In ematologia, parte liquida del sangue (circa il 55% della massa totale, nella quale è compresa anche la parte corpuscolata: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine), di color giallo chiaro, costituita da una soluzione acquosa di proteine, glucosio, lipidi, sali minerali, enzimi, ormoni, immunoglobuline, e quantità mini;me di altre sostanze organiche e inorganiche.
In embriologia, p. formativo, il citoplasma dell’uovo destinato a costituire l’embrione; p. nutritivo (o deutoplasma o tuorlo), l’insieme delle sostanze nutritive dell’uovo che sono consumate e utilizzate dall’embrione durante le varie fasi dello sviluppo.
Termine introdotto nel 1929 da I. Langmuir per indicare, nella scarica elettrica in un gas, la regione (la cosiddetta colonna positiva) caratterizzata da densità ioniche (positiva e negativa) elevate e sensibilmente uguali e poi generalizzato per indicare gas fortemente ionizzato e, nel complesso, elettricamente neutro: in concreto, un sistema costituito da ioni positivi e negativi, liberi, con uguali concentrazioni, più eventualmente molecole neutre in non elevata concentrazione. Per estensione si usa il termine p. anche per designare sistemi di particelle dotate di carica (anche non elettrica), ma la cui carica totale sia nulla, come il p. di quark e gluoni, che si realizza quando la materia è troppo calda o troppo densa perché i quark siano confinati in adroni (➔ particelle elementari).
Nella maggior parte dei casi e in particolare nei p. impiegati nella ricerca sulla fusione termonucleare, si considerano sistemi costituiti da ioni positivi, elettroni liberi e atomi o molecole neutre. In effetti, poiché condizione essenziale perché si possa parlare di p. è la quasi-neutralità elettrica locale, un sistema globalmente neutro di ioni liberi dei due segni costituisce un p. soltanto se le sue dimensioni sono sensibilmente maggiori della lunghezza di Debye o distanza schermante, λD, che misura la distanza nel p. oltre la quale la carica di uno ione risulta sostanzialmente schermata da parte delle cariche degli ioni circostanti. Si ha:
essendo ε0 la costante dielettrica assoluta del vuoto, k la costante di Boltzmann, n1 la densità elettronica, e la carica dell’elettrone, T la temperatura termodinamica degli elettroni (tutte le unità si intendono del Sistema Internazionale). Tale temperatura (e la stessa osservazione vale per le temperature ioniche di cui si parla più avanti) è la temperatura cinetica, cioè quella deducibile dall’energia E degli elettroni secondo la relazione E=3kT/2. Nello stato di p., l’elevata mobilità delle cariche assicura da un lato la neutralità elettrica in volumi di dimensioni minori di quelle del p., dall’altro permette il verificarsi di una grande varietà di fenomeni collettivi che coinvolgono un gran numero di particelle del sistema; il comportamento di un p. differisce quindi in maniera sostanziale da quello di un qualsiasi altro sistema: mentre, per es., in un gas le forze tra particelle sono molto intense ma a corto raggio d’azione, e quindi le interazioni coinvolgono generalmente due sole particelle, nel p. dominano le forze coulombiane a grande raggio d’azione e ogni particella viene a interagire con moltissime altre. La condizione L>>λD, con L minima dimensione lineare del p., non è difficile da soddisfare: la distanza schermante ha infatti valori relativamente piccoli in quasi tutti i casi pratici. Ciò significa che p. possono essere ottenuti in non critiche condizioni sperimentali: è un p., per es., il gas luminescente dei tubi al neon e delle lampade ad arco.
Oltre a questi p. artificiali, vi sono numerosissimi casi di p. naturali: è un p. la colonna di scarica di un fulmine, la ionosfera terrestre, la materia stellare e quella interstellare diffusa nell’Universo. In fig. 1 sono riportate le principali caratteristiche (temperatura e densità) di alcuni plasmi. Lo stato di p. è enormemente diffuso in natura (si calcola che all’incirca il 99% della materia nell’Universo sia in tale stato, il quarto stato di aggregazione della materia). Questa circostanza giustificherebbe da sola l’importanza della fisica dei p., anche in relazione a varie questioni d’interesse astrofisico e geofisico; ma questo settore della fisica è importante anche in vista di notevoli applicazioni pratiche.
