Strumento atto a dare immagini ingrandite di oggetti molto piccoli.
La storia del m. semplice, ossia della lente d’ingrandimento, coincide con la storia delle lenti ottiche in generale; quella del m. vero e proprio ha inizio con la scoperta del cannocchiale (inizi del 17° sec.). È infatti sicuro che i primi m. composti furono dei telescopi, prima normali poi di dimensioni ridotte, nei quali la possibilità di osservare ingranditi oggetti vicinissimi si otteneva spostando convenientemente l’oculare rispetto all’obiettivo. Il merito dell’invenzione del m. è attribuito a vari costruttori di strumenti ottici dell’epoca, soprattutto olandesi; in Italia il primo m. composto fu costruito da G. Galilei (1624), che lo chiamò occhialino e lo donò a F. Cesi. Lo strumento fu in seguito perfezionato in Italia (F. Fontana, G. Campani e altri) e altrove, soprattutto in Inghilterra. Miglioramenti decisivi furono ottenuti però solo nella prima metà del 19° sec., quando si ricorse a combinazioni di lenti tanto per l’oculare quanto per l’obiettivo.
Poiché il potere risolutivo o separatore 1/Δxmin di un m. (dove Δxmin è la minima distanza tra due punti che al m. appaiono ancora separati o risolti) è inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda della radiazione impiegata per illuminare il campione, a partire dai primi decenni del 20° sec. sono stati realizzati m. che utilizzano per l’illuminazione una radiazione elettromagnetica di piccola lunghezza d’onda (ultravioletto e raggi X). Inoltre, il comportamento ondulatorio degli elettroni, previsto dalla meccanica quantistica e comprovato sperimentalmente dalla loro diffrazione in un cristallo, regolato dalla relazione di de Broglie λ=h/p con λ lunghezza d’onda, h costante di Planck e p quantità di moto dell’elettrone, ha suggerito negli anni 1930 la realizzazione di m. a elettroni (con lenti elettriche e magnetiche), di cui si dirà più avanti: è così possibile ottenere poteri risolutivi molto elevati dal momento che elettroni piuttosto lenti (con energia cinetica dell’ordine di 103 eV) hanno lunghezza d’onda dell’ordine del decimo di nanometro (10–10 m, contro i circa 5∙10–7 m della luce).
Un ulteriore decisivo progresso nella microscopia si è avuto a partire dagli anni 1950 con l’introduzione del metodo di formazione delle immagini per scansione: l’illuminazione del campione non è uniforme, ma riguarda solo una piccolissima porzione le cui dimensioni possono determinare la risoluzione del m.; muovendo la sorgente o il campione è possibile via via registrare la risposta relativa a zone diverse del campione mentre se ne effettua l’intera scansione.
Struttura generale. Con il nome di m. semplice si indica talora la lente d’ingrandimento. Il m. composto, o m. senza ulteriori qualifiche, è costituito schematicamente (fig. 1) da un obiettivo a e da un oculare b, a distanza costante tra loro (mentre nel cannocchiale la messa a fuoco si ottiene spostando l’oculare rispetto all’obiettivo, nel m. essa viene fatta spostando tutto il sistema ottico rispetto all’oggetto). L’obiettivo, di piccola distanza focale, è generalmente composto di tre o quattro lenti o gruppi di lenti. L’oggetto AB viene disposto dinanzi all’obiettivo, a una distanza da esso compresa tra la distanza focale e il doppio della distanza focale, così che l’obiettivo medesimo ne dà un’immagine A′B′ reale, ingrandita e capovolta. L’oculare, costituito di solito da un sistema di due lenti, è disposto in modo che A′B′ cada tra esso e il suo fuoco F, cioè in posizione tale da dare di A′B′ un’immagine A″B″, virtuale, diritta rispetto ad A′B′ (quindi capovolta rispetto all’oggetto) e ingrandita; tale immagine è quella vista dall’osservatore attraverso l’oculare. Se la lente frontale dell’obiettivo è, come spesso si usa, una lente pianoconvessa, la faccia piana è rivolta verso l’oggetto. L’obiettivo deve avere un alto potere risolutivo ed essere esente il più possibile da aberrazioni di cromatismo; tra i migliori è il cosiddetto obiettivo apocromatico, dovuto a E. Abbe, perfettamente acromatico per tre colori dello spettro (➔ obiettivo). La sostituzione di una camera fotografica o di un oculare fotografico all’oculare ordinario trasforma il m. in un apparecchio fotografico (apparecchio microfotografico o per microfotografie); sono anche largamente impiegate videocamere per la ripresa televisiva delle immagini, generalmente connesse a un calcolatore.
