3000 o 4000 gauss; nella penombra, decresce fino a ≃1000 gauss. Dal valore della luminosità, che nell’ombra si riduce a ≃15% di quella della fotosfera ordinaria, si deduce che la temperatura centrale è di ≃3700 K; nella regione periferica essa sale a ≃5000 K. Si pensa che la bassa temperatura delle macchie, così come quella dei pori, sia legata alla presenza di intensi campi magnetici.
Regioni attive. Sono le aree della superficie solare, dove si manifestano le macchie e gli altri fenomeni che vanno sotto il nome di attività solare (facole, brillamenti, protuberanze ecc.). Sono anche chiamate regioni magnetiche bipolari (BMR, bipolar magnetic region), perché in esse il campo magnetico, più intenso che nella fotosfera ordinaria, presenta una caratteristica struttura, con le linee di forza che escono da una zona della superficie solare (polarità positiva) e vi rientrano in una zona adiacente (polarità negativa).
Sul disco solare ogni giorno appaiono centinaia di piccole regioni magnetiche bipolari (regioni attive effimere), che, in genere, si dissolvono in breve tempo. Alcune di quelle che si trovano a latitudini comprese fra −40° e +40° possono però evolvere in una regione attiva. In questo caso, il flusso magnetico concatenato con la BMR aumenta rapidamente e in essa si formano una facola e numerosi pori. I pori hanno una vita media di poche decine di minuti: qualcuno di essi, però, si ingrandisce e diventa una macchia. La prima macchia si forma solitamente nel secondo giorno di vita della regione attiva. Nei giorni successivi compaiono altre macchie, brillamenti e protuberanze a rapida evoluzione (➔ protuberanze solari). Intorno al decimo giorno, macchie e brillamenti raggiungono il massimo sviluppo, dopo di che la regione attiva comincia lentamente a decadere. Circa la metà delle macchie ha una vita di meno di 2 giorni; le altre sopravvivono più a lungo e la prima, che è la più longeva, può durare anche oltre 60 giorni. Nella fase di declino della regione attiva, si forma una protuberanza quiescente. La superficie della BMR, intanto, si allarga: il flusso magnetico che essa concatena rimane all’incirca costante, sicché i campi magnetici si indeboliscono. Una volta cessati i brillamenti ed estintesi tutte le macchie, le uniche manifestazioni di attività rimangono la facola, che permane per circa 100 giorni, e la protuberanza quiescente, che può sopravvivere anche per 7 o 8 mesi.
Brillamenti. Sono fenomeni esplosivi, che si verificano nelle regioni attive, nei quali si liberano fino a ≃3∙1025 J, sotto forma di onde elettromagnetiche e, spesso, di particelle energetiche (➔ brillamento). La fig. 6 schematizza l’andamento dell’emissione di un brillamento in alcune bande dello spettro elettromagnetico: le microonde, la riga Hα dell’idrogeno (che cade nel visibile alla lunghezza d’onda di ≃656 nm), i raggi ultravioletti e X (XUV). Basandosi sulla riga Hα, si distinguono due fasi: la fase lampo (flash phase), che può durare da ≃5 minuti a ≃1 ora, nella quale si verifica un forte aumento dell’emissione, e la fase principale (main phase), che dura da ≃1 ora a ≃1 giorno, nella quale l’emissione ritorna gradualmente ai valori normali. Considerando le altre bande dello spettro, si nota che all’inizio della fase lampo vi è un improvviso impulso di radiazione sia alle basse frequenze (microonde) sia a quelle più alte (XUV). La fase lampo, inoltre, è preceduta da un aumento della emissione XUV (fase di pre-brillamento).
I brillamenti maggiori sono spesso accompagnati dall’emissione di una nube di plasma e da quella di protoni, particelle α e altri nuclei atomici con energie di 10 MeV o più. In casi eccezionali, i protoni raggiungono energie maggiori di 500 MeV e si parla, allora, di raggi cosmici solari. I protoni più energetici possono dar luogo a reazioni nucleari nel sito del brillamento. I brillamenti sono quasi certamente alimentati dall’energia magnetica, immagazzinata nelle regioni attive. Il fatto che essi si presentino generalmente nella zona di confine fra le aree di polarità positiva e negativa di una BMR fa pensare che l’energia si sviluppi a causa dell’annichilazione di campi magnetici di opposta polarità.