I p. possono essere classificati in p. densi e p. rarefatti in base al valore della loro densità, in p. caldi e p. freddi a seconda della loro temperatura, in p. classici (quando l’energia cinetica media delle particelle è molto maggiore di quella della loro mutua interazione elettrostatica) e in p. quantistici (nel caso opposto). Si parla infine di p. relativistici quando le velocità degli elettroni che costituiscono il p. sono confrontabili con la velocità della luce.
Oscillazioni elettroniche si instaurano spontaneamente in un p. in conseguenza di perturbazioni locali della neutralità elettrica dovute all’agitazione termica o ad altre cause. Si immagini, per semplicità, un p. costituito da elettroni e ioni positivi tutti della stessa specie; poiché questi ultimi sono molto meno mobili dei primi, il p. può essere schematizzato, con buona approssimazione, come un gas elettronico uniformemente diffuso in una distribuzione uniforme di ioni positivi fissi o quasi fissi. Se per una causa qualunque la densità elettronica cessa di essere uniforme e se le variazioni locali di essa rispetto al valore medio sono piccole, lo stato dei singoli elettroni può essere descritto come quello di corpuscoli liberi soggetti a una forza d’attrazione elastica, derivante da azioni elettriche; gli elettroni prendono a oscillare armonicamente con una frequenza, detta frequenza elettronica di p., o semplicemente frequenza di p., pari a:
essendo m1 la massa elettronica.
I p. emettono radiazione elettromagnetica in diverse regioni dello spettro. In primo luogo va considerato l’irraggiamento derivante dall’eccitazione di ioni nelle collisioni, che interessa il campo dell’infrarosso vicino all’ultravioletto, con spettro essenzialmente a righe, sfruttato nelle applicazioni ordinarie (lampade a luminescenza, tubi fluorescenti ecc.). In secondo luogo va considerata l’emissione di radiazione di frenamento (o Bremstrahlung) da parte di elettroni frenati nelle collisioni con ioni o con altri elettroni: tale radiazione ha un’intensità proporzionale alla radice quadrata della temperatura elettronica ed è importante per p. molto ‘caldi’ (con temperatura elettronica superiore a 106 K); essa ha uno spettro, continuo, interessante principalmente il campo dei raggi X. In terzo luogo va considerato un particolare irraggiamento. In tal caso, a causa della forza di Lorentz esplicata dal campo magnetico, le particelle cariche del p. tendono ad assumere un caratteristico moto elicoidale intorno alle linee d’induzione magnetica; tale moto ha come componente in un piano ortogonale alle linee d’induzione un moto circolare uniforme (moto di ciclotrone) con frequenza (frequenza di ciclotrone o girofrequenza)
essendo B l’induzione magnetica, q la carica e m la massa della singola particella. In conseguenza di tale moto, perturbato dalle collisioni, si ha un irraggiamento elettromagnetico (radiazione di ciclotrone o di sincrotrone), con un ampio spettro caratterizzato da massimi d’intensità in corrispondenza della frequenza di ciclotrone e delle sue successive armoniche. Una situazione particolarmente notevole è quella che si ha quando il p. ha dimensioni tali che le radiazioni emesse per i vari processi accennati sono assorbite e diffuse ampiamente in seno al p. medesimo: in questo si instaura un equilibrio radiativo, di modo che la radiazione globale emessa dal p. non è la somma di quella emessa dalle singole particelle, ma, nella regione spettrale in cui il p. è opaco, una radiazione di corpo nero, di entità proporzionale alla superficie esterna del p. e dipendente dalla temperatura del p., ma non dalla sua densità. Nel caso il p. sia opaco sull’intero spettro, l’irraggiamento è quindi proporzionale alla quarta potenza della temperatura.
