In fisica, in chimica e in ingegneria, si dice di quanto è relativo al nucleo atomico.
La fisica n. è la branca della fisica che, studiando le proprietà dei nuclei atomici, permette da un lato di indagare la struttura della materia, e dall’altro di realizzare numerose applicazioni di tale conoscenza, quali la produzione di nuclidi radioattivi (radionuclidi o radioisotopi) e di energia.
La chimica n. è la parte della chimica relativa alle trasformazioni che riguardano i nuclei atomici e portano per conseguenza a un mutamento degli elementi che vi partecipano.
L’ingegneria n. è la branca dell’ingegneria che si occupa della progettazione, costruzione, conduzione di impianti n., cioè di complessi di apparecchiature destinati a ricerche sperimentali relative al nucleo atomico o alla produzione su scala industriale di energia n. (➔ centrale); questa propriamente è definibile come l’energia di legame delle particelle che costituiscono il nucleo degli atomi una cui parte si libera, se questi ultimi partecipano a una reazione n. di fissione, sotto forma di energia cinetica dei frammenti di fissione e di particelle instabili e di energia raggiante nel decadimento di queste; complessivamente è pari alla trasformazione in energia, secondo l’equazione di Einstein, del difetto di massa dei frammenti di fissione rispetto al nucleo originario.
Combustibile n. è qualsiasi materiale che contenga nuclei fissionabili in proporzioni sufficienti a sostenere una reazione n. a catena stabile o dal quale sia comunque possibile liberare energia n.; le tecnologie n. sono il complesso delle operazioni tecnologiche connesse al ciclo del combustibile n. e riguardano inoltre diverse attività di ricerca e sviluppo sui reattori n., sul combustibile e su diverse applicazioni dei radioisotopi. Per i principi di funzionamento, la descrizione dei vari tipi di reattore, distribuzione geografica, storia e prospettive dell’energia nucleare ➔ reattore.
La chimica n. s’interessa delle reazioni n., siano esse spontanee o artificialmente provocate. Nella pratica il campo di osservazione e di studio della chimica n. s’intende ristretto a tali fenomeni quando questi vengano investigati con mezzi chimici o fisico-chimici, intendendosi di competenza della fisica n. tutto quanto venga fatto con mezzi esclusivamente o prevalentemente fisici; le due discipline si presentano con vaste zone di ricoprimento in cui l’una appare complementare all’altra.
Il campo tipico d’interesse della chimica n. può essere riconosciuto nell’identificazione della natura chimica dei vari prodotti delle reazioni n., nonché nello studio dei loro rapporti genetici; le tecniche sono in larga parte quelle messe in opera nella chimica ordinaria, salvo i particolari accorgimenti da adottare per la manipolazione di sostanze in genere instabili e fortemente radioattive o dotate di forte potere ionizzante; a queste tecniche si affiancano quelle basate sul rilievo della radioattività, che consentono di effettuare identificazioni chimiche di elementi presenti in quantità estremamente piccole e per tempi brevissimi.
La produzione in una reazione n. di atomi o ioni molto energetici ha innescato un campo nuovo della chimica n., noto come chimica calda, il cui sviluppo, oltre a consentire l’analisi di reazioni particolari, ha permesso di correlare i danni da radiazioni con i principi della fisica dello stato solido.
Fonte di produzione di energia attraverso trasformazioni nei nuclei atomici, l’energia n. è oggetto di disciplina giuridica nel diritto internazionale, che ne regola la produzione e l’utilizzo a tutela degli individui e dell’ambiente.
Dando seguito alla risoluzione dell’ONU del 1954, in base alla quale i benefici derivanti dalla scoperta dell’energia n. devono essere messi al servizio dell’umanità, nel 1956 viene istituita l’Agenzia internazionale dell’energia atomica, preposta al controllo dell’utilizzazione a fini pacifici dei prodotti fissili e all’elaborazione delle necessarie norme di sicurezza.
