Forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico.
La d. in Grecia. -L’origine della d. si fa risalire alla fine del 6° sec., quando culminò in Atene un processo di radicale riforma istituzionale connesso con la progressiva presa di coscienza della massa dei cittadini-soldati (opliti) e con lo sviluppo economico che interessò diverse regioni della Grecia e dei territori coloniali. Diffusa soprattutto dagli equipaggi della flotta ateniese, l’idea democratica attecchì fra i ceti meno abbienti delle città alleate, creando così le basi per una solidarietà interstatale, scossa di tanto in tanto da contraccolpi oligarchici. Giungeva così a completa maturazione un regime politico in cui il potere spettava a tutti i nati liberi, per ciò stesso cittadini a pieno titolo, e agli stranieri che avessero ricevuto il diritto di cittadinanza: sistema caratterizzato dai principi dell’uguaglianza di fronte alla legge (isonomia), della libertà di parola (isegoria) e della parità nel concorrere alle cariche pubbliche (isotimia). Il nuovo regime si articolava in vari organi fondamentali: un’assemblea primaria (ἐκκλησία), alla quale partecipavano tutti i cittadini maschi adulti, un consiglio (βουλή), che in Atene era sorteggiato proporzionalmente fra le tribù e investito del compito di formulare le proposte da sottoporre al giudizio dell’assemblea; dei magistrati, eletti o sorteggiati, che restavano in carica normalmente per il periodo di un anno con funzioni ‘esecutive’ e con obbligo di rendiconto all’assemblea. Con l’affermarsi nei secoli successivi delle monarchie ellenistiche a carattere territoriale, inizia la parabola discendente della d. classica fino al completo disfacimento, che coincide grosso modo con l’estinzione della stessa civiltà ellenistica e con l’avvento della dominazione romana.
La d. non incontrò eccessivi consensi presso gli intellettuali del tempo. Nella tipologia delle forme di governo descritte da Platone nel Politico essa è definita come «governo del numero» o «della moltitudine», ed è considerata la meno buona delle forme buone, fra cui eccelle invece l’aristocrazia, e la meno cattiva delle forme cattive, di cui quella più degenerata è la tirannide. Questa stessa opinione è condivisa da Aristotele che classifica la d. come una forma degenerata di politìa, la costituzione per antonomasia, nella quale il «governo della maggioranza» agisce nell’interesse di tutti. La d. è invece il «governo dei poveri contro i ricchi», e quindi il governo di una parte che agisce nel suo esclusivo interesse (Politica, 1279a).
Da Roma al Rinascimento. - Per tutta l’epoca romana, e per buona parte del Medioevo, la d. come parola scompare, mentre la stessa esperienza della politica si diluisce in una configurazione più vasta, universalistica, assumendo i contenuti tipici del diritto. La res publica romana esprime l’idea di una «cosa di tutti», che è altra cosa di quel «potere del popolo» di cui parlava la lingua greca. Il concetto di sovranità popolare diventa dunque il fulcro attorno al quale ruotano le riflessioni politiche del periodo romano-medievale, e apre la strada alla distinzione, rivelatasi fondamentale per le concezioni moderne della d., fra titolarità ed esercizio del potere. Se da un lato, infatti, vale il principio enunciato da Ulpiano (Digesto, I, 4,1) che quod principi placuit legis habet vigorem, dall’altro si riconosce che la fonte di legittimazione di quell’autorità è comunque il popolo, che detiene il potere a titolo originario e conserva peraltro il diritto di creare la legge attraverso la consuetudine (Giuliano, Digesto, I, 3, 32).
Lo svolgimento della storia medievale e rinascimentale, dal 13° al 16° sec., ripropone al pensiero politico, piuttosto che il tema della tripartizione aristotelica delle forme di governo, il tema della contrapposizione fra regno e repubblica o tra repubblica e principato.
Se la d. nel suo significato letterale ha per referente la polis (la città-comunità), la d. dei moderni si organizza in uno Stato territoriale esteso a vastissime collettività. Rispetto alla d. antica, che si configura essenzialmente come d. diretta, quella moderna si connota quindi in primo luogo come d. rappresentativa. Più in particolare, la d. moderna identifica quella specifica forma di Stato in cui i principi del costituzionalismo liberale si sono fusi con il principio della sovranità popolare. Così, se il suffragio universale (➔ voto) ha sancito la piena affermazione del cosiddetto principio maggioritario, in base al quale le decisioni sono prese dalla maggioranza e la minoranza si conforma a esse, dando piena espressione al principio della sovranità popolare, questo è stato contemperato da una serie di limiti e obblighi, volti a garantire i diritti delle minoranze.
