Vasta distesa acquea che circonda i continenti. I tre principali bacini oceanici (Pacifico, Atlantico, Indiano), comprensivi dei bacini minori e dei mari adiacenti, coprono un’area di circa 361 milioni di km2, occupando circa il 71% della superficie terrestre.
La distribuzione delle terre emerse e degli o. è asimmetrica, poiché le prime sono situate prevalentemente nell’emisfero settentrionale mentre in quello meridionale, escludendo l’Antartide, le terre emerse non superano il 25% dell’area totale. L’attuale morfologia dei bacini oceanici è strettamente connessa alla loro storia geologica (così come è stato evidenziato dalla teoria della tettonica a zolle) ed è caratterizzata da alcuni elementi topografici principali: i margini continentali, costituiti a loro volta dalla piattaforma, dalla scarpata e dal declivio o risalita continentale; le piane abissali; le dorsali medio-oceaniche; le fosse oceaniche.
Sono distinti in tre tipi fondamentali: a) margine continentale passivo; b) margine continentale attivo; c) margine continentale trasforme.
Il primo tipo è presente principalmente nell’O. Atlantico, da cui anche il nome di margine di tipo atlantico, e caratterizza i bacini oceanici in espansione (fig. 1A). Piattaforma, scarpata e declivio continentale si formarono a spese del continente man mano che il margine della placca subiva processi di contrazione e subsidenza connessi al raffreddamento (fig. 1B). Lungo questi margini la piattaforma è piuttosto ampia, con un valore medio di circa 65 km e una pendenza pari a 0°7′. Convenzionalmente la piattaforma viene delimitata dall’isobata −200 m; in realtà il suo bordo esterno (shelf break, ciglio della piattaforma) è generalmente posto a una profondità media di 130-140 m, e corrisponde a una zona in cui si verifica un marcato incremento del gradiente di pendenza, che consente di separare la piattaforma dalla scarpata continentale. La scarpata scende fino a una profondità variabile tra i 1500 e i 3200 m, con una pendenza media di circa 4° che diminuisce verso il basso, dove essa si raccorda con la falda di depositi sedimentari costituenti la risalita continentale. Quest’ultima è a sua volta formata principalmente da conoidi sottomarini isolati o coalescenti, alimentati dai materiali che scendono lungo i canyon presenti sulla scarpata continentale, e da grossi accumuli di frane sottomarine.
I margini continentali attivi sono soggetti a sforzi compressivi e sono presenti essenzialmente lungo i bordi dell’O. Pacifico, da cui anche il nome di margine di tipo Pacifico (fig. 2). Le piattaforme, lungo questi margini, sono strette e deformate tettonicamente; la scarpata continentale si presenta piuttosto ripida e manca la parte inferiore, il declivio continentale, il quale è sostituito dalle fosse oceaniche (fig. 3). Le fosse sono una costante lungo questo tipo di margine, e al loro interno sono presenti le zone di subduzione (zone dove le zolle litosferiche oceaniche si immergono nel mantello terrestre), le quali evolvono nel tempo diventando zone orogeniche in seguito alla collisione tra zolle litosferiche continentali.
I margini continentali trasformi sono detti anche margini conservativi, in quanto le zolle litosferiche scorrono l’una accanto all’altra; corrispondono alla zona dove si attua la separazione continentale. Questi margini sono caratterizzati dalla presenza di faglie e il passaggio continente-o. avviene piuttosto bruscamente, attraverso una serie di alti e bassi strutturali che interessano le aree di piattaforma e scarpata. Margini di questo tipo sono presenti al largo della California meridionale e vengono chiamati borderland.
Le piane abissali costituiscono aree a morfologia quasi completamente piatta che coprono vaste aree dei fondali oceanici; si trovano a profondità comprese tra 4000 e 5500 m, in posizione antistante la scarpata o il declivio continentale, oppure adiacenti a una fossa oceanica.
Le dorsali medio-oceaniche rappresentano sicuramente la più lunga struttura della superficie terrestre, estendendosi per quasi 80.000 km attraverso tutti gli oceani. Sono state riconosciute due tipologie principali di dorsali, in relazione alla diversa velocità di espansione, le quali mostrano una differente topografia: dorsali a espansione veloce e dorsali a espansione lenta. Quelle presenti negli o. Atlantico e Indiano sono dorsali a espansione lenta che hanno una fossa tettonica ben pronunciata, profonda alcuni chilometri e ampia 20-30 km. Nel Pacifico e nell’Antartico le dorsali non hanno una fossa tettonica; queste sono infatti dorsali a espansione veloce, caratterizzate da un rigonfiamento della crosta oceanica, alto diverse centinaia di metri e ampio 5-20 km. Le dorsali medio-oceaniche contrastano notevolmente, per morfologia, con le adiacenti piane abissali, le quali sono spesso costellate da altre strutture minori: isole vulcaniche emergenti (Hawaii), montagne sottomarine (seamount), che spesso, trovandosi in gruppo, costituiscono delle dorsali asismiche, e guyot (seamounts con sommità piatta, troncata dall’erosione durante periodi di emersione).
I sedimenti che si accumulano sul fondo oceanico sono piuttosto eterogenei e diversi sono i processi coinvolti per la loro deposizione. In generale le diverse particelle hanno due differenti origini: in una i sedimenti provengono dall’erosione dei continenti e vengono trasportati in mare dai ghiacciai, dal vento e dai fiumi (sedimenti detritici o terrigeni); appartengono a questa classe anche quei materiali deposti sotto l’influenza dei processi gravitativi (frane sottomarine, colate di sedimento, correnti di torbida), i quali rimuovono e spostano verso il basso sedimenti già precedentemente deposti. L’altro tipo di deposito è rappresentato dai cosiddetti sedimenti pelagici, in massima parte costituiti dagli scheletri di minutissimi organismi planctonici (sedimenti biogeni) e da materiali non biogeni rappresentati da argille brune e rosse. Una classe intermedia di sedimenti marini profondi è quella dei depositi emipelagici, che costituiscono fanghi misti con una componente terrigena e una biogena. Accanto a questi tipi di sedimenti vanno considerati quelli di origine vulcanica (vulcanogeni), emessi principalmente durante eruzioni esplosive, e quelli di origine extraterrestre, costituiti da frammenti di micrometeoriti.