Sul piano europeo, nel 1957 vengono istituite la Comunità Europea dell’Energia Atomica, responsabile di elaborare e attuare una politica comune che garantisca gli approvvigionamenti e la sicurezza delle installazioni e, nell’ambito dell’OECE, poi divenuta Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici, l’Agenzia Europea per l’Energia Nucleare (ENEA, ora NEA), avente il compito di promuovere lo sviluppo della produzione e dell’utilizzazione dell’energia n. a fini pacifici.
L’istituzione delle menzionate organizzazioni internazionali specializzate ha contribuito all’adozione delle prime convenzioni in materia, dirette a stabilire la responsabilità civile dell’esercente n. e le norme per il risarcimento delle vittime in caso di incidenti. Si tratta della Convenzione ENEA sulla responsabilità civile nel campo dell’energia n. (Parigi,1960), della Convenzione complementare di Bruxelles del 1963 e della Convenzione AIEA sulla responsabilità civile in materia di danni n. (Vienna, 1963).
Per prevenire i rischi n. manifestatisi con l’incidente di Cernobyl nel 1986, sono state inoltre adottate su iniziativa dell’AIEA la Convenzione sulla tempestiva notifica di un incidente n. (1986), la Convenzione relativa all’assistenza in caso di incidente n. o di situazione di emergenza radiologica (Vienna, 1986) e la Convenzione sulla sicurezza n. (Vienna, 1994). Nel 2001 è entrata in vigore la Convenzione in materia di sicurezza e gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi (Vienna, 1997).
La medicina n. rappresenta il complesso di conoscenze, ricerche e tecniche (sperimentali, diagnostiche e terapeutiche) che riguardano l’impiego di energia n., e segnatamente di radioisotopi, nelle indagini biologico-mediche. La somministrazione di isotopi, stabili e radioattivi, usati come tali o incorporati in composti organici (sostanze marcate), permette di indurre, in radicali, molecole e perfino elementi cellulari dell’organismo, caratteristiche fisiche che ne consentono il riconoscimento e permettono a volte di seguire il destino metabolico di alcuni composti: assorbimento, assimilazione, trasporto, eliminazione. Particolarmente fecondo di risultati è stato l’impiego di sostanze marcate (➔ radioisotopo) che, somministrate per varie vie (orale, iniettiva, inalatoria), hanno consentito: a) di fornire corrette valutazioni quantitative in merito alla composizione dell’organismo vivente (volume totale del sangue circolante, entità della massa muscolare ecc.); b) di conoscere la durata di vita di determinati elementi cellulari (tra cui gli elementi corpuscolati del sangue); c) di allestire precise metodiche rivolte allo studio dell’attività funzionale di molti organi (per es., le prove di captazione del radioiodio per valutare la funzione tiroidea; lo studio degli scambi ossigeno-anidride carbonica a livello dei polmoni e dei vari tessuti ecc.); d) di chiarire o interpretare numerosi eventi metabolici (come la sintesi endogena dell’acido urico e del colesterolo, il metabolismo del calcio, dei lipidi ecc.); e) di trarre indicazioni diagnostiche sulla sede e l’estensione di alterazioni anatomiche a carico di vari organi (➔ scintigrafia) e, talora, di fornire significativi orientamenti sulla struttura di tali alterazioni (come la distinzione di noduli tiroidei in ‘caldi’ e ‘freddi’); f) di facilitare la diagnosi differenziale tra forme morbose affini; g) di curare malattie endocrine (morbo di Basedow) o proliferative (morbo di Vaquez) o tumorali, sfruttando il tropismo di determinati radioisotopi nei confronti di particolari organi.
Armi n. Ordigni per uso bellico, di straordinaria potenza distruttiva e capacità letale (considerando anche gli effetti radioattivi a breve e a lungo termine), basati su una reazione n. esplosiva di fissione di isotopi dell’uranio o di elementi transuranici oppure di fusione dell’idrogeno.
