La democrazia nella Grecia antica
La democrazia nella Grecia antica, a giudicare dalle fonti di cui disponiamo, fu un fenomeno dai contorni non molto definiti e, inoltre, oggetto sin dal principio di contrastanti valutazioni e interpretazioni.
Consistendo, in sostanza, nell’attribuzione, a una assemblea deliberante composta di «cittadini» di pieno diritto, del potere deliberativo, la democrazia fu, di necessità, nel mondo greco, nozione troppo generica per essere racchiusa in una rigorosa definizione. Non è del tutto arbitrario, per es., il giudizio di un pensatore politico che esercitò molta influenza nel 4° sec. a.C., l’ateniese Isocrate, secondo cui sarebbe stata Sparta la «democrazia perfetta» (Areopagitico, 61): a Sparta sono cittadini pleno iure solo gli spartiati, e sono tutti «uguali» e tutti ugualmente partecipi dell’assemblea decisionale (apella), mentre tutti gli altri (perieci e iloti) sono considerati estranei alla comunità degli «uguali», non solo perché sottomessi con la forza, ma perché considerati appartenenti a un’altra «razza» rispetto alla «purezza» degli spartiati. Entro questi limiti Sparta è addirittura il «regno dell’uguaglianza», stabilita in epoca remotissima dal semimitico legislatore Licurgo. Sotto questo rispetto Atene è assai meno lineare. Certo il numero dei cittadini pleno iure è molto più alto che a Sparta, ma anche ad Atene c’è un grandissimo numero di non-cittadini: masse di schiavi; e c’è anche un numero rilevante di stranieri, anche benestanti, pur sempre non-cittadini. E, comunque, ad Atene ceto politico dominante sono i ricchi che «accettano» la «democrazia», che accettano cioè di misurarsi con l’assemblea e di subire il potere dei tribunali popolari. La differenza non sta dunque solo nel numero. Ma a questo punto sarà già divenuto chiaro perché è Sparta, ben più che Atene, il modello idoleggiato per es. da un pensatore radicale quale l’abate Mably (1709-1785), ispiratore della democrazia giacobina, e perché Sparta ben più che Atene sia stata il bersaglio polemico di un decisivo pensatore antigiacobino come B. Constant.
Il paradosso è che invece nel 4° e 5° sec. a.C., sul piano dei rapporti politici tra stati, Sparta veniva percepita come il punto di riferimento delle oligarchie, mentre Atene, una volta creato l’impero (478 a.C.), ha «esportato», con il peso della sua forza militare, il suo modello di democrazia (estensione della piena cittadinanza ai non possidenti) in tutte le città «alleate» (ben presto «suddite»). Ulteriore paradosso: è Sparta che, nel 6° sec. a.C., combatte i «tiranni» nella Grecia peninsulare, e i «tiranni» però sono, per un verso, i leader di una massa popolare invisa alle grandi famiglie possidenti, e per l’altro – una volta abbattuti – diventano nella retorica democratica l’antitesi, l’opposto diametrale, della «democrazia». E la «democrazia», per es. in Atene, è ristabilita a opera soprattutto di una famiglia, quella di Clistene (gli Alcmeonidi), che aveva prima collaborato coi tiranni (Pisistrato e i suoi figli) e poi, con l’aiuto di Sparta, li aveva avversati.
La critica al sistema politico ateniese incomincia con un opuscolo, Athenaion Politeia, attribuibile a Crizia, il capo dell’oligarchia detta dei «trenta tiranni» (404), e con suo nipote Platone. In entrambi, ma soprattutto in Platone, il connubio perversamente demagogico tra gruppi sociali abbienti e popolo è la sostanza stessa della «democrazia» (Repubblica, VIII). Non è inutile ricordare che Crizia, ma anche Platone, furono ammiratori del «modello spartano». Questa critica, che in Platone si presenta nella forma più compiuta, ha avuto una influenza enorme nelle epoche successive, a partire dall’età romana e fino all’età nostra.
Quando nell’Europa del sec. 19°, finita da un pezzo l’esperienza giacobina, si fa strada un modello «democratico» che è il risultato dell’incontro-scontro tra istanze popolari e predominio parlamentare di élite proprietarie, e via via il modello si invera attraverso l’estensione del suffragio, la storiografia liberale «progressista» (G. Grote) simpatizza vivamente per Atene, in cui ravvisa il proprio modello remoto, mentre la storiografia conservatrice (E. Meyer, U. Wilamowitz-Moellendorff , K.J. Beloch, J. Bogner) la avversa come antecedente remoto del modello «terza repubblica francese».
