La Regione è il più importante ente territoriale substatale previsto nella Costituzione italiana. La sua introduzione nel testo costituzionale segna una delle più importanti innovazioni rispetto allo Statuto albertino, che non le prevedeva. In realtà, le Regioni si erano affacciate alla ribalta sin dai primi anni dell’esperienza statutaria con una proposta formulata da Cavour, ma – anche a causa della morte dello statista – si scelse una politica di rigido accentramento amministrativo (l. n. 2248/1865). Le tematiche regionaliste si affacciarono nuovamente nel dibattito politico-costituzionale del primo dopoguerra, grazie specialmente al Partito popolare di Sturzo, che dell’istituzione delle Regioni aveva fatto un punto essenziale del proprio programma politico, ma l’avvento del fascismo impedì qualunque soluzione in questo senso. Un nuovo impulso alla discussione sulle Regioni si ebbe poi in sede di Assemblea costituente: a favore si dichiararono i cattolici e gli azionisti e assai più cauti furono gli esponenti della sinistra marxista, i quali però mutarono in parte l’atteggiamento dalla metà del 1947; dichiaratamente ostili furono, infine, gli esponenti della classe politica prefascista, quali Orlando, Croce e Nitti.
La Regione prima della l. cost. n. 3/2001. - L’attuazione dell’autonomia regionale è stata, però, alquanto travagliata. A differenza delle Regioni ad autonomia differenziata (Statuto regionale), i cui Statuti furono approvati dalla stessa Assemblea costituente (ad eccezione di quello del Friuli-Venezia Giulia; l. cost. n. 2/1948; l. cost. n. 3/1948; l. cost. n. 4/1948; l. cost. n. 5/1948), per le Regioni ad autonomia ordinaria si è dovuto attendere sino al 1970, nonostante che la stessa Carta costituzionale prevedesse un breve termine per l’indizione delle elezioni regionali (dodici mesi dalla sua entrata in vigore; art. VIII disp. trans. fin. Cost.) e per l’adeguamento della legislazione statale al nuovo ordinamento regionale (entro tre anni dalla sua entrata in vigore; art. IX disp. trans. fin. Cost.).
Dopo un lungo iter parlamentare è stata approvata la l. n. 62/1953 sulla costituzione e il funzionamento degli organi regionali, ma la legge elettorale regionale è stata approvata solo quindici anni dopo, con la l. n. 108/1968, e l’istituzione vera e propria delle Regioni ad autonomia ordinaria si è avuta con la l. n. 281/1970. Sulla base della delegazione ivi contenuta, tra il 1971 e il 1972 si è proceduto all’approvazione degli Statuti regionali e al trasferimento di alcune funzioni amministrative. La scarsità dei poteri trasferiti ha poi comportato, tuttavia, la necessità di un più vasto trasferimento di funzioni (l. n. 382/1975 e d.P.R. n. 616/1977). Questa strutturazione delle autonomie regionali è durata circa venti anni ed è profondamente mutata tra l’ultimo decennio del Novecento e il primo del secolo nuovo. Con la l. cost. n. 1/1999 si è infatti dapprima proceduto a una revisione e a un ampliamento della potestà statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria, introducendo anche una profonda modifica della forma di governo regionale (Forme di Stato e forme di governo). Con la l. cost. n. 3/2001, invece, si è completamente riscritto l’intero titolo V della parte II della Costituzione, ridisegnando l’autonomia regionale sia sul piano della potestà legislativa, sia su quello delle funzioni amministrative.
La Regione dopo la l. cost. n. 3/2001. - Anche dopo la l. cost. n. 3/2001, però, non vi è dubbio che, dal punto di vista giuridico-costituzionale, le Regioni rimangano enti autonomi e non possano in nessun modo essere considerati come enti sovrani: le Regioni possono, cioè, autodeterminarsi politicamente (Autonomia. Diritto costituzionale), scegliendo un proprio indirizzo politico in parallelo a quello statale, ma trovano un ostacolo invalicabile nel principio di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), che inibisce loro tutta una serie di attività, in primo luogo la secessione dal territorio statale. In altri termini, pur godendo di un ampio grado di autonomia, la Regione è e rimane un ente subordinato allo Stato e non può in nessun modo essere considerata come superiorem non recognoscens, come ribadito altresì dalla Corte costituzionale. In particolare, il giudice costituzionale ha più volte affermato che le Regioni non sono soggetti di diritto internazionale e che, malgrado il «nuovo» art. 117 Cost. parli di un potere estero delle Regioni, non vi è una sostanziale differenza rispetto alla situazione precedente. In ogni caso, l’autonomia regionale non può essere un pretesto per la compressione dell’autonomia di Province e Comuni.
