Potere insito nell’uomo di scegliere e realizzare un comportamento idoneo al raggiungimento di fini determinati.
La v. costituisce già nell’antichità uno dei principali problemi filosofici, soprattutto nel suo rapporto con la ragione. Nel pensiero greco la v. è subordinata alla ragione e strettamente dipendente dalla conoscenza. Secondo il Socrate platonico l’azione malvagia si spiega con l’ignoranza; la v. infatti tende per sé al bene e dipende dalla conoscenza di questo: nessuno fa il male volontariamente. Aristotele affronta il problema della natura del volere in una prospettiva naturalistica e psicologica, ponendo nell’uomo il principio tanto del bene che del male: tale principio è l’appetito il quale, ove operi in accordo con la ragione, si comporta come volontà. Un analogo rapporto di subordinazione della v. alle facoltà conoscitive superiori dell’uomo si ritrova anche in altre dottrine etiche antiche, orientate per lo più verso l’ideale dell’affrancamento dagli sconvolgimenti della volontà.
Il pensiero cristiano per primo riserva alla v., in quanto libera, un ruolo centrale e lascia a essa la decisione del suo conformarsi o meno al volere del Dio creatore. Qui è piuttosto l’ambito della ragione a essere riconosciuto come limitato e insufficiente, mentre si amplia il raggio di azione della v., che conduce all’adesione alle verità di fede, indipendentemente dalle conoscenze dell’intelletto.
Nel pensiero moderno il problema del rapporto ragione-v. si ripropone con Cartesio, il quale concepisce la v. come facoltà distinta e più estesa rispetto all’intelletto, che può concedere il suo assenso senza avere prima conseguito una conoscenza chiara e distinta delle cose; essa è, perciò, la causa dell’errore sia teoretico sia pratico. Diversamente, B. Spinoza chiama v. quel principio intrinseco all’essenza di ogni cosa (sforzo o conatus) che si riferisce alla sola mente, e che assume il nome di appetito quando viene riferito all’insieme del corpo e della mente. I. Kant definisce la v. in generale come facoltà di desiderare. Il problema è come e in quali condizioni tale facoltà possa costituire il principio dell’agire morale; se e come, cioè, tale facoltà si lasci determinare dalla pura legge della ragione, resistendo agli stimoli della sensibilità che tendono a condizionarla; se, in ultima analisi, tale facoltà possegga l’attributo della libertà. Un ruolo centrale esplica la v. nel sistema filosofico di J.G. Fichte che, muovendo dal kantiano primato della ragion pratica sulla ragion pura, pone la v. libera, l’Io pratico kantiano, alla base della stessa attività teoretica dello spirito. Anche per G.W.F. Hegel la v. è la facoltà dell’autodeterminazione, ma essa non è e non può essere in contrasto con la ragione, poiché con essa si identifica nel momento della sua più completa realizzazione.
Il pensiero posthegeliano ha interpretato la v. ora alla luce del concetto di prassi (come accade nel marxismo e nel pragmatismo) ora alla luce di un volontarismo metafisico (la v. di vivere di A. Schopenhauer, la v. inconscia di E. von Hartmann), mentre F. Nietzsche ha proposto, con la nozione di v. di potenza, l’esaltazione massima dell’energia vitale, intesa a realizzare fini e valori che superino la vita stessa e la morale corrente.
Per volontarismo si intende, in contrapposizione a ‘intellettualismo’ e a ‘razionalismo’, ogni concezione che attribuisce un ruolo preminente alla v., in ambito sia etico e psicologico, sia teologico e metafisico. Il primo esempio di volontarismo, in questo senso, è rappresentato dalla concezione agostiniana. Allontanandosi dalla tradizione intellettualistica greca, Agostino vedeva nella v. il principio autonomo della scelta e dell’azione, che, indipendentemente dai dettami della ragione, può orientarsi liberamente al bene come al male. Nel pensiero medievale, la superiorità della v. sulla ragione fu teorizzata, tra gli altri, da Enrico di Gand, per il quale essa dipende dalla superiorità del suo oggetto, il bene, rispetto all’oggetto della ragione, il vero. In contrasto con l’intellettualismo di s. Tommaso (che subordinava, aristotelicamente, la v. alla conoscenza), Duns Scoto individuava la superiorità della v. nella libertà, di cui non gode l’intelletto, sottomesso all’oggetto della conoscenza. Si assiste anche alla nascita di quella forma di volontarismo che va sotto il nome di volontarismo teologico, consistente nell’identificazione dell’essenza di Dio con la sua v., e quindi con la sua assoluta libertà e infinita potenza. Connessa a tale identificazione è la svalutazione delle capacità della ragione umana di penetrare i misteri della v. divina, con la conseguente esaltazione della fede: ne è esempio la polemica nei confronti dei tentativi di spiegare razionalmente i dogmi e le verità rivelate condotta da Pier Damiani e sfociante in una forma di misticismo rivolto alla glorificazione della potenza e della volontà di Dio. Non diversamente, Guglielmo di Occam individuava nell’obbedienza al comando divino l’unico criterio di valutazione morale, essendo la v. divina la fonte della moralità. Benché questa forma di volontarismo abbia come correlato il fideismo, non sempre questo ne è stato l’esito: in s. Anselmo, per es., la celebre formula «credo ut intelligam» indica come la fede non costituisca un punto di arresto, ma piuttosto l’avvio del tentativo di giustificare con gli strumenti della ragione, la verità divina rivelata.
