teatro Edificio o complesso architettonico costruito e attrezzato per rappresentazioni sceniche.
Spettacolo, sia come singola rappresentazione teatrale, sia come genere.
In Grecia, nell’età omerico-micenea, riti dionisiaci e cori ditirambici si svolgono in appositi recinti che l’archeologia indica con l’espressione area teatrale: ed è qui che, nei secoli successivi, si enucleò l’edificio teatrale greco (fig. A). Di t., nel senso specifico di luogo destinato a rappresentazioni, si può parlare soltanto a partire dal 6° sec. a.C., dopo che Pisistrato, riorganizzate le feste dionisiache, affidò a Tespi l’incarico di ordinarne lo svolgimento e di sistemare un recinto adeguato in corrispondenza dell’antica orchestra dionisiaca, adiacente al tempio di Dioniso Eleuterio. Luoghi fondamentali erano: l’orchestra, di pianta trapezoidale, richiesta dal tipo di rappresentazione ad azione centrale (cori danzati cui faceva da controparte un solo attore), e il kòilon, cioè un’assise, anch’essa trapezoidale, a gradoni di capacità limitata, in genere costruita in legno (come ad Atene) e parzialmente addossata a un pendio naturale, oppure interamente scavata nella roccia (come a Siracusa). Fra il tempio e il recinto teatrale fu successivamente inserita la skenè, edificio stretto e lungo, a un piano, scenoteca più che palcoscenico, dove venivano conservati attrezzi, costumi, maschere. Su questi tre nuclei, sorti con autonome e precise destinazioni, si fonda l’edificio teatrale greco, perfezionato nei secoli successivi fino a raggiungere l’assetto unitario e monumentale degli esemplari alessandrini, soli rimasti: Atene, Delfi, Epidauro, Eretria in Grecia, Efeso e Priene in Asia Minore, Taormina e Siracusa nella Magna Grecia. Davanti alla skenè venne sistemato il proskènion, pedana lignea destinata agli attori, due con Eschilo e tre con Sofocle, che vi accedevano dalle tre porte aperte sulla facciata della skenè, mascherata da elementi scenografici e architettonici. Tra 5° e 4° sec. a.C., ai fianchi della skenè vennero situati due avancorpi avanzanti verso l’orchestra (paraskènia), insieme a quinte ed elementi per celare macchine per apparizioni ed apoteosi. In età alessandrina l’edificio era in muratura, l’orchestra divenne circolare (per poi assumere una pianta a forma di ferro di cavallo, dalle proporzioni monumentali), nel palcoscenico si concentrò la maggior parte dell’azione e la skenè si articolò maggiormente.
L’edificio teatrale romano (fig. B) venne in uso negli ultimi anni della repubblica. Il primo costruito in pietra a Roma fu quello di Pompeo (55 a.C.). L’intero edificio continuò a organizzarsi attorno all’orchestra (platea), ridotta a semicerchio. La cavea era appoggiata a robuste costruzioni, internamente articolate in gallerie, ed era divisa in settori orizzontali (ima, media, summa cavea), cui si accedeva mediante aperture (vomitoria). In corrispondenza dell’ima cavea poggiavano le tribune delle autorità e della giuria (tribunalia). Sul fondo del palcoscenico, in luogo della skenè, si alzava la frons scenae, dietro la quale si costruì il post-scaenium destinato ad attori e macchinisti. I t. romani furono utilizzati fino al 4° sec. d.C. Poi il declino di interesse per gli spettacoli pubblici per ragioni soprattutto religiose, cui contribuì la mancanza di manutenzione, comportò che al pari degli anfiteatri e dei circhi, anche i t. fossero abbandonati e ridotti a cave di materiale da costruzione, con devastazioni e crolli delle possenti ossature murarie. Soltanto nel Quattrocento furono riproposti, attraverso il De architectura di Vitruvio, come modello per gli architetti rinascimentali.
Le rappresentazioni didattico-edificanti rilanciate sulle basi della dottrina cristiana (dal 9° sec.) non sentirono la necessità di specifici luoghi spettacolari (uso di spazi canonici quali il coro o la schola cantorum, la navata centrale delle chiese ecc.).Ma con l’andare del tempo, caduto il monopolio clericale, la rappresentazione sacra venne a realizzare un momento collettivo diverso, quello della festa pubblica e religiosa, divenendo un fenomeno cittadino, promosso dalle confraternite laico-religiose o dalle corporazioni delle arti e dei mestieri, da effettuarsi nelle piazze e nei luoghi mercatali con l’appoggio dalle amministrazioni cittadine. Sorsero t. provvisori, anche adeguabili alla diversa topografia delle città, che si avvalsero di elementi scenografici detti luoghi deputati, costituiti da scene riconoscibili quali Paradiso, Bocca dell’Inferno, Calvario, mare, Case (Mansions, Häuser), sorta di edicole stilizzate che potevano cambiare rapidamente connotazione mediante mutamenti minimi di arredi. Due tipi fondamentali ricorrono con una certa regolarità: ‘alla francese’, con i luoghi deputati posti l’uno accanto all’altro su un’unica fronte e sopra un unico palcoscenico che poteva occupare tutto il lato di una piazza, e ‘alla tedesca’, in cui ogni luogo deputato disponeva di un palco o pedana indipendente. In Cornovaglia è segnalato un terzo tipo di t. all’aperto, il plen an gwary («pianura del teatro»), consistente in un vasto spazio circolare (plen), circondato da un terrapieno anch’esso circolare (hill) scavato a gradoni destinati al pubblico. L’azione sacra si svolgeva nel plen.
I primi t. da sala. Tra il 15° e il 16° sec. il t. rinascimentale si sviluppò in maniera estemporanea e varia. L’aspetto teatrale dipese dagli ambienti in cui si organizzavano gli spettacoli. Nel t. di piazza furono i comici dell’arte a prodursi prima sui ‘banchi’, poi, al coperto, nelle stanze. Il t. da torneo ebbe ampia area con un campo centrale (con o senza barriera, di tipo rettangolare, elissoidale o poligonale) attorno al quale erano innalzate tribune digradanti a uso di cavea. Il t. da sala, con il quale cominciano a diffondersi le prime sale stabili, si impone a partire dal 1530 circa. La prima e più frequente soluzione, sia a corte sia nei luoghi di festa, fu la sala con scena rialzata e assise su gradoni rettilinei, frontali alla scena. Il modello proposto da S. Serlio nel Secondo libro dell’architettura (edito nel 1545 ma concepito prima del 1539), consisteva in una cavea semicircolare di ispirazione classica; il palcoscenico era diviso in due parti: in primo piano si trovava il proscenio largo 22 m e profondo 4, in secondo piano il declivio (profondo 5 m) sul quale si elevava la scena.