Nella seconda parte della History of Greece (18622, XLVI), G. Grote descrive il funzionamento della democrazia ateniese con adesione simpatetica in vivace opposizione rispetto alle critiche tradizionali. Prende le mosse dalla descrizione dei «partiti»: «Pericle ed Efialte democratici; Cimone oligarchico e conservatore». Già qui si coglie una forzatura, giacché difficilmente si potrebbe definire «oligarchico» un politico, quale Cimone, il quale accetta il gioco politico assembleare: «oligarchi» sono piuttosto coloro che, come Antifonte e Crizia, non avendo alcuna fiducia in un organismo incontrollabile e a loro avviso «incompetente» come l’assemblea popolare, puntano al colpo di Stato col proposito di modificare radicalmente l’ordinamento politico della città. Non sfuggirà ovviamente la brillante attualizzazione, comune un po’ a tutta la storiografia ottocentesca sull’antica Grecia, che porta Grote a parlare di «partiti», con l’interessante dettaglio di imputare proprio a Cimone un comportamento «demagogico»: evidentemente con riferimento alla «generosità», rimarcata da Plutarco, di Cimone nel mettere a disposizione dei cittadini i suoi giardini e i suoi frutteti. Giustamente Grote focalizza la sua attenzione sul funzionamento dei tribunali popolari e sull’abbattimento del potere dell’areopago, ridimensionato, nei suoi poteri, dalla riforma di Efialte appoggiato dal giovanissimo Pericle. Grote difende il buon nome dei tribunali popolari ateniesi, di solito considerati il punto di forza del predominio popolare contro i ceti abbienti. E invoca a difesa due argomenti: a) l’elevato numero dei componenti ciascuna corte fu «fondamentale per escludere la corruzione»; b) i tribunali non erano composti solo di poveri, ma anche di cittadini appartenenti alle classi medie. Grote afferma inoltre che la democrazia ateniese sarebbe rimasta immutata fino all’instaurazione, alla fine del 4° sec., dell’egemonia macedone. Ciò però significa sottovalutare il cambiamento prodottosi via via dopo la guerra civile del 404/403: nella democrazia restaurata si accentua la professionalizzazione del ceto politico (W. Pilz, Der Rhetor im attischen Staat, 1934) e viene meno l’indistinzione tra ruolo politico e ruolo militare. Inoltre Grote attenua molto l’aspra realtà della insofferenza degli alleati, divenuti ormai sudditi nei confronti della città egemone, Atene. E ciò, nonostante Pericle stesso abbia definito l’impero «tirannide» in un discorso attribuitogli da Tucidide (II, 63, 2). Per Grote si trattava piuttosto di «indifferenza o acquiescenza e non di sentimenti di odio». Grote conosce ovviamente il celebre giudizio di Tucidide su Pericle come leader di una «democrazia che era tale solo a parole», ma mette a frutto altre parti di quella importante pagina, e tralascia del tutto la lettura estremamente significativa del ruolo «monarchico» di Pericle data da T. Hobbes, nella importante sua prefazione alla traduzione inglese dell’opera tucididea (1648): lettura che trova riscontro non solo nel soppesato giudizio tucidideo (II, 65, 9), ma anche nell’implacata polemica dei comici, i quali, dalla scena (come riferisce Plutarco), lanciavano a Pericle l’accusa di nutrire aspirazioni tiranniche e lo esortavano addirittura a «deporre la tirannide» (Vita di Pericle, 16).
Alla luce di tutto ciò, non stupisce lo sguardo positivo che Grote rivolge anche a una figura tradizionalmente malvista quale Cleone. In questo Grote era stato preceduto dal grande J.G. Droysen, nel saggio sui Cavalieri di Aristofane (18382). Droysen è ben conscio di esprimersi controcorrente in favore di Cleone, e perciò scrive: «Nessuno si presterà a tessere le lodi del sanguinario Robespierre, o del selvaggio Mario; ma nella loro opera essi hanno incarnato i sentimenti e hanno ricevuto l’approvazione di migliaia di uomini dai quali li separava solo quell’infausta grandezza, o violenza di carattere che è capace di non inorridire davanti all’azione» (Droysen, Aristofane: introduzione alle commedie, a cura di G. Bonacina, 1998).
Per meglio comprendere l’orientamento della History of Greece di Grote giova, certo, ricordare che nella sua formazione hanno avuto importanza J. Mill, come insegnante di economia, e A. Comte, come ispiratore di una visione filosofica del progresso umano. Ed è notevole che a conclusioni in alcuni casi non dissimili giungesse un Droysen, la cui formazione era stata del tutto diversa, non estranea al pensiero storico di Hegel. Il quale nelle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte (1837) definì la democrazia greca «il capolavoro politico» e Pericle «l’uomo di Stato più profondamente colto, autentico e nobile».