Lo studio del comportamento dei p. sotto l’azione di perturbazioni mostra che i moti ondosi, transitori o permanenti, che possono instaurarsi in un p. sono in genere una combinazione, più o meno complessa, di oscillazioni elastiche e di onde elettromagnetiche, quali si ottengono risolvendo, con le appropriate condizioni al contorno, il sistema di equazioni differenziali che descrivono lo stato fisico del p. medesimo. Occorre tener presente che quest’ultimo è costituito da un insieme di particelle di tipo diverso (elettroni, ioni dei due segni, molecole neutre), al quale vanno applicate insieme le leggi della meccanica e le leggi generali dell’elettromagnetismo, tenendo conto per queste ultime che il campo elettrico e quello magnetico sono in generale risultanti da cariche e correnti esterne e da cariche e correnti interne al plasma. Quando il cammino libero medio di collisione delle particelle che costituiscono il p. è minore delle scale delle distanze coinvolte, è possibile ricorrere a una descrizione magnetofluidodinamica, usualmente detta approssimazione magnetoidrodinamica o MHD, che consiste nel sistema delle equazioni del moto, di continuità e di conservazione dell’energia (in approssimazione adiabatica, lecita quando le modificazioni nel p. sono sufficientemente rapide) per un fluido conduttore e immerso in un campo magnetico, cui si aggiungono una generalizzazione della legge di Ohm e le equazioni di Maxwell che legano campi elettrico e magnetico alle cariche e alle correnti. Se i problemi da trattare non permettono una descrizione fluidodinamica, in quanto le scale delle distanze coinvolte sono minori del cammino libero medio di collisione tra le particelle che costituiscono il p., si deve ricorrere ai metodi della meccanica statistica e in particolare all’equazione di Vlasov, che è simile all’equazione di Boltzmann senza termine collisionale.
Comunque, anche l’integrazione del sistema delle equazioni della magnetofluidodinamica non è in generale agevole. Ci si limita qui a considerare tre situazioni tipiche, relativamente al valore della frequenza f della perturbazione impressa al p. in rapporto al valore di certe frequenze caratteristiche del p. medesimo: precisamente, la frequenza ν delle collisioni elettroniche, la frequenza di ciclotrone ionica fci, la frequenza di ciclotrone elettronica fce, la frequenza di p. fp. Il primo caso è quello in cui la frequenza f della perturbazione sia minore della frequenza ν delle collisioni; il p. si comporta allora, dal punto di vista elastico, come un gas ordinario, in cui possono propagarsi onde elastiche longitudinali, e, dal punto di vista elettromagnetico, come un mezzo in cui possono instaurarsi e propagarsi le oscillazioni di p. precedentemente descritte, che hanno anch’esse carattere longitudinale (E è diretto nel verso di propagazione della perturbazione). Senza entrare in ulteriori dettagli, ricorderemo che la velocità di fase di queste onde, da taluni chiamate onde elettrostatiche, è direttamente proporzionale alla radice quadrata della temperatura cinetica degli elettroni, T1, e degli ioni, T2, e dipende dal rapporto tra la distanza schermante, λD, e la lunghezza, λ, delle onde in questione; se in particolare, come generalmente accade, è T2<<T1 e λD<<λ, lo stato del p. è analogo a quello di un gas ordinario percorso da onde di pressione. Il secondo caso è quello in cui la frequenza della perturbazione è maggiore della frequenza ν delle collisioni e minore della massima frequenza di ciclotrone ionica. In tal caso possono instaurarsi nel p. onde magnetoidrodinamiche smorzate, nei riguardi delle quali il p. presenta una forte dispersività, particolarmente in corrispondenza della frequenza (o delle frequenze) di ciclotrone. Il terzo caso, che è il più complesso, si ha quando il p. interagisce con onde elettromagnetiche la cui frequenza sia maggiore della massima frequenza di ciclotrone ionica, e molto maggiore della frequenza ν delle collisioni. Converrà distinguere ulteriormente il caso in cui non vi siano campi magnetici esterni da quello in cui invece essi siano presenti. In assenza di campi magnetici esterni, se la frequenza f dell’onda è minore della frequenza di p., fp, il p. si comporta nei riguardi dell’onda come un mezzo riflettente, in cui l’onda medesima praticamente non penetra. La propagazione è invece possibile, naturalmente con un certo assorbimento, se f è maggiore di fp. Va ricordato infatti che un p., come del resto un generico mezzo conduttore, è caratterizzato da una costante dielettrica complessa, la cui parte reale dà conto della rifrattività e la cui parte immaginaria dà conto dell’assorbimento. Se, come supposto, è f>>ν, si trovano per l’indice di rifrazione n e per il coefficiente d’assorbimento k le espressioni:
dove c è la velocità delle onde elettromagnetiche nel vuoto. Quando f<fp a n compete un valore immaginario, fisicamente corrispondente all’impossibilità della propagazione dell’onda nel p.; per f>fp, il p. si comporta come un mezzo non solo assorbente, ma anche fortemente dispersivo: al crescere di f la velocità di fase v=c/n passa da valori immaginari (f<fp), fisicamente senza significato, a un valore infinitamente grande (f=fp) e poi (f>fp) a valori maggiori di c, per poi tendere a quest’ultimo valore al crescere indefinito di f; corrispondentemente, l’indice di rifrazione n passa da valori immaginari (f<fp), attraverso il valore zero (f=fp), a valori crescenti (f>fp) e tendenti all’unità. Per quanto riguarda la velocità di gruppo V=c[n+f(dn/df)]–1, essa passa dal valore zero per f=fp al valore c per f>>fp. A parte la singolarità di comportamento esibita in corrispondenza alla frequenza fp, al di sopra di quest’ultima il p. presenta una dispersività rapidamente decrescente; le onde la cui frequenza è abbastanza maggiore di fp si propagano nel p. come nel vuoto. Fenomeni di propagazione del genere, complicati però dal campo magnetico terrestre, si verificano per le radioonde che incidono sulla ionosfera (fp è allora chiamata frequenza critica ionosferica).
La semplice teoria qui descritta si applica all’interazione, notevole per molte applicazioni, fra un p. e la radiazione quasi monocromatica, emessa da un laser nella regione visibile, nel vicino infrarosso o nel vicino ultravioletto. Assai complesso è il caso in cui sia presente un campo magnetico esterno (come avviene, per es. nella magnetosfera terrestre e nelle macchine per lo studio della fusione a confinamento magnetico). Ai precedenti fenomeni di dispersione e d’assorbimento si aggiunge infatti un fenomeno di birifrazione, dovuto all’anisotropia indotta dal campo magnetico nei moti elettronici, che acquistano un componente di ciclotrone. Svolgendo la teoria della propagazione in queste condizioni (teoria magnetoionica), si ottengono due valori diversi sia per n sia per k: ciò corrisponde fisicamente al fatto che l’onda, propagandosi nel p., si divide in due onde (componenti magnetoioniche) che si propagano con diversa velocità e sono diversamente assorbite. Per ciascuna di queste componenti si possono ripetere le considerazioni fatte nel caso precedente, in cui mancava il campo magnetico: la propagazione è possibile soltanto per onde la cui frequenza supera un certo valore critico, al di sopra del quale si hanno valori reali per n. Il valore critico, fo, per la cosiddetta onda ordinaria, è la frequenza di p., fp, il che significa che questa componente viene rifratta come se il campo magnetico non fosse presente; quanto alla cosiddetta onda straordinaria, il valore critico, fs, è il minore dei due che si ottengono dall’equazione
vale a dire, con buona approssimazione, il valore fp−(fc/2). È notevole il fatto che, a differenza di quanto accade in assenza di campo magnetico, nel p. possono propagarsi anche onde di frequenza alquanto minore della frequenza di plasma.
Con tale espressione si intende l’insieme delle tecniche sperimentali con cui possono essere rilevate le caratteristiche di un p., e principalmente la densità elettronica n1 e la temperatura elettronica T1. Ci limitiamo qui a cenni alle tecniche impiegate nello studio di p. con densità relativamente bassa e temperatura elevata, come quelli confinati magneticamente, riportate in tab. 1. Una tecnica, applicabile però soltanto a p. in condizioni stazionarie, è quella delle onde di potenziale, consistente nell’inserire opportunamente nel p. elettrodi portati a conveniente potenziale; utilizzando formule dovute a I. Langmuir, è possibile risalire a n1 e T1 dal valore dell’intensità della corrente di particelle raccolte dagli elettrodi in funzione del potenziale degli elettrodi medesimi.
