teatro
Il luogo dello spettacolo ‘al vivo’
Quando pensiamo al teatro, ci viene alla mente un tipo di spazio preciso: un luogo costruito apposta, composto da un palcoscenico sopraelevato, che ha di fronte i posti per gli spettatori e dietro – nascosti da qualche parte – i luoghi riservati agli attori (camerini) e ai macchinari scenici, i magazzini per l’attrezzeria, i laboratori per i costumi e così via. Questo, per noi, è il teatro: il luogo adatto a ospitare ogni forma di ‘spettacolo al vivo’, cioè di spettacolo non registrato – come sono cinema o televisione –, e che è tale da più di quattro secoli, da quando è iniziato il teatro moderno. Si tratta di una precisa tipologia di spazio scenico che si è sviluppata a partire dal Rinascimento, una tipologia che, essendo nata in Italia, viene generalmente definita teatro all’italiana
Un grande storico del teatro che si è occupato a lungo dello spazio teatrale, Fabrizio Cruciani, ha definito la tipologia del teatro all’italiana come «il teatro che abbiamo in mente»: il teatro, egli sostiene, non può essere trattato a partire dai suoi reali inizi storici – cioè il teatro greco e latino –, ma dall’immagine che nelle nostre menti è presente come luogo ovvio per lo spettacolo.
Lo spazio del teatro, infatti, non è il risultato di una somma di elementi come lo spazio per gli attori, più lo spazio per gli spettatori, le scenografie e l’architettura, ma è qualcosa di più. Quando parliamo di teatro ci viene spontaneamente alla mente non solo una tipologia di edificio, ma modi ben precisi di fare teatro e di usufruirne. Pensiamo a un tipo di rapporto tra attore e spettatore, e fra attore e spazio da lui abitato, che sembra fissato una volta per tutte e per il quale si possono inventare infinite variazioni, ma senza che cambi mai il modello o progetto di base. Questo tipo di spazio ci sembra, istintivamente, il supporto visivo giusto per la ‘messinscena di un testo’, cioè per un’azione che venga sia raccontata sia agìta.
Un’invenzione cinquecentesca. L’edificio teatrale all’italiana, anche quando è vuoto, è già uno spettacolo in sé stesso. Nacque nel corso del Cinquecento e, alla fine di un lungo percorso di ricerche architettoniche, si stabilizzò nel modello di una sala chiusa, a palchetti (le gallerie furono un’invenzione successiva), con palcoscenico frontale. Era un ambiente rigidamente diviso in due: da una parte c’era lo spazio per gli spettatori – di forma sempre simile, ma non fissa: a ellissi, a ferro di cavallo, semicircolare –, dall’altra stava il palcoscenico, la cui separazione era sottolineata dall’arco scenico e dalla ribalta che lo incorniciavano e che ritagliavano lo spazio riservato agli attori.
Il luogo delle apparizioni. Il teatro all’italiana costituisce un tipo di spazio nel quale diventa determinante la capacità dello spettacolo di creare meraviglia, di creare illusioni. È infatti utilizzabile non solo sul piano orizzontale, per tutta l’ampiezza e la profondità del palcoscenico, ma anche in verticale, attraverso le botole, in cui oggetti e personaggi possono scomparire, o grazie alle macchine sceniche che permettono apparizioni dall’alto: una vera e propria scatola magica!
Il palcoscenico, il luogo delle apparizioni, è sopraelevato rispetto al luogo dove sono gli spettatori: si trova all’altezza, più o meno, della prima fila di palchi. È anche molto ampio, per permettere di contenere i macchinari scenici e soprattutto il sistema di fondale – la grande tela dipinta sul fondo del palcoscenico – e di quinte – pannelli orientati in prospettiva – che servono a completare l’effetto del fondale nel simulare l’ambientazione. Queste caratteristiche sono andate fissandosi nel corso degli anni per le necessità di alcuni tipi di spettacolo, in particolare per l’impiego sempre maggiore delle scenografie.
La natura di questo spazio scenico è quella di essere un luogo per le apparizioni; esso si sviluppa, quindi, per permettere il manifestarsi di eroi, di figure immaginarie, di personaggi mitici.
La natura dello spazio destinato alla platea e ai palchi, invece, è quella di un luogo creato per una contemplazione individuale – ma accanto ad altri spettatori – nelle migliori condizioni possibili.
