Esposizione delle ragioni che giustificano una determinata decisione del giudice.
Nel diritto amministrativo, la m. consiste nella enunciazione dei presupposti e dei motivi su cui si fonda un determinato provvedimento. Più specificamente, intendendo per presupposti i fatti permissivi o costitutivi il cui verificarsi consente l’adozione di un determinato atto, e per motivi gli interessi coinvolti nel procedimento, in base al suo oggetto, si distingue tra una m. in senso ampio, quale insieme dei presupposti e dei motivi, e una m. in senso stretto, circoscritta all’esposizione dei soli motivi. La m. può inoltre essere suddivisa, dal punto di vista logico in due parti: l’esposizione delle circostanze di fatto e di diritto, e cioè dei suoi presupposti, definita anche ‘giustificazione’, e l’esposizione dei motivi in senso stretto, vale a dire del percorso logico-giuridico che ha presieduto e condotto a un determinato provvedimento. Operando prevalentemente nei confronti degli amministrati, il provvedimento amministrativo non può mancare di rendere ragione dei suoi cosiddetti presupposti, e cioè dei fatti permissivi o costitutivi assunti alla base dell’adozione di un determinato atto, pena la ravvisabilità di un vizio del presupposto stesso, suscettibile di determinarne l’annullamento. Attraverso la m., l’amministrazione rende ragione dei fattori legittimanti il potere esercitato con l’adozione di un determinato provvedimento. Il che, ovviamente, non la sottrae alla possibilità che il giudice amministrativo intervenga in merito alla congruità dei motivi addotti a sostegno della decisione.
Anteriormente alla legge sul procedimento amministrativo, in mancanza di un obbligo generalizzato di m., la giurisprudenza aveva individuato alcune categorie di atti per i quali si riteneva necessaria, a pena di illegittimità, l’indicazione dei motivi posti a base dell’adozione, onde rendere possibile il controllo degli interessati e del giudice amministrativo in caso di impugnativa. Al di là dei procedimenti tipici (disciplinari, espropriativi), specificamente regolati, si riteneva obbligatoria, pur nel silenzio della legge, la m. per i provvedimenti che sacrificano gli interessi dei destinatari (per es., le sanzioni), che hanno contenuto negativo (rifiuto di nulla osta e licenza), che concludono un procedimento di secondo grado (revoca o annullamento in sede di autotutela), che comportano giudizi o valutazioni comparative. Inoltre, per gli atti a contenuto vincolato, in cui è la stessa norma attributiva di potere che ne spiega l’ambito, non occorreva la m., che invece era richiesta nei provvedimenti a contenuto discrezionale nei quali la stessa fattispecie legale affida all’autore il potere di scelta tra soluzioni diverse.
L’art. 3 della legge sul procedimento amministrativo (l. 241/1990, come modificata dalla l. 15/2005) ha recepito l’istanza volta alla generalizzazione dell’obbligo di m. dei provvedimenti, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi e il personale, dettando puntuali indicazioni sulla struttura della stessa (che deve «indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria»), ed escludendo dall’obbligo solo gli atti normativi e quelli a contenuto generale. Il co. 3 dello stesso articolo ha altresì disciplinato la m. per relationem, prevedendo che, qualora le ragioni della decisione risultino da altro atto dell’amministrazione, richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima debba essere indicato e reso disponibile anche l’atto cui essa si richiama. L’omessa esternazione del percorso giustificativo e dell’iter logico seguito dall’amministrazione determina pertanto l’illegittimità del provvedimento.
La previsione del carattere obbligatorio della m. produce effetti rilevanti con riferimento alla tutela giurisdizionale: ai sensi dell’art. 3 della citata legge, la mancanza della m., o l’omessa indicazione delle ragioni che hanno indotto l’autorità ad adottare l’atto, costituisce un vizio del provvedimento che può portare al suo annullamento per violazione di legge. Attraverso la m., dunque, l’autorità amministrativa deve rendere ragione del modo in cui ha svolto la propria funzione. Con il conseguente effetto che la previsione dell’obbligo di m. viene oggi strutturalmente riconnessa alle ‘risultanze dell’istruttoria’, sicché attraverso la m. l’autorità amministrativa dovrà rendere ragione del modo in cui ha svolto la propria funzione. Tuttavia, la sentenza 2281/2002 del Consiglio di Stato ha pure specificato che non si rende necessaria una m. dettagliata dei presupposti di fatto e delle argomentazioni giuridiche a supporto dell’atto quando l’iter logico che ha portato al provvedimento finale sia agevolmente desumibile dall’istruttoria amministrativa. L’insufficienza o l’inadeguatezza della m. è invece censurabile per eccesso di potere in uno dei suoi profili sintomatici.