Dal punto di vista costruttivo un m. è di norma costituito da un robusto supporto, detto stativo, sul quale sono montati un tubo che porta ai suoi estremi l’obiettivo (o gli obiettivi) e l’oculare (o due oculari, nel caso del m. binoculare di fig. 2), e un piatto o tavolino per l’appoggio del preparato: il tubo è suscettibile di spostamenti macrometrici e micrometrici nel senso della lunghezza, comandati rispettivamente da una cremagliera e da una vite micrometrica, per poter agevolmente mettere a fuoco l’immagine. Un utile accessorio del m. è il cosiddetto tavolino traslatore (o tavolino integratore), dispositivo che permette di spostare il preparato mediante viti micrometriche graduate.
Illuminazione. - Il preparato che si vuole osservare deve essere convenientemente illuminato. Si usano tre diversi metodi di illuminazione. Generalmente per i preparati traslucidi si adotta l’illuminazione per trasmissione o a campo chiaro, mentre per quelli molto trasparenti l’illuminazione a campo oscuro o per diffusione. In ambedue i casi il preparato viene intensamente illuminato, ma mentre nel sistema a campo chiaro, che è poi il sistema normale, perviene all’obiettivo la luce che attraversa il preparato, nel sistema a campo oscuro, utilizzando opportuni condensatori, il preparato è illuminato in modo che all’obiettivo giunga solo la luce diffusa dal preparato, con il vantaggio di rendere visibili particolari altrimenti inosservabili (tecnica ultramicroscopica). Per i preparati poco o nulla trasparenti si adotta l’illuminazione per riflessione, illuminando la superficie del preparato in modo che l’obiettivo raccolga la luce riflessa da tale superficie. I dispositivi occorrenti per realizzare questi tre sistemi di illuminazione sono detti illuminatori e sono di norma intercambiabili.
Ingrandimento. - Quando il m. funziona da apparecchio microfotografico, e sono quindi da considerare immagini reali, l’ingrandimento che interessa è quello lineare (rapporto tra le dimensioni lineari omologhe dell’immagine e dell’oggetto). Quando invece il m. funziona proprio come tale, e sono quindi da considerare immagini virtuali, l’ingrandimento che interessa è quello visuale (rapporto tra l’angolo visuale sotto il quale è vista una dimensione lineare dell’immagine e l’angolo sotto il quale sarebbe vista, alla distanza della visione distinta, l’omologa dimensione dell’oggetto). La misura di tale ingrandimento si può considerare come prodotto di due fattori: il cosiddetto ingrandimento d’oculare, pari al rapporto 250/f1, ove f1 è, in millimetri, la distanza focale dell’oculare, e l’ingrandimento d’obiettivo, pari al rapporto Δ/f2, ove Δ e f2 sono, in millimetri, rispettivamente l’intervallo ottico (distanza tra il fuoco posteriore dell’obiettivo e il fuoco anteriore dell’oculare) e la distanza focale dell’obiettivo. L’ingrandimento che un m. può dare, cioè il prodotto dell’ingrandimento d’obiettivo per il numero d’oculare, varia molto da tipo a tipo: per variare l’ingrandimento, di norma si ricorre a vari obiettivi, montati su un portaobiettivi rotante (a revolver), il quale li sposta uno alla volta sull’asse ottico dello strumento. Poiché l’intervallo ottico è fisso, la messa a fuoco si ottiene spostando con viti micrometriche il sistema obiettivo-oculare rispetto all’oggetto.
Tipi di m. ottici. - Il m. confocale a scansione, introdotto da M. Minsky nel 1955, è basato sull’uso di una sorgente luminosa puntiforme che viene focheggiata in un piccolissimo elemento di volume (detto voxel) del campione; la luce proveniente dal voxel è convogliata su un rivelatore anch’esso puntiforme: l’immagine viene prodotta sequenzialmente in scansione come somma di elementi di immagine (pixel) che ricordano le tessere di un mosaico. In fig. 3 è mostrato lo schema di un m. di questo tipo per osservazioni in luce trasmessa: l’intensa sorgente S, resa puntiforme dal diaframma d1, è focheggiata dalla lente l1 in un voxel del campione c; la luce emessa dal voxel è concentrata dalla seconda lente l2 sul rivelatore r dotato del diaframma d2. Il segnale prodotto dal rivelatore (un fotomoltiplicatore o un fotodiodo), sincronizzato con il moto di scansione del m., è inviato a un display che riproduce un’immagine ingrandita del campione. Pregi caratteristici di questo m. sono un potere risolutivo superiore a quello di un normale m. ottico e la produzione di immagini a forte contrasto che mostrano dettagli fini non altrimenti visibili.