Uno spazio per spettacoli complessi. Più avanti, nel corso del Seicento, quando questa tipologia giunse alla sua completa maturazione, i tipi di spettacolo prevalentemente ospitati, e che ne avrebbero condizionato le variazioni architettoniche, sarebbero stati l’opera e il balletto, spettacoli che implicavano la presenza di sofisticati macchinari e di scenografie complesse nonché la disponibilità di grandi spazi e di un’ottima acustica. Non erano, però, spettacoli che avessero al loro centro il lavoro dell’attore. Quasi per caso, sarebbero venuti anche gli attori ad abitare tale spazio.
L’edificio teatrale diventò così un vero e proprio monumento che, nei diversi secoli, ha assolto diverse funzioni sociali. Al suo interno accoglieva spettacoli, ma anche feste cittadine o grandi balli: esistevano in Italia teatri – costruiti soprattutto nel 18° e 19° secolo –, dotati di un dispositivo che permetteva di innalzare la platea al livello del palcoscenico, in maniera da creare un vasto ambiente unitario che potesse ospitare appunto balli o altre feste cittadine.
L’edificio teatrale, in quanto monumento, deve la sua nascita a un desiderio astratto di creare luoghi significativi per la città ideale. Nasce come una riflessione legata all’architettura e non allo spettacolo, con un preciso riferimento sia al teatro greco sia a quello latino.
Non nasce, quindi, dalle esigenze della gente di teatro, dai bisogni e dagli usi degli attori di professione che fondano le loro compagnie, in tutta Europa, a partire dalla fine del Cinquecento. La ‘invenzione’ dell’edificio teatrale moderno cade in un periodo storico in cui gli spettacoli erano costituiti da grandi feste, come quelle rinascimentali, da esibizioni di giullari e saltimbanchi, da sacre rappresentazioni e da altre forme che oggi non siamo più abituati a considerare teatro. Nasce dunque parallelamente al professionismo teatrale, ma senza nessun rapporto con esso; le sue fonti sono i testi teatrali greci e latini e gli antichi trattati di architettura.
La parola teatro deriva dal termine greco thèatron, che originariamente indicava lo spazio per gli spettatori, il luogo da cui guardare, e solamente più tardi designò l’insieme formato da skenè e orkhèstra (gli spazi per l’azione scenica) da una parte e koìlon (lo spazio per gli spettatori) dall’altra. Tale parola, inoltre, indicava sia i luoghi per le rappresentazioni sia quelli per le assemblee o per le orazioni.
Il teatro greco rappresenta le origini del nostro teatro: è dunque una realtà storica, ma è anche un archetipo – vale a dire un modello originario, esemplare – del teatro moderno.
Nel teatro greco le rappresentazioni erano legate a particolari feste del calendario, soprattutto a quelle in onore di Dioniso (Bacco). Erano cerimonie religiose e civili che duravano tutta una giornata e a cui assisteva l’intera popolazione. I teatri, che erano costruiti per poter contenere 1.500÷2.000 spettatori, erano all’aperto, e i fattori ‘naturali’ – quale il trascorrere del giorno, il passaggio dall’alba alla luce diurna – entravano talvolta a far parte dei testi e delle rappresentazioni.
L’elemento centrale, e probabilmente originario, del teatro greco era l’orkhèstra, in cui avveniva l’azione e intorno a cui si radunava il pubblico. Dotato di una pianta inizialmente trapezoidale, in seguito lo spazio per il pubblico si cristallizzò in un grande emiciclo a gradinate, mentre alle spalle dell’orchestra, semicircolare, stava la skenè (un edificio che faceva da fondale, spesso decorato a colonne, con una o più porte per le entrate degli attori), provvista di uno stretto piano rialzato, il proscenio, su cui si muovevano gli attori stessi.
Quindi il teatro greco aveva uno spazio a due piani per l’azione: il proscenio, rialzato, per gli attori, e l’orkhèstra, il luogo delle danze e delle evoluzioni del coro, in fondo alle gradinate digradanti degli spettatori.
In questi ampi teatri all’aperto, ma dotati di un’acustica perfetta, la figura e l’azione degli attori, per essere viste e seguite, dovevano essere amplificate attraverso una serie di elementi. Questi andavano dai coturni – cioè scarpe dalla suola altissima, che rendevano molto più alto l’attore – alle maschere – più grandi e più marcate di un volto naturale –, agli ampi costumi – che ricreavano una proporzione tra l’altezza, la grandezza del viso e il resto del corpo dell’attore – alla danza e alla musica.