La potenzialità d’impiego dell’energia n. (a volte impropriamente detta atomica) a fini bellici fu enunciata per la prima volta da A. Einstein al presidente americano F.D. Roosevelt nel 1939. A seguito anche di sollecitazioni britanniche (sostanziate da un primo studio di fattibilità, eseguito da O. Frisch e R. Peierls nel marzo 1940), gli Stati Uniti d’America iniziarono quindi un progetto di sviluppo militare, il cosiddetto Manhattan Project (a cui partecipò anche E. Fermi, che nel 1934 aveva ottenuto a Roma la prima reazione controllata e che realizzò il primo reattore n. nel 1942, a Chicago), che culminò con la prima esplosione n., il 16 luglio 1945, nel Nuovo Messico. Contemporaneamente, analoghe ricerche venivano condotte in Germania, ma queste non arrivarono a risultati operativi prima della fine del conflitto. L’unico impiego di un’arma n. in guerra risale al 1945, allorché gli Stati Uniti ne lanciarono due sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (il 6 e 9 agosto), provocando oltre 100.000 vittime e altrettanti feriti. Si trattava di ordigni cosiddetti a fissione, che generano energia tramite la scissione di isotopi di uranio. Questi ordigni producono esplosioni di potenza misurabile in kiloton (1 kiloton =1000 t di tritolo) e variabile da frazioni a qualche decina di kiloton. Successivamente, sono state sviluppate anche armi termonucleari, che producono energia tramite la fusione (ad altissime temperature, ottenibili solo con un esplosivo a fissione che funga da innesco) di isotopi di idrogeno.
Nel 1949 l’URSS sperimentava un proprio ordigno e diveniva la seconda potenza nucleare, seguita poi da Regno Unito (1952), Francia (1960) e Cina (1964). In quella che è stata definita la corsa agli armamenti, le due più grandi potenze n., USA e URSS, nel tentativo di acquisire una superiorità militare, hanno seguito vari criteri. All’inizio privilegiavano il dato quantitativo, producendo più armi possibili con il materiale fissile a disposizione. Poi, avendo gli esperimenti dimostrato che l’efficacia di un’arma contro un obiettivo militare protetto aumentava con l’accuratezza dei sistemi di mira e non con la potenza dell’esplosione, si è cercato di perfezionare i sistemi di guida dei vettori, specie dei missili. Allo stesso tempo, si dedicò grande attenzione alla miniaturizzazione delle bombe n., così da poterne trasportare sul bersaglio, mediante missili o aerei, in numero sempre maggiore. Proprio lo sviluppo di vettori più efficaci (missili con gittata oltre i 10.000 km e bombardieri con raggio d’azione intercontinentale) su cui potevano essere caricate sempre più testate n., rendeva possibile creare dispositivi capaci di infliggere danni alla parte avversa al punto da annichilirne il funzionamento della società civile: si parlava in questo caso della condizione di reciproca distruzione assicurata (Mutual Assured Destruction, MAD). Già con il trattato ABM (Anti-Ballistic Missile) del 1972, che vietava di fatto lo spiegamento di sistemi di protezione anti-missile, USA e URSS accettavano la reciproca inevitabile vulnerabilità anche come fattore di stabilità strategica, giacché la certezza della risposta n. avrebbe scoraggiato ciascuna parte dall’attaccare per prima. Gli USA si limitavano a costruire un sistema di protezione anti-missile per un sito di propri missili, per garantirsi una possibilità di rappresaglia dopo un primo attacco sovietico, ma nel 1974 smantellavano anche questo, considerandolo superfluo. L’URSS spiegava invece un più complesso sistema di protezione, anche per la città di Mosca, che però non poteva impedire un attacco missilistico. Infine, soprattutto gli USA tentavano di costruire armi n. atte a minimizzare i cosiddetti danni collaterali (a obiettivi civili o a proprie forze avanzanti sul terreno nemico bombardato) tramite la bomba ai neutroni, che per un dato livello di potenza esplosiva emette relativamente meno onda d’urto e radiazione termica e più radioattività immediata. Ciò riduce sia la persistenza della contaminazione dell’area colpita (la ricaduta radioattiva è quasi eliminata) sia i danni alle strutture ivi presenti. Quest’arma non costituiva però la ‘bomba pulita’ auspicata dagli strateghi sostenitori dell’arma n. come strumento di guerra. Inevitabile vulnerabilità reciproca, estrema potenzialità distruttiva e scarsa controllabilità degli effetti collaterali portavano a una graduale evoluzione del ‘pensiero strategico n.’ verso la concezione di deterrenza (➔ strategia) in cui l’arma n., a differenza dei precedenti tipi di armamenti, non è concepita come strumento da battaglia per sconfiggere forze nemiche, ma come mezzo atto a scoraggiare l’aggressione. Intanto per limitare la crescita del numero delle potenze n. e degli arsenali di quelle esistenti, si sono conclusi numerosi accordi per il controllo quantitativo e qualitativo degli armamenti n. (➔ disarmo).