L’autonomia regionale si esplicita, in particolare, nell’autonomia statutaria, nell’autonomia legislativa e regolamentare, nell’autonomia amministrativa, nell’autonomia tributaria e nel c.d. potere estero. Per autonomia statutaria si intende il potere della Regioni di disciplinare la propria organizzazione e le funzioni svolte tramite un proprio statuto (Statuto regionale). Per autonomia legislativa e regolamentare si intende il potere di disciplinare determinate materie con propri atti legislativi e/o regolamentari (Potestà legislativa regionale). Per autonomia tributaria si intende il potere di istituire tributi propri accanto ai tributi statali, in virtù dell’autonomia finanziaria delle Regioni medesime (c.d. l. n. 42/2009, sul c.d. federalismo fiscale).
Maggiori problemi di ordine giuridico-costituzionale solleva la c.d. autonomia amministrativa: mentre il «vecchio» art. 118 Cost. sanciva il principio del c.d. parallelismo (alle Regioni spettavano le funzioni amministrative in tutte le materie in cui avevano competenza legislativa), ferma restando la possibilità che lo Stato delegasse loro l’esercizio di ulteriori funzioni amministrative in materie diverse da quelle in cui esse avevano competenza legislativa, il «nuovo» art. 118 Cost. attribuisce in via generale l’esercizio delle funzioni amministrative ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, esse siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (Principio di sussidiarietà. Diritto costituzionale e Principio di sussidiarietà. Diritto amministrativo).
Per quanto riguarda, infine, il c.d. potere estero, le Regioni possono concludere accordi con altri Stati e intese con enti territoriali interni agli Stati stranieri, ma soltanto nelle materie di loro competenza e limitatamente ai casi e nelle forme disciplinate da leggi statali (art. 117, co. 9, Cost.). La legge di attuazione della disposizione costituzionale ha specificato che le Regioni possono stipulare tali intese solo dopo che il Ministero degli affari esteri abbia conferito loro i pieni poteri di firma, senza i quali l’accordo è nullo, ferma restando l’impossibilità per le Regioni di esprimere valutazioni sulla politica estera del Governo o di assumere impegni da cui derivino obblighi o oneri finanziari per lo Stato (l. n. 131/2003).
Gli organi della regione. - Organi della regione sono il Consiglio regionale, la Giunta e il suo presidente (Presidente della Giunta regionale).
La l. cost. n. 1/1999 ha profondamente innovato sul piano dei rapporti tra Consiglio, Giunta e presidente, e ha finito col fare del presidente della Giunta l’organo centrale.
Mentre nel vecchio testo dell’art. 122 Cost. era previsto che il presidente e i membri della Giunta fossero eletti dal Consiglio regionale tra i suoi componenti (la forma di governo regionale poteva oscillare tra una forma di governo parlamentare e una forma di governo parlamentare a tendenza assembleare), il nuovo art. 122 Cost. stabilisce che il presidente della Giunta sia eletto a suffragio universale e diretto, salvo che lo statuto regionale approvato a norma del nuovo art. 123 Cost. disponga altrimenti. Inoltre è previsto che, fino all’entrata in vigore dei nuovi statuti, i presidenti della Giunta siano eletti direttamente in base alla normativa transitoria contenuta nell’art. 5 l. cost. n. 1/1999. Il fatto che lo statuto possa derogare all’elezione diretta, tuttavia, non comporta che la regione sia assolutamente libera di scegliere la propria forma di governo, in quanto l’art. 126, co. 2, Cost. prevede esplicitamente la possibilità per il Consiglio di esprimere la sfiducia nei confronti del presidente della Giunta. Di conseguenza, la scelta della forma di governo regionale si riduce a due opzioni: o una forma di governo cosiddetta neo-parlamentare (la stessa forma di governo prevista per comuni e province), cioè l’elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell’esecutivo con il mantenimento di un rapporto fiduciario con l’organo legislativo, secondo il meccanismo del simul stabunt, simul cadent (la sfiducia da parte del Consiglio comporta la rimozione del presidente della Giunta e l’automatico scioglimento del primo; in virtù dell’art. 126, co. 3, Cost., sono equiparate alla sfiducia consiliare la morte, l’impedimento permanente e le dimissioni volontarie da parte del presidente della Giunta); oppure una forma di governo parlamentare classica, con elezione del presidente della Giunta da parte del Consiglio (in questo caso, la sfiducia nei confronti del presidente della Giunta non comporta lo scioglimento automatico del Consiglio). La regione, nell’esercizio della propria potestà statutaria, non può muoversi fuori di questa scelta dicotomica, tant’è che la giurisprudenza costituzionale non ha esitato a censurare duramente i ripetuti tentativi, da parte degli statuti regionali di derogarvi (sent. 304/2002; 2/2004; 12/2006).