Alla metà del 16° sec. apparve tra sala e proscenio il prospetto scenico, sorta di tramezza lignea dipinta con finte architetture, al centro della quale si apriva una grande boccadopera incorniciata dall’arco scenico e dai suoi portanti. Diverse erano le esigenze cui rispondeva la sua presenza: segnare una demarcazione tra sala e scena, essere il supporto di tutta una serie di lumi o fiaccole che davano luce alla scena, e chiudere infine entro una cornice scenica la prospettiva, convogliando su di essa l’attenzione e lo sguardo degli spettatori. In questo tipo di soluzione rientrano i t. di ispirazione classica, costante obiettivo di accademici e architetti rinascimentali: ne resta esempio notevole l’Olimpico di Palladio a Vicenza (1580-85). Un altro tipo di t. quattro-cinquecentesco, in uso sia a corte sia in piazza (feste carnevalesche a Venezia ecc.) era richiesto da spettacoli ad azione centrale. Le assise facevano perno sul palco assegnato alle autorità, e la disposizione delle gradinate variava nel numero e nella composizione.
Il t. elisabettiano. Nel Cinquecento il t. si stabilizzò in una pianta con gradinate su tre lati, e un palcoscenico di tipo serliano sul quarto. In Inghilterra e in Spagna i t. all’aperto erano derivati da architetture preesistenti che sfruttavano la pianta tipica dei cortili interni e la presenza delle balconate. Gli interluders inglesi organizzavano le loro rappresentazioni nei cortili delle locande (inn) che avevano pareti percorse in ogni singolo piano da ballatoi di legno, oppure in arene per combattimenti di animali (bear bainting). Il t. elisabettiano ebbe pianta anulare, o poligonale con pareti esterne lisce, aperte solo da qualche finestra e dall’ingresso, e quelle interne articolate in un sistema di gallerie sovrapposte e intercomunicanti mediante scale interne. In corrispondenza della scena erano palchi riservati (gentlemen’s o lord’s rooms). Il pubblico comune prendeva posto in un cortile centrale (iard), scoperto (17 m ca. di diametro). Un settore verticale (tiring house) comunicante con il palcoscenico (stage) era riservato ad attori, orchestre e servizi. Lo stage si sviluppava in due o tre piani di altezza. Elemento principale della struttura dello stage era il palco, largo circa 13 m, profondo 8 m, alto 2 m. La metà circa era coperta da un baldacchino (canopy) appoggiato, sul davanti, a due colonne, e sul fondo, alla parete (rear wall). La sede principale dell’azione, nella parte anteriore del palco, prendeva il nome di outer stage, e quella coperta dal canopy era l’inner stage. Il terzo piano era usato solo occasionalmente, per qualche scena d’interno (chamber); altrimenti era chiuso da cortine. Al di sopra del canopy era una specie di torretta nella quale si tenevano dispositivi scenotecnici, macchine e strumenti per effetti acustici, pirici ecc. In alternativa a questo tipo di edifici erano sale chiuse o ‘t. privati’, costretti all’inattività dopo l’instaurazione del governo puritano, e dopo la restaurazione (1660) sostituiti con strutture diverse che riprendevano i modi del teatro barocco ‘all’italiana’.
I corrales o patios de comedias iberici erano all’aperto, situati in cortili circondati da quattro corpi di fabbricati civili, spesso abitazioni, con pianta regolare e quadrilatera.
Il t. all’italiana. Alla fine del 18° sec. si imposero i t. all’italiana. L’evoluzione del t. da sala italiano avvenne nei primi anni del Seicento allorché si affermò il dramma per musica. Inizialmente fu il palcoscenico a risentire maggiormente delle novità del nuovo genere (mutazione a vista delle scene, vistosi effetti di apparizioni e sparizioni, voli e apoteosi). Le strutture semplici e razionali del palco cinquecentesco si triplicarono in tutte le dimensioni a tutti i livelli (sottopalco, piano scenico, soffitta, per fare spazio alle macchine per le apparizioni e ai dispositivi per il cambiamento delle scene). Non mutò invece l’impianto di fondo della sala, salvo nel caso di pianta ‘ad azione centrale’.
Verso la metà del Seicento, quando lo spettacolo musicale passò dal privato al pubblico, con un numero di spettatori assai più numeroso e di diversa estrazione sociale, si dovettero creare nuove strutture che sostituissero quelle, ormai altrettanto inadeguate, del t. da sala e delle vecchie ‘stanze’ pubbliche della commedia dell’arte. I nuovi t. per musica si rifecero a quelli cortigiani e accademici, dal t. di sala ripresero le strutture architettoniche e scenotecniche del palcoscenico e la pianta allungata, dal t. per torneo mutuarono l’idea delle assise sistemate con più ordini sovrapposti di gallerie così come se ne erano già avute nelle gallerie del t. elisabettiano. La diversificazione e caratterizzazione della sala all’italiana è la disposizione dei palchetti ad alveare, con ordini che andavano da 3 a 5, e palchi da 20 a 30 per ogni ordine, con in più un loggione senza divisioni nell’ordine superiore. In tal modo sala e palcoscenico erano corpi indipendenti, con accessi, servizi e strutturazione degli spazi autonomi, il prospetto scenico con il sipario e la fossa orchestrale ai piedi del proscenio. La divisione delle gallerie in palchi, con accessi indipendenti, permetteva di ospitare un pubblico indiscriminato, senza precludere la tradizionale separazione di spettatori di diversa classe sociale. I vari ingressi, l’organizzazione delle scale e dei corridoi di accesso ai palchi agevolavano l’afflusso degli spettatori.
Per oltre tre secoli, la sala all’italiana fornì all’architettura teatrale in Europa le strutture di base che rimasero pressoché inalterate nella loro funzionalità specifica, pur mutando nel tempo tipologie e stili architettonici, adeguandosi inoltre ai nuovi problemi di acustica e di visibilità. Alla fine del Seicento la platea, condizionata dal giro dei palchi, era passata dalla primitiva pianta a U (un semicerchio raccordato in fondo sala da due pareti rette proseguenti, parallele o divergenti verso il palcoscenico) a quella mistilinea, in cui il semicerchio di fondo non si innestava direttamente nelle pareti laterali, ma mediante due raccordi minori frontali alla scena. Nel Settecento la pianta mistilinea si trasformò in quella a campana adottata dai Bibiena e si modificò in quella a ferro di cavallo, che corrisponde geometricamente a un ‘ovato’ troncato. Agli stessi principi fondati su problemi di acustica risponde la pianta ellittica. Queste piante diedero origine a sale più lunghe che larghe; l’assetto ricorrente restò quello ad alveare.
Avversi alla sistemazione a palchetti furono gli architetti francesi, che limitarono il numero dei palchi (loges) a favore delle gallerie e adottarono la struttura dell’amphithéâtre, comoda gradinata non a livello della platea ma su un piano rialzato. A differenza dei palchi riservati alle classi più elevate, settori popolari rimasero il loggione e la platea, con posti in piedi e file di panche.
