ultravioletto Termine riferito alla radiazione elettromagnetica avente frequenza maggiore di quella massima delle radiazioni visibili, pari a 7,5∙1014 Hz, corrispondente al colore violetto.
Con luce u. si indica l’irraggiamento u., per es. da parte di una lampada a raggi u. (non si tratta propriamente di luce, in quanto i raggi u. sono invisibili). Il termine u. indica anche la banda delle radiazioni u. (simbolo UV), estendentesi da circa 400 nm (7,5∙1014 Hz), estremo superiore dello spettro visibile, a circa 4 nm (7,5∙1016 Hz), convenzionalmente diviso in u. vicino (simbolo UVA), circa da 400 a 300 nm, u. lontano (simbolo UVB), da 300 a 200 nm e u. estremo (simbolo UVC), da 200 a 4 nm.
Le radiazioni u. furono scoperte intorno al 1801 da J.W. Ritter e da W.H. Wollaston, i quali osservarono che facendo cadere su una striscia di carta imbevuta di una soluzione di cloruro d’argento lo spettro della luce solare, si manifestavano fenomeni fotochimici anche nella zona non luminosa al di là della parte violetta dello spettro (di qui il nome). In effetti, i raggi u. sono fortemente attinici; inoltre, essi sono dotati di forte potere ionizzante e fotoelettrico, danno luogo a fluorescenza e fosforescenza in varie sostanze, hanno notevoli effetti biologici (per es., in caso di eccessiva esposizione, alterazioni della struttura del DNA).
Sulle proprietà fisiche e fisico-chimiche ora ricordate sono fondati i vari tipi di rivelatori. Tra questi, quelli fotografici sono costituiti da pellicole o lastre con emulsioni normali se interessa il campo sino a circa 250 nm e, oltre questo limite, cioè praticamente nell’u. estremo, con emulsioni speciali, poco dense e a grana molto fina; quelli a fluorescenza sono costituiti da schermi con adatti fosfori, per es. a base di platinocianuro di bario, che emette luce verde, o di solfuro di zinco, che emette luce bluastra; quelli fotoelettrici sono costituiti da fotocellule, generalmente fotoemissive, oppure più spesso da fotodiodi o, se occorre grandissima sensibilità, da fotomoltiplicatori; esistono anche rivelatori a ionizzazione e bolometrici, peraltro non di uso corrente.
Per quanto riguarda le sorgenti, un’importante sorgente naturale è il Sole, nonostante il forte assorbimento che la radiazione u. solare subisce nell’attraversare l’atmosfera terrestre; tra le sorgenti artificiali, quelle più usate nella pratica sono le lampade ad arco tra elettrodi di mercurio o le lampade a scarica in atmosfera di idrogeno o di deuterio, con bulbo in quarzo. Una sorgente u. di estrema importanza nelle applicazioni scientifiche è infine costituita dagli anelli di accumulazione per elettroni che producono radiazione di sincrotrone (➔). Poiché il vetro ordinario, come pure la maggior parte dei materiali plastici, è poco trasparente per i raggi u. (fig. 1), le parti di strumenti che devono essere attraversate da raggi u. sono realizzate in quarzo, che alla ottima trasparenza del campo visibile associa una buona trasparenza anche per gran parte del campo ultravioletto.
Con catastrofe u. si indica la divergenza, per lunghezza d’onda tendente a zero, della brillanza specifica σo del corpo nero prevista dalla legge di Rayleigh-Einstein-Jeans: σo(λ, T)∝T/λ4 (con λ lunghezza d’onda e T temperatura termodinamica), l’unica deducibile nell’ambito della fisica classica; tale divergenza, traducentesi in un enorme aumento dell’emissione nel campo u., ovviamente non trova riscontro nei dati sperimentali e non è presente nella legge di Planck (deducibile solo nell’ambito della fisica quantistica), di cui la legge citata costituisce un’approssimazione accettabile nel campo delle grandi lunghezze d’onda (➔ corpo).