La struttura dei fondi oceanici è stata investigata sia attraverso le indagini geofisiche (gravimetriche e sismiche) sia attraverso le perforazioni eseguite dalle navi oceanografiche. Queste indagini hanno evidenziato che la crosta oceanica, spessa da 5 a 10 km, risulta costituita da tre strati caratterizzati da differente spessore e litologia. La crosta oceanica, spessa da 5 a 10 km, è costituita da tre strati caratterizzati da differente spessore e litologia. Lo strato 1 è spesso da 0 a 1 km ed è costituito da sedimenti in gran parte pelagici ed emipelagici. Le analisi micropaleontologiche effettuate su questi depositi hanno rivelato che l’età di questi sedimenti aumenta man mano che ci si allontana dalla dorsale medio-oceanica e che quelli più antichi finora scoperti risalgono al Giurassico medio e superiore. Lo strato 2, chiamato anche basamento o strato vulcanico, ha uno spessore che varia da 0,7 a 2 km ed è costituito da basalti tholeitici, a cui sono associati sedimenti pelagici. Lo strato 3, denominato strato oceanico, ha uno spessore compreso tra 3 e 7 km ed è costituito da gabbri e diabasi.
La storia evolutiva dei bacini oceanici venne delineata nel 1960 da H.H. Hess, che per primo parlò di espansione dei fondi oceanici. Hess sosteneva l’esistenza nel mantello terrestre di correnti convettive i cui rami ascendenti erano in corrispondenza delle dorsali medio-oceaniche. Lungo le dorsali venivano eruttate ingenti quantità di magmi che andavano a costituire nuova crosta oceanica, la quale riempiva lo spazio della fessura centrale della dorsale lasciato vuoto dall’allontanamento della crosta formatasi in precedenza. La stessa crosta oceanica veniva poi riassorbita nel mantello in corrispondenza delle fosse oceaniche. Questa teoria è stata verificata attraverso numerose indagini e differenti metodi e approcci; una di queste indagini portò alla scoperta delle anomalie magnetiche sui fondi oceanici, dovute alle periodiche inversioni del campo magnetico terrestre (➔ paleomagnetismo). La loro spiegazione, da parte di F.J. Vine e D.H. Matthews (1963), nel contesto del processo di espansione, ha confermato l’ipotesi di Hess.
Altri dati a sostegno della teoria vennero anche dalle misure del flusso di calore attraverso il fondo oceanico, che hanno mostrato che tale flusso è decisamente più elevato in corrispondenza delle dorsali rispetto alle altre parti dell’oceano. Il maggiore apporto di calore lungo le dorsali è difficilmente spiegabile con la sola concentrazione di elementi radioattivi, mentre è più soddisfacente ammettere l’esistenza di correnti convettive nel mantello che porterebbero calore verso la superficie man mano che esse risalgono. Tuttavia, sussistono diversi dubbi sul meccanismo delle celle convettive come motore primario per il processo di espansione dei fondi oceanici; infatti, anche se il fenomeno esiste, non si conosce ancora come realmente tali celle si producano, né tantomeno quali siano la velocità e il comportamento di questi sistemi convettivi. Soprattutto, questo meccanismo non sarebbe l’unico in grado di spiegare l’espansione del fondo oceanico e quindi i movimenti delle zolle litosferiche.
Gli o. hanno un loro ciclo di vita, rappresentato dalle fasi di apertura, espansione e chiusura. Mentre possiamo osservare l’evoluzione dei bacini oceanici attuali, lo studio delle rocce e delle successioni stratigrafiche presenti sui continenti ci dice che in passato esse facevano parte di antichi bacini oceanici; questi ultimi, scomparendo, hanno lasciato in parte documentata la loro storia evolutiva, scritta nelle potenti successioni rocciose che partecipano alla costituzione delle catene montuose.
I dati raccolti nelle ricerche più recenti rivelano che i fondi oceanici sono luoghi molto attivi di interscambio tra l’idrosfera, la litosfera e la biosfera, luoghi al cui interno si svolgono anche processi di breve durata. Nella crosta oceanica la circolazione dei fluidi risulta molto attiva, verosimilmente modulata dai movimenti tettonici e dal magmatismo, e condiziona di conseguenza il bilancio chimico degli oceani. Lo stesso concetto di rigidità delle placche va rivisto alla luce dei movimenti ripetuti nel tempo, sia verticali sia orizzontali, che sembrano avere interessato la crosta oceanica; vi sono perfino evidenze di deformazioni compressive di portata regionale, finora ritenute tipiche dei continenti.
Il pozzo DSDP/ODP 504 B – trivellato all’interno del basamento oceanico localizzato nel Pacifico equatoriale orientale sul fianco meridionale del Costa Rica Rift, a una profondità del fondo marino di 3475 m – ha fornito informazioni riguardo una tipica struttura di dorsale. Nel complesso, la stratigrafia rilevata in questa dorsale pacifica (fig. 4), caratterizzata dall’apporto di larghi volumi magmatici e da alti ritmi eruttivi (dorsale a espansione veloce), è abbastanza simile a quella prevista nel modello stratificato standard della litosfera oceanica. Tale modello non risulterebbe invece valido per le dorsali medio-oceaniche a bassa alimentazione magmatica (dorsali a espansione lenta), che secondo altri dati, ottenuti sempre attraverso trivellazioni, sarebbero caratterizzate da una struttura crostale molto tettonizzata e discontinua. La base della crosta oceanica (moho), definita sismicamente, non corrisponderebbe in questo caso alla transizione petrologica tra crosta magmatica e mantello e potrebbe rappresentare un altro limite: quello della penetrazione in profondità dell’acqua marina attraverso fratture e zone di taglio. In altre parole, essa rappresenterebbe il passaggio tra le meno dense serpentiniti (peridotiti trasformate e ricristallizzate a contatto dell’acqua marina) e le più dense peridotiti ancora inalterate. Una sezione di gabbri spessa 500 m, perforata nella dorsale indiana sud-occidentale a scarsa alimentazione magmatica, ha mostrato segni di una deformazione tettonica delle rocce ancora calde, con orientazione dei cristalli secondo piani preferenziali (foliazione magmatica). La formazione di zone di taglio ha facilitato la penetrazione dell’acqua marina nella crosta inferiore profonda, con conseguente reazione di idratazione delle rocce ad alta temperatura. Una simile evidenza non è stata mai osservata nelle dorsali pacifiche.
