tragedia Opera e rappresentazione drammatica che si caratterizza, oltre che per il tono e lo stile elevato, per uno svolgimento e soprattutto una conclusione segnati da fatti luttuosi e violenti, da gravi sventure e sofferenze.
1. La t. greca. La t. di Eschilo, Sofocle, Euripide, e degli altri minori tragici dell’età classica, consiste essenzialmente in una serie di episodi recitati (in trimetri giambici o tetrametri trocaici), alternati con cori (in versi lirici). La serie degli episodi e dei cori che costituiscono l’azione tragica è preceduta di solito da un prologo recitato e da un canto d’entrata del coro (pàrodos), e conclusa da un canto d’uscita del coro (èxodos). La t. greca è quindi nel complesso uno spettacolo di recitazione, canto, musica e danza (il canto corale era accompagnato solitamente dalla danza).
La parola τραγῳδία è attica; l’etimologia è incerta: evidenti ne sono gli elementi, ᾠδή «canto» e τράγος «capro», ma già in età greca si aveva il dubbio se il senso della parola fosse ‘canto per un capro’, vale a dire ‘che ha per premio un capro’, oppure ‘canto dei capri’, cioè di attori mascherati da capri. Il secondo etimo sembra riconnettere le origini della t. a quelle del dramma satiresco e dal ditirambo, antichissimo canto corale dionisiaco. Dal ditirambo fa appunto derivare la t. Aristotele, in un celebre passo della Poetica. Un posto a parte hanno quelle interpretazioni dell’origine della t. che prescindono da Aristotele e seguono altre vie, come quella di far derivare la t. da lamentazioni funebri sulla tomba di eroi, o da lamentazioni funebri associate a Dioniso. In linea generale, sembra da accettare che vi sia una matrice comune alla t. e al dramma satiresco.
Secondo la tradizione, la prima rappresentazione tragica ebbe luogo in Atene durante la 61ª olimpiade (536-33): l’‘inventore’ sarebbe stato Tespi. Ma di questa prima fase non sappiamo praticamente nulla; nella storia si entra con Frinico e Pratina. Di Frinico, audace innovatore, sappiamo che scrisse una Presa di Mileto, t. di contenuto storico-contemporaneo. Ma la vera e propria t. attica comincia con Eschilo: a lui viene attribuita l’introduzione del secondo attore, con cui il dialogo si rendeva definitivamente indipendente dal coro. Nasceva la t. vera e propria. Eschilo stesso, o Sofocle (la tradizione antica non è concorde) introdusse poi il terzo attore. Della rappresentazione tragica si occupava lo Stato e aveva carattere sacro. Al centro dell’orchestra del teatro s’innalzava l’ara del dio Dioniso, e il sacerdote del dio aveva nel teatro un posto d’onore; l’occasione stessa dei concorsi tragici era data dalle feste di Dioniso. La materia della t. è il mito eroico, quale era offerto nei poemi omerici e ciclici, e anche le t. di contenuto non mitico, come La presa di Mileto, o I Persiani di Eschilo, celebravano argomenti elevatissimi, le grandi sventure e le glorie nazionali. All’antico carattere sacro è anche dovuto lo stretto legame che la t. conservò sempre con la musica e la danza; e quando il coro perse relativamente importanza e cominciò a essere considerato d’impaccio allo sviluppo della vicenda, Euripide vi sostituì duetti lirici e monodie. Altra conseguenza del carattere religioso della t. attica è che il poeta non vuole essere soltanto poeta, ma soprattutto maestro di vita religiosa e morale dei suoi concittadini; specialmente nei cori si dibattevano i più importanti problemi della coscienza ateniese del 5° sec.: la colpevolezza e l’innocenza, la responsabilità umana e divina, l’infelicità dell’uomo, la giustizia degli dei. La materia della vicenda era per lo più già nota agli spettatori, l’interesse perciò era diretto all’arte con cui il poeta aveva saputo trattare i fatti, cioè alle sue doti fantastiche, alla bellezza dello stile, della musica, della danza. In Eschilo la vicenda mitica era svolta ampiamente, con profondo senso religioso, nella trilogia, necessaria perché il dramma potesse avere uno svolgimento completo: esempio classico, l’Orestea. Già in Sofocle, che ama centrare la sua azione non più sulle vicende di una generazione, ma su un solo personaggio, lo spazio di una sola t. diviene sufficiente; e lo stesso è per Euripide. Questi poi (conformemente allo spirito del suo tempo, l’età della sofistica e di Socrate) interpretò liberamente e criticamente i miti, e tentò nuovi espedienti tecnici: famoso il deux ex machina, soluzione puramente meccanica della vicenda tragica.
I tre grandi poeti tragici del 5° sec. a.C. dominarono con la loro personalità la storia della t. antica. Già la tarda grecità e la cultura bizantina stimarono degne di studio e conservazione solo le opere dei tre ateniesi. Nella prima età ellenistica raggiunsero una celebrità relativamente effimera i poeti della cosiddetta pleiade tragica: Licofrone, Omero di Bisanzio, Sositeo, Sosifane, Eantide (o Dionisiade), Alessandro Etolo, Filico. Solo di Licofrone rimane la singolare Alessandra (monologo tragico), conservata certamente per il suo contenuto erudito. 2. La t. romana. A Roma la t. fu uno dei primi generi coltivati: dal 3° al 2° sec. scrissero e rappresentarono t. Livio Andronico, Nevio, Ennio, che prevalentemente traducevano o adattavano modelli greci. Nel 2° sec., con Pacuvio e Accio, la t. romana ebbe i suoi primi autori di notevole levatura (purtroppo di tutta la produzione tragica romana dell’età repubblicana conserviamo solo frammenti); accanto alla t. di argomento eroico greco, che rimase dominante, si ebbe anche la fabula praetexta, di argomento romano, storico e leggendario. Nel 1° sec. a.C. la t. decadde; in età augustea, invece, Ovidio scrisse, con la Medea (perduta), quello che fu probabilmente, se dobbiamo credere alle testimonianze antiche, il capolavoro del teatro tragico romano. In età imperiale, singolare prodotto del genio artistico e retorico di Seneca sono le sue nove t., cui si aggiunge l’Ottavia, assai probabilmente di anonimo autore di poco posteriore. Sono queste opere le uniche conservate del teatro tragico latino, destinate non alla recitazione bensì alla lettura.