Fu dunque in collegamento con le suggestioni provenienti dal teatro classico che nacque il teatro moderno tra Cinquecento e Seicento. Parallelamente a questa creazione specificamente italiana, in diversi paesi d’Europa – in particolar modo in Spagna, in Francia, in Inghilterra e nella stessa Italia – si andava sviluppando un ricco e complesso teatro professionista, e un’arte dell’attore articolata e raffinata.
Il teatro tra Cinquecento e Seicento fu caratterizzato in molti paesi anche da una fioritura di autori d’eccezione, quindi da un livello della drammaturgia – cioè della composizione dei testi – di straordinaria bellezza e grandezza. Si trattava per lo più di scrittori che agivano in stretta relazione con il teatro professionista, che componevano appositamente per attori o compagnie specifiche, e spesso erano perfino – come Molière o Shakespeare – attori essi stessi.
Dalle esigenze del teatro pratico nacque, in Inghilterra e in Spagna, un modello di spazio teatrale differente da quello all’italiana. Era una tipologia molto simile in entrambi i paesi. Non era, però, una tipologia rigida, proprio perché non nasceva come un ‘modello’, ma come una serie di risposte a problemi pratici.
Anche questo tipo di teatro – i corrales spagnoli o il teatro elisabettiano inglese – aveva punti in comune con il teatro greco, poiché il modello classico è stato importante per tutta la cultura europea del Cinquecento e del Seicento. Ma non era uno spazio pensato dagli architetti: era uno spazio cristallizzato sulla base delle necessità e delle consuetudini delle compagnie di attori. E poiché le compagnie erano girovaghe ed erano abituate a fare teatro all’aperto (nelle piazze e soprattutto nei cortili delle locande), i teatri spagnoli e inglesi tendevano in gran parte a riprendere le caratteristiche di un palco montato in un cortile. Avevano un palcoscenico rialzato, ma non amplissimo e non fastosamente circondato da un arcoscenico; botole, ma senza la possibilità di usare macchinari che scendevano dal soffitto; uno spazio vuoto tutto attorno che permetteva a molti spettatori di accalcarsi, in piedi, intorno al palco; gallerie per gli spettatori più abbienti; uno o due piani di spazio rialzati alle spalle del palcoscenico – al posto delle finestre delle locande – per i suonatori, o anche per alcune scene particolari; infine porte che davano sul palcoscenico, le quali permettevano agevoli entrate e uscite degli attori e che, al caso, consentivano anche di utilizzare spazi interni.
Questi diversi spazi non erano teatri chiusi, perché utilizzavano la luce del giorno: generalmente le gallerie e metà del palcoscenico (con tutto ciò che conteneva: i pochissimi arredi scenici e gli attori) erano relativamente protette da un limitato soffitto, mentre lo spazio equivalente alla platea, nel quale gli spettatori più poveri si accalcavano in piedi, era scoperto. Non erano dotati di macchinari, se non dei più semplici, né di ricche scenografie, poiché erano teatri gestiti da compagnie di attori, non da signori o principi. Il problema delle scenografie era risolto da una parte attraverso le descrizioni verbali presenti nei testi e dall’altra attraverso i costumi, che erano ricchi e appariscenti, quasi scenografie in movimento.
Era un nuovo spazio scenico, anch’esso molto bello, che permetteva un tipo di teatro nato più per stimolare l’immaginazione che per stupire con il suo fasto e le sue sorprese scenografiche. Questo spazio dava molte possibilità all’attore. Alcuni spazi teatrali di questo tipo erano presenti anche in Italia, al fianco dei grandi e bellissimi teatri all’italiana: sono le cosiddette stanze della commedia, dove spesso lavoravano gli attori della commedia dell’arte.
Questa tipologia di spazio ‘degli attori’, tuttavia, sarebbe stata completamente sconfitta dal teatro all’italiana, che era indubbiamente un modello molto più elaborato e rappresentativo per la città e per il pubblico, ma anche molto più costoso, non funzionale all’arte dell’attore e difficile da riempire senza grandi scenografie, senza l’uso di musica e coreografie danzate. Era, inoltre, uno spazio poco malleabile che stabiliva una divisione rigida tra spettatori e attori.