Acquisizioni rilevanti sono state ottenute anche riguardo agli imponenti tavolati lavici (oceanic plateaux) che si trovano sul fondo degli o. sia nella parte centrale sia nei pressi dei margini continentali, i quali non sembrano originati né dai processi di espansione oceanica né da quelli di subduzione. Si ritiene che tali appilamenti di colate laviche, tipicamente basaltiche, siano prodotti da ‘pennacchi’ caldi (hot plumes) provenienti dal mantello profondo (fig. 5). Le trivellazioni effettuate nella Platea delle Kerguelen, una delle maggiori province magmatiche (avente una superficie pari a 1/3 del continente australiano), hanno confermato che le rocce prevalenti sono basalti con caratteristiche geochimiche distinte da quelle dei basalti delle dorsali medio-oceaniche (MORB, mid-ocean-ridge basalts), che la velocità di crescita è stata sufficiente a costituire terre emerse (come dimostrano le caratteristiche dei flussi di lava e la presenza di frammenti di legno, carboni, pollini, spore e semi nei sedimenti di acque superficiali che ricoprono il basamento igneo) e che il plateau si è formato in un arco di tempo di oltre 30 milioni di anni (da ca. 110 milioni di anni, nella parte meridionale, a ca. 80 milioni di anni nella parte più settentrionale): tali risultati sono in accordo con un’origine attraverso fusione parziale del relativo pennacchio. Inoltre si sono potute effettuare due importanti osservazioni circa la fase finale della crescita del plateau, aventi notevoli implicazioni: l’una in campo paleoclimatico e l’altra riguardante la relazione tra l’evoluzione di queste peculiari province magmatiche e la dinamica di fratturazione della litosfera continentale. In primo luogo, il vulcanismo finale dell’area mostra evidenti segni di imponenti eruzioni esplosive, caratterizzate da magmi felsici ricchi di elementi volatili che possono aver determinato significativi effetti su scala globale sul clima e sulla chimica dell’atmosfera. Per quanto riguarda la seconda osservazione, sono state riportate in questo plateau inequivocabili evidenze di crosta continentale, finora soltanto ipotizzate, costituite da clasti di gneiss a granati e biotite; tale risultato potrebbe coerentemente essere interpretato con una dinamica di rottura tra i continenti indiano e antartico che prevede, nella fase iniziale, uno spostamento del centro di espansione verso N e un conseguente trasferimento di frammenti della placca continentale indiana a porzioni oceaniche della placca antartica.
Superficie terrestre e atmosfera formano un insieme continuo in cui avviene un’interazione complessa con fenomeni su scala globale, regionale e locale. I moti delle masse oceaniche hanno origine da due fonti di energia, il Sole e la rotazione terrestre.
L’energia solare che la Terra riceve dall’atmosfera è assorbita dal mare, che restituisce calore all’atmosfera; una piccola parte di energia solare incidente si trasforma in energia chimica mediante fotosintesi, con la quale si sviluppa la vita vegetale. Della radiazione solare giunta ai bordi dell’atmosfera, il 19% è assorbito da questa o dalle nubi e circa il 30% (l’albedo del pianeta) è riflesso nello spazio. L’energia solare assorbita dalla Terra è circa il 51% ed è riemessa come radiazione termica (infrarosso), che viene assorbita da vapore acqueo, nubi, anidride carbonica, pulviscolo e ozono. Il calore è poi ceduto all’atmosfera dalla Terra e, in particolare, dagli o. per convezione, conduzione e, soprattutto, evaporazione. Poiché l’intensità di insolazione dipende dall’incidenza dei raggi sulla superficie terrestre, la distribuzione di temperatura è legata a latitudine, stagioni e inclinazione dell’asse terrestre. Il bilancio energetico è positivo a basse latitudini (all’equatore si assorbe più calore di quello perso), e negativo alle alte (ai poli si perde più calore di quanto se ne riceve). Durante l’anno, però, né le alte latitudini si raffreddano né le basse si scaldano, dato il trasporto di calore (mediante i moti di masse d’aria e correnti oceaniche) da zone equatoriali a zone polari, che mantiene costanti le temperature medie. Un fenomeno di interazione atmosfera-o., che influenza il clima per oltre un anno è il Niño.
La seconda fonte di energia per le masse oceaniche è la rotazione terrestre. Masse d’aria e acqua in moto sono deviate dalla forza di Coriolis, diretta a destra nell’emisfero nord e a sinistra in quello sud (è nulla all’equatore e massima ai poli).
Le acque oceaniche sono una soluzione di sali disciolti con sostanze inorganiche in sospensione colloidale, gas disciolti e sostanze inorganiche e organiche in sospensione. La composizione si definisce per convenzione con salinità e clorinità. La salinità per mille è la massa di solidi in grammi che può ottenersi da 1 kg di acqua dopo aver seccato i solidi a massa costante fino a 480 °C, trasformato i carbonati in ossidi, bruciato la sostanza organica e sostituito bromo e iodio con cloro. La salinità media in o. aperto è circa il 35‰, ma in mari con elevata evaporazione, lento scambio di acque con l’o. e scarse precipitazioni essa supera il 40‰; con l’apporto di acque continentali, la fusione dei ghiacci e le precipitazioni scende anche al 3,5‰. Nonostante ciò, i rapporti fra i costituenti principali restano in pratica costanti. La clorinità per mille è la massa di cloro in grammi equivalente alla massa di alogeni contenuti in 1 kg di acqua marina: in sostanza è la quantità totale in grammi di alogeni presenti in 1 kg di acqua marina, posto che bromuri e ioduri siano sostituiti da cloruri. Tra salinità S e clorinità Cl si ha la relazione lineare S=1,80655Cl. Per definire la salinità si considerano temperatura T, pressione p e conducibilità elettrica C, per cui S=f(T,p,C). Tra i componenti (tab. 1) il complesso salino di mari e o., che costituiscono il 99,99% del totale di sostanze disciolte, si ha una prevalenza di sodio tra i cationi e di cloro tra gli anioni. Poiché prevalgono i cationi sugli anioni forti, si ha una debole reazione alcalina, con pH che varia da 7,80 a 8,30 nei primi 1000 m di profondità e pari a circa 8,00 fino a circa 5000 m.
La distribuzione di salinità negli o. (fig. 6) segue un andamento grosso modo parallelo alle fasce di latitudine. I valori minori si hanno a maggiori latitudini (32-33‰), mentre intorno ai 20°-30° di latitudine nord e sud si ha il massimo (36-37‰) per l’elevata evaporazione; lungo la fascia equatoriale la salinità è un po’ minore. Questa distribuzione dipende da evaporazione, precipitazioni, fusione dei ghiacci, vicinanza di aree costiere, apporti fluviali. Alla superficie degli o. ciò che determina la salinità è la differenza tra evaporazione e precipitazioni, per cui anche durante l’anno la salinità superficiale può variare. La salinità in genere aumenta con la profondità.
