Toscana Regione dell’Italia centrale (22.987 km2 con 3.692.555 ab. nel 2020, ripartiti in 273 Comuni; densità 161 ab./km2). Di forma grosso modo triangolare, ha limiti naturali relativamente ben definiti, in quanto corrisponde approssimativamente al versante tirrenico dell’Appennino Settentrionale, compreso fra la linea di costa ligure-tirrenica (incluso un nutrito gruppo insulare, definito Arcipelago Toscano), a O, e la linea spartiacque di tale sezione dell’Appennino, a NE; al di là di quest’ultima linea, sul versante adriatico, ingloba le alte valli di alcuni bacini idrografici tributari dell’Adriatico (Reno, Santerno, Senio, Lamone, Marecchia, Foglia); il terzo lato del triangolo, quello di SE, non ha invece quasi nessun riferimento naturale e taglia trasversalmente dorsali e vallate. Confina con l’Emilia-Romagna a N e NE, per un breve tratto con le Marche a E, con l’Umbria a E e SE, con il Lazio a SE e infine, per un altro breve tratto, con la Liguria a NO. Il capoluogo di regione è Firenze.
La Toscana è regione per 2/3 collinare, per più di 1/5 montuosa e per il rimanente (1/10) pianeggiante. I rilievi più elevati sono quelli dell’Appennino Tosco-Emiliano, che a NE fanno appunto da confine con l’Emilia-Romagna: culminano in territorio emiliano con il Monte Cimone (2165 m) e superano raramente, e di poco, i 2000 m in territorio toscano. Dalla catena principale, che corre da NO a SE, si diramano sul versante toscano robuste appendici come le Alpi Apuane, tra il Massese e la Lucchesia (quota massima il Monte Pisanino, 1945 m), il Pratomagno e l’Alpe di Catenaia, nell’Aretino. Altri rilievi montuosi, non in catene ma in gruppi isolati, si trovano al di fuori dell’Appennino, tenuti ben distinti da esso dal solco del Valdarno. Tali rilievi hanno natura litologica eterogenea ed età geologica assai varia: dall’antichissimo Monte Pisano (918 m) fino al Monte Amiata (1738 m), di origine vulcanica recente, passando per le Cornate, al culmine delle Colline Metallifere (1060 m), e per il granitico Monte Capanne (1018 m), nell’Isola d’Elba. Nell’insieme questi rilievi si definiscono tradizionalmente Antiappennino e sono per lo più circondati da vaste estensioni di colline, (Monti del Chianti, colline calcaree del Grossetano, colline della Val d’Era o della Val d’Orcia ecc.), tradizionale simbolo del più tipico paesaggio toscano. Lembi pianeggianti, di natura alluvionale, si trovano lungo le principali valli e nelle conche intermontane, oltre che lungo le coste; i più estesi (la Piana di Pisa e quella di Grosseto) si collocano appunto là dove i due fiumi principali, rispettivamente l’Arno e l’Ombrone, si avviano alla foce. Le pianure costiere, specie quelle della T. centro-meridionale, sono chiamate maremme perché paludose e viste a lungo come una sorta di appendice del mare, definitivamente bonificate solo in tempi recenti (➔ maremma).
Circa una quindicina di isole fronteggiano le coste toscane: si va da piccoli scogli disabitati, definiti localmente formiche (Formiche di Grosseto, Formica di Montecristo), fino all’Elba (224 km2), terza isola italiana per superficie.
L’assetto morfologico della regione, con la robusta protezione offerta dalla catena appenninica a N e a NE, e l’ampia possibilità di penetrazione dell’influenza marittima, rende il clima della T. complessivamente mite e sostanzialmente di tipo mediterraneo. La media termica di gennaio scende al di sotto dello zero solamente in montagna, oltre i 1000 m di altitudine; in pianura, nell’interno si raggiungono i 5 °C, sul mare i 7 °C, fino a 9 °C sulle coste dell’Elba e dell’Argentario. Nel mese più caldo, luglio, le condizioni naturalmente si invertono: si registra una media di 23 °C sulle coste e di 25 °C nelle conche interne; in montagna, oltre i 1000 m s.l.m., le medie si attestano sui 16-17 °C. Più variabili da luogo a luogo le precipitazioni: si va dagli oltre 3000 mm annui delle Alpi Apuane a meno di 600 mm nel piatto delta dell’Ombrone.