L’astronomia nell’u., o astronomia u., è il settore dell’astronomia che utilizza osservazioni u. per lo studio di sorgenti astronomiche. L’assorbimento atmosferico scherma quasi totalmente la Terra dalla radiazione u.: la sola finestra spettrale aperta è quella tra i 300 e i 400 nm circa, contigua al violetto visibile. Solo con l’impiego di strumenti installati su piattaforme spaziali, come palloni stratosferici, razzi e satelliti, si è potuta esplorare tutta la banda ultravioletta. Particolarmente difficoltosa è stata l’evoluzione dell’osservazione in quel settore dell’u. estremo che si estende dai 10 ai 100 nm (u. da vuoto, VUV), sia per quella che sembrava una difficoltà osservativa intrinseca, sia per i problemi tecnologici da risolvere nella realizzazione di efficienti specchi o lenti. Fino ai primi anni 1980, infatti, era opinione diffusa che la radiazione VUV fosse completamente assorbita dal mezzo interstellare, in quanto dotata di sufficiente energia per eccitare o ionizzare gli atomi di idrogeno in esso presenti. La densità media stimata in quegli anni per il mezzo interstellare, pari a un atomo di idrogeno per ogni centimetro cubo, portava alla conclusione che la nostra Galassia risultava un ostacolo insuperabile per le osservazioni in quel settore dello spettro. Ma queste convinzioni si dimostrarono errate, come provano le innumerevoli osservazioni di sorgenti celesti effettuate nell’u. estremo.
I primi tentativi di osservare l’u. fuori dell’atmosfera risalgono a poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Utilizzando un razzo V2, nel 1946 R. Tousey registrò il primo spettro u. esteso del Sole. Nel 1965 D. Moron e L. Spitzer eseguirono analoghe misure su diverse stelle a bordo di un razzo Aerobee. Nel 1970, sempre con un esperimento da razzo, J.N. Carruthers osservò per la prima volta l’idrogeno molecolare nel mezzo interstellare, in percentuale simile all’idrogeno neutro. Un contributo essenziale fu dato dai satelliti statunitensi OSO (Orbiting Solar Observatory) a partire dal 1962, e OAO (Orbiting Astronomical Observatory) dal 1966; tra gli ultimi si ricordano in particolare OAO-2, nel quale erano montati ben 11 telescopi, e OAO-3, denominato anche Copernicus perché lanciato un anno prima del quinto centenario della nascita di Copernico. Fondamentale per l’astronomia u. è stato il satellite IUE (International ultraviolet explorer), nato da una collaborazione tra NASA, ESA e il Science research council inglese, posto in un’orbita geostazionaria nel 1978. Il telescopio spaziale Hubble e il Far ultraviolet spectroscopic explorer (FUSE) sono telescopi spaziali per l’osservazione astronomica nell’ultravioletto.
Le stelle con temperatura superficiale (fotosferica) compresa tra 104 e 106 K emettono gran parte della loro radiazione continua nell’u.: quindi stelle di tipo spettrale O, B, A sono le sorgenti più importanti di radiazione ultravioletta. Stelle di questi tipi spettrali sono principalmente stelle giovani, calde, di grande massa e alta luminosità, e nane bianche, calde ma piccole e molto poco luminose. La radiazione u. stellare totale emessa dalla nostra Galassia è dovuta per il 3-4% a stelle di tipo O, per il 70-80% a stelle di tipo B, per il 10-20% a stelle di tipo A; le altre stelle danno contributi di qualche punto percentuale al massimo. Le stelle fortemente emittenti nell’u. non sono distribuite in modo simmetrico nella Galassia: la radiazione u. stellare (e quindi il numero di stelle del tipo detto) è presente in quantità maggiore nell’emisfero sud della Galassia, in particolare in una zona detta fascia di Gould, piuttosto che in quello nord, e nella regione di longitudini galattiche tra 180° e 360° piuttosto che in quella tra 0° e 180°, dove risulta particolarmente carente tra 10° e 50° a causa della presenza di grandi quantità di polveri.
Le osservazioni spettroscopiche permettono di identificare righe (di assorbimento o emissione) delle specie presenti in una stella. Lo studio dell’emissione di righe u. da parte della cromosfera di stelle di tutti i tipi spettrali, da A a M, ha permesso di capire che le cromosfere stellari sono riscaldate principalmente da campi magnetici o da meccanismi di dinamo per le stelle di tipo più evoluto di F, mentre per i tipi meno evoluti il riscaldamento è determinato da onde acustiche. In fig. 2 è mostrato uno spettro u. della cromosfera del Sole. Studiando gli spettri u. emessi dalla corona del Sole e dalle stelle si può capire quali sono i meccanismi fisici che riscaldano la corona, qual è la densità degli elettroni e quale la distribuzione di temperatura; è possibile inoltre stabilire le abbondanze degli elementi presenti. Per il Sole (tipo spettrale G), questo genere di analisi è stato eseguito con grande dettaglio, allo scopo di comprendere i meccanismi di accelerazione delle particelle del vento solare, e la dinamica e la termodinamica della corona. Le osservazioni u. permettono di misurare anche l’intensità dei venti stellari: si è così trovata una correlazione tra intensità del vento stellare e stato evolutivo della stella.