La temperatura delle masse oceaniche varia con la profondità e la latitudine; le isoterme (luogo dei punti di uguale temperatura) seguono l’andamento delle fasce latitudinali. Il calore è trasportato da particelle d’acqua in moto orizzontale e verticale (meccanismi di advezione e convezione). In superficie la temperatura è in media circa 17 °C, variando da 0 °C ai poli a circa 28 °C nella zona equatoriale. La temperatura globale media, piuttosto bassa, è di circa 3-3,8 °C. L’energia solare è assorbita quasi tutta nei primi metri; in superficie, dove si ha variabilità termica stagionale, la turbolenza dell’acqua, legata a vento e onde, intensifica il mescolamento e trasporta energia e calore agli strati sottostanti. Nei primi 200-300 m perciò la temperatura è più alta, mentre al di sotto, fino a circa 1000 m di profondità (zona detta termoclina permanente) diminuisce rapidamente (fig. 7). Più in profondità la temperatura si riduce lentamente, fino a valori molto bassi e costanti (omotermia profonda). In media, le temperature superficiali più alte si hanno a minori latitudini, le più basse ai poli. In inverno la zona di variabilità termica superficiale si estende fino alla termoclina, in estate si assottiglia dando luogo a una termoclina stagionale a qualche decina di metri di profondità. In zona equatoriale, a temperatura uniforme per il miscelamento dell’acqua a tutte le profondità, e polare, dove vi è la sola termoclina permanente poiché in inverno l’acqua non si raffredda particolarmente, non si hanno termocline stagionali. Dove le acque superficiali si scaldano di più è maggiore l’evaporazione: il vapore è in genere allontanato dai venti verso latitudini maggiori a minore temperatura, dove condensa e precipita. In profondità la temperatura è molto bassa (ma più alta della teorica, data la pressione), circa 2-3 °C.
Temperatura, pressione e salinità influenzano la densità dell’acqua marina, detta in oceanografia densità sigma e definita dalla relazione σ=1000(ρ-1) dove ρ è la densità dell’acqua in g/cm3. La densità sigma, determinata in laboratorio a pressione atmosferica a 0 °C e indicata con σ0, dipende esclusivamente da salinità o clorinità
σ0=0,069+1,4708Cl−0,00157Cl2+
+0,0000398Cl3
Riducendo la temperatura la densità aumenta e la zona corrispondente alla termoclina è detta picnoclina. Le variazioni di densità determinano in tal modo una stratificazione delle masse acquee (separate da superfici di uguale densità o isopicne) che muta per i meccanismi agenti a differenti scale (fig. 8): processi di diffusione a scala molecolare, formazione e rottura di onde interne, convergenza e divergenza di masse d’acqua lungo fronti lineari. In generale la densità aumenta dai tropici verso i poli e, lungo la verticale, dalla superficie al fondo. In superficie essa diminuisce per riscaldamento, precipitazioni, fusioni di ghiacci, immissione di acque dolci dai fiumi, e aumenta per raffreddamento, evaporazione, formazione di ghiaccio. Se l’acqua in superficie è più densa della sottostante, nascono moti convettivi verticali, che portano, se durano a lungo, al formarsi di strati omogenei di densità uniforme. Nelle parti più profonde, il perdurare di questo processo determina un accumulo di acqua più densa presso il fondo. L’acqua più densa si forma ad alte latitudini e affonda riempiendo tutti i bacini. L’acqua superficiale affonda anche in aree di correnti convergenti dove l’acqua discende fino alla profondità che le compete per la sua densità. In regioni di correnti divergenti, come le coste orientali dei continenti, dove i venti soffiano dal continente all’o., l’acqua subsuperficiale sale da profondità di qualche centinaio di metri. In sostanza, nonostante vi siano scambi di moto e mescolanze, esistono e sono continuamente rinnovate masse d’acqua (tab. 2) che hanno una loro omogeneità e una loro individualità da un punto di vista idrologico, le quali caratterizzano la circolazione oceanica profonda (fig. 9).
Altre proprietà fisiche sono temperatura di congelamento; funzione della salinità (fig. 10); il calore specifico a pressione costante, che dipende da salinità e temperatura e varia tra 3,85 e 4,19 J/g °C; la velocità del suono, che aumenta con la profondità (fig. 11); il calore latente di fusione e solidificazione, che varia concordemente con la salinità; la conducibilità elettrica, con cui si determina la salinità. L’indice di rifrazione aumenta se aumenta la salinità e si riduce la temperatura; le radiazioni luminose che penetrano in mare si attenuano in genere per assorbimento e diffusione da parte dell’acqua, e per diffusione e riflessione da parte delle particelle in sospensione. A 100 m di profondità giunge meno dell’1,5% dell’energia incidente in superficie.
L’acqua oceanica contiene gas disciolti provenienti dall’atmosfera, dalle eruzioni vulcaniche sottomarine e dai processi vitali. La solubilità dei gas dipende dalla loro pressione parziale e dalla superficie di contatto tra atmosfera e acqua e aumenta al ridursi di temperatura e salinità dell’acqua e all’aumentare del moto ondoso. Tra tutti i gas disciolti, O2 e CO2 entrano negli equilibri chimici relativi a vita animale e vegetale (la CO2 in quelli riguardanti carbonati e bicarbonati). L’ossigeno è distribuito in funzione di latitudine, profondità e stagioni; esso abbonda sopra la termoclina, dove è quasi saturo, ma diminuisce tra i 150 e i 1000 m di profondità, aumentando poi a profondità maggiori (fig. 12). Nella zona a minimo tenore di O2 si può conservare materia organica, che sfugge ai processi di ossidazione. L’aumento di O2 oltre i 1000 m di profondità è legato alla scarsità di organismi che lo usano per la respirazione e alle acque fredde e dense, arricchite in ossigeno nelle regioni polari e scese sul fondo verso l’equatore (circolazione termoalina). Le zone profonde di bacini oceanici e mari interni, dove manca l’O2, sono ambienti riducenti o anossici, prive di organismi superiori e animate solo da batteri anaerobi. Essi riducono i composti contenenti O2 liberando zolfo, che forma con l’idrogeno H2S. In tal modo la materia organica si preserva e si mescola ai fanghi del fondale, formando sedimenti ricchi di zolfo (sapropel). La CO2 ha una solubilità in acqua che è funzione di pressione, temperatura e tenore di sali. Negli strati d’acqua superficiali la CO2 è in equilibrio con l’atmosfera; fino a circa 50 m essa diminuisce, in quanto è usata da organismi vegetali per la fotosintesi (la quantità restituita all’acqua con la respirazione è minore di quella assorbita). Sotto la termoclina la CO2 in soluzione è maggiore e aumenta con la pressione. A maggiori profondità si ha una zona di equilibrio tra la CO2 assorbita e quella restituita dagli organismi con la respirazione; fra 500 e 1000 m, la CO2 in soluzione è più elevata e aumenta con la pressione. Tra i 1000 m e fino a 4000-5000 m, il tenore di CO2 è di poco superiore a quello degli strati superficiali, grazie alle acque fredde in moto dai poli verso latitudini più basse, alla decomposizione di materia organica e al lento ricambio delle acque più profonde. Le acque ricche di CO2 sono aggressive verso il CaCO3 di natura biogenica. Sotto i 3000 m (profondità detta lisoclina) inizia la dissoluzione di particelle carbonatiche biogeniche che continua a profondità maggiori fino a quella definita CCD (carbonate compensation depth) o profondità di compensazione dei carbonati (3500 m nel Pacifico e 5500 m nell’Atlantico), al di sotto della quale quasi tutto il carbonato di calcio è disciolto.