La fig. 7 illustra un modello, molto semplificato, di brillamento. Il fenomeno ha origine ad alta quota, in una zona della corona (riquadro arancione in basso in fig.) dove si incontrano campi magnetici opposti che si annichilano a vicenda. Il riquadro in alto mostra la struttura del campo in questa regione. Intorno al punto neutro N, dove il campo si annulla, le linee di forza di opposta polarità (come AA′ e BB′ o CC′ e DD′) si saldano insieme dando luogo al fenomeno della riconnessione magnetica. Le linee di forza che così si formano (PP′ o QQ′) tendono a contrarsi come corde elastiche per effetto della tensione magnetica e spingono le particelle cariche che ivi si trovano nelle direzioni indicate dalle frecce. La regione dove avviene la annichilazione e riconnessione del campo si riscalda (trasformazione di energia magnetica in energia termica) a temperature dell’ordine di 107 K. Ciò spiega l’aumento dell’emissione nella banda XUV, che è la prima manifestazione del brillamento. Dalla zona di riconnessione, detta regione calda del brillamento, vengono espulsi fasci di elettroni che viaggiano, a velocità relativistiche, lungo le linee di forza sia verso l’interno sia verso l’esterno del Sole. I primi vanno a eccitare la bassa cromosfera, o regione fredda del brillamento, provocando l’emissione nella riga Hα. I secondi sono responsabili delle radioemissioni (radiobursts) di tipo V, che accompagnano solitamente i brillamenti: si tratta di impulsi radio, di frequenze da qualche decina a qualche centinaio di megahertz, emessi dagli elettroni in moto nel campo magnetico con il meccanismo di sincrotrone. In certi casi, il S. espelle anche, dal sito del brillamento, una nube di plasma che, comprimendo davanti a sé il mezzo circostante, genera un’onda d’urto. Questa si propaga attraverso la corona con velocità di oltre 1000 km/s, causando un’ulteriore radioemissione (di tipo II e IV), e poi attraverso il mezzo interplanetario fino, eventualmente, a raggiungere la Terra (➔ vento).
Ciclo di attività e campo dipolare. Nel 1844, S.H. Schwabe notò per primo che il numero delle macchie solari variava periodicamente nel tempo. Negli anni successivi, il fenomeno fu studiato più quantitativamente da R. Wolf, introducendo un parametro, R, chiamato numero di Wolf, che descrive il numero giornaliero delle macchie presenti sul disco solare.
La fig. 8 mostra le variazioni temporali di R dal 1610, quando le macchie furono scoperte da Galileo. Va precisato che i conteggi anteriori al 1818 sono stati ricostruiti in base alle cronache degli osservatori dell’epoca e quindi, oltre che lacunosi, sono soggetti a notevoli errori. Dal grafico emerge che, almeno dal 1700 in poi, R ha oscillato con relativa regolarità fra valori vicini a zero, minimo di attività, e valori dell’ordine di 100, massimo di attività, con un periodo di ≃11 anni. A queste variazioni periodiche di R si dà il nome di ciclo di attività solare, o, più precisamente, di ciclo delle macchie, dal momento che l’attività solare si estrinseca in varie altre forme il cui andamento temporale si discosta alquanto da quello delle macchie. Si nota d’altra parte che, fra il 1650 e il 1700, R si è mantenuto costantemente al di sotto di 10: anche se i dati, come si è detto, non sono privi di incertezze, sembra sicuro che in tale periodo, detto minimo di Maunder, l’attività solare sia stata nettamente inferiore a quella verificatasi in seguito.
L’esistenza di epoche caratterizzate da un’attività solare assai bassa è stata confermata da un’analisi, su un arco di tempo di quasi un millennio, che utilizza due indicatori indiretti del numero di macchie: i conteggi delle aurore boreali, ricostruiti in base alle cronache degli osservatori dell’epoca, e le misure del rapporto isotopico 14C/12C negli anelli di alberi molto vecchi (➔ vento). Questi studi hanno permesso di individuare altri due periodi di ridotta attività della durata di parecchi decenni: il minimo di Wolf, verificatosi intorno al 1300, e il minimo di Spörer, fra il 1450 e il 1540.