Il presidente della Giunta, o presidente della regione, esercita una duplice funzione, assommando su di sé competenze proprie di quello che, in ambito statale, sarebbe il capo dello Stato, e competenze proprie di quello che, in ambito statale, sarebbe il capo del governo. Per quanto concerne il primo profilo, il presidente della Giunta ha una funzione di rappresentanza esterna della regione, promulga le leggi, emana i regolamenti regionali e indice i referendum regionali. Più precisamente, per quanto riguarda la funzione di rappresentanza esterna della regione, il presidente partecipa alla Conferenza Stato-Regioni, propone i ricorsi alla Corte Costituzionale nei confronti degli atti statali (legislativi e non) lesivi della competenza regionale. Per quanto riguarda il secondo profilo, il presidente della regione dirige la politica della Giunta e ne è responsabile. Il nuovo art. 122 Cost. prevede che il presidente, se eletto a suffragio universale e diretto, può nominare e revocare gli altri membri della Giunta. È controverso se questo potere di nomina e revoca sia configurabile anche in caso di elezione consiliare del presidente (la maggioranza della dottrina lo nega).
La potestà legislativa delle Regioni. - Sin dall’approvazione della Carta costituzionale, gli studiosi sono stati concordi nel ritenere che la potestà legislativa costituisse il fulcro dell’autonomia della regione. Bisogna distinguere, a questo proposito, due fasi: dal 1948 alla l. cost. n. 3/2001, e dall’entrata in vigore della riforma del Titolo V in poi.
Per quanto riguarda il primo periodo, va osservato che vi era una netta distinzione tra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario, poiché le prime godevano di una competenza legislativa più ampia delle seconde. Inoltre, le leggi regionali non si collocavano sullo stesso livello di quelle statali, poiché la competenza legislativa delle regioni era tassativa (poteva, cioè, intervenire solo nelle materie espressamente indicate dalla Costituzione o dagli statuti speciali, laddove allo Stato spettava una potestà legislativa di tipo generale), ed era soggetta a limiti assai penetranti. Erano previsti, infatti, tre diversi tipi di potestà legislativa: esclusiva o primaria, solo per le regioni a statuto speciale, e per le province autonome di Trento e Bolzano; concorrente o ripartita, disciplinata, per quel che riguardava le regioni a statuto ordinario, dal vecchio testo dell’art. 117 Cost., che riservava allo Stato la normativa di principio e alle regioni quella di dettaglio; e integrativa-attuativa, disciplinata dall’ultimo comma del vecchio testo dell’art. 117 Cost. Tutti e tre i tipi erano però soggetti, oltre che a limiti speciali, anche a limiti generali (di legittimità e di merito), ribaditi dalla giurisprudenza costituzionale, come, per es., i rapporti privati (sent. 7/1956; 109/1957; 6/1958; 154/1972; 151/1974; 38/1977), la materia penale (sent. 6/1956; 21, 23 e 58 del 1957; 58/1959; 23/1961; 26/1966; 142/1969; 79/1977; 62/1979; 179/1986) o l’interesse nazionale (sent. 37/1966; 138/1972; 70/1981; 223/1984; 177 e 217 del 1988; 459/1989). Limiti speciali alla potestà esclusiva erano, invece, i principi generali dell’ordinamento giuridico (sent. 13/1962; 28/1964; 212/1972; 21 e 45 del 1978; 12/1980; 50/1982; 168/1987; 1107/1988; 75/1992; 415/1994; 264/1996), le grandi riforme economico-sociali (sent. 20/1970; 13/1980; 219/1984; 151, 152, e 153 del 1986; 192/1987; 274 e 1002 del 1988; 85/1990; 349/1991; 356/1992; 496/1993; 153/1995; 147/1999) e gli obblighi internazionali dello Stato (sent. 46/1961; 49/1963; 142/1972; 123/1980). Assai più problematica fu, infine, la determinazione dei limiti speciali alla potestà concorrente. Dottrina e giurisprudenza costituzionale erano concordi nel ritenere che i limiti speciali alla potestà esclusiva si applicassero anche a tutte le altre tipologie (sent. 155/1967), ma, poiché lo Stato non aveva ottemperato all’obbligo costituzionale di dettare, nelle materie di competenza concorrente, la normativa di principio attraverso proprie leggi (le cosiddette ‘leggi-cornice’), fu ritenuto sufficiente, in mancanza di esse, desumere i principi dalle leggi vigenti (sent. 39/1971; 40/1972; 102/1979; 7/1982).