I moti delle acque oceaniche sono determinati da due gruppi di forze interagenti, interne ed esterne all’acqua. Le prime nascono da variazioni di densità (funzione di salinità, temperatura e pressione); tra le forze interne opposte al moto c’è l’attrito interno o viscosità. Le forze esterne sono la gravità, le forze prodotte dai venti atmosferici, quelle dovute a variazioni di pressione atmosferica, la forza di marea e quella di Coriolis. I moti sono di tre tipi: correnti, onde e maree.
Le correnti sono generate da vento, pressione atmosferica e differenza di densità tra masse d’acqua adiacenti. Le correnti a diverse profondità si distinguono in circolazione superficiale, intermedia, profonda e abissale.
Le correnti dovute al vento si sviluppano in superficie e sono dette correnti di deriva (o correnti d’impulso). L’energia del vento è trasferita all’acqua grazie agli attriti all’interfaccia aria-acqua e all’interno di quest’ultima. Sulla superficie liquida il vento esercita una forza tangenziale (parallela cioè alla superficie), che muove lo strato più esterno. Il moto è trasmesso, per gli attriti interni, agli strati più profondi trascinati da quelli superficiali. Le correnti inizialmente accelerano e giungono poi a velocità costante, che diminuisce esponenzialmente con la profondità. Per la forza di Coriolis la direzione della corrente e quella del vento formano un angolo di 45° in superficie e angoli maggiori a profondità maggiori, fino a raggiungere 180°. Nella teoria di V.W. Ekman, che ben descrive le correnti di deriva fino a profondità di 50 m alle medie latitudini, i vettori di moto degli strati d’acqua seguono una spirale (spirale di Ekman, fig. 13). A ogni profondità la forza di Coriolis è ortogonale alla velocità della corrente, in media quasi normale a quella del vento stesso (fig. 13). Cessata l’azione del vento, le correnti di deriva non si arrestano istantaneamente ma diventano correnti inerziali, in moto finché l’attrito interno non le smorza gradualmente. Su queste correnti l’unica azione è esercitata dalla forza di Coriolis. Nella teoria di Ekman si assume l’assenza di gradienti orizzontali di pressione. In realtà essi ci sono, per le variazioni di densità e per le stesse correnti di deriva (trasporto di Ekman). Il vento infatti causa moti dell’acqua anche verticali, a scala locale e globale, al largo e lungo la costa. In aree circolari interessate da venti ciclonici e anticiclonici (fig. 14) e in aree lineari vicine alla linea di costa (fig. 15), dove il vento fa scorrere acqua superficiale da una determinata area (divergenza), la superficie dell’acqua si deprime e l’acqua più profonda risale (upwelling) sostituendo quella spostata; nelle zone di convergenza di masse d’acqua, la superficie si gonfia e si crea una corrente discendente di compensazione (downwelling). Ciò si manifesta sulla superficie marina per es. con gli allineamenti di schiuma e detriti, o la formazione delle righe del vento (prodotte da vortici elicoidali affiancati e allungati nella direzione del vento: vortici di Langmuir), che si formano in aree di convergenza.
Altri tipi di correnti oceaniche sono le correnti di gradiente, che si sviluppano in superficie e a profondità intermedie ed elevate; nel primo caso a causa della differenza di temperatura tra una massa d’acqua e le circostanti (ciò si ha per esempio per le correnti calde del Golfo e di Curo Scivo e per quelle fredde del Labrador e Oia Scivo). Altre correnti di gradiente, dette correnti di scarico, si formano per gradienti orizzontali di pressione idrostatica (legati a dislivelli della superficie marina), a loro volta connessi a vento e distribuzione di densità; poiché le coste impediscono il libero flusso delle acque oceaniche, esse si accumulano contro le coste stesse, determinando un’inclinazione verso mare della superficie dell’acqua; la pressione idrostatica varia e le acque scorrono in orizzontale da zone di alta a zone di bassa pressione (fig. 16). Nel loro moto da terra verso mare, esse sono deviate dalla forza di Coriolis dando luogo alle correnti geostrofiche, che in profondità possono avere o meno una velocità uniforme. Infatti, poiché con la profondità aumentano pressione e densità (quest’ultima varia anche in orizzontale), si verificano due casi (fig. 17): o le isobare sono parallele alle isopicne poiché la densità è costante (condizioni barotropiche), il gradiente orizzontale di pressione è uguale a tutte le profondità e quindi la corrente geostrofica ha velocità uniforme; o le isobare non sono parallele alle isopicne poiché la densità varia lateralmente (condizioni barocliniche), il gradiente di pressione varia con la profondità e aumenta se l’acqua più densa è dallo stesso lato del maggiore spessore d’acqua, attenuandosi se l’acqua più densa è dal lato dello spessore d’acqua minore. In genere, condizioni barotropiche si hanno negli strati superficiali, a forte rimescolamento, e in mari poco profondi; a maggiore profondità esse si realizzano sotto la termoclina. Condizioni barocliniche sono tipiche delle zone con forti correnti superficiali, che producono e mantengono gradienti laterali di densità. A profondità intermedie ed elevate, le correnti di gradiente si hanno soprattutto per variazioni di densità; le masse d’acqua poco dense formano correnti sospese tra fondo e superficie, quelle più dense scorrono sul fondo. Una corrente intermedia si genera per es. in Atlantico per l’uscita dallo Stretto di Gibilterra di acque mediterranee; esse, più calde, e a pari profondità anche più salate e dense, si propagano nell’Atlantico fino a mescolarsi con acque di pari densità.