Il m. a contrasto di fase sfrutta l’interferenza fra le onde diffratte dai particolari dell’oggetto in esame (trasparente) e le onde ‘dirette’, cioè la luce che rappresenta il fondo imperturbato proveniente dal piano oggetto; modificando mediante un’opportuna lamina birifrangente la fase dell’onda diretta, si riesce a ottenere un forte contrasto luminoso in corrispondenza dei particolari dell’oggetto. Il m. a contrasto di fase non porta a un aumento del potere separatore, bensì a un aumento della capacità di apprezzare differenze, anche piccole (dell’ordine di 10 nm), di spessore nella direzione dell’asse ottico.
Il m. a luce ultravioletta è un m. fotografico in cui il preparato è illuminato con luce ultravioletta, sia per aumentare il potere risolutivo in conseguenza della minore lunghezza d’onda, sia soprattutto per sfruttare le forti differenze di assorbimento della radiazione nel campione in esame, differenze che danno luogo a un notevole contrasto, che non si ha nei m. usuali in luce visibile.
Il m. metallografico è uno speciale tipo di m. visuale e fotografico che, data l’opacità dei metalli, è costruito in modo da permettere l’osservazione per riflessione. Si adottano particolari accorgimenti per realizzare una conveniente illuminazione del campione. Così, in genere, il fascio luminoso, proveniente da una lampada e opportunamente filtrato, viene inviato al campione da esaminare attraverso lo stesso obiettivo; la superficie che si deve esaminare, essendo stata resa perfettamente speculare, fornisce un’immagine che è poi ricevuta direttamente dagli oculari. Per ottenere questo risultato i raggi luminosi dalla sorgente sono convogliati all’obiettivo mediante un prisma a riflessione totale; nel percorso di ritorno, dato il diverso angolo di incidenza, i raggi non vengono riflessi dal suddetto prisma e pertanto possono essere convogliati all’oculare.
Il m. polarizzatore (o polarizzante) è un m. al quale sono aggiunti un filtro polarizzatore e un filtro analizzatore, montati su cerchi graduati e disposti il primo tra la sorgente luminosa e il condensatore, il secondo tra l’obiettivo e l’oculare. L’illuminazione è di solito per trasparenza e lo strumento consente osservazioni in luce polarizzata, utili specialmente per mettere in evidenza particolari non rilevabili con il m. ordinario. È lo strumento principe per le indagini mineralogiche.
Il m. a raggi X è un m. fotografico o con videocamera in cui il preparato è illuminato con raggi X molli monocromatici; il sistema ottico è realizzato mediante microreticoli di Fresnel in trasmissione o in riflessione. Con esso si conseguono vantaggi simili a quelli ottenibili con un m. a luce ultravioletta, in più può essere usato anche con oggetti opachi alla luce ordinaria e alla luce ultravioletta. Si raggiungono risoluzioni intorno ai 20 nm.
M. in cui il campione è esaminato con un fascio di elettroni, anziché con luce visibile. Ideato intorno al 1931, fu praticamente realizzato e grandemente perfezionato soprattutto per merito di M. von Ardenne, E. Ruska e B. von Borries; per le sue eccezionali prestazioni (ingrandimenti sino a oltre 1.000.000; separazione sino a qualche decimo di nanometro) ha aperto prospettive nuove e molto vaste nei più disparati campi di ricerca.