Il t. nell’Ottocento. A partire dalla metà del 18° sec. l’efficienza complessiva degli edifici teatrali migliorò. Il palcoscenico conservò una posizione centrale e la distribuzione degli spazi restò divisa in sottopalco, scena, soffitta, con foyers non necessariamente a livello del palcoscenico, e laboratori e depositi. Un cambiamento notevole si ebbe nel 1876 quando R. Wagner realizzò nel Festspielhaus di Bayreuth, insieme all’architetto O. Brückwald, un t. concepito quasi come sede di un rito: aboliti i palchi, e quindi il concetto di un uditorio privilegiato, la platea, di forma trapezoidale, restò l’unico spazio destinato al pubblico. La fossa orchestrale sparisce sotto il proscenio e occulta l’orchestra, celando al pubblico la fonte della musica e ottenendo la separazione tra «realtà e idealità», base della mistica wagneriana.
Con il tempo e con l’introduzione in architettura del cemento armato, che permette strutture autoportanti di grande gettata, l’assetto a più ordini di palchetti fu sostituito da una o più balconate. Alle tipologie e agli assetti più tradizionali, seppure variati e rinnovati dalle conquiste tecnologiche e dalle eterogenee esigenze (teatrali, musicali, cabarettistiche ecc.), l’avanguardia novecentesca propose nuove soluzioni, elaborando organismi architettonici dimensionati e misurati sulle mutevoli concezioni delle rappresentazioni e delle concezioni teatrali: progetti arditi sono stati formulati nell’Europa centrale da F. Kiesler, con un t. ovoidale senza soffitto e senza pareti; dal Bauhaus, col t. sferico di A. Weininger, gli spazi polivalenti di O. Schlemmer (1922-23), e il Total Theater di W. Gropius (1927, non realizzato) ecc. Ulteriori conformazioni tipologiche, suggerite o condizionate dalle varibili funzionali derivate dalle più diverse esigenze, hanno continuato a scandire i tempi e le fasi di trasformazione dell’aspetto del t., fornendo occasioni agli addetti ai lavori, in collaborazione diretta o indiretta con architetti e ingegneri, di produrre edifici che nel corso del 20° e 21° sec. sono riusciti a imporsi come vere e proprie cattedrali dello spettacolo.
Nelle civiltà orientali e mediorientali, anche in tempi recenti, si è continuato a tenere gli spettacoli, come in antico, nei cortili dei templi e dei palazzi di governo, o in aree aperte, delimitate e contrassegnate da scarni elementi simbolico-scenografici. Non mancano esempi di rappresentazione al chiuso, in ampi spazi quadrangolari divisi in parti destinate all’azione e al pubblico. In India lo spazio riservato al pubblico era ulteriormente suddiviso da quattro grandi colonne dipinte rispettivamente in bianco, rosso, giallo, azzurro, simboli delle caste, mentre altre colonne delimitavano i posti dei ‘senza casta’. Nei paesi contigui la scena poteva trovare posto nei palazzi reali, in luoghi sacri con altare, in aree aperte, riparate da tettoie di stuoia rette da bambù.
In Cina e Giappone si ebbero edifici teatrali in legno, dalle sale rettangolari, con un lato occupato dal palcoscenico e gli altri due percorsi da balconate sopraelevate. In Cina, l’Imperatore prendeva posto di fronte alla scena e i cortigiani di fianco. Nei t. moderni invece, il nuovo assetto è piuttosto simile ai cinematografi occidentali. In Giappone esistevano t., o meglio, palcoscenici, differenti a seconda dei generi rappresentati. Il bugaku (danza accompagnata da musica) aveva uno spazio scenico sia al chiuso, sia all’aperto, sia sull’acqua. Quello del nō, di estrazione cortigiana, risalente come il bugaku al 14° sec. e ancora oggi in uso, è un palcoscenico costituito da una piattaforma di legno quadrata (5,50 per 5,50 m ca.) sopraelevata di un metro sul livello degli spettatori, che assistono seduti attorno, sui tre lati. Il lato destro della piattaforma è rialzato, protetto da una balconata, e occupato dal coro. L’orchestra è tradizionalmente sistemata in un retroscena a vista, dal quale si parte anche un ponte che conduce alla ‘stanza dello specchio’, o camerino unico degli attori. L’unico elemento scenografico è costituito da un fondale dipinto con pini. Altro tipo di t. è quello del kabuki, spettacolo pubblico sorto in Giappone nel 17° secolo. Dapprima si rappresentava all’aperto come il nō ma sul finire del Settecento si stabilizzò: aveva una platea quadrangolare protetta da tettoie e percorsa su tre lati da due ordini di gallerie, schermate da stuoie di bambù, riservate in origine ai Samurai che non potevano mostrarsi in pubblico. Il quarto lato era destinato al palcoscenico, versione semplificata di quello del nō, ma molto più largo e munito di due sipari, uno iniziale che si alzava, e uno interno, per gli intervalli, che scorreva lateralmente. Dall’angolo sinistro del palcoscenico partiva una passerella larga circa 1,50 m, la «strada fiorita» (hanamichi), che attraversava tutta la sala per lungo, passando sopra gli spettatori seduti in platea. Nell’epoca attuale le forme del nō e del kabuki sono ancora vitali, ma l’architettura teatrale tende a occidentalizzarsi.
Un fenomeno a parte è il t. delle ombre sorto in Cina ma anche, secondo alcuni, in India o nel Tibet, e diffuso in Oriente e Medio Oriente, Africa settentrionale, Europa. Il t. delle ombre necessita di uno schermo, di una fonte di luce, e di silhouettes articolate, manovrate da animatori (o mostratori) invisibili.
Il t. greco. Tipica forma di celebrazione religiosa, il t. greco ha originaria connessione con il culto di Dioniso, che non viene meno neanche nel 4° sec., allorché le rappresentazioni teatrali, nate e sviluppatesi ad Atene, erano già diventate uso panellenico e si erano legate al culto di altre divinità. Ad Atene, commedie e tragedie erano rappresentate nel corso delle quattro grandi feste dionisiache (➔ Dioniso). Qui si intonavano ditirambi in onore di Dioniso, che presero il nome di tragedie (ossia «canti del capro») quando a essi si accompagnarono sacrifici di capretti. Da un canto epico-lirico, di invocazione e narrazione di fatti, nasceva il dramma, aggiungendo ai versi pronunciati dal coro le risposte del nume. È dunque la proiezione dei personaggi invocati dal coro a determinare la nascita della tragedia.
Altri riti, sempre in occasione delle feste dionisiache, erano ‘falloforici’: durante le processioni venivano esibiti simboli della procreazione. Ai canti si univano beffe per gli spettatori: si può vedere qui l’origine della commedia i cui primi poeti (commedia attica) fiorirono fra il 6° e il 5° secolo. Esponente della commedia attica antica è l’ateniese Aristofane che, passando in rassegna e commentando avvenimenti contemporanei, scrisse satire politiche, letterarie e morali (tipiche Lisistrata, Le rane, Le nuvole). Vi è poi una commedia attica di mezzo, all’epoca della decadenza di Atene e di tutta la Grecia, dove scompaiono la satira personale caratteristica delle commedie aristofanee e il coro, e si porta sulla scena, con intenti realistici, la vita privata dei cittadini; infine la commedia attica nuova (Menandro), che è una rappresentazione ridicola dei costumi e dei vizi della media umanità.