La m. deve essere esternata chiaramente attraverso espressioni idonee, e deve essere percepibile all’esterno, ai soggetti nella cui sfera il provvedimento va a incidere. Giurisprudenza e dottrina prevalenti hanno peraltro sottolineato una sorta di polifunzionalità della m., che assolverebbe a una funzione di garanzia del privato nei confronti dell’operato della pubblica amministrazione, ma che andrebbe soprattutto riconosciuta come fondamentale strumento per l’interpretazione e il controllo sull’esercizio del potere amministrativo, nonché per l’accertamento giudiziale dell’atto conseguente. Su questo sentiero sembra del resto muoversi la stessa interpretazione comunitaria, secondo cui l’obbligo di m. risponderebbe alla duplice esigenza di consentire da un lato, agli interessati, di conoscere le giustificazioni del provvedimento adottato, e quindi di difendere i propri diritti, e, dall’altro, di rendere possibile al giudice l’esercizio del suo sindacato sulla legittimità del provvedimento stesso.
L’art. 111 Cost. stabilisce che «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». In ossequio a tale prescrizione il codice di procedura civile esige che la sentenza contenga la concisa esposizione «dei motivi in fatto e in diritto della decisione» e che l’ordinanza sia «succintamente motivata» (art. 132, 134). Per quanto concerne il decreto, se da un lato è vero che a norma dell’art. 135, co. 4°, «il decreto non è motivato, salvo che la m. sia prescritta espressamente dalla legge», dall’altro è altresì vero che le singole previsioni di legge che non contemplano la m. del decreto sono riferibili soprattutto a casi in cui può escludersi la natura giurisdizionale del decreto il quale riveste per lo più i caratteri di un provvedimento di natura amministrativa. In tali casi pertanto può escludersi qualsiasi contrasto con l’art. 111. L’obbligo della m. assolve alla funzione di assicurare in concreto il perseguimento di diversi principi costituzionali in tema di giurisdizione, quali il diritto di difesa, l’indipendenza del giudice e la sua soggezione alla legge, nonché il principio di legalità.
Ai sensi dell’art. 118, co. 1°, disposizioni di attuazione del c.p.c., la m. della sentenza consiste nell’esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione. In essa debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati, e in ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici (art. 118).
La violazione dell’obbligo di m. determina l’invalidità del provvedimento giurisdizionale e può essere fatta valere attraverso il sistema delle impugnazioni. Per quanto riguarda il ricorso per cassazione, in particolare, l’art. 360 prevede quale motivo di impugnazione l’omessa, insufficiente o contraddittoria m. circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Per influenza dell’ingl. motivation, m. indica l’insieme dei motivi che, originati non dalla risposta a uno stimolo esterno ma dalle condizioni psicofisiologiche dell’individuo, determinano il comportamento dell’individuo stesso in una data situazione. Si parla di m. ogni qualvolta si vogliano isolare quei fattori che controllano il comportamento diretto a una meta; il comportamento di questo tipo è diversamente considerato a seconda degli orientamenti degli studiosi. W. McDougall lo considerava da un punto di vista teleologico-metafisico, mentre definizioni in termini oggettivi venivano successivamente proposte, per es. da E.C. Tolman e, su base comportamentistica, da B. Skinner. Nell’ambito della m. vanno poi distinti fattori ‘interni’ (pulsioni, bisogni ecc.) e fattori ‘esterni’ (incentivi). Ulteriori distinzioni possono introdursi ripartendo, per es., le pulsioni (e i bisogni) in primarie e secondarie, a seconda che si ritenga che la loro base sia strettamente biologica oppure acquisita (e quindi psicologica), oppure dividendo le m., nell’ambito della psicologia dinamica, in consce e inconsce.
La riduzione delle m. a pulsioni ha caratterizzato, con impostazioni teoriche spesso diverse, i tentativi di varie scuole psicologiche di spiegare il comportamento motivato. All’inizio del 20° sec., per es., nella psicologia di McDougall il ruolo di determinanti di certi tipi di azione era attribuito agli istinti, indicati al tempo stesso come fonti di energia per l’azione. Una concezione simile, in cui all’istinto è sostituita la pulsione, si ritrova nel pensiero freudiano. La pulsione è concepita come rappresentante psichico di processi somatici non precisati; l’energia pulsionale, raggiunto un certo livello, tende alla scarica, con conseguente riequilibratura delle tensioni del sistema o, al limite, annullamento di esse. Questo modello, etichettabile come di tipo idraulico (e come omeostatico), è analogo a quello che è andato sviluppandosi nel campo degli studi etologici a opera degli studiosi dell’istinto animale come K.Z. Lorenz e B.H.W. Nissen.