I corsi d’acqua toscani, non esclusi i principali, hanno per la maggior parte dell’anno portate relativamente modeste, e ciò non solo per l’irregolare regime delle piogge, ma anche perché drenano bacini per lo più impermeabili o semi-permeabili, con conseguente smaltimento veloce degli afflussi meteorici. A questo regime torrentizio non sfugge il maggior fiume della regione, l’Arno: infatti il rapporto fra la sua portata assoluta minima e quella massima, alle porte di Pisa, è di 1 a 100, il che spiega la frequenza delle piene, anche rovinose, peraltro contrastate dai più svariati accorgimenti di difesa (dagli argini agli scolmatori e ai bacini artificiali). Il bacino dell’Arno (oltre 8200 km2) equivale a più di 1/3 della superficie della T.; quello dell’Ombrone, secondo fiume toscano, ne occupa un po’ più di 1/7 (3480 km2) e risulta la principale unità idrografica della T. meridionale. Altri corsi d’acqua con sbocco indipendente al mare sono a N la Magra, al confine tosco-ligure, e il Serchio, quasi totalmente lucchese; al centro della regione il Cecina, a S l’Albegna; non va dimenticato, infine, il tratto sorgentizio del Tevere, nell’angolo E del territorio toscano.
La vegetazione spontanea occupa in T. spazi assai estesi: i boschi, in particolare, coprono 654.000 ettari, il 14% del patrimonio forestale italiano. Sui tratti rocciosi delle coste (colline livornesi, Elba, Argentario) domina la macchia mediterranea, per lo più arbustiva e cespugliosa; sui litorali sabbiosi, invece, sono ancora fitte le pinete, pur se degradate dall’inquinamento e dagli interventi antropici. Nelle pianure e sulle colline prevalgono le coltivazioni, ma al di sopra dei 500 m s.l.m. si fanno frequenti i boschi di querce e di castagni. Oltre i 1000 e fino ai 1500-1700 m s.l.m. domina il faggio, mentre l’abete si trova soltanto in luoghi specifici, come eccezione introdotta o favorita dall’uomo (Abetone, Vallombrosa, Camaldoli). Sul più alto Appennino, infine, oltre i 1700 m s.l.m. rimane spazio per una magra vegetazione prativa, definita localmente alpe.
La T., che aveva circa 2 milioni di abitanti all’epoca della formazione del Regno d’Italia, superò i 3 milioni negli anni 1930 e i 3,5 nei primi anni 1970, per poi frenare la sua crescita demografica e attestarsi poco sopra i 3,5 milioni di abitanti. Si tratta di un fenomeno comune a tutta l’Italia, e in particolare a quella centro-settentrionale, ma che in T. è più accentuato: il tasso di natalità è fra i più bassi del paese (8,9‰ nel 2009), quello di mortalità fra i più alti (11,2‰). Solo i consistenti flussi immigratori (prevalentemente stranieri) compensano parzialmente il deficit naturale. Dato, poi, che il decremento della natalità è stato in T. piuttosto precoce (intorno all’8‰ già nel 1981), e che la speranza media di vita fa registrare un valore leggermente superiore a quello nazionale, la struttura per età della popolazione toscana risulta marcatamente senile (il 23,3% degli abitanti ha più di 65 anni e solo il 12,5% meno di 14). La densità di popolazione (162,8 ab./km2) è inferiore a quella media nazionale (201 ab./km2). I valori provinciali di densità, peraltro, variano tra quello elevatissimo di Prato (696 ab./km2); quelli elevati, superiori ai 200 ab./km2, della maggior parte delle province settentrionali (Lucca, Livorno, Pistoia, Firenze) e quelli inferiori ai 120 ab./km2 delle tre province meridionali, con minimo in quella di Grosseto (49,5 ab./km2), che risente della storica repulsione all’insediamento esercitata dalla Maremma. Anche all’interno delle singole province si notano ovviamente forti differenze di densità, per es. fra le parti pianeggianti e quelle montane della Lucchesia o del Pistoiese, fra le aree urbanizzate e quelle rurali, e così via.