Il senso originariamente religioso della rappresentazione va interpretato in base al suo etimo, intendendo religio come «legame». L’assemblea del culto diventò l’insieme degli spettatori che a questo culto assistevano; ma dalla pratica del culto e dalla prima tragedia (che la leggenda attribuisce a Tespi, 534 a.C., attore-autore-nomade) si sarebbe arrivati, nel dramma satirico, nella commedia, nel mimo (considerato genere inferiore), ad altri concetti che non sono necessariamente connessi con la religione. La primitiva caratteristica di religiosità assunta dalla rappresentazione si rivelava esteriormente nelle corone, simbolo d’autorità sacrale, portate dal corego e dai coreuti, e nello svolgimento della rappresentazione, preceduta da una cerimonia nel corso della quale il sacerdote di Dioniso e i magistrati prendevano posto nei seggi loro destinati, e gli attori e i coreuti sfilavano davanti al pubblico. Benché diminuito progressivamente nelle forme esterne e pressoché scomparso nello spirito dei poeti e del pubblico, il carattere religioso della rappresentazione teatrale sopravvisse a lungo nel mondo greco. Le rappresentazioni avevano carattere di concorsi, nell’Atene classica, e si concludevano con l’assegnazione di un premio al poeta apparso di maggior valore, e di altri premi al corego e al migliore attore protagonista. L’uso decadde nel 4° sec. allorché, trascorsa l’era dei grandi poeti drammatici, si fece ricorso alla ripresa di drammi antichi già famosi. I premi erano offerti dai cittadini più ricchi e influenti.
Il concorso degli spettatori era imponente e arrivava a 15.000 (la cifra di 30.000 spettatori riferita da Platone è considerata troppo alta). Nel pubblico convenivano tutti i ceti e il t. di Atene, sia tragico sia comico, era una manifestazione di massa e rispecchiava la vita democratica della città. Era stata istituita una speciale cassa dello Stato (theoricòn), che serviva a rimborsare il prezzo dell’ingresso ai cittadini poveri (due oboli): fatto da interpretare come segno dell’essere, il t. classico ateniese, non puro divertimento, ma solenne funzione pubblica. Con il tempo, nel decadere delle città greche e l’affermarsi delle monarchie ellenistiche, il t. divenne un fatto di corte, perdendo il carattere originale di spontanea espressione dello spirito religioso civico, per farsi riflessa letteratura.
Il t. romano. Il carattere profano del t. ellenistico passò a Roma, dove il ricordo delle origini sacrali del dramma era del tutto perduto, benché l’occasione delle rappresentazioni fosse offerta anche a Roma da celebrazioni a carattere religioso, i ludi. La celebrazione di qualche importante avvenimento (politico o altro) veniva solennizzata con l’offerta al pubblico di manifestazioni spettacolari (teatrali o circensi). L’anno di nascita del t. romano si può considerare il 240 a.C., quando Livio Andronico portò per la prima volta sulla scena una tragedia e una commedia greca tradotte. Ma il carattere profano del t. romano fece sì che il mestiere dell’attore e del poeta drammatico non fossero tenuti in alta considerazione. Erano disprezzati dalle classi elevate e coltivati prevalentemente da schiavi o liberti, di provenienza cioè non dissimile da quella di coloro che avevano partecipato a giochi gladiatori cruenti. I ludi scenici rimasero sempre parte integrante dei ludi, ma in età imperiale il t. tese a diventare una manifestazione cara, piuttosto che alle masse, alle élites colte, mentre i giochi, nelle loro varie forme, restavano il divertimento preferito del popolo romano.
Il connaturato spirito di beffa dà origine, nella terra italica, a primitivi spettacoli comici di cui sono state indicate varie forme: il fescennino di origine etrusca e, come sua derivazione, la satira (satura), l’atellana (una fabula o farsa venuta da Atella, città osca della Campania), il mimo, importato dalla Magna Grecia, dove al mimus albus (specie di clown bianco) si aggrega il centunculus (o pagliaccio col vestito dalle cento pezze, specie di Arlecchino). Autori delle tragedie sono Andronico, Nevio, Seneca; Plauto si rifà, con grassa comicità, alla commedia attica nuova, e Terenzio, con più evidenti sfumature, a Menandro. Nella storia del t. latino si distinguono tragedie e commedie di argomento greco, che nella classificazione erudita sono definite rispettivamente cothurnatae e palliatae, e tragedie e commedie d’argomento romano, definite praetextae e togatae. Maggior successo popolare ebbe spesso il mimo (➔), non parlato, interpretato da un solo attore, con l’accompagnamento di un’orchestra. I mimi più reputati guadagnarono la protezione e il favore di Mecenate, Seneca, Augusto, Messalina, Nerone. La storia del mimo fluisce ininterrotta fino ai secoli dell’Alto Medioevo.
Non si può cominciare a parlare di una vera e propria vita teatrale nel Medioevo che al momento in cui il dramma sacro lascia l’interno delle chiese ed esce all’aperto, recitato da studenti e artigiani uniti in confraternite. Gli spettacoli sacri, allestiti in circostanze festive e senza fini di lucro, a edificazione della folla, rievocavano gli episodi del ciclo della Passione o le vite dei Santi. In Italia (12° e 13° sec.) diedero vita alla lauda e alla rappresentazione sacra, in Francia ai miracles, nella Penisola Iberica al tipico auto sacramental recitato il giorno del Corpus Domini, in Germania ai quadri allegorici delle processioni e rappresentazioni bibliche, in Inghilterra ai mysteries, di pari ispirazione, alle moralities edificanti e allegoriche, ai miracle plays. La sacra rappresentazione ebbe parte rilevante nella trasformazione dello spettacolo. Con i drammi della monaca Rosvita, vissuta in Sassonia nel 10° sec., in cui erano previsti continui mutamenti di scena, nacque la scena multipla e la rappresentazione acquistò caratteri pittorici.
Non cessò tuttavia di esistere, durante questo periodo, il t. laico. Mimi, buffoni, istrioni, giullari, perseguitati dalla violenta polemica religiosa, ma anche acclamati dal popolino come dai grandi nelle corti, mantennero viva per tutto il Medioevo la vena satirica, frizzante e schiettamente comica, con scene recitate sui banchi delle piazze e nelle fiere. Se le autorità ecclesiastiche ostacolarono e scomunicarono questo tipo di spettacoli, non così fecero i principi, che spesso anzi se ne giovarono a scopo di comunicazione, di satira, o semplicemente di svago.
La commedia dell’arte. Dal teatro erudito, sviluppatosi in opposizione al dramma sacro e alle rappresentazioni dei giullari, nacquero in Italia nel Cinquecento, e si diffusero in Europa, il dramma pastorale, la commedia umanistica, la tragedia, su modelli euripidei e senecani. È la fase ‘cortigiana’ del t. rinascimentale, come svago dei signori, principi, cardinali e papi. Autori e attori sono gentiluomini di corte, accademici, studenti; il pubblico è formato dalla ristretta cerchia degli amici del principe.