Schema di funzionamento. - Per il m. elettronico lo schema di funzionamento è analogo a quello del m. ottico. La sorgente luminosa è sostituita da una sorgente di elettroni (generalmente un catodo termoelettronico) e le lenti (condensatore, obiettivo, oculare, lente di proiezione) sono lenti elettromagnetiche; l’osservazione viene fatta su uno schermo fluorescente sul quale è proiettata l’immagine elettronica dell’oggetto. Tutto il sistema (sorgente, lenti, oggetto, schermo) è contenuto in un recipiente in cui si pratica un vuoto spinto. Visto che i fotoni che compongono una radiazione luminosa hanno lunghezza d’onda molto maggiore di quella degli elettroni e dato che il potere risolutivo di un m. è inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda della radiazione utilizzata per l’illuminazione, usando gli elettroni, nel m. elettronico si raggiungono risoluzioni notevolmente superiori a quelle ottenute nel m. ottico. Gli elettroni sono accelerati da potenziali compresi tra i limiti approssimativi di 20 e oltre 1000 kV. Il potere separatore di un m. elettronico è limitato essenzialmente dall’aberrazione sferica, con un potenziale acceleratore di 100 kV si ha, per es., Δxmin ≃ 0,3 nm. Dal punto di vista dell’illuminazione dell’oggetto da osservare, i m. elettronici si distinguono in m. a trasmissione, anche detti TEM (transmission electron microscope), in cui il fascio di elettroni attraversa l’oggetto prima di entrare nel sistema di lenti (fig. 4), m. a riflessione, in cui il fascio viene riflesso dall’oggetto, e m. a emissione, in cui l’oggetto stesso costituisce la sorgente di elettroni, in quanto capace di emissione termoelettronica, fotoelettronica o secondaria. I m. elettronici a trasmissione possono essere usati anche a diffrazione. La grande risoluzione dei m. elettronici può essere sfruttata solo se l’immagine presenta un sufficiente contrasto: per raggiungerlo si utilizzano il contrasto incoerente di ampiezza, il contrasto coerente d’ampiezza o di diffrazione e il contrasto di fase. In generale, nei m. elettronici la rivelazione dell’immagine avviene visivamente, mediante schermi fluorescenti, oppure mediante una fotocamera o una videocamera.
Nei m. elettronici a scansione (SEM, scanning electron microscope; SEAM, scanning electron acoustic microscope) gli elettroni trasmessi, diffratti o riflessi dal campione (fig. 5), vengono convertiti direttamente in segnali elettrici da rivelatori (per es., moltiplicatori elettronici ad alta sensibilità e linearità). Il pennello elettronico incidente (il cui diametro è circa pari alla risoluzione) effettua, per azioni di particolari elettromagneti deflettori, una scansione del campione in esame; il segnale elettrico ottenuto dal rivelatore è analizzato come un normale segnale televisivo e l’immagine può essere osservata su un display. Generalmente, il segnale costituente l’immagine è memorizzato, analizzato ed elaborato mediante un calcolatore. I metodi di preparazione dei campioni variano a seconda dello strumento; le difficoltà maggiori si incontrano nei m. a trasmissione, a causa del piccolo spessore che il campione deve avere (da pochi nanometri ad alcuni micrometri).
M. elettronico a emissione di campo. - Strumento che consente di ottenere immagini elettroniche con ingrandimento e risoluzione assai maggiori di quelli conseguibili con m. elettronici ordinari. Il suo principio fu sperimentato per la prima volta nel 1956 dal tedesco E.W. Müller. È basato su una punta conduttrice (che costituisce il campione) di diametro minore di un decimo di micrometro, posta al centro di una sfera di vetro con la superficie interna ricoperta da uno strato conduttore fluorescente, nella quale è fatto il vuoto. Se una differenza di potenziale molto elevata è applicata tra la punta (catodo) e lo schermo fluorescente (anodo), sulla punta medesima le linee di forza sono estremamente concentrate e il campo elettrico, che può raggiungere valori di 109 V/m, strappa elettroni dalla superficie metallica. Questi, seguendo le linee di forza radiali, raggiungono lo schermo fluorescente sul quale si forma così un’immagine della punta dell’ago o più precisamente una mappa della sua emissività elettronica. Con questo m. si può raggiungere una risoluzione dell’ordine del nanometro.
Tra le tecniche ad alta risoluzione spaziale che consentono lo studio della struttura superficiale e delle proprietà locali dei materiali, una delle più potenti è quella effettuata mediante un m. a scansione di sonda (SPM, scanning probe microscope), nel quale l’elemento che esegue la scansione superficiale del campione è costituito da una punta molto sottile; sfruttando l’interazione tra punta e campione si ottengono le immagini utili a ricavare le proprietà del materiale che costituisce il campione.