Se, prescindendo dai confini provinciali, si disegna una sorta di triangolo collocandone i vertici in Firenze, Carrara e Livorno, ne risulta un’area di circa 3000 km2 che, pur rappresentando soltanto 1/8 della superficie della regione, ne concentra più di metà della popolazione (oltre 2 milioni di ab.). In esso, definibile come conurbazione toscana per gli stretti legami funzionali interni e le fitte vie di comunicazione, si collocano le maggiori agglomerazioni della regione (Firenze-Prato e Livorno-Pisa-Pontedera), nonché un gran numero di città medie, piccole e di centri disposti in una fitta trama (campagna urbanizzata). L’attuale dinamica migratoria interna alla T., però, oltre a spostare popolazione dalle città maggiori ai centri suburbani, tende a valorizzare altre aree del territorio regionale, come alcuni comuni costieri della Maremma, grazie allo sviluppo turistico, e, a partire dagli anni 1980, vasti spazi rurali delle tre province interne di Firenze, Arezzo e Siena, favoriti da una specifica politica infrastrutturale, dalla tenuta della piccola industria locale, dalla razionalizzazione agricola e dalla diffusione dell’agriturismo.
La T. è una regione a economia essenzialmente terziaria, con un buon settore industriale e un’agricoltura ormai largamente marginale: essa si colloca tra le regioni italiane ‘ricche’, con un reddito medio per abitante che supera del 9% la media nazionale (2008), pur restando inferiore a quello di quasi tutte le regioni del Nord. L’agricoltura, che occupa (2008) il 3,5% della forza lavoro, ha visto nel tempo la secolare coltura promiscua, dominata dal seminativo arborato, cedere gradualmente il terreno alle colture specializzate a pieno campo (cereali, foraggere, piante industriali, vigneto compatto). Con il progressivo contrarsi del numero degli addetti, si è andato accentuando il processo di accorpamento delle proprietà in grandi aziende caratterizzate dall’utilizzo di moderne tecniche colturali. Nei terreni a seminativo si producono tutti i principali cereali: quasi 6 milioni di q di frumento e oltre 1,5 milioni di q di mais (2008); notevole anche la produzione di avena (428.000 q). Relativamente limitata, nonostante le tradizioni, la produzione di vino (2,7 milioni di hl nel 2008) e di olio d’oliva (172.000 q): per la prima, la T. occupa il 6° posto fra le regioni italiane, per la seconda, il 7°. Tra le coltivazioni industriali, di grande rilievo quella del girasole (345.000 q), di cui la T. è la terza regione produttrice dopo Umbria e Marche. L’allevamento si concentra soprattutto sugli ovini (quasi 600.000 capi) e i suini (quasi 200.000), mentre i bovini superano di poco i 133.000 capi. Modestissime, nonostante il lungo sviluppo costiero, l’attività e la produzione pescherecce.
L’industria, che impiega il 30,7% della forza lavoro, ha una buona tradizione e una struttura diversificata. Ben poco è rimasto, per esaurimento dei minerali o sopravvenuta antieconomicità dell’estrazione, della gloriosa attività mineraria toscana, di tradizione addirittura etrusca; rimangono attivi e importanti i giacimenti di salgemma e le cave del marmo apuano, esportato in tutto il mondo, nonché i soffioni boraciferi di Larderello, impiegati per produrre energia geotermoelettrica (5 miliardi di kWh nel 2003). La grande industria di trasformazione è presente con alcuni stabilimenti che per lo più fanno capo a società o centri direttivi esterni alla regione, e localizzati specialmente nelle province costiere: zone industriali di Massa e Carrara e di Livorno, Pisa (vetreria), Pontedera (motoveicoli), Rosignano (industria chimica), Piombino (siderurgia). Alcune di queste industrie sono da tempo in crisi e quasi tutte hanno progressivamente ridotto il numero dei loro dipendenti, per cui il grosso dell’occupazione industriale si frammenta in una miriade di piccole e medie industrie leggere (fino al limite di laboratori artigianali), con bassa intensità di capitale e modesto contenuto tecnologico, localizzate soprattutto nei centri minori, dove affondano le loro radici in tradizioni medievali. Tipica espressione del tessuto industriale dell’‘Italia di mezzo’, queste attività sono in continua, dinamica evoluzione: per naturale effetto d’imitazione, per necessaria complementarità di singole specializzazioni e per evidenti economie di localizzazione, esse risultano per lo più raggruppate in aree omogenee nei settori tessile (area pratese), dell’abbigliamento e confezioni (area empolese), conciario (Santa Croce sull’Arno, Ponte a Egola), calzaturiero (Fucecchio, Monsummano), del mobile (Cascina, Ponsacco), della carta (Lucchesia), dell’oreficeria (Arezzo e dintorni).