La reazione più viva a questo t. dei letterati viene dagli attori di mestiere, con compagnie costituite (la più famosa sarà quella dei Gelosi con Isabella e Francesco Andreini), e ruoli fissi, che si identificano con le maschere (Pantalone, Colombina, Corallina, il Capitano, Arlecchino, Brighella, Pulcinella ecc.). Questi comici dell’arte recitano commedie ‘all’improvviso’, o ‘a soggetto’, o ‘all’italiana’, avvalendosi di copioni ereditati, manomessi, arricchiti, reinventati. Gli argomenti delle commedie a soggetto erano tratti dalle stesse commedie erudite cinquecentesche, così come da Plauto e Terenzio. Ma gli attori si abbandonavano all’estro del momento improvvisando, ricorrendo a repertori di formule letterarie e a raccolte di lazzi, cioè atti (acti, actiones et inventiones, ossia invenzioni, trovate).
Ottenuto grande successo nelle corti italiane, i comici dell’arte furono chiamati anche all’estero e con le loro compagnie più celebri espressero personalità di rilievo (tra cui T. Fiorilli detto Scaramuccia) ed ebbero discepoli in Francia, Austria, Boemia, Polonia, Russia. È con i comici dell’arte che nasce in Europa l’organizzazione, di tipo professionistico, del t. moderno. Le maschere, con il tempo, scomparvero, ma rimasero al loro posto i ruoli, sostenuti da attori fissi, in compagnie che formularono proprie regole e acquistarono un proprio pubblico, dapprima nelle piazze e nelle ‘stanze’, poi nei t., dove il pubblico si trasformerà, attirando spettatori più liberi, sempre meno vincolati dalle ragioni politiche o morali di minoranze elitarie. Le rappresentazioni danno spesso luogo, per la loro spregiudicatezza e le abusate sconcezze, a proteste, divieti e scomuniche da parte della Chiesa, specialmente in seguito al ritorno in scena, come interpreti, delle donne.
La commedia scritta. La fortuna della commedia dell’arte e i positivi risultati da essa ottenuti proprio nel campo della recitazione e dell’evoluzione dell’attore non escludono un ritorno alla commedia costruita, completamente scritta, che definisce i caratteri e rinuncia alle maschere, e che attua una riforma, anche contro la trivialità, che C. Goldoni chiamerà «morale» ma che fu soprattutto artistica, e che portò nel t. una sorta di realismo, quel realismo già anticipato dal t. di Molière fondendo la comicità ‘improvvisata’ della commedia dell’arte con l’osservazione attenta e critica della realtà e lo studio psicologico dei personaggi. Insistita passionalità di gusto barocco, unita a purezza formale e ad ambientazione classica, caratterizza, negli stessi anni di Molière, il t. di Racine, raffinata espressione di un t. colto e aristocratico.
Alla fine del Cinquecento si inaugura in Inghilterra la grande stagione del teatro elisabettiano, caratterizzato da autori di eccezione quali B. Jonson, C. Marlowe e W. Shakespeare, al cui genio drammatico e linguistico il t. elisabettiano deve il suo massimo sviluppo, ma anche dall’ampliamento del pubblico teatrale, un pubblico che con il proprio gusto, le proprie fantasie e credenze partecipa alla creazione e al successo dell’opera. Tra il Seicento e il Settecento il popolo diviene elemento preponderante nei corrales madrileni, nei t. inglesi dell’epoca, e non altrettanto, ma sempre in misura crescente, nelle sale parigine miste (Hôtel de Bourgogne), nei Théâtres de la Foire e in genere nelle rappresentazioni destinate alle classi più umili.
Il melodramma, nuova forma letteraria e musicale tipicamente italiana, si colloca nel t. settecentesco a palchetti, dove il pubblico si rinnova e amplifica, anche se rimangono sempre divisioni gerarchiche e di casta, con la plebe in platea, i signori e gli assidui nei palchi, ai posti d’onore e fin sul proscenio.
Il t. romantico. Il concetto di un t. di corte per aristocratici e letterati decadde definitivamente all’epoca della Rivoluzione francese di fronte all’affermarsi di un t. giacobino che mirava ad assolvere compiti di discussione e di propaganda democratica. Napoleone non intese restaurare un t. di corte, ma la scena francese ricevette una consacrazione sovrana col celebre decreto di Mosca (15 ottobre 1812) con cui l’imperatore, appassionato di t., riordinò l’assetto della Comédie-Française, erede della celebre commedia di Molière.
Dopo i ripetuti annunci di V. Alfieri, D. Diderot, G.E. Lessing, un’aria veramente nuova, rigeneratrice, con la riforma effettiva non soltanto del luogo teatrale e del pubblico, ma dell’arte stessa del t., si ebbe con il romanticismo, nato e sviluppatosi con F.M. Klinger, autore del dramma Sturm und Drang (1776), il cui titolo si estese a denominare il movimento nel quale confluirono J.G. Herder, i fratelli Schlegel, F. Schiller (I masnadieri) e J.W. Goethe. Il t. romantico assunse in Francia un aspetto combattivo e profetico, mentre faceva la sua apparizione nei giornali quotidiani del 19° sec. un fenomeno che aveva avuto qualche precedente soltanto nei giornali letterari: la cronaca-critica teatrale, di cui è considerato fondatore J.-L. Geoffroy, che la introdusse nel Journal des débats di Parigi. Animose battaglie si accesero, nei t. e sulla stampa, intorno ai ‘drammi’ (fusione di commedia e tragedia) di V. Hugo, con i clamori classicistici e rivoluzionari, reazionari e libertari, sollevati dalla prima rappresentazione del romantico Hernani (1830).
Sulla scena italiana il Romanticismo acquistò caratteri religiosi con A. Manzoni, e patriottici con G.B. Niccolini e S. Pellico. I loro interpreti furono spesso degni intermediari del nuovo spirito risorgimentale (G. Modena) o si recarono all’estero con autentiche ambascerie di italianità in trionfali giri artistici (A. Ristori, T. Salvini, E. Rossi).
Il t. borghese. Il crollo del regime autocratico segnò l’avvento del t. borghese. Si rivolsero a questo ceto autori di sicuro mestiere, furbescamente spassosi, quali A.-E. Scribe ed E.-M. Labiche, o moraleggianti come È. Augier e A. Dumas figlio, o duramente e acremente oggettivi come H. Becque in Francia. Allo stesso pubblico si rivolse la prima tragedia borghese contemporanea tedesca, la Maria Maddalena di F. Hebbel, autore di drammi robustamente problematici, mentre in Italia emersero P. Giacometti e P. Ferrari, V. Bersezio e A. Torelli. La corrente verista italiana fu ra;ppresentata da E. Praga, G. Rovetta, C. Bertolazzi, G. Verga. In Russia, dopo le ‘piccole tragedie’ di Puškin e le satire gogoliane, espressero atteggiamenti e concetti della borghesia le commedie di A.N. Ostrovskij. L’ambiente e i costumi piccolo-borghesi della Scandinavia furono descritti da H. Ibsen, che combatté l’ipocrisia acquiescente e il luogo comune livellatore e soffocante, rivendicando all’individuo il diritto all’autodecisione. Dalla lezione di Ibsen derivarono scrittori ragguardevoli del teatro dell’epoca, quali J.A. Strindberg, O. Wilde, G. Hauptmann, M. Maeterlinck, M. de Unamuno, G.B. Shaw, l’italiano R. Bracco.