Il sistema è stato completamente modificato a partire dal 2001. In primo luogo, la differenza tra regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale si è alquanto attenuata, tanto che lo stesso art. 10 della l. cost. n. 3/2001 prevede che, fino all’adeguamento degli statuti speciali, alle regioni a statuto speciale (e alle province autonome di Trento e Bolzano) si applichino le disposizioni contenute nella stessa l. cost. 3/2001 per le parti in cui prevedono un’autonomia più ampia di quella a esse già attribuita. In secondo luogo, la legge regionale è stata sostanzialmente parificata a quella dello Stato per quanto riguarda i limiti, dal momento che, secondo il nuovo testo dell’art. 117 Cost., lo Stato e la regioni esercitano le rispettive competenze legislative nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, co. 1, Cost.). A questo proposito, occorre segnalare che non vi è alcun riferimento all’interesse nazionale come limite alla potestà delle regioni, il che ha portato alcuni studiosi a chiedersi se tale interesse non sia comunque un limite implicito, ricollegabile al principio (proclamato dall’art. 5 Cost.) di unità e indivisibilità della Repubblica. In terzo luogo, viene capovolto il rapporto tra la potestà regionale e quella statale: ora, infatti, è lo Stato ad avere una competenza predefinita, mentre la regione ha una competenza potenzialmente generale. Il nuovo testo dell’art. 117 Cost., infatti, enumera le materie di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, co. 2, Cost.), e le materie di competenza concorrente (art. 117, co. 3, Cost.), riservando alla potestà legislativa regionale tutte le altre materie non comprese nell’elenco (art. 117, co. 4, Cost.). È previsto, inoltre, che una regione possa chiedere un ulteriore ampliamento della propria potestà legislativa esclusiva nelle materie di competenza concorrente o in alcune materie di competenza esclusiva dello Stato, in virtù di una legge statale approvata a maggioranza assoluta, sulla base di una intesa tra lo Stato e la stessa regioni (art. 116, co. 3, Cost.).