Come in tutte le regioni italiane, la maggioranza assoluta delle forze di lavoro toscane (65,7%) trova impiego nel settore terziario. Si tratta naturalmente della grande massa del terziario tradizionale, dal commercio ai servizi pubblici, ma spiccano anche segmenti di terziario avanzato, come la docenza e la ricerca scientifica nelle città universitarie di Firenze, Pisa e Siena, nonché le piccole industrie a tecnologia innovativa. Una quota rilevante degli impieghi terziari sono inoltre forniti dal turismo. Le città toscane hanno una storia lunghissima e illustre alle loro spalle, di cui hanno conservato splendide testimonianze artistiche che esercitano una forte attrazione su visitatori di ogni parte del mondo: Firenze, Pisa, Siena, Lucca, Arezzo, Pistoia, ma anche centri minori come Volterra, San Gimignano, Massa Marittima ecc., vedono l’arrivo incessante di flussi turistici che alimentano il settore alberghiero, della ristorazione, dei commerci e dei servizi specializzati. A questi vanno aggiunti gli effetti economici e occupazionali del turismo balneare in Versilia, all’Elba e nelle stazioni della T. meridionale (Punta Ala, Castiglione della Pescaia, Argentario, Capalbio); del turismo termale in centri rinomati come Montecatini e Chianciano; della villeggiatura montana e delle vacanze sciistiche sull’Appennino (Abetone). Il tasso di disoccupazione regionale (5,0 nel 2008) mostra, a causa della ripercussione in termini occupazionali della difficile situazione economica nazionale e internazionale, una crescita contenuta rispetto agli anni immediatamente precedenti. Particolarmente penalizzati sono risultati i settori primario e secondario.
La T. interna è attraversata dal maggiore asse di comunicazioni dell’Italia, quello che collega il Nord con Roma e il Mezzogiorno: ferrovia Milano-Firenze-Roma e Autostrada del Sole. Nel 1992 è stato inaugurato il tracciato ad alta velocità tra Firenze e la capitale (ferrovia direttissima Firenze-Roma). Ottimi i collegamenti nel triangolo della conurbazione toscana: alle due ferrovie Firenze-Pisa-Livorno e Firenze-Prato-Pistoia-Lucca-Viareggio si aggiungono l’autostrada A11, nota anche come autostrada Firenze-Mare, e la superstrada (completata nel 1990) Firenze-Pisa-Livorno. Porto principale è quello di Livorno, con un terminale per container fra i più importanti del Mediterraneo. Nel primo decennio degli anni 2000 è andato aumentando il numero di passeggeri in transito, prevalentemente nell’ambito di un crescente sviluppo del traffico crocieristico, così com’è aumenta l’attività aeroportuale per quanto riguarda i flussi di passeggeri nei due principali scali toscani (Firenze e Pisa).
La presenza dell’uomo in T. fin dal Paleolitico inferiore antico sembra attestata da ritrovamenti isolati riferibili alla pebble culture della zona di Livorno. In T. è ben rappresentato il Paleolitico medio, con facies musteriane datate a 50.000-40.000 anni fa, in superficie e in grotte. I popoli cacciatori e raccoglitori del Paleolitico superiore hanno lasciato resti che documentano varie industrie (uluzziane, protoaurignaziane, gravettiane, epigravettiane). Scarsamente documentato è il Mesolitico; il Neolitico presenta una complessa evoluzione a partire da insediamenti riferibili alla cultura della ceramica impressa, i cui portatori praticavano l’agricoltura e l’allevamento. Nell’Eneolitico e nell’età del Bronzo antico ebbero sviluppo la facies di Rinaldone, la cultura del vaso campaniforme e vari aspetti locali, cui seguirono facies uniformi, prima quella appenninica (1400-1300 a.C.), poi la subappenninica. Con la prima civiltà del Ferro in tutta la regione toscana si diffuse l’aspetto villanoviano, documentato dai sepolcri di Vetulonia, di Populonia, Volterra, Chiusi ecc. Oggetti particolari sono le stele antropomorfe della Lunigiana, di carattere forse funerario, distinte in due classi: le più antiche dell’età del Bronzo finale, con figure maschili, armate di pugnale triangolare; le più recenti con giavellotti e ascia.