I t. stabili. L’Ottocento ebbe attori titani (come F.J. Talma, E. Kean), dominatori e moltiplicatori dispotici del personaggio drammatico; verso la fine del secolo subentrò a essi una generazione di attori filosofi, colti, intelligenti e scrupolosi, ai quali non si richiedeva potenza di mezzi esteriori ma aderente interpretazione dell’opera. In Francia, in Germania, in Austria, in Russia, nei paesi scandinavi, nell’Europa danubiana (il fenomeno in Italia si verificò con grande ritardo, forse per il protagonismo, durato a lungo, di valide compagnie ‘di giro’) si fondarono grandi t. stabili. A essi si affiancarono, quasi parallelamente, e con un peso sempre maggiore, i piccoli t. d’arte di Parigi, Berlino, Dublino, Mosca, Londra. Nell’affermazione di una nuova arte scenica, semplice e aderente al vero, il t. di corte del ducato di Meiningen, di cui fu mecenate e animatore il duca Giorgio II (dal 1870 al 1890), ebbe ruolo preminente. Per la prima volta furono impiegati in t. gli apparati elettrici, e le scene non furono più dipinte ma costruite.
La figura del regista. A. Antoine (col Théâtre Libre a Parigi), la Freie Bühne di Berlino diretta da O. Brahm, K. Stanislavskij del Teatro d’arte di Mosca, unitamente agli altri seguaci del naturalismo, avevano considerato la messinscena e la scenografia con l’ossessione dell’apparato storicamente fedele e del particolare archeologicamente esatto. Ma l’avvento di una moderna regia non aderisce a questi principi, rifiuta la copia della realtà per un processo di sintesi, di superamento e di trasfigurazione. Partendo dall’opera teorica e musicale di R. Wagner, con la sua idea del Totalendrama, hanno un ruolo fondamentale quali antesignani dello spettacolo antiverista moderno lo svizzero A. Appia e l’inglese E.G. Craig, mentre G. Fuchs e M. Reinhardt a Vienna, V.E. Mejerchol´d, A.J. Tairov e E.B. Vachtangov nel t. russo, J. Copeau e altri metteurs en scène eminenti a Parigi, L. Simonson e N. Bel Geddes a New York furono le personalità che divulgarono nuovi metodi registici, e che operarono per una modernizzazione dell’arte e dell’attore.
L’Italia ebbe una figura di rilievo in A.G. Bragaglia, creatore a Roma, nel 1922, del Teatro degli Indipendenti. Convinto assertore dell’indispensabilità del regista, che egli chiama anche corago (rifacendosi a una espressione dell’abate Ferrucci, storico della commedia dell’arte), Bragaglia fu attento a tutte le correnti innovatrici e sostenitore di ogni avanguardia, in un momento in cui la scena italiana, se si esclude la grande presenza di L. Pirandello, sembrava ancora incerta nel trovare la sua strada, una volta esaurite le esperienze simboliste, naturaliste, del t. di poesia (di cui il massimo esponente è stato G. D’Annunzio).
Il t. futurista. Non si eleva, nel complesso, al di sopra dei livelli del miglior t. consumistico, il cosiddetto t. del grottesco né si impone il t. intimista, di influenza francese, né hanno rilevanza i tentativi, nel periodo fascista, di t. di propaganda o politico, anche suggeriti dagli spettacoli di massa sovietici o tedeschi dell’epoca di Weimar, dove emerse la personalità di E. Piscator. Fenomeno più significativo avrebbe potuto essere il t. futurista di cui avevano posto le premesse specialmente i manifesti del Teatro di Varietà (1913) e del Teatro Sintetico (1915), firmati il primo da F. Marinetti e l’altro anche da E. Settimelli e B. Corra: un t. concepito come adogmatico, privo di tradizione, nutrito di attualità, antiaccademico, inventivo e meraviglioso, che tende a distruggere la logica, la psicologia e il verosimile. Saranno intuizioni sviluppate sia pure per vie diverse, dal t. dell’assurdo che produrrà E. Ionesco, A. Artaud, A. Adamov, S. Beckett. Ma lo scarso appoggio ottenuto dalla critica italiana che dapprima negò, quasi unanime, l’esistenza di un t. futurista (S. D’Amico), la degenerazione delle serate futuriste in riunioni combattive ma chiassose, hanno fatto sì che del t. futurista si sia avuta una rivalutazione, e più per i suoi ‘procedimenti’ che per i ‘testi’ prodotti, soltanto alla fine degli anni 1960, nel rinnovato fervore conoscitivo e analitico nato dallo studio delle avanguardie storiche, in tutti i campi espressivi.
Il t. del secondo dopoguerra. I t. stabili, finanziati dallo Stato, dalle regioni, dai comuni, trovano sviluppo in Italia dopo la Seconda guerra mondiale. Chiamati inizialmente Piccoli T., e solo molto più tardi T. Stabili (solo il Piccolo T. di Milano ha conservato il nome originario), acquistarono in poco tempo un ruolo di primo piano nella rinnovata scena italiana. Il primo di essi, il più prestigioso e il punto di riferimento di tutti gli altri, è stato il Piccolo Teatro (➔) di Milano, cui seguirono il Piccolo T. di Roma nel 1948 (divenuto nel 1965 T. Stabile della città di Roma e più tardi T. di Roma), il Piccolo T. di Bolzano (1950), il Piccolo T. della città di Genova (1951), il Piccolo T. della città di Torino (1955) ecc.
Il t. di sperimentazione, didattico, epico. Fenomeno nuovo che si colloca fuori delle sale tradizionali, e anzi preferisce le ‘cantine’ o le ‘tende’, il t. di sperimentazione dà vita, contro il decaduto t. borghese definito ‘della chiacchiera’, a un t. del gesto e dell’urlo. Il t. gestuale nasce dalla teorica dello spettacolo di B. Brecht, secondo cui lo spettacolo teatrale si fonda essenzialmente sulla recitazione, basata a sua volta su un effetto di straniamento (che prescrive all’attore di rappresentare il personaggio come diverso da sé). Di qui l’importanza del linguaggio, anzi dei linguaggi stilisticamente differenti, come differenti sono le classi. Nei linguaggi si evidenzia il valore gestuale e il compito di elaborare la gestualità del testo è precipuo dell’attore teatrale che realizza quindi il t. gestuale.
