VOLONTÀ (fr. volonté; sp. voluntad; ted. Wille; ingl. will)
Può intendersi in due sensi: come specifica facoltà di volizione, distinta da ogni forma inferiore di attività pratica (tendenza, istinto, impulso, abitudine, ecc.), o, in genere, come attività rivolta a creare o modificare la realtà, come tendenza a un fine, anche se non consapevole: nel quale ultimo senso, più comprensivo, alcuni psicologi e filosofi anglosassoni hanno preferito il termine conazione (Stout). Ma in tal senso si può parlare, anche, di volontà tanto come di una realtà psicologica quanto come di una realtà metafisica, costituente il fondo o la sostanza di tutto l'essere.
Sul terreno così psicologico come metafisico, appunto, si è dibattuta a lungo la questione del primato o meno del volere, inteso ora nel senso specifico ora nel senso generico sopra indicati; onde il volontarismo s'afferma ora come primato psicologico del volere rispetto alle altre funzioni psichiche, ora come identificazione del volere con l'essenza ultima, metafisica, della realtà. Un netto volontarismo psicologico, con riflesso metafisico, si ha per esempio in Sant'Agostino e si rinnova poi, dal più al meno, in tutte o quasi le correnti mistiche. Per Scoto Eriugena "tota animae natura voluntas est" e volontà è il principio dell'essere nel Fons vitae di Avicebron. Nella Scolastica, la preminenza del volere è affermata da Enrico di Gand contro l'intellettualismo aristotelico-tomistico, in quanto per lui la volontà è sempre, ab initio e per sua natura, attiva, mentre l'intelletto deve essere passivo prima d'essere attivo; e volontarismo radicale è anche la dottrina dell'antagonista di San Tommaso, cioè di Duns Scoto' e quella di Guglielmo di Occam, così come già nei Vittorini la volontà era l'essere profondo dell'anima e voluntaria certitudo absentium (Ugo di San Vittore) era la fede, nella quale essi accentuavano l'affectus, cioè l'amore che orienta verso l'oggetto la volontà. E funzione fondamentale ha la volontà nel tardo misticismo del Böhme, per il quale l'anima, come libera volontà, che è poi Dio stesso, risolve il conflitto fra bene e male contenuti in potenza nell'essere infinito; laddove prevalentemente intellettualistico è il semi-misticismo medievale di Meister Eckardt. Nella filosofia moderna, già in Berkeley e in Leibniz è il concetto che volontà o appetito è il fondo ultimo dell'anima. Posizione speciale è quella kantiana, col suo primato della ragion pratica, che significa identificazione del volere con l'io vero e proprio, cioè col carattere intelligibile, e insieme attitudine della coscienza morale, in quanto coscienza di un dover essere e libertà, a superare la sfera fenomenica in cui è chiusa la ragion pura e ad attingere il fondo noumenico dell'essere. L'interpretazione volontaristica dell'io si accentua poi nel Fichte, per cui il non-io è posto come limite dall'attività pratica dell'io, e nello Schelling, per il quale l'essere originario è volontà, e perciò anche "inesplicabilità, eternità, indipendenza dal tempo affermazione di sé". Allo sviluppo del volontarismo nel sec. XIX hanno poi contribuito più propriamente il Maine de Biran, che pone a base del conoscere il volere (volo, ergo sum), dalla coscienza del volere traendo il principio di causalità, e lo Schopenhauer, che costruisce una metafisica esclusivamente volontaristica: la cosa in sé è volontà, una, indivisibile, eterna, irrazionale (grundlos), sempre insoddisfatta, mentre il conoscere è un suo accidente, al quale è correlativo il mondo come fenomeno, cioè come rappresentazione e come individualità. Ma dal più al meno l'interpretazione volontaristica affiora indipendentemente in altri sistemi, ad esempio nell'Apodittica di F. Bouterwek, per cui il reale assoluto, almeno