Nel dibattito filosofico-giuridico del Novecento si è peraltro evidenziato come la d. non possa essere ridotta a mero criterio di legittimazione del potere politico. Secondo C. Schmitt, consisterebbe nell’identità tra governanti e governati, mentre H. Kelsen ritiene che abbia un fondamento relativistico, in quanto esclude il possesso di verità assolute da parte di singoli o gruppi, ammettendo soltanto verità relative; Kelsen ritiene altresì che la d. non poggi sul principio di uguaglianza, ma sul principio di libertà. Più in generale, diversi autori hanno sottolineato il ruolo essenziale delle garanzie delle minoranze, definendo d. totalitarie gli ordinamenti in cui siano assenti o insufficienti i meccanismi giuridici volti a limitare il potere delle maggioranze. Altri studiosi hanno preferito parlare di d. costituzionali, mettendo in rilievo la centralità della Costituzione; in tale concezione i diritti costituzionali non sono più intesi soltanto come limiti (alla maniera di J.-J. Rousseau) ma come strumenti essenziali dell’ordinamento democratico-liberale.
La Costituzione italiana afferma (art. 1) che il popolo esercita la sovranità (di cui è il solo titolare) esclusivamente nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione stessa (art. 1). Partendo da tale principio, e facendo riferimento anche alle disposizioni costituzionali immediatamente successive (art. 2 e 3), C. Mortati ha sostenuto la coessenzialità di forma repubblicana e forma democratica dello Stato italiano, e ha quindi ritenuto che la garanzia della prima valesse anche per la seconda (art. 139 Cost.). Tale tesi, fatta propria anche da V. Crisafulli, è stata contestata da C. Esposito, sulla base della tesi secondo la quale per definire democratica la forma di Stato non sarebbe sufficiente caratterizzarla come repubblica. La dottrina successiva, e la stessa giurisprudenza costituzionale, hanno accolto le tesi di Mortati, sicché si ritiene ormai pacifico che il principio democratico rientri tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale (C. cost., sent. 18/1982 e 394/2006) e cioè tra quei principi che non possono essere oggetto di revisione costituzionale (C. cost., sent. 1146/1988).
Con l’espressione d. scolastica, e le consimili diritto allo studio e democratizzazione dell’educazione, si fa riferimento alla promozione delle condizioni che consentano a tutti i cittadini di fruire dell’istruzione ai suoi diversi livelli, al fine di conseguire il pieno sviluppo della persona umana e il suo consapevole esercizio dei diritti civili, sociali e professionali; in secondo luogo, alle forme e ai modi di partecipazione alla gestione delle istituzioni scolastiche da parte degli utenti e degli altri soggetti interessati al loro funzionamento, nel quadro di un orientamento volto ad avvicinare i servizi educativi alle esigenze della comunità, superando o attenuando i vincoli del centralismo burocratico. Si tratta di due dimensioni in qualche misura complementari: l’una pone in rilievo l’uguaglianza di fronte ai processi dell’istruzione, l’altra sottolinea la partecipazione comune al governo delle istituzioni educative.
Sotto il profilo dell’offerta formativa, l’esperienza e le analisi statistiche hanno via via dimostrato che, nonostante la sorprendente espansione della scolarizzazione, l’accesso all’istruzione riconosciuta a tutti non assicura una corrispondente riuscita negli studi. Nel tentativo di superare tali ineguaglianze le politiche scolastiche di molti paesi hanno elaborato misure e sperimentato riforme che, pur nella diversità delle situazioni, si muovono lungo alcune direttrici prioritarie. Una di queste concerne l’estensione dell’educazione prescolare, nella convinzione che proprio durante la prima infanzia sia possibile rimediare alle condizioni di svantaggio scaturite dagli ambienti di provenienza. La seconda linea di tendenza è consistita nel rimandare più avanti nel tempo la scelta dell’indirizzo di istruzione secondaria, la terza nel progressivo ampliamento delle funzioni educative della scuola. Di più recente individuazione è la linea che riguarda i problemi della ‘formazione continua’, nell’intento di offrire ai cittadini opportunità diversificate di formazione durante tutto il corso della loro vita.
Per quanto attiene al versante della partecipazione al governo e alla gestione delle istituzioni educative, il fenomeno della contestazione studentesca, sviluppatasi soprattutto nei paesi occidentali tra la fine degli anni 1960 e i primi anni 1970, ha allargato l’esigenza partecipativa degli studenti stessi nelle decisioni riguardanti il funzionamento delle istituzioni scolastiche. Si è posto inoltre il problema di una maggiore corresponsabilizzazione del personale docente e delle altre figure di esperti (psicologi, tecnici della programmazione, di orientamento ecc.) coinvolti nei processi di istruzione, nonché dei rappresentanti delle comunità locali, delle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori.
In Italia, la decretazione delegata del 1974, conseguente alla legge delega 477/30 luglio 1973, ha provveduto al riordinamento degli organi collegiali della scuola; una nuova riorganizzazione è stata operata con il d. legisl. 233/30 giugno 1999. Nell’ottica della d. scolastica va pure letto il riconoscimento a tutte le istituzioni scolastiche ed educative dell’autonomia organizzativa, didattica, di ricerca e sperimentazione, concretato con d.p.r. 275/8 marzo 1999, entrato in vigore il 1° settembre 2000.