Le correnti profonde possono espandersi lateralmente non risultando confinate, pur risentendo dei limiti legati ai margini dei continenti. In genere esse si innescano ad alte latitudini dove l’acqua, fredda e densa, si inabissa e scorre verso l’equatore, sostituendo quella superficiale, più calda e meno densa, in moto verso le alte latitudini. Questo schema di circolazione verticale o termoalina in realtà è più complesso in quanto subentrano fattori come la rotazione terrestre e il fatto che ai poli le masse d’acqua sono raffreddate differentemente e hanno diverse densità. Le acque profonde provengono in sostanza da Antartide e Atlantico settentrionale (Mar di Norvegia e Mar di Groenlandia). La corrente antartica (Antarctic bottom water, ABW), è molto densa per il raffreddamento e il congelamento stagionale e dunque a maggior salinità. La corrente dell’Atlantico settentrionale, (north Atlantic deep water, NADW), scorre sul fondo fino all’equatore, dove confluisce con acqua di provenienza antartica che, più densa, le si incunea al di sotto (fig. 18). Le correnti profonde seguono la topografia del fondale e accelerano in presenza di costrizioni morfologiche, anche fino a 15-20 cm/s, erodendo e trasportando sedimenti. La corrente profonda nordatlantica, in discesa verso l’equatore, devia, per la forza di Coriolis, verso il rialzo continentale che borda a est il continente nordamericano e ne segue le isobate (western boundary undercurrent, WBUC), tanto che queste correnti sono dette correnti delle isobate o contour currents (fig. 19). Le correnti profonde, oltre che sulle condizioni termiche e di salinità dell’o. profondo, hanno effetti geologici e biologici.
Le principali correnti oceaniche superficiali costituiscono a grande scala delle celle rotanti, in senso orario nell’emisfero boreale e antiorario in quello australe, lungo la fascia tropicale e subtropicale di ogni o. (fig. 20). Generate soprattutto dal vento, hanno andamento che segue quello della circolazione dei venti (generata da gradienti termici tra l’atmosfera sopra l’equatore e quella sopra i poli). I venti trasportano calore da zone calde a zone fredde. Fino a circa 35° di latitudine nord e sud, essi spirano verso l’equatore poiché l’aria calda e umida che sale sopra l’equatore, raffreddata e appesantita scende verso terra a latitudini maggiori (ca. 30°). Il gradiente orizzontale di pressione che ne consegue tra le zone di alto subtropicali e quella di basso equatoriale, provoca il moto di aria verso zone a minor pressione (equatore). I venti in moto lungo questa fascia (alisei), deviati dalla forza di Coriolis, convergono dai due emisferi in questa zona, detta zona di convergenza intertropicale. Gli alisei fanno parte del sistema di circolazione a celle che si sviluppano in senso meridiano (celle di Hadley) e spirano da NE a SO nell’emisfero settentrionale e da SE a NO in quello meridionale, generando nei due emisferi correnti da E a O (correnti nordequatoriali e sudequatoriali), separate da una controcorrente equatoriale in verso opposto. A N e a S dell’equatore gli alisei generano quindi la divergenza equatoriale, cui si associa una fascia di upwelling. Il vento inoltre, accumulando acqua sul lato occidentale degli o., provoca un gradiente orizzontale di densità per cui si forma, in profondità (nella termoclina), una sottocorrente diretta a E (fig. 21). Nell’O. Indiano la corrente nordequatoriale scorre da E a O in inverno (l’anticiclone asiatico favorendo il monsone da NE) e si inverte in estate (le condizioni cicloniche sull’Asia favorendo il monsone da SO). In ogni cella subtropicale la corrente è a sezione minore e più veloce sul lato ovest di ogni o., meno veloce e a sezione maggiore su quello est. A latitudini maggiori (50°-60°) le correnti di deriva vanno da O a E, opposte a quelle della zona equatoriale; lo stesso si verifica nell’emisfero meridionale intorno all’Antartico, dove si sviluppa la corrente circumpolare (il più grande flusso volumetrico di acqua terrestre con più di 200 milioni di m3/s).
Così come si verifica in una generica massa liquida, le onde marine consistono nella propagazione di energia, senza sensibile trasporto di materia; le traiettorie delle particelle fluide sono orbite chiuse intorno a un centro di oscillazione fisso e non coincidono con il profilo assunto dal livello marino (onda). In realtà l’orbita non è chiusa e le particelle si spostano un poco nella direzione di propagazione, per cui si ha trasporto di acqua, che si accumula vicino alle coste e genera correnti e gradienti orizzontali di pressione.
In un profilo di onda ideale si chiama cresta la parte relativa al massimo innalzamento sul livello del mare, ventre, valle o cavo quella relativa al massimo abbassamento e nodo quella relativa al livello medio. Le onde si definiscono con alcuni parametri. L’altezza H è la distanza verticale tra cresta e ventre; l’ampiezza è la distanza fra cresta e livello medio, la lunghezza d’onda λ è la distanza orizzontale tra due creste (o due ventri) successive, la ripidità è il rapporto H/λ tra altezza e lunghezza, il periodo T è l’intervallo di tempo che separa il passaggio di due creste successive in un dato punto, la frequenza indica il numero di creste che passano per un dato punto in un secondo. Le onde marine si formano all’interfaccia tra due fluidi in moto relativo e si distinguono in onde superficiali, che si propagano all’interfaccia o.-atmosfera, e onde interne, prodotte all’interfaccia fra masse d’acqua di diversa densità. Altre cause delle onde sono le maree e i movimenti sismici del fondo marino e delle coste.