Un’altra tecnica elettrica, applicabile a p. in condizioni non stazionarie, consiste nel misurare la tensione indotta in opportuni circuiti dalle correnti variabili presenti nel plasma. Assai più importanti sono le tecniche elettromagnetiche applicabili a p. in condizioni non stazionarie e basate sul rilievo del comportamento di un p. irradiato con onde elettromagnetiche, in presenza o no di un campo magnetico statico: come si è visto, misurazioni dell’indice di rifrazione e del coefficiente d’assorbimento, in un intervallo sufficientemente ampio di frequenze, danno modo di risalire alle frequenze caratteristiche (di collisione, di p., di ciclotrone) e da queste alle densità elettroniche e ioniche ecc. La realizzazione con tecniche laser di onde elettromagnetiche impulsive di brevissima durata consente di seguire l’evoluzione temporale delle caratteristiche di un p. anche nel caso in cui questa evoluzione sia rapidissima. Informazioni possono anche essere ricavate rivelando l’irraggiamento elettromagnetico spontaneo del plasma. Nel caso di p. ad altissima temperatura, in cui hanno luogo reazioni nucleari, informazioni dirette su questo tipo di reazioni sono fornite dall’impiego di rivelatori di neutroni e di radiazione gamma.
P. possono essere prodotti irraggiando materia allo stato solido o gassoso con impulsi di radiazione laser con intensità superiore a 1010 W/cm2. A seconda dello stato del materiale e delle intensità e lunghezza d’onda della radiazione, si osservano diversi regimi di interazione. Limitando la trattazione all’interazione con materia inizialmente solida, si possono, con qualche semplificazione, considerare tre regimi principali (fig. 2). Se l’intensità della radiazione è relativamente bassa, non appena si forma un primo strato di p. la radiazione trasferisce energia alla materia in modo ‘collisionale’: il campo elettrico del laser accelera elettroni del p., che perdono energia (distribuendola a ioni e altri elettroni) tramite collisioni. Scaldandosi, il p. si espande e diventa più trasparente alla radiazione, che penetra fino alla densità di cut-off, generando altro p. (e quindi ablando il solido). In questo regime la radiazione è assorbita con grande efficienza e nel p. (in particolare sul fronte di ablazione, cioè all’interfaccia fra p. e solido) si generano pressioni elevatissime: irraggiando un solido con radiazione visibile di intensità pari a 1014-1015 W/cm2 si producono pressioni dell’ordine di 10-100 Mbar (100-1000 GPa), di gran lunga superiori a quelle conseguibili in laboratorio con altri mezzi. Se l’intensità della radiazione supera una certa soglia (che dipende dalla lunghezza d’onda della radiazione stessa; fig. 2) l’assorbimento diviene meno efficace. Le collisioni non sono sufficienti a termalizzare il p. e la radiazione che giunge in prossimità della densità di cut-off può dare origine a complessi processi (detti parametrici) di interazione fra onde elettromagnetiche e onde di plasma. Se l’intensità della radiazione è così alta che il rapporto aL=(posc/mc), dove posc è la quantità di moto degli elettroni che oscillano nel campo elettrico del laser, m la massa a riposo dell’elettrone e c la velocità della luce, diviene superiore all’unità, allora si genera una popolazione di elettroni relativistici. Per radiazione di lunghezza d’onda di 1 mm, aL>1 per intensità laser superiori a circa 1018 W/cm2, conseguibili con laser a impulsi corti amplificati con la tecnica CPA, che consente di raggiungere anche 1022 W/cm2 (➔ laser). P. prodotti da laser sono studiati (sin dall’invenzione del laser) nell’ambito delle ricerche sulla fusione inerziale e sui laser a raggi X. P. relativistici (prodotti a partire dal 1995) sono di interesse fondamentale e di possibile applicazione all’accelerazione di particelle e a sorgenti di radiazione.