Con la fine della guerra fredda, si assisteva a una frenata della corsa agli armamenti n. da parte delle potenze già in possesso di ordigni n. (la cosiddetta proliferazione verticale) mentre si riaccendeva la minaccia di acquisizione di armamenti n. da parte di nuovi paesi, spesso non democratici, politicamente instabili e quindi più preoccupanti per la stabilità internazionale (proliferazione orizzontale). Nel 1992 esistevano 11 potenze nucleari dichiarate, incluse 4 repubbliche della ex URSS (Russia, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan), e 3 non dichiarate (India, Pakistan e Israele). Altri 6 paesi avevano in corso programmi nucleari (Algeria, Corea del Nord, Iran, Iraq, Libia e Siria) e 5 avevano interrotto la ricerca (Argentina, Brasile, Corea del Sud, Sudafrica e Taiwan).
Al momento della dissoluzione dell’URSS, Stati Uniti e URSS avevano già firmato (1991) il trattato START I (➔ START) per la riduzione degli armamenti n.; nel maggio 1992, con il Protocollo di Lisbona, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan si dichiararono pronti a mantenere gli impegni assunti dall’URSS e a trasferire tutte le armi dal proprio territorio alla Federazione russa, dove sarebbero state distrutte. Con il trattato START II (gennaio 1993), Stati Uniti e Russia concordarono di portare il tetto massimo a 3000-3500 unità per parte (circa un terzo dell’arsenale esistente) entro il 10 gennaio 2003 e di eliminare completamente i missili a testata multipla. Un ulteriore progresso nel campo del disarmo nucleare venne raggiunto nel maggio 1995, con l’estensione a tempo indefinito del Trattato di non proliferazione nucleare approvato nel 1968 dall’Assemblea delle Nazioni Unite (ma non sottoscritto da 25 paesi tra cui Francia, Cina, India e Israele). Il disarmo Est-Ovest sembrò rivitalizzare anche la Conferenza per il disarmo di Ginevra, istituita nel 1978 su raccomandazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma indipendente dall’ONU, che avviò nel 1993 il negoziato per la messa al bando degli esperimenti nucleari (CTBT, Comprehensive Test Ban Treaty). Questo, approvato nel 1996 dall’Assemblea Generale è stato già firmato da 186 Stati e ratificato da 176; tuttavia, il CTBT entrerà in vigore solo dopo l’avvenuta ratifica da parte degli Stati con capacità nucleare avanzata. Fra questi, Stati Uniti, Cina, Egitto, Iran, Israele e Indonesia non hanno ancora proceduto a ratifica, mentre altri, quali India, Pakistan e Corea del Nord, non hanno firmato.
In termini propri, con arma n. si indica il binomio carica n. + mezzo vettore, che costituisce un dispositivo capace di produrre nell’istante e nel luogo desiderati una liberazione rapida di energia sviluppata da reazioni n. esplosive di fissione o di fusione di particolari nuclei atomici, vale a dire un’esplosione nucleare. Le cariche n. possono essere classificate secondo diversi punti di vista indipendenti fra loro, quali: a) il tipo di reazione n. che sta alla base dell’esplosione; b) l’impiego cui sono destinate; c) la quantità di energia globalmente sviluppata.