nel sapere relativo, è rappresentato dalla coscienza del volere, forza animatrice dell'individualità, o nella psicologia di A.K. Fortlage e di F.E. Beneke, il quale alla base di ogni processo psichico pone una tendenza, un impulso, uno Streben, e nel sistema di questi impulsi fa consistere l'anima, o in quella di Pasquale Galluppi, che considera il volere come attività specifica, distinta dal giudizio e dal desiderio ed esercitante "il suo impero su l'anima e il corpo, su gli abiti e le facoltà di analisi e di sintesi". Da tali coefficienti e indirizzi derivano le varie correnti e i sistemi volontaristici più vicini a noi, da quelli che piegano a interpretazione individualistica la volontà dello Schopenhauer (J. Frauenstädt, Ph. Mainländer, R. Hamerling, ecc.), alla filosofia dell'inconscio di E. v. Hartmann, alla volontà di potenza del Nietzsche, ai sistemi di G. Paulsen e di G. Wundt. al monadismo volontaristico e reincarnazionistico della vola di W. Lutoslawski, alle diverse filosofie della volontà e dell'azione (Ch. Secrétan, J. Lachelier, in parte A. Fouillée, neo-criticismo di Ch. Renouvier, trascendentalismo etico di A. Spir, M. Blondel, ecc.) e a quelle praminatistiche e contingentistiche (W. James, J. Dewey, É. Le Roy, É. Boutroux. H. Bergson, ecc.). Fra tali sistemi, il Wundt rappresenta forse il momento critico del passaggio da una psicologia empirica, fondata sul concetto e sulla ricerca di elementi psichici, a una metafisica volontaristica; perché, dopo aver nella coscienza riconosciuto come elementi solo sensazioni pure e sentimenti semplici, egli finisce col considerare la volontà come immanente a ogni realtà psichica, in quanto questa è, sempre, anche sentimento; il quale costituisce l'aspetto soggettivo d'ogni realtà psichica, come la rappresentazione ne costituisce l'aspetto oggettivo. E il sentimento è già inizialmente volontà, perché esso si accompagna con movimenti che ne costituiscono la naturale espansione e che si organizzano in movimenti complessi quando sentimenti semplici si organizzano essi stessi dando luogo allo stato affettivo più complesso che è l'emozione. Quando tali movimenti determinano cangiamenti che mettono a un tratto fine all'emozione, questa, insieme con l'atto medesimo, costituisce più propriamente ciò che si suol chiamare, ma sempre in senso comprensivo, processo volontario (che è dunque quello che soddisfa un bisogno, ponendo fine a un dolore). Si può dire che la psicologia moderna è caratterizzata dalla parte sempre più larga che essa è andata riconoscendo al fattore volontario nel tessuto della vita psichica. E a questi risultati della psicologia empirica veniva poi a corrispondere, sul terreno filosofico una visione nuova della realtà spirituale; la quale, se è essenzialmente libertà, cioè realizzazione di fini e di valori, non può non presentare alla radice di ogni suo processo - pur senza che questo, nella sua essenza specifica, vi si riduca - un momento volontario. Conoscere, pensare, immaginare, creare, credere, non può non significare, anzitutto, voler conoscere, voler pensare, ecc.; senza di che gli atti corrispondenti sarebbero meccanici, determinati da semplici rapporti causali, e non realizzerebbero valori, non risponderebbero a ideali (così già, in Cartesio, il giudizio presuppone la volontà, dall'intervento della quale dipende la possibilità dell'errore). A questa tendenza, predominante sia nella psicologia sia nella filosofia contemporanee, corrispondono - non senza profondi legami - così l'attivismo, che caratterizza tanti sistemi pedagogici e tanti metodi didattici contemporanei, come il volontarismo politico, proprio di varie correnti rinnovatrici e concezioni odierne della vita dello stato presso parecchi popoli.