Lo studio della fisica del p. riveste un particolare interesse applicativo in considerazione della possibilità di utilizzare un p. contenente deuterio e trizio per produrre energia mediante processi di fusione nucleare. A tal fine particolare attenzione è stata rivolta, a partire dall’immediato secondo dopoguerra, allo studio dei p. a elevatissima temperatura (fino a valori superiori ai 200 milioni di kelvin). Un p. di questa temperatura non può ovviamente essere contenuto in un recipiente ordinario e deve essere confinato in un determinato volume mediante l’interazione delle cariche elettriche in moto che lo costituiscono con opportuni campi elettromagnetici. Per la realizzazione della fusione termonucleare controllata a scopo applicativo, oltre alle elevatissime temperature, devono anche essere raggiunte densità ioniche (e quindi elettroniche) relativamente alte. Queste condizioni debbono essere mantenute per un intervallo di tempo sufficientemente lungo, affinché la potenza prodotta dalle reazioni termonucleari superi la potenza impiegata per il riscaldamento del p. e quella perduta in vario modo (➔ fusione, ➔ reattore). Queste due esigenze, e cioè l’ottenimento di alte temperature e il contenimento o confinamento (dall’inglese confinement) in un dato volume per un certo intervallo di tempo, sono interdipendenti e spesso contrastanti. Nella ricerca sulla fusione si seguono due approcci principali, confinamento magnetico e confinamento inerziale.
Nel confinamento magnetico si impiega un campo magnetico esterno per limitare il moto delle particelle cariche che costituiscono il p. e quindi confinare il p. stesso. Il campo magnetico di contenimento deve essere sufficientemente intenso perché il raggio delle traiettorie elicoidali di ciclotrone sia molto minore della minima dimensione lineare del recipiente (a sua volta molto maggiore della distanza schermante) nel quale viene prodotto e riscaldato il p., e avere configurazione tale, in rapporto a quella del recipiente, da tenere gli ioni e gli elettroni addensati al centro del recipiente medesimo, ben lontani dalle pareti. Si dimostra che un campo di induzione magnetica B, cui corrisponde una pressione pB=B2/2μ0, può confinare un p. con pressione cinetica p≤βmaxpB, dove il parametro βmax varia (a seconda della configurazione magnetica) fra qualche per cento e l’unità. Tipicamente, si confinano p. con densità dell’ordine di 1014-1015 ioni/cm3, utilizzando campi di induzione magnetica di 5-10 tesla. Si hanno due disposizioni tipiche. Nella prima (fig. 3A), il recipiente, a, è toroidale e parimenti toroidale è la configurazione delle linee b del campo magnetico, generato da elettromagneti opportunamente disposti (schematizzati in fig. mediante bobine circolari c percorse dalla corrente i e disposte con passo costante lungo la periferia del recipiente toroidale); in virtù delle forze esplicate dal campo sugli elettroni e sugli ioni, questi vengono addensati nella zona parassiale del recipiente. Nella seconda disposizione (fig. 3B) il recipiente, a, è cilindrico e il campo magnetico, assiale, ha intensità crescente verso le estremità: gli elettroni e gli ioni, che, come nella precedente disposizione, percorrono traiettorie elicoidali intorno alle linee d’induzione magnetica, subiscono verso le estremità del recipiente, dove il campo magnetico è più intenso, una sorta di riflessione (come se ivi esistesse uno specchio magnetico), in modo da risultare confinati entro un contenitore ideale (bottiglia magnetica). Questo schema non consente però di confinare le particelle la cui velocità formi un piccolo angolo con l’asse della bottiglia; le soluzioni proposte per ovviare a tale inconveniente si sono dimostrate inefficaci. Per tale motivo gli studi volti a dimostrare la fattibilità della fusione controllata riguardano (a partire dagli anni 1980) esclusivamente configurazioni chiuse. In effetti, affinché un p. toroidale possa essere confinato in equilibrio stabile, le linee del campo magnetico non possono essere puramente toroidali (come per semplicità illustrato dalla fig. 3A) o puramente poloidali, ma debbono avvolgersi attorno al toro. Una tale configurazione può essere ottenuta in vario modo. Nelle macchine tokamak il campo toroidale è generato da bobine esterne, mentre il campo poloidale è generato dalla corrente che scorre nel p. (fig. 4). Tale corrente è indotta (per la legge di Faraday) dalla variazione del flusso del campo magnetico generato da un’intensa corrente variabile che scorre in un avvolgimento posto nell’anello centrale del toro; in pratica, il p. funge da secondario di un trasformatore il cui primario è il suddetto avvolgimento. Nello stellarator (➔), altra configurazione impiegata nelle ricerche sulla fusione controllata, anche la componente poloidale del campo è generata da avvolgimenti esterni. Di conseguenza esso non ha simmetria assiale ed è di costruzione molto più complessa di un tokamak. D’altra parte può operare in condizioni stazionarie, mentre il funzionamento (induttivo) sopradescritto di un tokamak è intrinsecamente impulsato, per generare nel p. la corrente. Nei tokamak, il p. viene inizialmente riscaldato (per effetto Joule) dalla corrente stessa. Questa forma di riscaldamento non consente però di raggiungere le necessarie temperature di 100 milioni di gradi, in quanto la resistività del p. decresce al crescere della temperatura. Si deve quindi ricorrere ad altre forme di iniezione di potenza, basate su iniezione di atomi neutri veloci o di microonde. Si deve notare che con quest’ultime tecniche di riscaldamento è possibile anche sostenere nel p. una corrente non induttiva, ed è quindi possibile concepire il funzionamento di un tokamak in regime stazionario. Sebbene, a causa di turbolenze e microinstabilità, il confinamento dell’energia del p. sia molto inferiore a quello previsto in base alla teoria diffusiva classica, in esperimenti eseguiti fra il 1985 e il 2000 sono stati ottenuti p. con parametri non lontani da quelli previsti per un reattore; è stato quindi progettato un reattore sperimentale, ITER, il cui obiettivo è la produzione netta di energia e quindi la dimostrazione della cosiddetta fattibili;tà scientifica della fusione controllata.