Circa due terzi delle stelle sono membri di sistemi binari o di più stelle e, nel caso delle binarie strette, esiste un importante flusso di massa da una stella all’altra. Studiando le righe u. si sono scoperte in sistemi binari, tipo Algol e W Ursae Maioris, delle regioni ad alta temperatura (più alta di quella pertinente al tipo spettrale della stella in questione), residenti nel plasma dell’atmosfera della stella che perde massa, o in un disco di accrescimento sulla seconda stella. Si è inoltre osservata nei sistemi binari un’elevata perdita di massa di cui devono essere responsabili forze non gravitazionali. L’enorme quantità di radiazione u., prodotta dalle stelle più calde, è assorbita e diffusa dal mezzo interstellare (gas e polveri) che diventa esso stesso un’importante sorgente di radiazione ultravioletta. Il mezzo interstellare locale può essere studiato vedendo come il gas assorbe la radiazione u. proveniente da nane bianche relativamente vicine a noi.
Le osservazioni u. hanno consentito di studiare le proprietà di assorbimento dei grani di polvere interstellare. Questi grani di materiale solido, con dimensioni dell’ordine di 0,1 μm, sono diffusi nella Galassia e si trovano in grandi nubi che oscurano la luce delle stelle retrostanti. L’assorbimento di luce da parte dei grani aumenta al diminuire della lunghezza d’onda, causando un arrossamento del colore della luce della stella nel visibile, e diventa particolarmente intenso nell’ultravioletto. L’analisi di un grande numero di stelle che si trovano dietro a nubi di polvere interstellare ha permesso di ricavare una curva di estinzione (➔) interstellare normalizzata. A causa dell’alta estinzione, la polvere interstellare diffonde efficientemente la radiazione u. emessa dalle stelle, producendo un fondo di radiazione u. diffusa. In pratica, all’aumentare della quantità di polvere presente nella direzione osservata si ha un proporzionale aumento della intensità del fondo u. diffuso. Se, utilizzando questa legge di proporzionalità, si estrapola quale sarebbe il fondo u. in assenza di polvere, si trova un residuo non nullo, che ha la caratteristica di essere isotropo: questo è probabilmente originato per la maggior parte al di fuori della nostra Galassia, e viene definito fondo cosmico ultravioletto. L’ipotesi dell’esistenza di un fondo cosmico u. è sostenuta sia da osservazioni che da modelli teorici. Le osservazioni u. hanno permesso di studiare la componente più calda dell’emissione delle galassie, e in particolare lo spettro di emissione continuo non termico dei nuclei galattici attivi (AGN). Molti AGN si trovano a distanze cosmologicamente rilevanti, e quindi hanno una notevole velocità di allontanamento dovuta al flusso di Hubble (➔ cosmologia). Per effetto Doppler tutte le righe da essi emesse sono considerevolmente spostate verso grandi lunghezze d’onda. Solo grazie alle osservazioni u. è stato possibile confrontare AGN vicini e lontani, confrontando le stesse righe (e anche il continuo) che appaiono nell’u. per gli oggetti vicini e nel visibile per quelli più lontani. È stato quindi possibile studiare l’evoluzione degli AGN e le proprietà del mezzo intergalattico.
Gli effetti biologici delle radiazioni u. sono determinati dai cambiamenti molecolari che si verificano nelle cellule e nei tessuti che hanno assorbito le radiazioni (➔). È stato documentato anche un effetto di fotocarcinogenesi degli UV sia in animali sia nell’uomo. Un’esposizione cronica a UVB può infatti produrre l’insorgenza di tumori della pelle. La capacità dei raggi UV di provocare la morte dei batteri viene utilizzata nella sterilizzazione di oggetti e ambienti mediante esposizione prolungata ai raggi stessi.
In medicina gli u. vengono usati per la fotochemioterapia, consistente in una combinazione di farmaci fotosensibilizzanti e in irraggiamenti UVA. La psoriasi, per es., può essere curata con psoraleni e UVA, mentre alcuni tumori possono essere trattati con porfirine, che si legano preferibilmente alle cellule neoplastiche, e quindi irraggiati per provocare la distruzione selettiva di queste cellule.