Una diversa concezione della pulsione si ha invece già in R.S. Woodworth, il quale, pur mantenendo il concetto, distingue tra l’energia fisica che attiva un certo meccanismo e il meccanismo stesso che viene attivato; la pulsione è concepita così come l’attivazione dei meccanismi di risposta. Sulla natura di questi meccanismi sono stati compiuti, a partire dagli anni 1950, numerosi studi a livello fisiologico (meccanismi della sete e della fame), mentre in seguito la scoperta delle funzioni della formazione reticolare come sistema di proiezione non specifico ha permesso agli psicologi di disporre di nuovi schemi fisiologici per stabilire una relazione tra attività cerebrale e comportamento.
Un’ulteriore evoluzione subì il concetto di pulsione a opera di C.L. Hull, che lo introdusse nel suo sistema come costrutto teorico (variabile che interviene tra stimolazione e risposta comportamentale). Le principali caratteristiche della pulsione come costrutto teorico erano le seguenti: le pulsioni rappresentavano il componente energetico dell’azione, il cui comportamento direttivo era invece l’abitudine (habit) attivata; come concomitanti della pulsione, ma non identici a essa, venivano altresì considerati particolari stimoli, i cosiddetti stimoli pulsionali (drive-stimuli). Il modello di Hull per le sue proprietà teoriche e per lo sforzo di formalizzazione implica lo stadio di maggior raffinamento del concetto di pulsione; per taluni aspetti questo modello può essere ancora considerato come rientrante nell’ambito dei modelli omeostatici, dato che la riduzione della pulsione (drive-reduction) è considerata come rinforzo del comportamento (motivo ulteriormente sviluppato da N.E. Miller e J. Dollard).
Il modello di Hull, indagato successivamente nei suoi vari elementi, è andato perdendo terreno in favore di altre teorie esplicative; così è stato elaborato un concetto di m. incentiva o m. appresa (associazione dei segnali di stimolo a una risposta, K.W. Spence) in cui viene in primo piano la meta cui tende il comportamento piuttosto che i suoi aspetti pulsionali. Si è distinto inoltre tra una pulsione primaria e una pulsione secondaria (appresa). L’attenzione peraltro dedicata a taluni comportamenti, presenti anche tra gli animali, specialmente a quelli di tipo esplorativo e manipolativo, permetteva di rilevare l’insufficienza esplicativa del concetto di pulsione e la sua non applicabilità a qualsiasi tipo di comportamento motivato. Di qui il ritorno a concezioni comportamentistiche della m. basate sul concetto di fattore specifico di stimolazione (E. Estes) e di rinforzo in generale (B. Skinner). Va ricompresa in quest’ambito anche la teoria di P.T. Young, che postula piacere e dolore come base del rinforzo (neoedonismo).
Hanno insistito invece sul concetto di bisogno, piuttosto che di pulsione, psicologi non aderenti a un’impostazione comportamentistica. K. Lewin, per es., studiando i livelli di aspirazione, ha introdotto come fattori motivanti i quasi-bisogni (per sottolineare la base non biologica di queste tendenze), mettendo inoltre in rilievo il ruolo della meta nel comportamento motivato (valenza dell’oggetto). Nel campo degli studi di teoria della personalità H.A. Murray ha distinto un insieme di bisogni base, coincidente e non riducibile ai bisogni biologici comunemente ammessi (fame, sete, sessualità ecc.), distinguendo tra bisogni viscerogenici (in corrispondenza di un ipotetico stato del sistema nervoso centrale) e psicogenici. La m. è stata inoltre studiata sia a livello cognitivo (teoria della dissonanza cognitiva di L. Festinger) sia a livello sociale.
La ricerca si è soffermata sull’importanza degli scopi, sull’intensità con cui si tende a una meta, nonché sull’influenza che stati affettivi come la soddisfazione, la vergogna o l’orgoglio possono esercitare. L’affermarsi di una prospettiva teorica di tipo cognitivo ha dato grande risalto al ruolo degli scopi sia nella elaborazione delle informazioni sia nella strutturazione del linguaggio e nella definizione dei comportamenti. Gli scopi (che possono essere definiti come rappresentazione di stati finali desiderati o temuti) qualificano l’attività e le danno un senso: senza un riferimento almeno implicito ai motivi dell’azione, quest’ultima perderebbe la propria caratteristica essenziale e si trasformerebbe in una mera occorrenza (definibile solo in senso negativo e speculare, appunto come atto o evento non intenzionale).