Secondo il criterio a, le cariche n. possono essere del tipo a fissione e del tipo a fusione. Nella cariche a fissione (o atomiche o A) l’energia sviluppata è originata da reazioni di fissione a catena (➔ fissione), di tipo incontrollato; cioè la catena ha carattere divergente e la liberazione di energia, una volta innescata la carica, non può più essere arrestata; i materiali fissili usati (esplosivi n.) possono essere l’uranio 235, il plutonio 239, l’uranio 233, oppure una miscela dei tre. Nelle cariche a fusione, dette anche termonucleari, a idrogeno o H, l’energia sviluppata è originata in massima parte da reazioni di fusione di nuclei leggeri (deuterio, trizio, litio), rese possibili da elevatissime temperature (dell’ordine di milioni di gradi centigradi), ottenute tramite un’esplosione n. a fissione che funge da innesco. Queste cariche perciò sono anche chiamate, più propriamente, a fissione-fusione, o f-f; se l’energia è originata in parte per fissione-fusione e in parte per fissione di nuclidi pesanti (uranio 238 o torio 232) ottenuta grazie ai neutroni veloci emessi nelle reazioni di fusione, la carica viene chiamata a fissione-fusione-fissione, o f-f-f, o anche a neutroni: si tratta dell’ultimo tipo sviluppato per impiego strategico, quello dotato del massimo potere distruttivo.
Secondo il criterio b, le cariche n. possono essere: sperimentali, se sono destinate alla verifica del funzionamento dell’ordigno e degli effetti prodotti dalla liberazione di energia nell’ambiente circostante il punto di scoppio; operative, se sono destinate a uso bellico. Queste ultime possono essere suddivise a loro volta in strategiche, intermedie e tattiche, in base al raggio d’azione dei vettori: in linea di massima si considerano strategiche le cariche n. con un raggio d’azione superiore ai 5500 km, intermedie (Intermediate Nuclear Forces, INF) quelle con un raggio d’azione compreso fra i 1000 e i 5500 km, tattiche quelle con un raggio d’azione inferiore ai 1000 km. Le cariche n. intermedie e tattiche sono anche denominate cariche n. di teatro, in quanto costituiscono l’insieme delle armi atomiche, non a portata intercontinentale, impiegabili in aree (‘teatri’) regionali, come l’Europa, il Medio Oriente, l’Asia orientale ecc.
Secondo il criterio c, le cariche n. possono essere: di piccola energia, con potenza da frazioni di seton (cariche subchilotoniche) a qualche decina di kiloton; di media energia, con potenza da qualche decina ad alcune centinaia di kiloton; di grande energia, con potenza dell’ordine del megaton o maggiore. È opportuno sottolineare che un’esplosione n., per es., da 1 kton e la detonazione di 1000 t di tritolo non sono equivalenti dal punto di vista degli effetti prodotti, ma unicamente dal punto di vista dell’energia globalmente sviluppata.
Quanto alla combinazione carica n. + mezzo vettore, la varietà delle gittate dei missili, nonché le diverse caratteristiche delle possibili basi di lancio (terrestri mobili, terrestri sotterranee, sottomarine, aeree), conferiscono alle armi n. grandi possibilità di dispersione, di protezione e di sistemazione a distanze notevolmente variabili dal territorio avversario. Ciò rende altamente probabile la possibilità di scatenare con successo la rappresaglia, anche in caso di attacco n. improvviso e massiccio da parte di un avversario. La formidabile potenza distruttiva degli arsenali n. ha portato le potenze n., specie a partire dagli anni 1960, a dotarli di un meticoloso sistema di comando e controllo, per assicurare l’efficienza in caso di necessità, ma soprattutto a minimizzare il rischio di lanci per errore.