Il campo magnetico generale del S., osservabile soltanto nelle regioni polari, ha una struttura dipolare, che si inverte periodicamente. Esso compare subito dopo un massimo di attività con una data polarità (per es., linee di forza che escono dal polo nord ed entrano nel polo sud), si annulla al massimo di attività successivo e quindi ricompare con polarità invertite (linee di forza che escono dal polo sud ed entrano nel polo nord). Si trova anche che, all’inizio di ogni ciclo, i campi delle regioni polari hanno la medesima polarità di quelli delle zone p delle BMR, che si formano nello stesso emisfero. Il ciclo magnetico del S. ha un periodo di ≃22 anni.
Si pensa che il campo magnetico del S. sia generato con il meccanismo di una dinamo autoeccitata (teorie dinamo, ➔ dinamo). Le teorie più accreditate, dette dinamo α-Ω, si basano su due processi: il primo, dipendente dalla rotazione differenziale del S., conduce alla generazione di un campo magnetico azimutale, cioè diretto lungo i paralleli, a partire da un campo poloidale, diretto lungo i meridiani; il secondo, legato alle forze di Coriolis, conduce alla rigenerazione del campo poloidale da quello azimutale. Le fig. 9 I e II illustrano il primo fenomeno. La linea di forza ABC coincide inizialmente con un meridiano; poiché l’equatore ruota più rapidamente dei poli e il campo magnetico è ‘congelato’ nel mezzo, essa viene progressivamente ‘stirata’, assumendo, dopo un certo numero di rotazioni solari, la forma AMNC, in cui il campo ha acquistato una componente azimutale. Il campo magnetico risulta anche amplificato, perché la sua intensità aumenta proporzionalmente all’allungamento delle linee di forza (➔ congelamento). Il secondo fenomeno è illustrato nella fig. 9 III. Un tubo di forza magnetico, diretto lungo un parallelo, sale per effetto della convezione magnetica e, a causa della diminuzione della pressione esterna, si espande. Le forze di Coriolis producono allora una rotazione del tubo nel verso orario o antiorario, a seconda che questo si trovi nell’emisfero nord, come nel caso in fig., o in quello sud. Il risultato, in entrambi i casi, è la generazione di una componente poloidale del campo. Il nome di dinamo α-Ω dato a queste teorie discende dal fatto che la velocità angolare del S. si usa indicare con Ω mentre il processo di fig. 9 III viene chiamato effetto α.
Attività e luminosità del Sole. La luminosità del S. varia con la sua attività. La fig. 10 mostra l’andamento della costante solare (S) in un periodo di circa sei mesi del 1980: si distinguono un minimo, in coincidenza con la massima estensione raggiunta dalle macchie, e un massimo, in un momento in cui le macchie erano quasi assenti. La modulazione della luminosità solare viene attribuita a tre fattori, tutti legati all’attività del S.: le macchie, le facole e la rete magnetica fotosferica, formata da contorni, corrispondenti a quelli della rete cromosferica (➔ cromosfera), dove il campo magnetico è più intenso. Le macchie, essendo più fredde della fotosfera ordinaria, irraggiano meno energia, producendo un deficit di luminosità. Le facole e la rete fotosferica hanno, invece, una luminosità accentuata. Sia l’effetto delle macchie sia quello delle facole e della rete fotosferica sono più marcati nei periodi di maggiore attività: tuttavia, il secondo fenomeno prevale sul primo, determinando l’aumento di S in corrispondenza del massimo del ciclo. D’altra parte, poiché le facole e i contorni della rete fotosferica evolvono su tempi di qualche mese, mentre le macchie hanno, solitamente, una vita di pochi giorni, le variazioni di S a breve termine sono controllate soprattutto dalle macchie: di qui la maggiore variabilità di S che si riscontra nei periodi di alta attività solare, quando le macchie sono più numerose.
Le variazioni della costante solare vengono studiate con grande interesse anche per le ripercussioni che esse possono avere sul clima della Terra: è stato suggerito, per es., che la mini-glaciazione verificatasi nel 17° sec. sia stata causata da una diminuzione della luminosità del S. in concomitanza con il minimo di attività di Maunder. Fra il minimo e il massimo di attività si hanno variazioni cospicue dell’emissione solare (anche del 100% e oltre) nella porzione XUV dello spettro, con effetti significativi sull’ambiente terrestre (per es., modifiche dell’equilibrio dell’ozono nella stratosfera).