In questo secondo approccio al confinamento, anziché contenere in condizioni quasi stazionarie un p. con densità relativamente bassa, si mira a comprimere il p. a densità altissime e a realizzare microesplosioni di piccole quantità (milligrammi) di combustibile. La tecnica impiega potenti impulsi laser che irraggiano un bersaglio a forma di guscio sferico, contenente uno strato criogenico di combustibile (fig. 5). A seguito dell’assorbimento della radiazione, gli strati esterni del bersaglio passano rapidamente allo stato di p. (con temperatura superiore ai 107 K) e si espandono ad alta velocità. Per reazione, la porzione di guscio rimanente è accelerata verso l’interno (e pertanto implode) raggiungendo velocità dell’ordine di 200-400 km/s. Al termine dell’implosione, il combustibile viene compresso a elevatissima densità mentre una zona centrale, relativamente piccola, raggiunge una temperatura di circa 108 K. In questo hot spot si avvia la combustione termonucleare (in gergo: il p. ‘ignisce’) che poi si propaga all’intero combustibile procedendo efficacemente finché la densità del combustibile stesso si mantiene elevata. Poiché le pressioni in gioco sono così alte da non poter essere contenute da alcun recipiente o campo, il confinamento del combustibile, e quindi la sua capacità di reagire, è dovuto solo alla sua inerzia, da cui il nome dello schema. Il confinamento è quindi mantenuto per un tempo all’incirca pari a quello impiegato da un’onda sonora per transitare attraverso il combustibile. Una combustione efficace, ma con rilascio energetico contenibile in un reattore, si può ottenere impiegando bersagli contenenti al più 10 mg di combustibile che deve essere compresso a una densità media superiore a 200 g/cm3 (pari a 1000 volte la densità di una miscela di deuterio e trizio liquidi), superiore a quella della materia al centro del Sole. Il tempo di confinamento della materia compressa è dell’ordine dei 100 ps. Il processo sopra descritto richiede che gli impulsi laser, oltre a essere particolarmente intensi e con andamento temporale estremamente preciso, irraggino i bersagli in modo quasi perfettamente uniforme, anche perché ogni piccola disuniformità può venire amplificata da instabilità fluidodinamiche, che impediscono la compressione del bersaglio.
In alternativa allo schema laser, cosiddetto diretto, sopra descritto, si può impiegare uno schema (detto indiretto) in cui i fasci laser irraggiano una cavità, generando un p. che emette raggi X, i quali a loro volta causano l’implosione del guscio contenente il combustibile. Per quel che riguarda gli aspetti di fisica dei p., si osserva che nel confinamento inerziale si devono considerare regimi di p. con caratteristiche peculiari e ben distinte: a) p. riscaldato direttamente dal laser, con densità inferiore al mg/cm3 e l’elevata temperatura in precedenza menzionata; b) p. del guscio che implode, con densità di alcuni g/cm3 e temperature di 104-105 K; c) p. fortemente compresso, ma ancora non in regime termonucleare; d) p. termonucleare.