Da Brecht nasce anche l’idea del t. didattico (ma esisteva anche in secoli precedenti) che mira ad avere efficacia d’insegnamento. Il t. didattico è di un’estrema semplicità, povero nei mezzi, atto a uno scambio immediato tra attori e pubblico. Non ha carattere imbonitorio o paternalistico e rientra nella concezione del t. epico, essendone però espressione più circoscritta. Per t. epico s’intende un t. che immette, anche ibridamente, elementi narrativi nelle rappresentazioni drammatiche: si può dire che l’epica si distingue dal t. per una maggiore possibilità di trasformabilità di mezzi e impianti scenici, valendosi anche di didascalie da manifesto, dipinte o filmate. Il poeta drammatico configura i fatti come assolutamente presenti; il poeta epico come assolutamente passati. Il drammatico, il passionale, è respinto a favore dell’epico, ragionato e scientifico. Il t. epico si è sviluppato in polemica con l’espressionismo e si è ispirato al t. cinese, al nō giapponese, alla commedia dell’arte e alla farsa paesana. Brecht cerca di approdare a un t. antiromantico, espresso da un collettivo di attori-narratori che mirano al divertimento che deriva dall’osservazione critica del comportamento umano.
I grandi registi. Il contributo dei registi al rinnovamento del t. moderno, rivelatosi fin dai primi decenni del secolo fondamentale attraverso le esperienze tedesche, austriache, russe, francesi ecc., ha fatto sì che nella scena contemporanea abbia preso spesso ruolo prevalente proprio la messinscena, non di rado oltrepassando perfino la funzione dell’autore. Anche in Italia la regia ha portato fecondi frutti, attraverso una generazione di eminenti registi: L. Visconti, che ha dato una svolta alla messinscena italiana portandola ai massimi livelli europei (data fondamentale è il 1945, al T. Eliseo, con la direzione di I parenti terribili di J. Cocteau); G. Strehler, animatore con P. Grassi del Piccolo T. di Milano, interprete moderno di Goldoni, Pirandello, Brecht; L. Ronconi, assertore di un t. di movimento (già teorizzato in Italia specialmente nel manifesto marinettiano del T. totale) e di cui è stato primo grande esempio l’Orlando furioso (palazzo dello Sport, Roma, 1969) in un fenomeno di coinvolgimento che ha portato la rappresentazione in mezzo agli spettatori, obbligandoli a seguire ora l’uno ora l’altro interprete o gruppo recitante, e dando quindi una sorta di collaborazione allo spettacolo, come teorizzato dai futuristi.
Ricerche ed esperienze in qualche misura affini si sono avute anche in Francia, con il gruppo del Théâtre du soleil, fondato da A. Mnouchkine alla metà degli anni 1960, sorretto da una forte tensione politica e utopistica, e volto a realizzare un nuovo t. popolare in spazi non tradizionali. Negli USA, fin dall’immediato dopoguerra il t. d’avanguardia acquistò connotazioni deliberatamente politiche, mediante la pratica dell’happening e la diffusione di un t. di strada: presto assunse un ruolo di capofila il Living Theatre, fondato da J. Beck e J. Malina (allieva di Brecht), assertori di un t. povero e di agitazione; fra i loro spettacoli più rivoluzionari sono rimasti celebri The connection (1959), The apple (1961) e Paradise now (1968). P. Brook e I. Xenakis hanno dato in autorevoli edizioni del Festival di Shiraz-Persepolis eccezionali spettacoli rispettivamente con Orghast e Persepolis. Orghast (I e II) di T. Hughes (1971).
T. alternativo. Il luogo teatrale ha trovato negli ultimi decenni del 20° sec. altri sbocchi, in conseguenza dei notevoli cambiamenti che hanno coinvolto la vita e lo spettacolo. Sono fioriti, anche in Italia, spazi alternativi ai circuiti ufficiali: i complessi, principalmente giovanili e d’avanguardia, si sono trasferiti sia in luoghi come i t.-cantine, sia in sale più ampie, capannoni, fabbriche, palazzetti dello sport, t. tenda, a imitazione del circo. Al mutare dell’atteggiamento del pubblico e del luogo dove si verifica la rappresentazione, si sono modificate anche la materia e la maniera dello spettacolo esibito. Questo tipo di t., rivisitando le avanguardie storiche, nell’ambito di una interdisciplinarità delle arti, non pretende più dalla parola il predominio nell’evento teatrale. Anzi, come futurismo, espressionismo, dadaismo, surrealismo, Bauhaus, costruttivismo, e altri movimenti avevano trovato anche nelle arti figurative nuove possibilità di teatralizzazione, si può dire che questo t. sperimentale cerchi uno dei suoi fondamenti nella pittura, come anche nelle altre arti, e dia importanza al gesto e all’immagine almeno quanto, e talvolta forse più, che alla parola. Le neoavanguardie italiane, pur da differenti posizioni estetiche e ideologiche, hanno realizzato un t. visivo e d’immagine di notevole suggestione, prendendo a riferimento antiche e recenti forme spettacolari, come il t. delle marionette, gli happening, i collage, e nuovi linguaggi artistici come la videoarte. Hanno altresì tenuto presente la lezione dei caffè letterari, delle serate di Marinetti, del cabaret mitteleuropeo e parigino, ma anche italiano (L. Fregoli, E. Petrolini), del surrealismo, del t. della crudeltà (Artaud), della derisione e dell’assurdo (A. Adamov, Beckett, J. Genet, E. Jonesco, R. Vitrac), e le esperienze del Bread and Puppet Theatre, dell’Open Theatre, del Living Theatre, il t. povero di J. Grotowski. Il t. di sperimentazione ha avuto un ruolo considerevole nella trasformazione della concezione del t., almeno quanto la presenza dei registi. Il regista, anche guardando alla parallela pratica cinematografica, è divenuto sempre più l’autore dello spettacolo, l’attore assai spesso oggetto e attrezzo, e il testo, anche se desunto dai classici, pretesto. L’autore allora ha dovuto cambiare il proprio modo di scrivere per il t., e l’attore, per riaffermare la propria personalità, è divenuto esso stesso regista e autore. Si ricordano le esperienze di D. Fo e C. Bene, come pure, in altra direzione, di V. Gassman.