Il S., essendo costituito da materia allo stato gassoso, non ha un confine ben determinato. Come superficie solare si assume allora una superficie tale che l’intensità della radiazione elettromagnetica che essa emette viene ridotta a una frazione 1/e (e=2,178...) del suo valore dall’assorbimento dei gas sovrastanti. Gli strati del S. che si trovano al di sopra della sua superficie prendono il nome di atmosfera solare e vengono suddivisi, come già detto, in fotosfera, cromosfera e corona.
In fig. 11 è riportato un grafico della temperatura in funzione della distanza dal centro. Si nota che la temperatura dapprima diminuisce verso l’esterno, raggiungendo un minimo di ≃4200 K al confine fra la fotosfera e la cromosfera, e poi aumenta rapidamente attraverso la cromosfera fino a raggiungere nella corona un valore di ≃2∙106 K. Poiché il calore, come è noto, fluisce soltanto da punti a temperatura maggiore a punti a temperatura minore, la cromosfera e la corona non possono essere riscaldati da un flusso di calore proveniente dalla fotosfera. Per spiegare le alte temperature di queste regioni, occorre invocare meccanismi di riscaldamento ‘non termici’, cioè processi in cui forme diverse di energia (per es., energia cinetica o energia magnetica) vengono dissipate in calore.
Le regioni del S. osservabili direttamente, e delle quali è quindi possibile determinare la composizione chimica, sono la fotosfera, la cromosfera e la corona. Il maggiore interesse è rivestito dalla composizione della fotosfera, perché, come si è detto, essa dovrebbe rispecchiare quella della nube di gas primordiale dalla quale trasse origine il Sole.
Le abbondanze fotosferiche degli elementi si ottengono dallo spettro di Fraunhofer. Alcune righe oscure, sovrapposte all’emissione continua della fotosfera, furono notate già nel 1802 da W.H. Wollaston il quale tuttavia le interpretò come ‘confini’ fra i colori fondamentali. J. Fraunhofer, nel 1814, compì le prime osservazioni sistematiche su questo spettro (che in seguito da lui prese il nome), catalogandone le righe più intense. Mezzo secolo più tardi, G.R. Kirchhoff interpretò lo spettro di Fraunhofer come il risultato dell’assorbimento di un’atmosfera relativamente fredda, sovrastante la superficie solare incandescente. Egli identificò anche le righe del sodio, del ferro e del magnesio, aprendo così la strada allo studio della composizione chimica del Sole. L’interpretazione moderna delle righe di Fraunhofer è più complessa di quella proposta a suo tempo da Kirchhoff. Infatti, i gas fotosferici non si limitano ad assorbire la radiazione proveniente dagli strati sottostanti, ma, a loro volta, la riemettono. La ragione per cui le righe di Fraunhofer appaiono oscure è che la radiazione a tali lunghezze d’onda, alle quali l’atmosfera solare è più opaca, proviene dagli strati più alti della fotosfera i quali, essendo più freddi, emettono con minore efficienza.
In linea di principio, dall’analisi di ciascuna riga dello spettro di Fraunhofer si può risalire all’abbondanza dell’elemento che l’ha prodotta: allo scopo, si confronta la sua intensità con il valore dato da una curva teorica (detta curva di crescita), che descrive come ‘cresce’ l’intensità della riga, all’aumentare del numero di atomi assorbenti. Si incontrano, tuttavia, varie difficoltà: per es., il calcolo della curva di crescita richiede la conoscenza delle condizioni fisiche della fotosfera (densità, temperatura ecc.), sulle quali esistono notevoli incertezze. Inoltre, le righe vicine spesso si sovrappongono fra loro, sicché diventa necessario analizzare non già una singola riga, ma un’intera porzione dello spettro determinando simultaneamente le abbondanze di tutti gli elementi che contribuiscono all’assorbimento della radiazione in quell’intervallo di lunghezze d’onda. La fig. 12 sintetizza in forma di grafico i risultati di questi studi. Le abbondanze (A) degli elementi, riportate in funzione del loro numero atomico, sono espresse in una scala logaritmica, che ha per base l’abbondanza dell’idrogeno, posta convenzionalmente uguale a 12 (per es.: se A=11, gli atomi dell’elemento considerato sono il 10% di quelli di idrogeno; se A=10, sono l’1%; e così