Quasi tutti i corpi celesti, stelle, pulsar, quasar, come pure la materia rarefatta che li separa, vale a dire il gas interstellare e il gas intergalattico, possono essere classificati come p. di vario tipo, con l’unica eccezione dei pianeti che si sono solidificati raffreddandosi. Secondo le moderne vedute cosmologiche, si ritiene inoltre che nell’Universo, in tempi remoti, non vi fosse altro che un p. caldo e uniformemente distribuito. Ben si comprende pertanto l’importanza che la fisica dei p. riveste in vari campi dell’astronomia e dell’astrofisica. Nella tab. 2 sono riportate le caratteristiche fisiche di alcuni p. astrofisici.
Si ritiene che i p. di quark e gluoni si siano realizzati nella fase di evoluzione dell’Universo immediatamente successiva al big-bang. In tali p. i quark e i gluoni sarebbero in grado di muoversi quasi liberamente su distanze grandi rispetto a quelle tipiche del protone (➔ nucleo). A partire dall’ultimo decennio del 20° sec. si è tentato di creare il p. di quark e gluoni artificialmente, per tempi brevissimi, facendo collidere tra di loro ioni pesanti con altissima energia nel centro di massa. Per es., in collisioni fra nuclei di piombo 208, i 416 nucleoni coinvolti sono compressi e riscaldati in modo da dar luogo a una bolla di p. che vive per tempi dello stesso ordine dei tempi tipici delle interazioni forti (ca. 10−22 s). Dopo una rapida espansione, la bolla di p. si raffredda e si ritorna alla fase confinata dei quark e gluoni, che è quella che normalmente conosciamo, con l’emissione di un gran numero di particelle come prodotti di reazione.
Oltre alle applicazioni relative alla fusione controllata, i p. hanno un gran numero di impieghi sia scientifici, sia tecnici. Esse differiscono notevolmente per la natura dei p. impiegati, per le dimensioni, le durate ecc. Hanno in comune lo sfruttamento dell’elevatissima energia specifica del p. o della capacità dei p. di sostenere, senza danneggiamento, campi elettrici e/o magnetici elevatissimi. Applicazioni ampiamente diffuse riguardano l’emissione di radiazione da parte di un p.: le tradizionali lampade a scarica (tubi al neon) e gli ormai diffusissimi schermi a p. (costituiti da una matrice di microplasmi opportunamente controllati). I p. sono impiegati anche come sorgenti di radiazione X. A differenza di materiali solidi o gassosi, i p. possono sostenere campi elettrici elevatissimi (anche centinaia di miliardi di V/cm), che possono essere impiegati per accelerare particelle. A tal fine sono allo studio, con risultati preliminari promettenti, stadi di acceleratori costituiti da p. prodotti da impulsi laser molto intensi. P. vengono usati per il trattamento superficiale di materiali: degne di nota sono le tecniche di deposizione di vapori chimici assistita da laser (p. assisted chemical vapor deposition, PCVD) e le incisioni a p. (p. etching).
I forni (o torce) a p. sono dispositivi in cui viene prodotto, in atmosfera controllata, un p. la cui altissima temperatura è sfruttata per effettuare lavorazioni per fusione con materiali fortemente refrattari. Constano in genere di un tubo di materiale refrattario circondato da un solenoide percorso da una corrente ad alta frequenza, in cui viene prodotto, mediante una scarica elettrica innescante, il p.: questo fuoriesce dal tubo con velocità dell’ordine di 100 m/s e temperatura dell’ordine di 10.000 °C e investe il materiale in lavorazione. Operando in atmosfera inerte (argo o elio) è possibile effettuare la lavorazione di ossidi refrattari (allumina, zirconi ecc.); operando in atmosfera riducente (idrogeno o miscela idrogeno-argo) si ottengono la fusione e la saldatura di metalli non facilmente fusibili (molibdeno, tantalio, vanadio ecc.), la sintesi di composti refrattari, la deposizione di refrattari su metalli (per es., per parti di reattori e di missili) ecc. Torce a p. vengono anche usate per la distruzione di prodotti chimici altamente inquinanti, che richiedono temperature particolarmente elevate.
Esistono inoltre generatori a p., detti anche generatori magnetoidrodinamici (➔ magnetofluidodinamica).