Per la storia della T. in età antica ➔ Etruria.
Medioevo. La Tuscia (da cui Tuscania e T.), il cui nome divenne ufficiale con l’ordinamento dioclezianeo, nel 5° sec. seguì la sorte delle altre parti d’Italia: devastata dagli Alamanni, fu poi sotto il dominio di Odoacre, dei Goti, dei Longobardi; sotto questi ultimi (569-774), ebbe come centro principale Lucca, la cui preminenza continuò anche sotto i Franchi. Primo conte fu Bonifacio (812-23). Nella seconda metà del 9° sec. il conte di Lucca Adalberto I (845-98) fu investito del marchesato di Tuscia e alla metà dell’11° sec. questo passò agli Attoni, già signori di Canossa, Modena, Reggio, Mantova. In quello stesso secolo si costituirono le prime autonomie comunali e in seguito Pisa, Lucca, Pistoia, Siena, Firenze, Arezzo, divenute importanti centri di attività artigianale e mercantile, lottarono per l’egemonia sulla regione. Dall’11° al 12° sec. primeggiò Pisa, ma dopo la sconfitta della Meloria (1284) l’iniziativa passò a Firenze, che costringendo a patti Siena (1269), poi Arezzo (1289), quindi Pistoia, diede inizio alla propria egemonia regionale; nel 1406 con la conquista di Pisa aveva sotto il suo dominio quasi tutta la T., con l’eccezione di Lucca e Siena. Con il 15° sec. la funzione storica della T., e di Firenze in particolare, si spiegò in campo assai vasto per il contributo dato al rinnovamento culturale e artistico del Rinascimento. Frattanto le forme comunali, sperimentate da Firenze nella seconda metà del Trecento, verso il 1430 furono soppiantate dalla signoria dei Medici.
Età moderna. Un secolo dopo, per accordo tra papa Clemente VII e Carlo V, nacque il principato mediceo e Alessandro de’ Medici con la Costituzione del 1532 gettò i fondamenti dello Stato regionale. Cosimo I, succedendogli (1537) compì il processo di unificazione, da una parte con la guerra di Siena (1554-55) e l’annessione del territorio dell’antica rivale, dall’altra con riforme che conferirono assetto omogeneo al principato, che nel 1569 fu elevato a granducato. Restavano fuori Massa e Carrara, la Repubblica di Lucca, il principato di Piombino, lo Stato dei Presidi e (fino al 1608) la contea di Pitigliano. Dopo lo scialbo principato di Francesco I (1574-87), il granduca Ferdinando I (1587-1609) attuò una politica favorevole alla Francia che inserì il granducato nella più vasta politica europea; dette inoltre incremento all’agricoltura con larghe bonifiche nella Valdichiana, nella Maremma senese e nel Pisano. Cosimo II (1610-21) continuò con scarsa energia la politica paterna; altrettanto fiacco fu il governo del consiglio di reggenza (1621-28) e quello del granduca Ferdinando II (1628-70). La dinastia si estinse con Giangastone nel 1737.
Dopo la guerra di successione polacca e l’assegnazione del granducato di T. a Francesco Stefano di Lorena furono risanate le finanze e ridotto il debito pubblico, una politica economica con indirizzo liberistico migliorò le condizioni del paese. Sotto Pietro Leopoldo (1765-90) furono curate le bonifiche e il ripopolamento di territori malsani e venne favorita l’agricoltura con la formazione della piccola proprietà. Occupata dai Francesi per breve tempo nel marzo 1799, la T. fu da loro nuovamente occupata nel 1800, e per il trattato di Lunéville fu assegnata a Ludovico di Borbone con il titolo di re d’Etruria. Con il trattato di Fontainebleau del 1807 fu annessa all’Impero francese e, sotto il governo di Elisa Baciocchi, conobbe notevoli riforme.