La l. cost. n. 3/2001 è stata oggetto di ampio dibattito e da alcuni si è ritenuto che sbilanciasse eccessivamente gli equilibri tra Stato e regioni a favore di queste ultime. Un ruolo centrale è stato svolto dalla giurisprudenza costituzionale, che ha cercato di recuperare spazi a favore dello Stato, affermando che gli ambiti riservati alla competenza legislativa dello Stato non possono venire intesi in modo rigido, ma vadano identificati con interessi e valori costituzionalmente protetti. Di conseguenza, vi sarebbero materie cosiddette trasversali in cui lo Stato deve poter dettare normative necessarie per assicurare a tutti i cittadini i livelli essenziali delle prestazioni, senza che la regione possa in alcun modo condizionarle o limitarle. Un’ulteriore espansione della sfera di azione statale è stata ammessa dalla giurisprudenza costituzionale nel momento in cui ha affermato che, nelle materie di competenza concorrente, possono essere ammesse normative statali di dettaglio quando esse siano volte ad assicurare lo svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato abbia assunto, in base al principio di sussidiarietà, per soddisfare esigenze unitarie. D’altra parte, la Corte costituzionale ha confermato i propri orientamenti precedenti, nel momento in cui ha ammesso che, in mancanza di leggi-cornice che dettino i principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente, questi principi possono essere desunti dalle leggi vigenti. La stessa Corte costituzionale ha inoltre ribadito che i rapporti privati e la materia penale continuano a costituire un limite generale per la potestà legislativa delle regioni. Per quanto riguarda i limiti speciali alla potestà esclusiva delle regioni a statuto speciale, la Corte ha affermato che i limiti derivanti dagli obblighi internazionali e dalle grandi riforme economico-sociali non vengono meno, se non quando le materie attribuite dagli statuti speciali coincidono con le materie conferite alla potestà legislativa regionale ex art. 117, co. 4, Cost. La Corte, infine, ha anche escluso che le regioni possano usare il proprio potere legislativo per rendere inapplicabile sul proprio territorio una legge statale.
Ampia parte della superficie terrestre che si distingue per caratteri propri, geografici o storici.
In zoogeografia, si chiama regione ciascuna delle parti, caratterizzate da particolari endemismi e associazioni faunistiche, in cui sono suddivisi i tre regni o reami: Artogea, Neogea, Notogea. L’Artogea comprende le regioni: paleartica, neartica, etiopica, orientale. Le regioni paleartica e neartica compongono il dominio oloartico. La Neogea comprende la sola regione neotropicale; la Notogea la sola regione australiana. Ogni regione è suddivisa in sottoregioni.
Nell’evoluzione delle discipline che si dedicano allo studio del territorio, un’incidenza rilevante è stata assunta dalla ricerca regionale. In passato questo tipo di ricerca rientrava esclusivamente, o quasi, nell’ampio alveo della geografia; anzi, la si considerava sostanzialmente come quella sezione disciplinare della geografia che si occupava di descrivere territori e, quindi, la si identificava con una geografia corografica. In altri termini, essa doveva, attraverso lo studio di ambiti territoriali, produrre conoscenze concrete che la geografia generale avrebbe poi sistemato concettualmente e ordinato in categorie. A partire dagli anni 1960, invece, la geografia regionale è stata considerata come un corpus distinto, dotato di proprie teorie e di propri metodi, orientato a interpretare come il territorio si scomponga in regioni e a coglierne l’organizzazione interna. Questa trasformazione delle finalità della ricerca è provocata, o almeno assecondata, dall’affermarsi di posizioni funzionaliste in geografia, e dal conseguente allontanamento dalle tradizionali impostazioni descrittive. A provocarla concorrono, però, anche le esigenze di ricerca applicata, che si fanno avvertire nel campo della pianificazione territoriale: non è un caso che, proprio durante gli anni 1960, si sia intensificata la formulazione di piani di sviluppo regionale. Questo impegno sui temi regionali, e la conseguente messa a punto di un apparato di metodologie quantitative, ha indotto alcuni autori a non parlare più di geografia regionale e a usare l’espressione ‘scienza regionale’ (ingl. regional science).
Fino agli anni 1960, in geografia, dominava un concetto di regione profondamente ancorato alle radici umanistiche che risalgono a P. Vidal de La Blache (inizio del Novecento). La regione, cioè, era intesa come uno «spazio contraddistinto da un certo paesaggio sul quale le comunità umane hanno prodotto un certo genere di vita». In sostanza, uno spazio uniforme e originale. Uniforme sotto due aspetti: dal punto di vista fisico, poiché il paesaggio è il prodotto di uniformità di fattezze geomorfologiche, climatiche e così via; dal punto di vista umano, perché l’esistenza su tutto il territorio dello stesso genere di vita fa sì che le forme di insediamento, di utilizzazione delle risorse, e così via, forniscano la stessa impronta a tutto lo spazio regionale. Assunti questi concetti, appare evidente come la regione, proprio perché spazio uniforme al suo interno, possegga determinati caratteri differenziali rispetto ai territori circostanti e, pertanto, che si presenti come uno spazio dotato di una sua individualità originale.