In epoca moderna il volontarismo si presenta privo di quei legami con la fede tipici del pensiero medievale, e spesso esplicitamente contrapposto ai dogmi religiosi. Anch’esso in contrasto con la tradizione intellettualistica greca, il volontarismo moderno è incline a sottolineare l’autonomia della sfera della v., ai cui impulsi e passioni la ragione si sottomette suggerendo i mezzi più appropriati per soddisfarli. Questo volontarismo psicologico, tipico di T. Hobbes e D. Hume, si può ritrovare anche nell’utilitarismo di J. Bentham. Diverso è il volontarismo metafisico, che sorge sulla base di quello psicologico estendendone le peculiarità fino a farne un tratto della stessa realtà; esso caratterizza le dottrine di Fichte e F. Schelling, che riconducono la realtà a un’attività originaria dinamica, spontanea e incondizionata; un volontarismo metafisico conseguente sarà affermato da Schopenhauer con la dottrina della v. come principio originario e sostanza della realtà. In ambito psicologico, ma con evidenti concessioni agli aspetti metafisici connessi al problema della coscienza, una forma di v. sarà affermata da W. Wundt, che considera la v. come il principio immanente a ogni realtà psichica.
Nel pensiero contemporaneo, si considerano forme di volontarismo il pragmatismo di W. James, con il suo insistere sulla ‘v. di credere’ rispetto ai problemi non risolvibili sul piano conoscitivo (➔ pragmatismo), e la ‘filosofia dell’azione’ di M. Blondel (➔).
Il concetto di v. è delineato in varia maniera nelle diverse scuole, ora come una funzione autonoma non riconducibile ad altri processi psichici, ora come una forma particolarmente differenziata dei processi istintivo-affettivi cui partecipano anche le funzioni intellettive. Un comportamento si considera volontario (e non riflesso o automatico) quando il soggetto è in certa misura un libero agente. Per alcune scuole il comportamento volontario è il prodotto di un libero arbitrio; altre scuole assumono un atteggiamento più determinista; altre ancora svolgono fondamentalmente il tema della v. insieme a quello della ‘motivazione’ ad agire. Per molti psicologi il comportamento volontario è ‘intenzionale’, cioè coincide con il comportamento operativo messo in atto per raggiungere un qualche scopo. L’analisi del processo volitivo consente di distinguere una fase di scelta, in rapporto con le spinte istintivo-affettive e con le rappresentazioni ideative, una fase di decisione e una fase di esecuzione. Gli atti di v. possono essere rivolti all’interno (per es., controllare pulsioni reattive) o all’esterno (per es., mobilitare prestazioni per azioni continue) e possono ampiamente servirsi delle pulsioni e anche esercitarsi fino all’abitudine e automatizzarsi.
Le alterazioni della v. sono ampiamente reperibili in molti disturbi psichici, sia come caratteristica temperamentale abnorme, sia come reazione patologica del comportamento. Si osserva caduta della v. nei disturbi depressivi, specialmente in quelli endogeni (arresto melanconico), e nei disturbi schizofrenici, in cui la dissociazione ideo-affettiva coinvolge in pieno l’atto volontario (paralisi completa della v. nella catatonia, ma anche tendenze oppositive caratterizzate da controspinte illogiche, cieco intestardimento ecc.). Nelle sofferenze nevrotiche tipico è il disturbo della v. che si osserva negli ossessivi (compulsivi, coatti, psicastenici), che non sono capaci di decidere o che si presentano schiavi della coazione a ripetere (atti, pensieri). Improvvisi atti ‘volontari’, anche caparbi e spesso inadeguati, si osservano soprattutto nelle sindromi maniacali, ma anche in certe forme di epilessia temporale e in varie forme di ritardo mentale.