Con la Restaurazione si tornò agli ordinamenti politici preesistenti all’occupazione francese, ma furono anche conservate molte delle innovazioni del regime napoleonico (il codice di commercio, il sistema ipotecario, la pubblicità dei giudizi, lo stato civile). Da ciò, per riflesso, un orientamento tutto particolare dello spirito pubblico, scarsamente sensibile agli appelli delle società segrete e dei partiti avversi ai regimi restaurati. Sotto il governo saggio e tollerante di Leopoldo II (1824) cominciò invece a svolgere la sua opera un cenacolo di intellettuali di tendenze moderate (G. Capponi, C. Ridolfi, R. Lambruschini, B. Ricasoli, V. Salvagnoli), raccoltisi intorno a G.P. Vieusseux, i quali, dapprima sotto la veste di studiosi, poi facendosi promotori di riforme, prepararono il rinnovamento civile e politico della Toscana. Nel 1848 il granduca concesse la libertà di stampa, la guardia civica e lo statuto, e il moderato Ridolfi, instaurato il regime costituzionale, assunse la presidenza del Consiglio. Con i rovesci militari della prima guerra d’Indipendenza, a un breve ministero di Capponi (1848) seguì un ministero guidato da F.D. Guerrazzi e G. Montanelli, che tentò d’imporre a Leopoldo II una costituente nazionale da convocare a Roma. Fuggito il granduca, nel 1849 si ebbe un triunvirato formato da Guerrazzi, Montanelli e G. Mazzoni, cui seguì la dittatura del solo Guerrazzi. Dopo il ritorno di Leopoldo II il granducato conobbe un decennio di profondi fermenti politici. Con la seconda guerra d’Indipendenza, alla quale Leopoldo II non volle partecipare, preferendo lasciare i suoi Stati (1859), la T. si diede un governo provvisorio, presieduto da V. Peruzzi e poi da B. Ricasoli. Eluso il disegno di Napoleone III di formare uno Stato nell’Italia centrale da assegnare a Girolamo Napoleone, la T. fu annessa al Regno di Sardegna con il plebiscito del 15 marzo 1860.
Nel complesso dei dialetti italiani, quelli della T. costituiscono un gruppo autonomo, chiaramente distinto sia dal gruppo settentrionale sia da quello centro-meridionale. Più netta è la separazione dal primo di questi due gruppi, verso il quale il limite geografico segue una linea che lungo l’Appennino Tosco-Emiliano coincide per gran parte con il confine amministrativo, lasciando però fuori quasi per intero la provincia di Massa e Carrara. Il limite tra i dialetti toscani e quelli centro-meridionali è più sfumato, sia perché tutto sommato le differenze sono meno forti, sia perché il passaggio da un tipo all’altro avviene per gradi.
Il carattere più generale del gruppo dialettale toscano è una fedeltà in alto grado al latino di Roma, che, se non uguagliava l’estrema conservatività delle parlate sarde favorita dall’isolamento geografico, è però superiore alla fedeltà con cui si conserva il tipo latino nelle altre parti della penisola, Roma compresa. La lingua degli antichi Etruschi, troppo diversa, non poté influire sensibilmente sul latino d’Etruria dandogli un carattere regionale. Si può al massimo vedere una traccia del sostrato in due o tre fenomeni più o meno esclusivi dell’area toscana: principalmente, la cosiddetta aspirazione o gorgia. Viceversa il latino della capitale fu modificato, fin dall’epoca dell’Impero, da influssi osco-umbri. Si giustifica così la contrapposizione (C. Merlo, 1926) tra ‘Lazio sannita’ ed ‘Etruria latina’.