S'intende come la natura complessa dell'attività volontaria, una volta caduta la semplicistica teoria classica delle facoltà, dovesse dar luogo a diverse interpretazioni e teorie contrastanti, alle quali qui è possibile appena accennare. Esse possono distinguersi in eterogenetiche ed idiogenetiche, secondo che derivano la volontà da processi d'altro ordine o che la considerano come attitudine originaria e inderivabile. Tra le prime ricorderemo: l'associazionistica (D. Hartley, D. Hume, James Mill, J. Stuart Mill); la motrice, del resto, anche storicamente, molto da vicino congiunta alla precedente (A. Bain, Th. Ribot, H. Münsterberg, H. Spencer, G.H. Lewes, G. Sergi, J. Ebbinghaus, ecc.); l'intellettualistica, sia nella forma datale da J. Fr. Herbart, sia in quelle più recenti di Chr. v. Ehrenfels e di P. Lapie, sia in quella propria dello Spinoza (voluntas et intellectus unum et idem sunt) e dell'idealismo; quella sentimentalistica (Horwicz, Ziegler, Simmel); quella sociologica, per cui "la sola presenza di rappresentazioni collettive alla coscienza basta a far di nostra attività un'attività volontaria" (C. Blondel). Le teorie idiogenetiche (J. Kl. Kreibig, V. Jerusalem, Fouillée, Dewey, G.T. Ladd, James ecc.), son più vicine al concetto tradizionale. Neppure è possibile fermarci sui risultati delle ricerche sperimentali eseguite da N. Ach, dal Bovet, da E. Dürr, da A. Michotte e N. Prüm, e più di recente dal Barrett, da A. Grünbaum, da J. Lindworsky, dal Wheeler. Certo è che, anche traverso delle incertezze, esse tendono a confermare l'esistenza d'un atto volontario come processo distinto da ogni altro, e in cui è presente l'orientamento verso un fine o la scelta. Onde non sarebbe neppur sufficiente dire con F. Paulhan che "la volizione non è, nei suoi elementi, un fenomeno distinto dagli altri per la sua natura", ma è soltanto una sintesi nuova di tali elementi. È chiaro d'altra parte che l'originarietà del volere implica la distinzione effettiva di funzioni psichiche, e quindi di categorie psicologiche (F. Bonatelli), fondata, in sostanza, sul diverso rapporto che il soggetto stabilisce coll'oggetto: e cioè attività conoscitiva, attività fantastica, attività pratica, produttrice di realtà (F. De Sarlo), ovvero, secondo la classificazione di F. Brentano, rappresentazione, giudizio, fenomeni di amore-odio. Il volere non è che la forma più alta d'attività pratica o d'amore-odio, che taluno (Herm. Schwarz) identifica con l'apprezzamento, con l'approvare o disapprovare, ben diverso dal sentimento (piacere o dolore), e distingue in due forme, l'una inferiore, il semplice gradire (gefellen) o ripugnare (missfellen), e una superiore, il preferire (parallele al rappresentare e al giudicare). Riferendoci all'analisi dell'atto volontario, ci limiteremo ad alcune osservazioni tra le più importanti.
Nessun atto è propriamente volontario se non contenga, sia pure contratta o implicita, la coscienza d'una pluralità d'alternative, cioè di linee di condotta possibili, tra cui è compito del volere realizzarne una. L'azione ideomotrice, perciò, a differenza di quanto crede il James, non rientra nel quadro dell'attività propriamente volontaria, sebbene ne costituisca la fase immediatamente precedente e preparatoria, in quanto in essa per la prima volta l'idea del fine, o dell'atto da compiere, opera come causa determinante dell'atto stesso; il che non accade nell'atto riflesso o istintivo o strettamente abituale. Ma ciò non toglie che l'azione ideomotrice ha carattere di meccanicità o, se si vuole, di pura spontaneità psichica.
Il complicarsi di bisogni e, quindi, la diversità di significato e di valore che un medesimo oggetto può assumere di fronte alla coscienza rende indispensabile a questa, a un certo momento, il compimento dell'atto volontario. Se due bisogni o tendenze sono contemporaneamente avvertiti, se quindi due linee di condotta ci si presentano con una qualche forza rispettiva di pressione e d'attrazione per l'io, pur essendo tra loro incompatibili, non è possibile passare all'azione se non attraverso uno stato d'indecisione, che va superato mediante una scelta. Si tenga presente però che questa indecisione, che è propria dell'atto volontario, non è identificabile con qualsiasi forma d'indecisione. Diversi impulsi contrastanti possono insieme presentarsi anche alla coscienza dell'animale, se questo rappresenta già un grado assai elevato e complesso e differenziato d'organizzazione vitale: allora l'animale esiterà, combattuto tra impulsi diversi, nessuno dei quali raggiunge, pel momento, una tale prevalenza sull'altro da disporre dell'energia sufficiente a dare lo scatto all'azione, finché