Del tutto diverso lo scenario, in ambiente tedesco, nell’epoca guglielmina. Il nome più importante è quello di E. Meyer. Al contrario di Grote, Meyer, nella monumentale e purtroppo incompiuta Geschichte des Altertums (IV, 1, 19112; 19393, a cura di H. Stier), pone al centro della ricostruzione per l’appunto la smisurata e incongrua posizione di Pericle all’interno di un ordinamento «democratico». Eppure neanche Meyer mise a frutto l’intuizione hobbesiana intorno alla vera natura del potere di Pericle, ma puntò piuttosto sui difetti strutturali della democrazia antica (greca), antesignana, appunto, di quella «occidentale».
Semmai Pericle gli appare come spinto sempre più verso un atteggiamento «conservatore» dopo, e per effetto, della conquista del potere assoluto. Valutazione storico-politica da non sottovalutare, nella quale si può forse riconoscere l’influsso della diagnosi plutarchea, secondo cui il governo di Pericle si manifestò come «aristocratico», «in quanto fondato sulla sua posizione di princeps» (Vita di Pericle, 9,1). Plutarco interpretava così Tucidide II, 65, 9, e Meyer, probabilmente, interpreta e valorizza Plutarco.
È comunque degno di nota come anche Meyer resti almeno in parte impigliato nell’applicazione al mondo greco della moderna nozione di «partito politico».
In tal senso, una terminologia esplicitamente modernizzante è presente invece nel quasi coevo saggio di M. Croiset, Aristophane et les partis à Athènes (1906), dove si parla ripetutamente di «partito oligarchico», «democratico», «moderato», pur nell’imbarazzo di trovare una collocazione da assegnare ad Aristofane. Ben più pertinente, a tal proposito, le pagine di G.E.M. De Sainte Croix (The Origins of the Peloponnesian War, 1973, Appendix 29) sulla «politica» di Aristofane, giustamente definita, dallo storico marxista inglese, come di ispirazione «cimoniana».
Piuttosto che seguire partitamente la costante divaricazione dell’apprezzamento dei moderni di fronte al fenomeno della democrazia greca, segnaleremo alcuni momenti significativi connotandoli attraverso studi emblematici degli opposti orientamenti: il primo conflitto mondiale, la prima repubblica tedesca, l’età dei fascismi, la seconda metà del Novecento.
a) A partire dal 1914, nel corso della cosiddetta «guerra degli spiriti» innescata dal conflitto mondiale tra studiosi tedeschi e l’intellettualità dell’Intesa, è in gioco l’immagine dell’Atene di Demostene. Due libri vanno soprattutto ricordati: Aus einer alten Advocatenrepublik di E. Drerup (1916) – dove l’«antica repubblica degli avvocati» è l’Atene di Demostene, identificata attraverso quella formula con la nemica Francia «democratica» – e, di poco successivo alla fine del conflitto, il Démosthène di G. Clemenceau, il vincitore, per parte francese, contro la Macedonia-Prussia del kaiser Guglielmo II. L’identificazione di Clemenceau col suo eroe positivo è totale e riguarda anche il destino personale sia dell’antico sia del moderno campione della democrazia.
b) Per gli anni della Repubblica di Weimar, ricorderemo due opere «minori», ma molto esplicite: da un lato Demokratie und Klassenkampf im Altertum di A. Rosenberg (1921), e sul versante opposto Die verwirklichte Demokratie di H. Bogner (1930). Rosenberg è uno dei maggiori storici tedeschi di epoca weimariana, allievo di Meyer e docente di storia antica a Berlino, parlamentare per la KPD, esule nel 1933, rifugiato in USA, dove scomparve prematuramente nel 1939, pienamente acquisito alle ragioni del new deal rooseveltiano. Bogner (n. nel 1895) è un colto pubblicista di destra attivo al principio del regime nazionalsocialista, traduttore di autori classici. Per Rosenberg l’esperimento democratico ateniese costituisce un modello positivo in quanto coniuga la prevalenza dei ceti non possidenti con la pratica democratica: non una dittatura volta a confiscare la ricchezza dei possidenti, ma un sistema in cui la prevalenza politica dei non possidenti impone, o meglio rende ineludibile, l’uso sociale della ricchezza. Per Bogner il sistema ateniese, la «democrazia realizzata», come egli lo chiama, altro non è che l’antecedente della moderna «dittatura del proletariato»: al fine di render chiaro quanto sia deprecabile tale sistema, Bogner traduce l’intero opuscolo intitolato Athenaion Politeia (che non è imprudente attribuire a Crizia) e lo definisce come la migliore descrizione di quel sistema: con la precisazione che è con l’uscita di scena di Pericle che il sistema è apparso in tutta la sua negatività.