Nell’esplosione di una carica convenzionale (per es., di tritolo) quasi tutta l’energia sviluppata si manifesta immediatamente come energia cinetica dei gas prodotti dalla reazione chimica; essa, nella quasi totalità, viene successivamente ceduta all’ambiente circostante per la formazione dell’onda d’urto, a cui è dovuto l’effetto distruttivo. Nelle cariche n., invece, la situazione è notevolmente diversa. L’85% circa dell’energia sviluppata si estrinseca inizialmente sotto forma di energia cinetica; però solamente una parte di questa, e cioè circa il 50% del totale, determina la formazione dell’urto, a cui sono attribuibili effetti distruttivi di natura meccanica, analoghi a quelli delle esplosioni convenzionali; il rimanente 35% si manifesta invece sotto forma di radiazioni termiche, luminose e ultraviolette, a cui sono imputabili effetti di carbonizzazione della materia organica e incendi di materiali infiammabili in genere.
I motivi delle differenze sostanziali nella fenomenologia di un’esplosione n. sono nelle temperature di gran lunga superiori raggiunte (ordine di milioni di gradi), rispetto ai 5000 gradi circa delle esplosioni convenzionali. Il restante 15% circa dell’energia totale sviluppata viene emesso sotto forma di radiazioni n. varie, tutte con enorme capacità di danneggiamento biologico: raggi γ, frammenti nucleari, particelle cariche, neutroni. Di esso, si può assumere che 1/3 circa si manifesti all’atto dell’esplosione e pertanto interessi, unitamente all’onda d’urto e alla radiazione termica, la zona circostante il punto di scoppio. Questa radiazione n., detta radiazione n. iniziale, ha origine dalle reazioni n. che avvengono all’atto dell’esplosione. Gli altri 2/3 delle radiazioni vengono invece emessi in un lungo periodo di tempo dopo l’esplosione e vengono indicati come radiazione n. residua; questa è dovuta quasi completamente alla radioattività dei prodotti di fissione o di fusione che, inglobati nella cosiddetta nube atomica, ricadono sulla superficie terrestre più o meno rapidamente a seconda della granulometria delle particelle e della quota raggiunta dalla nube, e prendono il nome di fall-out radioattivo. Il fall-out si divide in tre porzioni: locale, quello che raggiunge la superficie entro poche ore dall’esplosione e che interessa la zona sottovento rispetto al punto di scoppio; troposferico, quello che raggiunge la superficie entro qualche mese dall’esplosione e che interessa una fascia di superficie terrestre situata a cavallo della latitudine del punto di scoppio; stratosferico, quello che raggiunge la superficie entro alcuni anni e interessa prevalentemente l’emisfero in cui è situato il punto di scoppio. La radiazione residua estende nello spazio e nel tempo gli effetti di un’esplosione n., differenziandola, anche sotto questo aspetto fondamentale, da quella di armi convenzionali. (v. tab).
Una carica n. a fissione consiste in un dispositivo nel quale una quantità adatta di sostanza fissile, mantenuta in condizioni subcritiche, cioè in modo che non si possa determinare una reazione a catena, viene resa al momento voluto fortemente supercritica, per modo che s’inneschi una reazione a catena esplosiva. Le condizioni di criticità sono in relazione alla massa della sostanza, alla densità e alla forma, oltreché, naturalmente, alla natura della sostanza medesima; così, per es., per l’uranio 235 a densità normale e raccolto in forma compatta, la massa critica minima è dell’ordine di 10 kg, mentre è dell’ordine di 5 kg per il plutonio 239. L’innesco della reazione a catena è in un certo senso automatico appena la massa di materiale fissile superi il valore critico, in quanto per esso occorre e basta la presenza di qualche neutrone libero, e neutroni liberi sono sempre presenti nell’ambiente; per maggiore sicurezza, peraltro, si dispone spesso nell’ordigno una sorgente di neutroni (nella bomba di Nagasaki, a plutonio, la sorgente era quella classica a berillio). La reazione, una volta innescata, si sviluppa esplosivamente, in un tempo totale dell’ordine di un milionesimo di secondo, assai più breve di quello che caratterizza la detonazione di cariche esplosive tradizionali.