In Italia, la nuova drammaturgia si muove su filoni diversificati ma non privi di reciproche contaminazioni, individuabili a grandi linee nel teatro di poesia, nel recupero del patrimonio dialettale, ancora parzialmente sulla traccia dell’opera magistrale di E. De Filippo, e in un inedito interesse per il mondo (e il linguaggio) dell’emarginazione. Un capitolo a parte, ma tutt’altro che secondario è costituito dalla presenza di talune individualità autonome, avviate ciascuna su un proprio percorso coerente e originale, fra cui G. Ceronetti, che affida i suoi testi a un teatrino di marionette, e M. Ovadia, che dopo lunga attività come cantante e musicista folk, ha creato nei suoi spettacoli per voce e musica una sorta di cabaret yiddish. Molto seguiti anche i deliri verbali dell’autore e attore A. Bergonzoni, così come i corrosivi monologhi di M. Paolini, artefice di un’inedita proposta di t. politico. Se però nuovi autori si impongono, i palcoscenici continuano a ospitare classici antichi e moderni rivisitati da più generazioni di maestri della scena, a testimonianza della perdurante vitalità del t. di regia. In questo ambito si sono evidenziati, fra gli altri, M. Martone, che ha affiancato con esiti rilevanti l’attività cinematografica a quella teatrale, e il regista e drammaturgo M. Martinelli, artefice, con il T. delle Albe e quindi con Ravenna T., di un gemellaggio con l’universo africano, che coniuga danza e favola, dialetti e percussioni, una poetica insieme colta e popolare. Un fenomeno a sé stante, ma che ha inaugurato una strada, costituisce la Compagnia della Fortezza, ovvero un gruppo di detenuti del carcere circondariale di Volterra che, nata sotto la guida di A. Punzo e A. Hanneman, a partire dal 1989 allestisce spettacoli (spesso presentati anche fuori dalle mura del penitenziario) di fortissimo impatto emotivo. La tendenza dominante tra i gruppi nuovi e nuovissimi, è però quella artaudiana del t. della crudeltà, che si associa spesso al recupero della performance legata alle arti visive. Si tratta di un fenomeno internazionale, di cui in Italia sono principali esponenti i componenti della Societas Raffaello Sanzio (dal 1981), forte nucleo familiare riunito attorno al regista R. Castellucci. Un altro gruppo che lavora su provocazioni estreme è il T. della Valdoca (attivo dal 1980), animato da M. Gualtieri e C. Ronconi. A queste principali tendenze si associano diversi percorsi individuali e di gruppo, a riprova di una rinnovata vitalità creativa che spesso però non trova adeguato riscontro da parte delle istituzioni, e che sopravvive radicandosi in realtà locali e operando per lo più in occasione di rassegne e festival, sempre più numerosi, ma rivolti prevalentemente a un pubblico specializzato. Continuano la loro attività le compagnie pri;vate, mentre i t. stabili si dibattono fra problemi di gestione e interrogativi di fondo sul proprio ruolo.
L’insieme delle manifestazioni spettacolari che nel mondo occidentale vengono considerate t., cioè azioni drammatiche cantate o recitate, danza, mimo, e altre forme minori, è rappresentato nelle civiltà etnologiche da ciò che si intende nel mondo arcaico per t. sacro, che non solo cioè attinge i suoi contenuti alle sfere del sacro, ma in cui la stessa azione dei suoi esecutori è da considerare di per sé un’azione sacra, rituale, non escludendone tuttavia del tutto la dimensione ‘profana’, senza la quale non si comprenderebbe il fenomeno culturale profano che ne è seguito. Una delle caratteristiche primarie dell’esecuzione spettacolare presso i popoli di interesse etnologico è il principio di identificazione tra l’esecutore e le figure mitiche impersonate. Le modalità dell’identificazione variano da caso a caso, e comprendono livelli di partecipazione diversi. In alcune cerimonie sciamanistiche il cui svolgimento è caratterizzato dal dialogo, è il solo sciamano a sostenere le singole parti, talvolta in stato di trance. Il recitante, o narratore, può essere assistito da un coro. La natura di riattualizzazione di eventi mitici è alla base della seconda caratteristica primaria di questo tipo di t., cioè il suo aspetto festivo-calendariale. La danza costituisce la materia primaria di queste cerimonie, mentre la partecipazione comunitaria, come pubblico, ne è altro elemento indispensabile. I travestimenti vanno dalla maschera facciale alla semplice pittura del volto, dal nudo all’uso di indumenti. Nelle rappresentazioni mimiche il t. profano si affaccia attraverso atteggiamenti e movimenti che suscitano il riso (per es., un contorcimento mimato del recitante) in una forma elementare di comicità profana. La nascita e lo sviluppo di un t. profano presso i popoli di interesse etnologico prende consistenza quando viene meno il principio di periodicità festivo-calendariale.
Nell’ambito degli studi antropologici l’interesse per il t. si è espresso in due direzioni: da un lato lo studio delle tradizioni performative di differenti culture; dall’altro il ricorso, per l’analisi sociale, a termini e a concetti attinti dal linguaggio teatrale. Per quanto riguarda il primo aspetto i lavori degli antropologi hanno dedicato ampio spazio allo studio delle rappresentazioni teatrali del mondo asiatico, quali il katakali indiano, le forme di danza-t. indonesiane, il nō e il kabuki giapponesi, il t. delle ombre, anche se non sono mancate analisi di generi appartenenti ad altri contesti culturali, nonché alla stessa realtà euro-americana. Il problema che si pone immediatamente dal punto di vista comparativo è quello di elaborare una definizione di t. che non rinunci a individuare una specificità ma che sia in grado al contempo di includere generi assai diversi tra loro. Il t. può essere considerato, alla luce degli studi di V. Turner e di R. Schechner una performance (➔) culturale dalle peculiari caratteristiche; pur nella consapevolezza dell’esistenza di casi di confine, è possibile individuare la specificità del t. rispetto ad altre pratiche performative nella differenza di obiettivi (intrattenimento versus efficacia), nel diverso ruolo del pubblico (osservazione versus partecipazione), nel peculiare agire degli attori (rappresentazione simbolica versus rappresentazione del sé). Per quanto concerne il ricorso alla metafora drammaturgica per l’analisi della realtà sociale – caratteristico anche di discipline vicine all’antropologia culturale ed esemplificato dall’uso di termini quali ‘ruolo sociale’ e ‘attore sociale’–, gli antropologi di riferimento sono C. Geertz e ancora una volta Turner. Geertz interpreta lo stato balinese nei termini di uno Stato-t. il quale mette in scena il potere attraverso uno sfarzoso apparato cerimoniale con il quale finisce per coincidere, e nel suo studio sulla società balinese traduce per es. con «paura del palcoscenico» il termine per il quale altri autori avevano suggerito come equivalente la parola «vergogna». Mentre nella prospettiva interpretativa di Geertz il t. rappresenta un commento alla società che lo produce, per Turner il t. non è un metadiscorso sociale quanto un «testo agito», la cui potenzialità sta proprio nel suo carattere performativo. Turner ha utilizzato il t. anche come strumento didattico per la comprensione di pratiche e rituali di altre culture, introducendo una metodologia impiegata a tutt’oggi in alcuni corsi universitari.
L’apertura dei t. è subordinata al rilascio di apposita licenza da parte delle competenti autorità. Nello specifico, ai sensi dell’art. 80 del r.d. 773/1931, il comune, subentrato all’autorità di pubblica sicurezza sulla base del d.p.r. 616/1977, non può concedere la licenza per l’apertura di un t. prima di aver fatto verificare da una commissione tecnica la solidità e la sicurezza dell’edificio e l’esistenza di uscite pienamente adatte a sgombrarlo prontamente nel caso di incendio. Infatti, il combinato disposto degli art. 141-141 bis del r.d. 6354/1940 e dell’art. 4 del d. legisl. 3/1998 prevede che, prima del rilascio del relativo provvedimento, vengano compiuti appositi accertamenti da parte della commissione comunale di vigilanza proprio in ordine alla sussistenza dei relativi requisiti tecnici, di idoneità, di sicurezza e di igiene.
Lo Stato promuove e sostiene le attività teatrali, sia definendone gli indirizzi generali (d. legisl. 112/1998, art. 156), sia ponendo in essere norme ad hoc sui criteri e le modalità di erogazione di contributi in favore delle attività teatrali.