I geografi, soprattutto italiani, restarono sostanzialmente fedeli a questo principio per lungo tempo. Ancora alla fine degli anni 1960 la maggior parte delle ricerche tendeva a porre in evidenza i fondamenti e le espressioni dell’originalità degli spazi regionali, attraverso monografie impostate su uno schema consolidato: natura geologica, morfologia, clima, e così via, costituivano la prima parte dello studio; seguiva l’analisi delle radici storiche della cultura delle comunità; poi la demografia, le forme di insediamento, le attività economiche; infine la sintesi, per lo più dedicata all’avvenire della regione. Il superamento di questa concezione porta a considerare più le strutture, fisiche e dell’insediamento umano, che non le forme, e a mettere a fuoco le interdipendenze che si instaurano tra le strutture. Secondo tale impostazione, la regione si configura non più come uno spazio originale e diverso dagli altri, ma come uno «spazio dominato da un centro di polarizzazione appartenente, nella gerarchia funzionale dei centri, a un ordine molto elevato». L’attenzione si concentra, dunque, sulle reti urbane e sulle funzioni esercitate dalle città, sulle concentrazioni industriali e su quelle di attività terziarie qualificate, e si cerca di individuare quale territorio graviti sul centro che muove l’intero insieme.
All’individuazione delle regioni concorrono due concezioni: la teoria delle località centrali e la teoria del polo di sviluppo industriale. In base alla prima, la cui formulazione risale agli anni 1930 con W. Christaller, la regione viene identificata nell’area di gravitazione generata dalle funzioni terziarie (soprattutto quelle commerciali) presenti nelle città che formano una rete urbana. Le funzioni industriali sono, invece, assunte in via prioritaria dalla teoria del polo di sviluppo, formulata negli anni 1950 a opera di F. Perroux, in virtù della quale viene considerato regionale lo spazio gravitante su una concentrazione industriale generata e sostenuta da un’industria motrice, ovvero da un insediamento produttivo di grandi dimensioni con una vivace propensione all’avanzamento tecnologico e capace di provocare intensi effetti indotti sull’intorno. All’interno di questo quadro, in cui la ricerca regionale viene compiuta con sempre più ampio ed esplicito riferimento alla pianificazione del territorio, si sviluppano intensamente, molto più di quanto fosse accaduto in passato, le metodologie per lo studio di ‘classi areali’, ovvero categorie di aree contraddistinte dall’uniforme presenza di un fenomeno (regione elementare) o di una pluralità di fenomeni (regione complessa). Del primo tipo è un esempio la regione botanica, cioè il territorio interessato da una stessa formazione vegetale; del secondo tipo, la regione agraria, alla cui formazione concorrono fatti fisici, come la geomorfologia e il clima, e fatti umani, come le propensioni culturali e le tecnologie di cui dispongono le comunità. Alle regioni complesse sono state dedicate, nell’ambito delle ricerche regionali, sempre maggiori attenzioni. Vi hanno contribuito due circostanze: da un lato, la possibilità di affinare le metodologie per classificare le aree, cioè le procedure tassonomiche, attraverso un crescente impiego di strumenti matematici; dall’altro, l’utilità pratica delle ricerche.
La regione vista in chiave funzionalista e le ricerche tassonomiche sulle classi areali hanno rappresentato, dunque, i fatti emergenti, sia dal punto di vista scientifico sia da quello applicativo, tra la seconda metà degli anni 1960 e l’avvio degli anni 1970. Nei decenni successivi, però, il pensiero geografico regionale ha compiuto ulteriori passi. Infatti, dall’idea di regione come spazio gravitante su un centro dotato di elevate capacità di polarizzazione si è passati, sempre più esplicitamente, all’idea di regione come sistema territoriale aperto. Questa concezione si connette alla teoria generale dei sistemi e si propone di individuare i principi che regolano tanto i sistemi naturali quanto quelli sociali: di conseguenza, tenta di approdare a proposizioni generali, valide sia per le discipline naturalistiche sia per lo studio del comportamento umano. Sulla base dell’interpretazione sistematica, la regione è considerata uno spazio dove tutti gli elementi, fisici e umani, sono tra loro interdipendenti e mossi dagli stessi processi. Si tratta di un punto di vista più generalizzato di quello che sorregge la precedente concezione funzionalista. Infatti, nella concezione sistemica, a base della regionalizzazione del territorio non sono pregiudizialmente né la città con funzioni superiori né la concentrazione di attività economiche: sono piuttosto le interdipendenze strutturali che connettono le componenti fisiche del territorio (geologia, morfologia, idrografia, clima ecc.) e le componenti antropiche della sua organizzazione (popolamento, modi di utilizzazione del suolo, attività manifatturiere, vie di comunicazione ecc.). Ma la concezione sistemica si afferma soprattutto per un aspetto innovativo: ‘l’interpretazione dinamica’. Per tradizione, infatti, le teorie regionali hanno avuto impostazione eminentemente statica; ora, invece, l’accento viene posto sui processi che producono la formazione e la trasformazione degli spazi regionali e che mutano i rapporti tra le regioni: in una parola, i processi che presiedono alla regionalizzazione del territorio.