Per passare dalla subcriticità alla supercriticità sono impiegati due metodi. Il primo consiste nel disporre due o più masse di sostanza fissile, ciascuna di per sé subcritica, in un sistema capace di provocare l’avvicinamento delle masse a grande velocità; si raggiunge così la criticità e, proseguendo l’avvicinamento, la supercriticità. Questo sistema è denominato gun type (fig. A) perché le masse subcritiche vengono sparate una contro l’altra con l’impiego di esplosivi convenzionali, proprio come proietti di artiglieria (di questo genere era la bomba di Hiroshima). Il secondo metodo consiste nell’agire sulla densità della massa fissile; il materiale fissile, infatti, è mantenuto in condizioni subcritiche in quanto approntato sotto forma spugnosa (cioè con molte cavità all’interno): esercitando al momento voluto un’azione di compressione uniforme su di esso, se ne diminuisce il volume, raggiungendo in tal modo prima la criticità, e poi la supercriticità. Questo sistema è denominato implosion type (fig. B), in quanto l’azione di compressione viene esercitata da cariche di esplosivo convenzionale disposte con simmetria sferica attorno alla massa fissile (di questo genere era la bomba di Nagasaki). Alla massa critica minima occorre comunque aggiungere quella che serve ad alimentare la reazione a catena, che è dell’ordine di 50 g/kton: il che rende praticamente molto difficoltoso realizzare ordigni a fissione di potenza superiore ad alcune centinaia di kiloton, in relazione alla necessità di frazionare le masse di materiale fissile presenti in modo che esse siano prima dell’esplosione fortemente subcritiche, e di assiemarle poi rapidamente per l’esplosione.
Una carica termonucleare in linea schematica consiste in: una carica a fissione dei tipi precedentemente esaminati, che ha la funzione di innescare le reazioni n. di fusione; un quantitativo opportuno di materiale suscettibile di dare luogo alle reazioni di fusione, posto esternamente alla carica a fissione; inoltre le cariche di tipo f-f-f dispongono di un ulteriore quantitativo di materiale fissionabile da parte dei neutroni veloci liberati dalle reazioni nucleari di fusione (per es., U 238 o Th 232). Per le reazioni di fusione la massa di materiale (deuterio, trizio, litio) necessario per 1 kton di potenza può variare, a seconda del tipo di reazione di fusione, da circa 13 a circa 55 g. Poiché per il materiale che partecipa a reazioni di fusione non esistono problemi di massa critica, non esiste in teoria un limite massimo per la quantità usabile di esplosivo termonucleare e quindi per la potenza esplosiva. Nelle esplosioni termonucleari sperimentali già effettuate sono state sviluppate energie dell’ordine di 50 megaton.
Nella bomba a neutroni (o bomba N) sono usati, come materiali suscettibili di dar luogo alle reazioni di fusione, deuterio e trizio invece che idrogeno: si realizza in tal modo una reazione di fusione del tipo 21H + 31H → 42He + 10n + 17,58 MeV che dà luogo a una produzione di neutroni veloci dieci volte maggiore, a parità di potenza, che nelle bombe a fusione convenzionali. Gli effetti della bomba a neutroni sono particolarmente rivolti all’uccisione degli esseri viventi (a causa dell’interazione dei neutroni con i nuclei dell’idrogeno dell’acqua) mentre sono ridotti gli effetti distruttivi dovuti all’onda d’urto e alla radiazione termica. L’impiego delle bombe a neutroni causerebbe quindi la morte di tutti gli esseri viventi in un vasto raggio dal punto dell’esplosione, limitando la distruzione delle cose a un’area pari a circa un quinto di quella interessata dall’esplosione di una bomba a fissione convenzionale ed eliminando quasi del tutto la ricaduta radioattiva.