M. a scansione a effetto tunnel. - M. privo di lenti, anche detto STM (scanning tunneling microscope), ideato e realizzato nel 1981 da G. Binnig e H. Rohrer, nel quale una sonda, costituita da uno stilo sensibile molto sottile, esplora la superficie di campioni conduttori, con risoluzioni laterali di qualche decimo di nanometro e in profondità dell’ordine del picometro. Può funzionare in vuoto spinto, in atmosfera e con il preparato immerso in un liquido. Si basa sull’effetto tunnel che ha luogo fra due materiali conduttori (per es., il campione c e una punta p) ai quali è applicata una differenza di potenziale V, quando i loro atomi si trovano a distanze s dell’ordine del nanometro (inserto A in fig. 6). L’intensità della corrente i di elettroni, da o verso la punta (a seconda della polarità) posta alla distanza s dal campione, decresce esponenzialmente con s. Alla punta si fornisce un moto di scansione in un piano (x, y) parallelo alla superficie media del campione, il quale viene esplorato dalla punta p. Contemporaneamente viene rivelata e mantenuta costante la corrente di tunnel i mediante un servomeccanismo. Se il campione presenta una superficie irregolare, imporre la costanza di i, data la sua critica dipendenza da s, richiede che la punta resti a distanza costante da c. Ciò si ottiene con un circuito di reazione r agente sull’elemento piezoelettrico e che comanda il moto della punta in direzione (z) perpendicolare alla superficie di c; la tensione da applicare a e perché i resti costante è quindi proporzionale ai rilievi (anche di altezza atomica) della superficie. Se i preparati hanno superfici piane e quasi perfette, il m. fornisce informazioni sulla densità degli stati elettronici. La risoluzione ottenuta con tale strumento permette agevolmente di osservare atomi singoli di una superficie.
M. a forza atomica. - La struttura di questo m., anche detto AFM (atomic force microscope) è analoga a quella del m. a scansione a effetto tunnel, rispetto al quale, però, presenta il vantaggio di poter analizzare anche materiali non conduttori. L’elemento costituente fondamentale consiste in una microleva, detta cantilever, sulla quale è montata una punta avente raggio di curvatura dell’ordine del nanometro, mediante la quale si esplora la superficie del campione secondo due modalità, a contatto oppure a breve distanza dalla superficie (frazioni di nanometro). L’interazione, dovuta alle forze di Van der Waals, tra punta e campione, produce la deflessione del cantilever, la quale, mediante un sistema di rilevamento molto sensibile costituito essenzialmente da un laser e un fotodiodo, viene trasformata in un segnale elettrico da cui si ottiene un’immagine topografica della superficie del campione. L’elevato potere risolutivo di questo strumento consente l’osservazione dei singoli atomi costituenti la superficie del campione.
M. ottico a scansione in campo vicino. - Questo m., anche detto SNOM (scanning near-field optical microscope), consente di superare il limite intrinseco del potere risolutivo, dovuto alla diffrazione, dei m. ottici tradizionali in luce visibile (Δxmin dell’ordine delle frazioni di micrometro), raggiungendo, per Δxmin, valori dell’ordine della decina di nanometri. Il fenomeno alla base del suo funzionamento è dato dall’illuminazione del campione, che avviene attraverso una piccola apertura avente dimensioni molto minori della lunghezza d’onda della luce visibile incidente; inoltre, anche la distanza tra l’apertura e la superficie del campione deve essere molto minore della lunghezza d’onda della luce, facendo rimanere la superficie nella regione di campo vicino. Una sonda (per es., una fibra ottica), raccoglie la radiazione riflessa o trasmessa dal campione, la quale, convertita in un segnale elettrico, fornisce l’immagine della superficie.
La tecnica microscopica assume particolare importanza in biologia; in tale campo d’indagine, l’osservazione di un oggetto può essere fatta ‘a fresco’ in un liquido atto a mantenere in vita il preparato (acqua, liquidi organici, soluzioni saline). Si mette l’oggetto da osservare sopra un vetrino portaoggetti (lastrina di vetro spessa pochi millimetri) e si copre con il coprioggetti (lastrina più piccola, spessa pochi decimi di millimetro). Le possibilità di osservazione a fresco sono limitate, perché gli indici di rifrazione dei diversi costituenti cellulari sono poco diversi; tuttavia, con il m. a contrasto di fase si riesce ad aumentare considerevolmente le piccole differenze tra gli indici di rifrazione degli oggetti cellulari, potendosi così identificare un numero maggiore di strutture che non con il m. ordinario.
Per ottenere preparati permanenti, e mettere bene in evidenza i diversi costituenti dei tessuti e delle cellule, si deve innanzitutto procedere alla fissazione dell’oggetto, immergendolo in miscele di liquidi (alcol, formalina, soluzioni di sali di metalli pesanti, acidi, basi ecc.) adatti a ucciderlo, conservandone la forma e rispettandone l’intima struttura. Poi, se l’oggetto da studiare non è molto sottile e trasparente, occorre sezionarlo in fettine sottilissime, ciò che si fa, dopo averlo incluso in un blocchetto di paraffina, per mezzo di strumenti appositi, chiamati microtomi. Le sezioni così ottenute si fanno poi aderire a un vetrino portaoggetti.