I teatri all’italiana vennero abitati dagli attori per tutto il Settecento e l’Ottocento. Vennero abitati spesso con noncuranza, con indifferenza sia per il potenziale sprecato dello spazio – per quel che riguardava macchine, scenografie complesse, spettacoli di insieme – sia per la sua talvolta scarsa fruibilità per l’arte dell’attore, essendo spesso troppo grandi, troppo alti, bisognosi, per essere riempiti, di qualcosa di più di un pugno di attori – per quanto bravi – che recitavano un testo.
Soltanto nel Novecento, tuttavia, cominciò a definirsi un crescente fastidio per questo tipo di edificio teatrale: si criticavano la sua rigidità, con il pubblico sistemato in file e file di poltrone in genere inamovibili; la netta divisione fra spettatori e attori, che il palcoscenico rialzato e l’arco scenico sottolineava-
no; l’ordine sociale gerarchico rispecchiato nei luoghi per il pubblico. Nel teatro greco e latino il pubblico era disposto in emicicli, su gradinate che permettevano a tutti la stessa possibilità di vedere e ascoltare; nel teatro all’italiana, invece, la maggior parte dei posti offriva agli spettatori una visibilità relativa o distorta: era insomma un teatro fatto per pochissimi spettatori d’eccezione, mentre tutti gli altri venivano sacrificati.
Nel Novecento, dunque, vennero vagliate soluzioni nuove e alternative: per esempio lo spazio voluto, alla fine del secolo precedente, dal compositore Richard Wagner nel teatro di Bayreuth, con gli spettatori disposti ad anfiteatro, l’orchestra nascosta in basso, sotto il palcoscenico, l’eliminazione delle logge di proscenio. Era uno spazio pensato come alternativa a quello all’italiana, ma che in realtà era stato progettato esclusivamente per la migliore rappresentazione di opere liriche, in primo luogo quelle di Wagner stesso.
Oppure il palcoscenico venne ripensato come uno spazio costruito ad ampie piattaforme che degradavano dolcemente, senza soluzioni di continuità, verso il pubblico, in modo che il fluire dell’azione non fosse mai spezzato, come voleva lo scenografo e teorico svizzero Adolphe Appia. Si progettarono anche spazi polivalenti, come il Total Theatre, immaginato dall’architetto tedesco Walter Gropius e mai completamente realizzato. Si trattava di una sala ovale che poteva trasformarsi in tutte e tre le tipologie di spazio scenico prevalenti: una sala a scena centrale, come il circo; uno spazio per gli attori appena rialzato, posto di fronte a un anfiteatro di spettatori, come nel teatro greco; un vero e proprio teatro all’italiana. Era questo uno spazio che poteva adattarsi a ogni richiesta, e che Gropius ideò per il grande regista tedesco Erwin Piscator.
Nel Novecento il teatro è diventato anche altro: è diventato una casa per gli attori, oltre che un luogo di incontro con il pubblico. Molti uomini di teatro novecenteschi hanno pensato a come ristrutturare e modificare gli spazi per gli attori ancora prima di quelli per la rappresentazione. L’arte dell’attore ha assunto, agli inizi del 20° secolo, un nuovo valore e ha preso risalto l’idea che, in un’arte così peculiare com’è il teatro sono importanti, non soltanto il momento in cui l’attore sale in scena, ma anche le ore precedenti di preparazione fisica e psicologica.
Anche per quel che riguarda il rapporto attore-spettatore, il Novecento ha portato alcune novità. Tale rapporto non viene visto soltanto dal punto di vista di una perfetta visibilità o di un ascolto ottimale dello spettacolo, ma anche da quello della vicinanza e lontananza fisica di cui il teatro tradizionale, con la sua divisione tra attori e pubblico, si fa simbolo.
Vengono immaginate forme diverse di rapporto tra attore e pubblico: molto ravvicinate, per esempio, e tali da condividere tra loro uno stesso spazio ristretto, talvolta ristrettissimo, come se attori e spettatori coabitassero su un palcoscenico. Oppure la forma dello spazio teatrale può sottolineare la distanza e il senso di violazione dello sguardo del pubblico sull’attore e sullo spettacolo, quasi fosse lo sguardo di una persona che spia.