La t. greca esercitò un influsso notevolissimo sul teatro moderno, sia direttamente sia attraverso Seneca. L’ambizione rinascimentale di riprodurre, dapprima in latino e poi nei volgari nazionali, tutti i generi letterari greco-latini si esercitò in primo luogo sulla t., ritenuto il genere nobile per eccellenza. Ma l’imitazione dei tragici antichi comincia già nel Due-Trecento (Ecerinis di A. Mussato) e durerà vivissima nei sec. 14° e 15° in tutti i tragediografi in latino. L’ossequio alle reali o supposte teorie della Poetica d’Aristotele, tuttavia, sia per quanto riguarda la giustificazione morale della tragedia, sia per il famoso precetto delle tre unità (➔), non poteva che mantenere in soggezione qualsiasi tentativo di teatro tragico. I temi delle t. sono in prevalenza mitologici, ma se ne incontrano anche di biblici (La Marianna di L. Dolce) e di vagamente medievali (Re Torrismondo di T. Tasso). Con il 16° sec. inizia la grande fioritura del teatro spagnolo che durerà fino a tutto il 17° sec.; ma la t. spagnola nulla conserva dell’equilibrio greco-latino, con il suo linguaggio magniloquente al servizio di procedimenti liberi, obbedienti solo alla fantasia. Da J. de Mal-Lara a M. de Cervantes Saavedra, da Lope de Vega a D. Jiménez Enciso, a Tirso de Molina, a P. Calderón de la Barca, sono centinaia le t. che faranno sentire la propria influenza sul teatro degli altri paesi europei.
Il periodo aureo del dramma inglese è inaugurato dai grandi successi della Spanish tragedy di T. Kyd e del Tamburlaine di C. Marlowe. La prima fissa il tipo di t. che sarà in voga per tutto il periodo, con i motivi della vendetta, della simulata follia, del soprannaturale e dell’esotico; a Marlowe si deve la creazione dei primi grandi personaggi della scena inglese, e l’introduzione della prosa nel linguaggio drammatico. Occorre appena rammentare W. Shakespeare e accanto il suo antagonista, campione del classicismo, B. Johnson; e ancora R. Greene, J. Marston, autore di t. di vendetta, Beaumont e Fletcher, e J. Webster.
Anche in Francia, come già in Spagna e in Inghilterra, il 17° sec. trova la più alta espressione letteraria nel teatro. Dal compromesso fra un passato fantasioso in fase di liquidazione e le predilezioni logiche e razionali della nuova cultura e sensibilità francesi, la grande t. di P. Corneille giunse a poco a poco fino all’adozione integrale delle tre unità, poi seguita per quasi due secoli da tutto il dramma francese. Fra la decadenza di Corneille e il sorgere di J. Racine, un autore tenne in Francia il favore del pubblico amante della t., P. Quinault.
In Italia con il Seicento, si ricorre oltre che agli idolatrati modelli classici agli autori nuovi europei: primi fra tutti gli spagnoli, con le t. per es. di G.A. Cicognini. A parte vanno ricordate, per i loro pregi artistici, le t. di F. della Valle, mentre il tentativo di dare alla t. un interesse religioso nuovo dà origine al teatro gesuitico che dura poi per tutto il Settecento. Intanto continuano i tentativi di una t. nazionale con A. Conti e ancor più con S. Maffei che con Merope offre un linguaggio drammatico decisamente teatrale. Dopo di lui è V. Alfieri ad affrontare in pieno la necessità del linguaggio drammatico, dietro influenza della cultura francese e in modo particolare di Corneille e di Racine.
Nel 18° sec. sulla t. classica nasce il dramma (➔): la t. classica vanta ancora qualche grande personalità: J.W. Goethe (Iphigenia auf Tauris, 1786), U. Foscolo (Tieste, 1797; Aiace, 1811), F. Schiller (Die Braut von Messina, 1803), P.B. Shelley (I Cenci, 1818). Conclusa la stagione del teatro romantico, il gusto neoclassico ispira ad A. Swinburne Atalanta in Calydon (1865) e a C.-M. Leconte de Lisle Les Érinnyes (1873). In Italia, G. D’Annunzio, in contrasto con l’imperante naturalismo del dramma borghese, propugna un ritorno alle forme auliche del teatro classico (Fedra, 1909).
Il dibattito sul senso del tragico in epoca moderna alimenta ancora numerose esperienze teatrali del Novecento, da H. von Hofmannsthal (Elektra, 1903; Ödipus und die Sphinx, 1906) e A. Gide (Saül, 1904; Perséphone, 1934) a J. Cocteau ed E. O’Neill, che tentano di inserire temi tragici nel costume contemporaneo, fino ad A. Artaud, T. Eliot, J.-P. Sartre.