Lo studio delle onde si rivolge all’esame di una agitazione ondosa, composta da più onde sovrapposte interagenti statisticamente, con lo scopo di correlare la distribuzione dell’energia delle onde e l’energia totale dell’agitazione alle cause che la determinano. Le onde superficiali (fig. 22) si formano perché il vento trasferisce energia all’acqua mediante una forza tangenziale, applicata con una serie di colpi o impulsi. Le forze che riportano l’equilibrio sulla superficie marina sono la gravità (onde di gravità, che ristabiliscono l’equilibro turbato dal vento) e la tensione superficiale (onde capillari). Le grandi onde che si vedono sul mare sono onde di gravità poiché solo per λ<1,7 cm la tensione superficiale non è trascurabile. Lo studio teorico delle onde marine è complesso; lo sviluppo di modelli matematici con equazioni idrodinamiche ridotte fornisce soluzioni a diversi problemi, in accordo con le condizioni reali al contorno. Nei casi semplici il riferimento è l’onda sinusoidale di G.B. Airy (fig. 23A), poco applicabile in situazioni reali, ma che può fornire stime energetiche attendibili. L’onda reale osservata nelle onde di mare vivo ha un profilo simile a quello di una trocoide (fig. 23B) e può descriversi sia con la formulazione di F.J. von Gerstner (moto rotazionale), sia con le approssimazioni di G.G. Stokes (onda trocoidale come sovrapposizione di onde sinusoidali in moto irrotazionale). Nell’onda trocoidale le orbite delle particelle sono aperte, con conseguente trasporto d’acqua nella direzione di propagazione. La velocità di propagazione dell’onda v (per onda sinusoidale) risulta
dove g è l’accelerazione di gravità, λ la lunghezza d’onda e h la profondità del fondale, e che è valida, in generale, anche per onde reali e per acque intermedie o di transizione, quando si ha 1/25<h/λ<1/2. Se si ha h>0,5λ, si può assumere la tangente iperbolica unitaria e si ha v=(gλ/2π)1/2, che non dipende da h (onde brevi o onde di acqua profonda). Se h<λ, si può assumere la tangente iperbolica pari a 2πh/λ, per cui v=(gh)1/2, che non dipende da λ (onde lunghe o onde di acqua bassa). Nelle onde di acqua profonda, il diametro dell’orbita delle particelle diminuisce rapidamente con h per cui a profondità h=0,5λ esso è in teoria ridotto a 1/23 del valore in superficie. Nelle onde di acqua bassa le orbite tendono a schiacciarsi verso il fondo diventando oscillazioni lineari con un moto di va e vieni (fig. 24). Il valore h=0,5λ è un valore critico, detto livello di base delle onde, sotto il quale esse non hanno effetti (se non in tempesta), mentre al di sopra esercitano sul fondale un’azione trattiva. Un o. può essere basso per le onde lunghe delle maree oceaniche, ma molto profondo per i treni di onde ordinarie visibili in superficie; le espressioni ‘acqua profonda’ e ‘acqua bassa’ hanno senso solo in relazione a λ. A partire dai vari modelli teorici del moto ondoso, si conclude che il profilo delle onde è quasi trocoidale, la velocità di propagazione aumenta con H/λ, le orbite non sono chiuse per cui si ha trasporto di massa (sensibile in superficie, ove il raggio è massimo, e decrescente in profondità), la forma limite del profilo, con l’onda alla massima altezza compatibile con la stabilità, è a cuneo, con apertura angolare di circa 120°.
Il vento colpisce la superficie del mare con una forza che per un certo tempo è distribuita su un’area quasi circolare. Quando il vento inizia a soffiare, le prime increspature in superficie sono onde capillari, smorzate dalla tensione superficiale se l’azione del vento cessa; se il vento persiste, esse divengono onde di gravità. Il tratto di mare su cui il vento è permanente e provoca la propagazione di onde, rifornite di continuo di energia e dette onde vive (onde trocoidali), si chiama fetch; al di fuori del fetch, l’onda ha le proprietà di un’onda sinusoidale che si smorza progressivamente (onda morta). Le onde sulla superficie del mare agitata dal vento risultano da sovrapposizione e interferenza di onde di dimensioni, periodo e direzione di propagazione molto diversi. La propagazione di diversi gruppi di onde è legata a trasmissione e dispersione dell’energia e perciò l’analisi di uno stato del mare implica quella dello spettro in frequenza del moto ondoso, in termini di ampiezza o energia (proporzionale a H2). Nei calcoli si usa spesso la cosiddetta onda significativa, onda di altezza data, indicata diversamente a seconda del criterio di calcolo (per es. con H1/3 se si assume come onda significativa la media del terzo valore più alto di onde osservate). L’energia totale delle onde è la somma di energia potenziale (legata all’oscillazione rispetto al livello medio del mare) e cinetica (legata al moto orbitale delle particelle); il suo valore medio per unità di superficie è dato da E=ρgH2/8. Il flusso di energia o potenza dell’onda w è l’energia trasmessa per unità di superficie e di tempo nella direzione di propagazione ed è dato da w=Evn=ρgH2vn/8, dove il coefficiente è n=0,5 in acqua profonda e n=1 in acqua poco profonda. La stabilità di un’onda è legata al valore di H/λ che se supera 1/7 rende l’onda instabile e ne causa la rottura. Perciò le onde più alte sono quelle di massime lunghezze d’onda. La ripidità su acqua profonda è legata all’età dell’onda, β=v/U (dove U è la velocità del vento), da diverse relazioni usate per elaborare le osservazioni sul moto ondoso.
Le onde in avvicinamento alla costa interagiscono con il fondale (rifrazione); esse cambiano direzione anche per riflessione e diffrazione. La rifrazione nasce perché porzioni diverse di un fronte d’onda hanno in genere diverse velocità se giungono alla costa (e quindi alle isobate) obliquamente, trovandosi in contemporanea a profondità diverse (la velocità è maggiore in acque più profonde). Ciò ruota il fronte d’onda in modo da ridurre l’angolo con la linea di costa o con le isobate e renderlo parallelo alle isobate e, di solito, alla costa stessa (fig. 25). Un fondale con mor;fologia varia complica le cose, generando convergenza dove esso è più elevato e divergenza dove è depresso. Se lungo la costa vi sono sporgenze rocciose o promontori, l’energia delle onde vi si concentra e determina una forte erosione (fig. 26). La riflessione si ha soprattutto in corrispondenza di coste alte, dove la profondità influenza solo in parte le onde riflesse sulla parete rocciosa, alle quali è trasmessa quasi tutta l’energia incidente (fig. 27). La diffrazione si verifica se il moto ondoso incontra un ostacolo che può essere aggirato o se attraversa aperture ristrette (bocche lagunari, aperture portuali ecc.), il che provoca agitazione superficiale anche in zone protette. Vicino alle spiagge le onde, dato il fondale poco profondo, crescono in altezza fino a rompersi e formare frangenti, di diversi tipi a seconda dell’inclinazione delle spiagge, legata alla granulometria dei sedimenti (fig. 28A).
L’accumulo di acqua vicino alla costa si deve anche alla corrente lungoriva (longshore current) che innesca correnti di compensazione. Essa è dovuta a onde che arrivano oblique alla costa (fig. 25), o meglio alle isobate, scomponibili in due componenti, normale e parallela alle isobate. Quest’ultima agisce dopo la frangenza, nella zona di spiaggia detta zona della risacca o zona di traslazione (fig. 28B), e contribuisce al trasporto o deriva litorale (littoral drift). La corrente lungoriva, accumulando acqua sottocosta, dà luogo a un gradiente orizzontale di pressione, per cui si forma una corrente di compensazione diretta verso mare, detta corrente di risucchio (rip current); essa è molto veloce, erode il fondo, scavando anche canali (canali di risucchio o rip channels), e trasporta sedimenti al largo. L’insieme delle due correnti costituisce una cella di circolazione litorale, quello di più celle adiacenti un sistema di circolazione litorale (fig. 29).