l'uno di essi non vinca decisamente determinando la scarica motrice. È quello che accade a noi stessi quando ci sentiamo tumultuar dentro emozioni e impulsi diversi, finché l'uno di esso, reso preponderante dall'aggiungersi di qualche elemento che lo rafforzi, balenando alla coscienza (un ricordo, un'associazione d'idee, un'immagine, ecc.), ci trascina - e noi sentiamo chiaramente che ciò si fa in noi, e che noi siamo spettatori della lotta e dell'esito - all'azione che lo soddisfa. Ciò che è proprio dell'atto volontario è che non si ha oscillazione automatica d'immagini e d'impulsi corrispondenti davanti alla coscienza, ma indecisione accompagnata da esame, il quale è fatto col programma cosciente di uscirne con un nostro atto di scelta. L'atto di volontà passa perciò necessariamente per questi momenti: 1. presentazione delle alternative, cioè del problema pratico, del conflitto tra fini diversi (il conflitto può essere anche tra mezzi diversi coi quali raggiungere un medesimo fine, ma, in realtà, in tal caso la scelta del mezzo non è oggetto di atto volontario se non in quanto il mezzo stesso ci si presenti con un determinato valore intrinseco, cioè si trasformi in fine, cui può spettare o meno la preferenza); 2. deliberazione, nella quale i singoli fini sono assoggettati a esame mediante la valutazione comparativa dei motivi che sono a favore dell'uno o dell'altro, e dei quali alcuni preesistono, altri sono via via evocati durante il processo medesimo: esame che è una vera elaborazione, di analisi e di sintesi insieme, durante la quale ogni motivo principale o secondario è saggiato in rapporto alle tendenze preesistenti o a quelle che esso è capace di determinare, e in rapporto a tutto il sistema d'interessi operanti nell'io; 3. decisione, nella quale l'equilibrio conseguente al conflitto è raggiunto mediante l'adesione definitiva a uno dei fini e delle forme di condotta sottoposti a esame, e mediante l'eliminazione degli altri; 4. esecuzione. È da notare come talora la deliberazione s'arresta a mezza strada, perdendo il suo carattere di volontarietà: una delle tendenze represse prende il sopravvento e decide da sé lo stato di conflitto e di esitazione. Sono i casi di volontà abortita, in cui l'io si rivela incapace di dominare fino all'ultimo, cioè fino al suo fiat, gli elementi in contrasto. Ed è da notare anche come, a rigore, l'atto di volontà si chiude con la decisione. Ma in pratica l'esecuzione è la prosecuzione e il termine non trascurabile dell'atto stesso, perché in essa la volontà raggiunge la prova e il controllo definitivo della sua efficienza. La volontà tende naturalmente a estrinsecarsi nell'esecuzione, cioè a modificare di fatto la realtà; e la mancata esecuzione, quando non fosse una sporadica accidentalità, finirebbe col togliere ogni nerbo alla capacità di volere. La quale implica come condizione appunto la fede nella raggiungibilità del fine; in mancanza di questa, si può aver desiderio, non volizione. A ogni modo, ciò che importa rilevare è che la volontà non è né semplice "facoltà di sentir desiderî" (A.-L. Destutt de Tracy) né semplice vittoria d'un appetito su altri, secondo la definizione di Th. Hobbes ("in tutte le deliberazioni, cioè in ogni caso di alternata successione di contrarî appetiti, l'ultimo è quello che noi chiamiamo volontà").
Volere si ha appunto quando la tregua è imposta dal centro, dall'io, e la vittoria non è strappata da una delle forze in contrasto, ma è conferita dal potere che, sovrapponendosi a tutte, funziona da arbitro. Ciò significa: 1. che tutto l'atto volontario è sostanzialmente, almeno sotto un aspetto importantissimo, inibizione; la quale però non è inibizione automatica, come quella che una tendenza, o l'energia propria di un'idea, può esercitare contro un'altra, ma è propriamente voluta, prima contro tutte, perché la deliberazione stessa sia possibile, poi, nella decisione, contro quelle fino allora rimaste in competizione col fine che vien preferito. Codesto aspetto d'inibizione può essere più o meno appariscente, dai casi in cui tutto lo sforzo del volere pare esaurirsi (ma non è mai letteralmente così) nello sforzo d'inibire certe tendenze e ridursi a un non-volere, a quelli in cui la rapidità e la facilità della decisione paiono quasi sopprimerlo; ma non manca mai; 2. che l'attività volontaria è in stretta connessione con la coscienza dell'io, come centro unitario e attivo, insieme, di tutti gli elementi della vita psichica. L'io, dapprima oscura soggettività, punto di riferimento unico di ogni esperienza psichica, si afferma via via che riesce a distinguersi, come fonte di attività, da ogni suo elemento (sentimenti, tendenze, istinti, idee) particolare: e la volontà è precisamente questa attività dell'io, come unità sovrapposta alla molteplicità dei suoi contenuti, che si sostituisce all'azione prima impulsiva, parziale, centrifuga, di questi, immediatamente determinata dall'energia d'impulso di cui ciascuno è fornito. Io e volontà son termini correlativi: l'io in tanto è, in quanto ha una capacità d'azione sua propria, che è il volere, e il volere non esiste che come attività distinta e autonoma dell'io: l'uno e l'altro si presuppongono a vicenda e crescono insieme; e si può dire che l'io è una costruzione progressiva del volere, come si può dire che il volere è il potere d'affermazione dell'io contro la forza, tendenzialmente disgregatrice, dei suoi singoli elementi. Il che significa anche che la volontà si crea continuamente di sé in sé stessa, e che volere è condizione per imparare a volere, e che la volontà non si deduce da altro, come non si deducono l'io, la coscienza, il pensiero da nulla di diverso da loro. Ond'essa, sotto questo aspetto, può definirsi con L.W. Stern "l'attività della persona rivolta agli elementi della coscienza, attività che ne unifica la molteplicità e li dirige secondo un fine"; e ritenere, come fa E. Claparède, che ogni atto del volere non è che la reazione di certe tendenze contro altre, cioè d'una parte contro un'altra della personalità, significa distruggere l'essenza specifica, sperimentabile, della volontà. La volontà non ha senso se non come reazione e sovraordinazione di tutto l'io di fronte a particolari tendenze. E se l'unità assoluta dell'io non si realizza che mediante principî ideali forniti di potere assolutamente unificatore perché assolutamente validi e gerarchicamente sovraordinati, sarà lecito dire con P. Natorp che, almeno tendenzialmente, ogni volere "presuppone come principio l'unità formale dell'idea, cioè dell'incondizionatamente imperativo (gesetzlich)". Nel fatto, poi, d'essere una presa di posizione e uno spiegamento d'attività, una reazione da parte di tutto l'io, sta la ragione vera della libertà che si attribuisce alla volontà. È innegabile che un argomento seriamente probante è la stessa coscienza che l'uomo ha della sua libertà nel volere: coscienza che attesta appunto la dipendenza definitiva dell'atto dall'io dal soggetto, come da sua vera causa, e che non si vede donde potrebbe avere origine, se fosse illusoria, mentre è assolutamente insufficiente e incongruo spiegarla negativamente, cioè come effetto d'una semplice ignoranza delle cause (Spinoza, Schopenhauer), quando invece nell'atto volontario le cause - i motivi - non sono ignorate, bensì se ne avverte l'esistenza e l'azione soltanto attraverso il potere centrale dell'io, in quanto attingono forza dai suoi giudizî di valore e si immedesimano con esso. D'altra parte, i concetti morali e giuridici di dovere, di merito, di responsabilità, ecc., non hanno alcun significato positivo e accettabile se non nell'assunto - che non può essere arbitrario, se la morale e il diritto sono una realtà - d'un volere libero, espressione cioè d'un potere originario e irriducibile dell'io. Infine, il fatto rilevato dal James, che nella decisione volontaria noi seguiamo spesso la linea della maggiore resistenza, sentiamo cioè di lottare contro la tendenza che sarebbe più forte, affrontando perciò il maggiore sforzo e il maggior dolore, prova che l'atto di volontà non è riducibile al meccanismo psichico, per cui prevarrebbe, determinando all'azione, la tendenza più forte. E l'obiettare che la tendenza che prevale traverso la decisione mostra, per ciò solo, d'essere la più forte, è insieme una petizione di principio e una smentita all'esperienza. In sostanza, negare la libertà del volere è negare l'io, cioè il volere stesso, che ne è funzione unitaria: "voluntas nostra nec voluntas esset, nisi esset in nostra potestate" (S. Agostino). E la negazione non può essere fatta rigorosamente se non da chi nega l'io, cioè lo spirito, riducendolo a un epifenomeno. La dimostrazione, del resto, può essere data in questo modo: ogni scelta particolare presuppone, come motivo, un giudizio di valore, e questo a sua volta ne presuppone un altro, sicché in ultima analisi - secondo uno schema d'origine aristotelica e tomistica - la scelta si fonda su una originaria e irriducibile preferenza tra due beni antitetici (per es., il bene proprio o il bene altrui, il piacere o la legge universale, ecc.), la quale è pronunciata con un giudizio di valore che non ha ulteriore motivazione, cioè è una volizione che ha la sua origine in sé stessa, è una posizione assoluta del soggetto.
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