La facoltà, propria dello spirito, o pensiero, di intendere le idee o di formare i concetti, o il potere conoscitivo della mente (contrapposta alla sensibilità, alla volontà ecc.). L’uso filosofico del termine, nella forma greca del νοῦς, è inaugurato da Anassagora, che con esso identifica la divinità ordinatrice del cosmo. Platone, subordinando il mondo materiale dei sensibili (αἰσϑητά) a quello ideale degli intelligibili (νοητά) e determinando come νόησις la più alta forma del conoscere, apre la via alla concezione aristotelica della νόησις, come suprema forma di appercezione del reale. D’altra parte, nel De anima aristotelico compare la distinzione dell’«i. per cui [l’anima] diviene tutto» (detto poi i. in potenza) e l’«i. per cui [l’anima] fa tutto» (detto i. agente); il primo è capace di ricevere gli intelligibili, il secondo rende intelligibili in atto le forme potenzialmente presenti nelle immagini sensibili, e sembra essere non facoltà umana, ma facoltà eterna e divina. Di qui le varie interpretazioni dei commentatori greci e arabi passate agli autori medievali: l’i. agente è spesso identificato con Dio (Alessandro d’Afrodisiade) o con una intelligenza separata (Avicenna), o viene inteso come facoltà dell’anima forma del corpo (s. Tommaso); Averroè giungerà a separare dal soggetto individuale anche l’i. in potenza, facendone una sostanza separata, unica per tutta la specie umana.
Nell’età moderna, di i. parlano soprattutto i razionalisti, da R. Descartes in poi, facendone la sede delle idee innate e delle verità più profonde e certe, provocando così la critica empiristica di J. Locke, il cui nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu è d’altronde a sua volta integrato dal nisi intellectus ipse di G. Leibniz. Ma la vera trasformazione moderna dell’idea d’i. è operata da I. Kant, che trasferisce il carattere proprio dell’antica noesi nell’idea di ‘ragione’, concependo invece l’i. come facoltà delle categorie che il pensiero impone a priori all’esperienza. Per Kant l’i. resta la più alta funzione teoretica, ma ciò non toglie che esso risulti essenzialmente limitato nella sua attività, non potendo varcare il dominio dell’esperienza possibile. Di qui l’ostilità dei postkantiani per la staticità e l’angustia dell’i., e il loro ideale di una ‘intuizione intellettuale’ in grado di abolire le barriere tra la conoscenza intuitiva e quella intellettuale.
L’idealismo del 20° sec. ha inteso eliminare il concetto stesso di i., risolvendolo in quelli di pensiero, autocoscienza, filosofia. D’altra parte, H. Bergson ha contrapposto l’i. all’intuizione, considerandolo una funzione adeguata soltanto nel campo della conoscenza astratta, ma incapace a cogliere la complessa realtà dinamica della vita. Di qui una svalutazione della conoscenza scientifica a favore della conoscenza filosofica. Nell’ambito delle correnti pragmatistiche e strumentalistiche l’i. è concepito, invece, come funzione organizzativa, strumento essenziale per l’adattamento dell’uomo alla realtà che lo circonda, a livello biologico, sociale ecc.