Le onde lunghe, di elevata lunghezza d’onda (dalle decine alle migliaia di km) e trasmesse in superficie o all’interno dell’acqua, si dividono in onde di Kelvin e onde di Rossby. Le prime si propagano lungo settori non estesi, paralleli alla costa o all’equatore; se il moto interessa anche la termoclina, portano in superficie acque ricche di nutrienti, svolgendo lo stesso ruolo dell’upwelling. Le onde di Rossby sono oscillazioni orizzontali prodotte intorno ai paralleli da differenze di vorticità. Tra le onde lunghe, ma a una scala più piccola (λ=300-600 m e H di pochi centimetri), si collocano le onde morte (swell) che, nate in aree di tempesta, si propagano per inerzia al di fuori di esse. Onde lunghe sono anche quelle generate dai maremoti (tsunami) in aree sismiche attive o da estesi franamenti sottomarini; dette anche onde distruttive, provocano devastazioni abbattendosi sulle coste.
Per le maree e i moti reali dell’acqua ➔ marea; turbolenza.
La superficie dell’o. costituisce un livello di riferimento medio, comune a mari e bacini oceanici, e approssima quella dell’ellissoide terrestre. Essa varia in modi e tempi differenti, a livello locale, regionale e globale. Le oscillazioni a breve termine sono legate a variazioni, per es., di pressione atmosferica, vento, evaporazione e apporto meteorico. Gli effetti disgiunti di pressione atmosferica e vento si quantificano difficilmente. La variazione di pressione determina zone di abbassamento o innalzamento (alla differenza di 1 mbar corrisponde una differenza di livello di circa 1 cm). Il vento muove enormi quantità di liquido e soffiando verso costa accumula acqua, provocando un sollevamento (che dura finché esso soffia), mentre soffiando da terra verso mare provoca un abbassamento di livello lungo la fascia costiera. L’evaporazione abbassa il livello del mare, mentre l’apporto meteorico lo innalza. Fattori in parte connessi a quelli citati sono onde, sesse (oscillazioni periodiche del livello di bacini acquei chiusi) e maree.
Su una scala di tempi maggiore (dai secoli ai milioni di anni), le variazioni di livello sono globali (eustatismo) e si risentono in tutti i bacini oceanici. Le maggiori cause sono le variazioni di volume dell’acqua oceanica, che si esplicano su 103-104 anni, e dei bacini oceanici, che si esplicano su 106-107 anni. Le prime sono legate ai cambiamenti climatici, che hanno condotto alle fasi di espansione delle calotte polari e dei ghiacciai terrestri (abbassamento del livello marino) e di ritiro dei ghiacci (sollevamento del livello). Le variazioni globali legate alle glaciazioni sono dette glacio-eustatiche. Il volume dei bacini oceanici varia invece per i processi geodinamici alla base della tettonica delle placche (variazioni tettono-eustatiche). In particolare sono rilevanti le variazioni di volume delle dorsali oceaniche e la subsidenza dei margini continentali passivi. Le prime sono dovute a variazioni del tasso di espansione e della lunghezza del sistema delle dorsali stesse. Più veloce è l’espansione, maggiore è la dimensione della dorsale: se le dorsali si accrescono, si hanno inondazioni marine (trasgressioni) sulle terre emerse, poiché l’acqua si sposta dai bacini oceanici verso i continenti, mentre quando il loro volume si riduce aumenta quello del bacino oceanico, che richiama acqua dalle aree prima invase dal mare. Tali regressioni marine si innescano anche durante e dopo la collisione tra placche continentali, poiché il fenomeno orogenico solleva interi settori di crosta terrestre da cui il mare si ritrae.
In fitogeografia, il regno floristico oceanico comprende la flora degli o. e si può dividere in tre domini: il boreale, l’australe e il tropicale. I primi due hanno ciascuno una flora relativamente uniforme, mentre il dominio tropicale mostra differenze notevoli nelle diverse parti; così le rive americane dell’Atlantico si distinguono notevolmente da quelle africane. Il dominio boreale è caratterizzato dai generi Laminaria, Alaria, Fucus ecc.; quello australe dai generi Macrocystis e Durvillea; quello tropicale dal grande sviluppo del genere Sargassum.
Concentrazione salina, temperatura, densità, proprietà ottiche, pressione e movimenti delle acque sono i fattori che condizionano la vita degli organismi marini. È possibile distinguere organismi eurialini o stenoalini, euritermi o stenotermi, a seconda della differente tolleranza ai diversi valori di salinità e temperatura; anche in rapporto ai differenti valori di concentrazione idrogenica è possibile distinguere forme euriioniche o stenoioniche. Dal fattore termico e di salinità dipendono le migrazioni di alcuni pesci, o l’area di diffusione di alcune specie; la temperatura delle acque condiziona l’accrescimento degli organismi marini e le migrazioni verticali degli animali pelagici. La trasparenza delle acque influisce sulla vegetazione: le radiazioni rosse e gialle dello spettro solare non penetrano oltre i 150-200 m di profondità e questo appunto è il limite per la vegetazione autotrofa e per gli animali fitofagi. Intorno ai 1500-1700 m l’oscurità è completa e, in questo ambiente, dominano i predatori e i detritivori (➔ abisso). La luce e le sue variazioni d’intensità regolano molti altri comportamenti degli organismi, come le migrazioni batimetriche del plancton. Anche la pressione, che aumenta di circa 1 bar ogni 10 m di profondità, è un fattore d’importanza biologica non trascurabile. I movimenti del mare, cioè le onde, le correnti e le maree, esercitano notevoli effetti: gli organismi litoranei presentano una serie di adattamenti per resistere all’azione meccanica delle onde; una fauna particolare trova rifugio nelle fessure e cavità delle rocce e nel cosiddetto ambiente interstiziale; le specie che popolano le zone di marea, quelle cioè soggette a periodiche emersioni, hanno evoluto una serie di adattamenti per sopravvivere al prosciugamento e conservare una certa quantità d’acqua, indispensabile per la respirazione. Le correnti marine, infine, agiscono sulla diffusione attiva e passiva di animali e vegetali.
Nelle sue diverse regioni, l’ambiente marino offre condizioni varie per la vita degli animali, che si raggruppano e si distribuiscono in complessi ecologici (o biomi) diversi: la fauna litorale (o litoranea), propria delle acque costiere; la fauna pelagica, rappresentata dai complessi faunistici che vivono liberi nell’acqua, indipendenti dal fondo marino e dalle rive; la fauna abissale, comprendente gli animali delle acque profonde.