In quest’ottica dell’interpretazione regionale, ricade la distinzione tra processi di crescita e processi di sviluppo. I primi ricorrono quando gli elementi del sistema regionale si muovono lungo lo stesso itinerario. I secondi, invece, si verificano quando gli elementi mutano comportamento, producendo trasformazioni nelle interdipendenze che li connettono e, quindi, cambiando la struttura. In quest’ultimo caso il processo in base al quale la struttura si muove subisce una rottura: si verifica una fase rivoluzionaria. Detti canoni interpretativi sono applicabili, per es., al fine di cogliere le trasformazioni prodotte nelle regioni (soprattutto in quelle dei paesi emergenti) dalla crisi del mercato delle materie prime e dai conseguenti rapporti tra mondo sviluppato e mondo in via di sviluppo. La caduta dei ritmi di crescita dell’industrializzazione di base nel primo e la realizzazione di poli industriali (sorretti dalla siderurgia, dalla raffinazione del petrolio o dalla chimica inorganica) nel secondo hanno causato, infatti, un brusco cambiamento dei processi, trasferendo intere strutture regionali su piani evolutivi ben diversi da quelli tradizionali.
Altrettanto rivoluzionari si possono considerare i mutamenti indotti dagli eventi geopolitici degli anni 1980 e 1990, che hanno portato grandi sistemi regionali (in primo luogo, l’ex URSS e i paesi che su di essa gravitavano) all’interno dell’economia di mercato, rivoluzionando l’organizzazione pianificata degli spazi produttivi al loro interno e generando nuovi legami di interazione con l’esterno. Lo scenario rimane largamente aperto a ulteriori acquisizioni, legate soprattutto alla ricerca dell’equilibrio regionale fra subsistemi locali e sistemi progressivamente più vasti (interregionali, nazionali, continentali ecc.), come pure fra tendenze esponenziali (la crescita della popolazione del Terzo Mondo o i temuti processi di degradazione ambientale) e assestamento su ritmi evoluzionari propri di uno sviluppo sostenibile.
Regione aerea Nell’organizzazione aeronautica militare italiana, ente direttivo territoriale dipendente dal Comando logistico e responsabile della pianificazione, programmazione, organizzazione, direzione, coordinamento e controllo di alcune attività tecnico-logistiche e di amministrazione sul territorio di competenza. Il territorio italiano è suddiviso in due regioni aeree (I regione aerea, III regione aerea, rispettivamente con sedi in Milano e Bari); la II regione aerea è stata definitivamente soppressa nel 1999 e le sue competenze sono state trasferite ai comandi delle altre due regioni aeree e al COMAER (Comando Aeronautica Militare Roma), pure costituito nel 1999.
Regione militare In Italia, circoscrizione territoriale il cui comando coordina le attività legate al reclutamento, alle forze di completamento e alla promozione e pubblica informazione sul territorio; le regioni militari sono due (Regione militare Nord e Regione militare Sud; status autonomo hanno il Comando militare autonomo della Sardegna e il Comando militare della capitale).
Regione conciliare Ciascuna delle circoscrizioni in cui la Sacra congregazione concistoriale aveva diviso l’Italia con provvedimenti del 15 febbraio e 22 marzo 1919 e del 23 settembre 1933, e che corrispondono, dopo il provvedimento della Sacra congregazione per i vescovi del 12 settembre 1976, alle regioni pastorali.
Autonomia. Diritto costituzionale