In questa linea, m. e intenzioni sono messe a fuoco dalle teorie dell’attribuzione, per molte delle quali l’intenzione è il vero criterio organizzante della spiegazione ingenua degli eventi e dei comportamenti. Più in particolare, l’analisi dei processi di attribuzione ha evidenziato che, nella loro attività di interpretazione, gli individui possono manifestare una preferenza sistematica (bias) verso certi tipi di spiegazione che soddisfano specifiche m. a proposito di sé stessi: autoaffermazione, difesa e protezione dell’immagine di sé, bisogno di positività individuale ecc. In quest’ambito, un tema studiato riguarda i modi in cui gli individui spiegano i propri successi e insuccessi: in genere, tendono a mantenere un livello elevato di autostima attribuendo a sé stessi (a cause interne) i successi e a cause esterne gli insuccessi, e sopravvalutando il proprio ruolo in situazioni dall’esito positivo. Queste attribuzioni dipendono anche dalle aspettative che il soggetto ha elaborato a proposito della propria prestazione. Lo sviluppo delle teorie dell’attribuzione è legato all’affermarsi di una prospettiva cognitiva in psicologia e in psicologia sociale. L’individuo appare così un soggetto dotato di una certa autonomia e capacità di scelta, responsabile dei propri atti.
Gran parte della ricerca sulla m. riguarda i processi di autoregolazione (self-regulation), la capacità dell’individuo di regolare i propri comportamenti e di indirizzarli verso specifici fini. Questa capacità chiama in causa sia fattori di personalità, sia processi cognitivi e motivazionali; essa viene influenzata dal sentimento della propria efficacia e da una capacità di rappresentazione che spesso va al di là del sé attuale, per comprendere i molti sé possibili. Lo studio dei processi di autoregolazione viene accostato all’analisi della m. intrinseca, locuzione che designa quelle m., indipendenti da incentivi esterni (premi, punizioni ecc.), che esprimono l’autonoma capacità di darsi dei fini anche in modo non strumentale e al di fuori di una logica di scambio. Se si considerano le m. intrinseche non solo in base ai contenuti dell’attività, ai risultati, ma anche come processo, questi due ambiti di ricerca appaiono simili. La m. intrinseca dipende da una serie di fattori: gli scopi (in parte legati a caratteristiche del compito), la persona, il contesto; essa può inoltre modificarsi nel tempo, e può venire influenzata da mediatori, come l’esperienza positiva vissuta durante la performance. L’interesse è un aspetto essenziale della capacità di mantenere un livello di m. adeguato al raggiungimento degli scopi. In effetti, anche se la m. intrinseca viene descritta come tentativo/desiderio di padroneggiare cose nuove, essa è importante nel mantenere un coinvolgimento in attività già avviate. Il bisogno di conoscenza e il bisogno del risultato, del raggiungimento (achievement) dei propri fini, sono i suoi aspetti essenziali. Lo studio della m. intrinseca ha importanza per la comprensione di alcune manifestazioni dell’attività umana, come, per es., la creatività.
Il ruolo della m. intrinseca è stato studiato in riferimento a molteplici ambiti applicativi (educazione, sport, turismo, fenomeni migratori ecc.). Fra gli studi sui processi di autoregolazione connessi alla m. intrinseca, alcuni hanno evidenziato le differenze individuali nella capacità di rinunciare a una soddisfazione immediata a favore di una gratificazione più lontana nel tempo, ma maggiormente valorizzata. Fattori (temperamentali, affettivi, cognitivi, di personalità) appaiono implicati in questo tipo di comportamenti, ritenuti di particolare importanza nei processi di sviluppo e in quelli di socializzazione. Alcuni contributi sottolineano infine la natura sociale della self-regulation: la scelta riguardo a quali obiettivi perseguire e quali rischi ed errori evitare (la stessa concezione di ciò che siamo, del nostro posto nel mondo) rappresenta l’elemento di una realtà condivisa, creata collettivamente, attraverso l’interazione con altri soggetti significativi.
A dirigere la condotta della persona, in particolare l’attività di apprendimento, è molto spesso un insieme di m. di varia natura. Mentre, in genere, le spinte istintuali sono correlate alla soddisfazione di bisogni fisiologici, sono piuttosto le m. indirette, per così dire culturali o acquisite, quelle che guidano al conseguimento di fini superiori o comunque non immediati. Il compito precipuo della pedagogia è di promuovere, attivare, sviluppare tali tipi di m. mediante strategie opportune, consistenti nell’individuazione di obiettivi di apprendimento raggiungibili (anche in considerazione delle differenti fasi dell’età evolutiva), nel predisporre le condizioni ambientali e culturali favorevoli, nell’utilizzare incentivi, nell’assicurare continuità e profondità all’interesse.