I dialetti toscani si distinguono nell’insieme di quelli italiani soprattutto per: a) la mancanza della metafonesi; b) la sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche limitata a determinate parole o serie di parole, per cui si dice, per es., amìko ma làġo, vìta ma spàda, nàso ma vìʃo; c) il passaggio di -ri̯ a -i̯-, per cui si dice, per es., ǧennàio, pai̯òlo; d) il passaggio di -si̯- a -š- o - ̌ʃ-, per cui si dice, per es., kamiša, čili̯ěʃa; e) il dittongamento delle vocali latine ĕ, ŏ, in i̯è u̯ò, a condizione che siano toniche e in sillaba libera, per cui si dice per es. pi̯ètra, ma sèlla, ku̯òio ma kòrpo; f) il passaggio di e protonica a i, per cui si dice, per es., ripètere, difèndere; g) la terminazione -i̯àmo per la 1ª pers. plur. dell’indicativo presente; h) la terminazione -èi per la 1ª pers. sing. del condizionale presente. Tutti questi tratti sono acquisiti alla lingua letteraria italiana.
È esclusivo della T. il citato fenomeno dell’aspirazione, più generale e radicato a Firenze, variamente atteggiato nelle altre parlate toscane, sconosciuto all’aretino e ad altri dialetti periferici. Consiste nella spirantizzazione delle esplosive sorde tra vocali, o tra vocale e l o r, per cui si pronuncia, per es., la hàsa (o la k✂àsa), lèp✂e, sét✂a, labbràt✂a (e labbrèha); ma p✂ per p, t✂ per t, h per t postonico passano di poco i confini della provincia di Firenze; il resto della T. conosce solo h per k, che nel livornese-pisano-lucchese si riduce il più delle volte a un semplice iato (per es., la àsa).
I dialetti toscani, sulla base delle più antiche attestazioni scritte, anteriori alla diffusione del tipo fiorentino che ha poi finito con il livellarne molte delle diversità originarie, si possono dividere in 4 sottogruppi: fiorentino; toscano meridionale (senese); toscano orientale (aretino-cortonese); toscano occidentale (pisano-lucchese, pistoiese, pratese). I tratti caratteristici dei tre sottogruppi dialettali toscani diversi dal fiorentino si sono via via affievoliti, e a volte perduti, di fronte al sempre maggiore influsso esercitato dal fiorentino e dalla lingua nazionale. Oggi sono ridotte al minimo le differenze dal fiorentino dei vernacoli pratese e pistoiese, e anche senese e grossetano; molto vi si è avvicinato il pisano e livornese, riconoscibile ormai più che altro per la tipica intonazione; resta un po’ appartato il lucchese e molto di più l’aretino.
I dialetti toscani, e soprattutto il fiorentino, si trovano di fronte alla lingua letteraria e nazionale in una condizione particolare, diversa da quella di tutti gli altri dialetti e gruppi dialettali. La lingua italiana infatti è fondata sostanzialmente, come struttura fonetica e morfologica, e in gran parte anche come patrimonio lessicale, sul fiorentino, massimamente sul fiorentino dei primi secoli, a cui l’autorità di Dante, Petrarca e Boccaccio, assai più che la centralità geografica e la fedeltà al latino, valse la fortuna di essere preso a modello dalla tradizione letteraria. Né sono da sottovalutare gli ulteriori contributi con cui hanno rinfrescato e ravvivato a più riprese quella tradizione, specie nel Cinquecento e nell’Ottocento, il fiorentino vivo e in genere le parlate toscane: tra le innovazioni prodotte da queste parlate negli ultimi secoli, alcune hanno fatto qualche apparizione nella lingua comune e poi sono state riassorbite (come il tipo stiavo, fistio, per schiavo, fischio, o il tipo bono, socero, per buono, suocero), altre hanno finito con il prevalere (come il tipo io pensavo, non più io pensava, o il tipo fagiolo, spagnolo, non più fagiuolo, spagnuolo), altre ancora si stanno diffondendo ai nostri giorni (come il tipo noi si pensa, per noi pensiamo).
Marca della T. Sorta come istituzione militare e politica con i Carolingi, in continuazione del ducato longobardo di Lucca, fu data come contea al bavarese Bonifacio I (812). Unita alla marca lombardo-emiliana degli Attoni di Canossa da Corrado II, divenne il più potente organismo politico d’Italia, sul quale si imperniò la lotta delle investiture. Alla morte di Matilde di Canossa (1115), gli imperatori tentarono d’imporre una serie di marchesi tedeschi, indeboliti però dalle autonomie cittadine createsi nella marca; dopo Federico I, subentrarono loro ‘delegati’ e poi ‘vicari’ imperiali.