via). L’elio, l’elemento più abbondante nel S. dopo l’idrogeno, non dà luogo a righe di assorbimento apprezzabili, sicché il valore riportato nel grafico (A(He)=10,9, corrispondente a ≃8% in numero di atomi e a ≃27% in massa) è quello ipotizzato dal modello solare standard. Fra le lacune che si riscontrano in figura, le più notevoli sono quelle degli altri gas nobili, anch’essi non osservabili spettroscopicamente nella fotosfera. Dall’analisi del grafico emerge che: a) in generale, le abbondanze degli elementi tendono a diminuire all’aumentare del loro numero atomico; b) il ferro, che è l’elemento più stabile, presenta un picco assai marcato rispetto agli elementi adiacenti; c) il litio, il berillio e il boro hanno abbondanze fortemente depresse. Le prime due caratteristiche dipendono dai processi di nucleosintesi, che hanno condotto alla formazione degli elementi nell’Universo (➔ elemento). La terza deriva dal fatto che litio, berillio e boro sono stati lentamente distrutti, nel corso della vita del S., in reazioni nucleari che si sviluppano alla base della regione convettiva, dove la temperatura supera 2∙106 K. Per quanto riguarda la cromosfera e la corona, le osservazioni spettroscopiche della radiazione che esse emettono hanno permesso di stimare le abbondanze di parecchi elementi: i valori ottenuti, entro le notevoli incertezze delle misure, sono in generale consistenti con quelli fotosferici. Informazioni sulla composizione chimica del plasma coronale si ottengono anche dalle osservazioni del vento solare, condotte dai satelliti artificiali nello spazio interplanetario.
Tutti gli indirizzi naturalistici negli studi di storia delle religioni, e in modo particolare quello denominato scuola di mitologia comparata di F. Max Müller, hanno cercato di dimostrare che le varie divinità importanti di una religione, sotto le loro apparenze antropomorfe e teriomorfe, altro non sono che il S. e che i loro miti non rispecchiano altro che le vicende giornaliere o annuali del Sole. Dall’innata tendenza umana alla personificazione si sarebbero sviluppati i tratti antropomorfici e i miti che, via via arricchiti dalla fantasia umana, spesso non permettono di capire a prima vista che si riferiscono all’importante fenomeno naturale. Contro la unilateralità della mitologia solare si sono fatti valere gli argomenti di altre tendenze ugualmente naturistiche (per es., della mitologia lunare: di molte divinità e miti interpretati in chiave solare si è mostrato che con altrettanta e maggiore ragione potevano riferirsi alla Luna; S. e Luna condividono, infatti, la luminosità, la forma rotonda, la periodicità dei movimenti ecc.).
Anche contro il naturismo stesso si elevano valide obiezioni: per la mentalità prescientifica e la mitologia non esistono ‘fenomeni naturali’ isolati, bensì esperienze complesse suscitate da quelli che solo per la considerazione razionale o scientifica sono tali; perciò il S. delle religioni non è semplicemente l’astro che (secondo la visione precopernicana) gira intorno alla Terra, dando luce e calore, ma è elemento parziale di varie esperienze legate alla luminosità, al calore, alla periodicità, scomparsa e ritorno, fecondità ecc. Pertanto non si risolve il problema di una divinità o di un mito, riducendo questi al loro preteso riferimento al S., bensì, al contrario, anche ove i loro tratti solari siano in primo piano, si deve cercare di comprendere quali esperienze mitico-religiose sono state proiettate sul ‘fenomeno S.’ e in base a quale aspetto di questo ‘fenomeno’. Perciò anche quando certe divinità hanno il nome S. (Shamash nella religione babilonese, Ra in Egitto, Hèlios in Grecia), dire che esse sono il S. non è ancora una loro interpretazione.
Nel caso del greco ῾′Ηλιος, del romano Sol, del vedico Sūrya è da notare che la nozione primitiva di «sole», che si ravvisa nella radice del nome, non è dissociabile da quella di «occhio», e definizioni antichissime del S. precisano che si tratta anzitutto dell’«occhio del cielo», cioè dell’organo visivo del dio supremo celeste (nei Veda, Sūrya è tra l’altro l’occhio di Mitra e di Varuia), secondo una formula ricorrente nella mitologia solare di civiltà molto diverse.