c) In epoca nazista si manifesta, per es. a opera di H. Berve, uno dei maggiori esponenti della generazione che dominò nelle università durante il Terzo Reich, il tentativo di stabilire una continuità che, movendo dal Pericle tucidideo, approda al Führer. Su ciò ha scritto un importante libro B. Näf, Von Perikles zu Hitler? (1986), il quale traccia anche un essenziale profilo del precedente dibattito storiografico sulla democrazia ateniese. Accanto a questo inquietante filone si sviluppa poi, o meglio si riaccende, la discussione su Demostene. Malvisto già in epoca guglielmina da studiosi di prim’ordine quali Beloch e Wilamowitz, Demostene torna in discussione per merito del libro di W. Jaeger (Demosthenes. The origin and growth of his policy) che esce prima in USA (1938) e subito dopo in Germania (1939). La discussione fu sin dall’inizio virulenta. Il filodemostenismo di Jaeger venne stigmatizzato con forza da importanti storici schierati col nazismo: H. Berve («Göttingische Gelehrte Anzeigen», 1940) e F. Taeger («Gnomon» 1941). In Italia un pesante attacco venne da parte di G. Perrotta («Primato», novembre 1942), il quale approfittò della circostanza per sbeffeggiare anche il Demostene e la libertà greca di P. Treves, nel frattempo scacciato dall’Italia perché ebreo. Jaeger fu invece difeso, negli USA, dall’esule K. von Fritz («American Historical Review», 1939).
d) Negli anni Sessanta del sec. 20° ha incominciato a farsi strada anche negli studi sul mondo greco un’importante novità. Ci riferiamo a quell’orientamento di studi detto «prosopografico» che da ben prima aveva influenzato gli studi di storia romana. Tale orientamento pone in rilievo i legami personali, familiari e di clan vigenti anche in un mondo politicamente evoluto come quello ateniese del 5° e 4° sec. a.C. Un frutto importante è il saggio di J.K. Davies, Athenian propertied families, 600-300 B.C. (1971). Ne esce fortemente ridimensionata la visione ottocentesca troppo modernizzante e incline a riconoscere nei gruppi politici dell’Atene di età classica vere e proprie formazioni partitiche. Questa sana reazione può ben inquadrarsi, oltre che nella corrente tipicamente anglosassone detta prosopografica, anche nel più generale scontro tra «primitivisti» e «modernisti» che ha investito soprattutto l’interpretazione della storia economica e sociale del mondo antico.
Ciò non ha impedito che l’interpretazione tradizionale dei conflitti politici ateniesi riprendesse lena in vasti affreschi storico-politici. Così l’adesione emotiva alla democrazia attica si coglie in studi come La démocratie athénienne di P. Cloché (1951), di cui si segnalano, per la nobile ingenuità e l’imbarazzante difesa della gestione ateniese dell’impero, le pagine conclusive. Analogo proposito affiora anche in un lavoro molto impegnato come la Democrazia (1995) di D. Musti. Per una meditata messa a punto, che è anche una efficace ricostruzione critica e documentata delle vicende che portarono dalla «tirannide» alla riforma clistenica, si può ricorrere al saggio di G. Camassa (Atene. La costruzione della democrazia, 2007). Né vanno trascurati i tentativi di lettura non demonizzante, ma politica, della vicenda dei trenta: The Thirty at Athens di P. Krentz (1982). Questo libro ha il merito di porsi seriamente la questione di quale fosse il «programma» dei trenta, e approda sensatamente alla conclusione che il loro progetto era di rimodellare, con metodi violenti, Atene «on the lines of the Spartan Constitution». Il che, se si considera quanto osservato in principio a proposito dell’immagine di Sparta come «vera democrazia», induce a non adagiarsi passivamente nella damnatio memoriae di cui, già subito dopo la loro sconfitta dovuta anche all’abbandono da parte di Sparta, i trenta furono oggetto. Naturalmente suggestioni della storia vivente possono indurre a fervide e suggestive analogie: per es. alla lettura della vicenda dei trenta proposta da J. Isaac (Les Oligarques [scritto nel 1942], ed. a cura di P. Ory, 1989) in cui si legge, in filigrana, la nascita, sotto l’urto della vittoria tedesca, del regime di Vichy (1940-1945).
In conclusione, sia lecito un bilancio: in quel laboratorio della politica che fu la città antica, da un lato si svolgevano conflitti attuali e si esprimevano interessi contingenti, dall’altro però si elaboravano concetti che hanno finito coll’avere valore ben oltre il tempo in cui nacquero: un valore che si è rinnovato e riproposto nel corso di millenni.
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