Il processo di democratizzazione dei sistemi politici contemporanei si può descrivere essenzialmente nel passaggio dallo Stato liberale di d. ‘limitata’ (d. d’élite) allo Stato sociale di d. ‘diffusa’ (d. di massa). R. Dahl pone alla base di questo processo due tendenze: la liberalizzazione, ovvero il grado in cui sono ammessi il dissenso, l’opposizione e la competizione tra le diverse forze politiche o politicamente rilevanti; l’ inclusività, ovvero la proporzione di cittadini che hanno titolo a partecipare in modo diretto o indiretto alle decisioni collettive. Le diverse possibilità di incrocio fra queste dimensioni danno modo di costruire una tipologia dei sistemi politici democratici, distinguendoli in oligarchie competitive, egemonie includenti e poliarchie. La sequenza storica di questi modelli si può rintracciare nel passaggio dalla d. di élite alla d. di massa, e questa transizione trova riscontro sia sul piano dei riferimenti teorici che dei referenti storici. Sul piano teorico si riflette nel contrasto fra elitismo e pluralismo.
D. d’élite. - Le analisi che si rifanno agli assunti elitistici (G. Mosca, V. Pareto e R. Michels) ritengono che la sovranità popolare sia un ideale astratto che non può corrispondere a nessuna realtà di fatto, perché in ogni regime politico, quale che sia la sua formula, è sempre una minoranza quella che detiene il potere effettivo. Questa impostazione è in parte corretta da J. Schumpeter, secondo il quale vi è d. laddove vi sono diversi gruppi in concorrenza fra loro per la conquista del potere attraverso la competizione elettorale.
D. di massa. - All’estremo opposto le teorie pluraliste (R. Dahl, R. Dahrendorf) puntano piuttosto a ridefinire il concetto di leadership in termini democratici, innalzando il principio del pluralismo a dato costitutivo della struttura sociale. Al suo interno la d. si definisce in particolare come un sistema di istituzionalizzazione dei conflitti mediante precise regole del gioco. A proposito di questo insieme di regole formalizzate che caratterizzano le poliarchie reali si è parlato di d. procedurale in contrapposizione alla d. sostanziale (H. Kelsen). Sul piano delle generalizzazioni storiche il processo di democratizzazione si caratterizza per l’estensione dei diritti di cittadinanza e per il loro impatto sulla struttura sociale: più precisamente nella transizione da un regime di cittadinanza civile, nel quale ci si limita a garantire i diritti di libertà personale, a un regime di cittadinanza politica, che prevede l’istituzione del suffragio universale, fino al regime di cittadinanza sociale che postula l’uguaglianza delle opportunità (R. Bendix).
Nelle analisi moderne della d. si è in parte rinunciato alla ricerca degli attributi assiologici e si preferisce descrivere i sistemi democratici sulla base di tipologie che tengono in adeguato conto la corrispondenza con i fatti. Fra le più importanti classificazioni dei regimi democratici si pongono quelle a carattere istituzionale che li distinguono sulla base delle diverse forme di governo. Da questo punto di vista è ancora seguita la differenza di antica tradizione fra d. presidenziale e d. parlamentare. Su un altro versante – quello della scienza politica di orientamento empirista – si colloca la tipologia di A. Lijphart nella quale entrano in considerazione le variabili della cultura politica di un paese (frammentata o omogenea) e dei comportamenti delle élites (conflittuali o consensuali). Si hanno così sistemi a d. consociativa (Paesi Bassi, Belgio); sistemi di d. centrifuga (Italia, Spagna); sistemi di d. centripeta (Gran Bretagna, Svezia); sistemi di d. depoliticizzata. L’inscindibilità fra dimensione normativa e dimensione empirica della d. rende tuttavia precaria qualsiasi definizione sistematica della democrazia. Non esiste di fatto alcun regime contemporaneo, qualunque sia la sua forma di governo, che non si definisca ‘democratico’ almeno per qualche aspetto. Il che dimostra l’universalità della d. nel mondo moderno come valore prescrittivo, ma anche l’estrema variabilità dei suoi referenti empirici. Ciò nonostante si può affermare la condizione di democraticità dei sistemi politici quando si verifichi in essi una necessaria corrispondenza fra gli atti di governo e gli interessi di coloro che ne sono toccati.
Questa condizione è soddisfatta normalmente dalla presenza di alcuni parametri invarianti (strutture e modelli normativi) che si possono considerare quanto meno come altrettanti prerequisiti minimi della democrazia:
a) l’esistenza di regole consensualmente accettate e valide per tutti;
b) l’esistenza di elezioni libere, periodiche e corrette, attraverso le quali sia data a tutti i cittadini la possibilità di concorrere alla formazione della volontà collettiva; c) l’esistenza di una pluralità di gruppi politici organizzati;
d) l’esistenza di adeguati mezzi di tutela delle minoranze;
e) l’esistenza di meccanismi di controllo e di informazione.