Tragico ateniese (Eleusi 525 circa - Gela 456-455 a. C.), della cui vita poco sappiamo di sicuro. Combatté a Maratona (490), dove cadde suo fratello Cinegiro. Partecipò per la prima volta a un concorso tragico tra il 499 e il 496, ma ebbe il primo premio solo nel 484. Fu (470 circa) a Siracusa, invitato da Gerone. Presto era di nuovo ad Atene, ma poi ritornò in Sicilia dove morì (secondo una leggenda sarebbe stato ucciso da una testuggine lasciatagli cadere sul capo da un'aquila; forse è invenzione anche il processo che gli sarebbe stato intentato per la divulgazione involontaria di riti eleusini). Delle 90 tragedie che E. avrebbe scritto ne sono giunte a noi 7; ci restano anche varî frammenti. Secondo Aristotele, E. portò "a due il numero degli attori, diminuì le parti del coro e rese il dialogo primo attore". I Persiani (Πέρσαι) sono la prima tragedia sicuramente databile fra quelle conservate (472 a. C.); vi manca ancora il prologo, come manca nelle Supplici (‛Ικέτιδες: v. oltre); ed è anche l'unica fra le tragedie rimasteci del teatro greco il cui argomento sia preso dalla storia contemporanea (altra tragedia storica di cui si abbia notizia è la Presa di Mileto di Frinico). I Sette a Tebe o contro Tebe (‛Επτὰ ἐπὶ Θήβας) sono del 467; per la prima volta la tragedia è preceduta da un prologo e il dialogo vi prevale sul coro. Le Supplici presentano caratteri di arcaicità che l'hanno fatta considerare fino a qualche tempo fa come la più antica fra quelle conservate di E.: il coro delle 50 figlie di Danao è ancora il primo attore; non c'è prologo e le strofe del coro non sono complesse. Ma una didascalia relativa alla trilogia a cui le Supplici appartenevano, conservata in un papiro di Ossirinco (XX 2256) pubblicato nel 1952, c'informa che esse furono rappresentate, e vittoriosamente, insieme con una trilogia di Sofocle, suggerendo così una data posteriore al 468, anno, secondo la tradizione, della prima rappresentazione, vittoriosa, di Sofocle (forse il 463, se il nome incompleto dell'arconte è da integrare come Archedemide); d'altro canto la didascalia sembra riferirsi alla prima rappresentazione, non a una ripetizione. Di datazione incerta il Prometeo legato (Προμηϑεὺς δεσμώτης); del 458 è la trilogia dell'Orestea (l'estensione del nome ᾿Ορέστεια, dato da Aristofane solo al secondo dramma, è moderna) composta dell'Agamennone (᾿Αγαμέμνων), le Coefore (Χοηϕόροι), le Eumenidi (Εῢμενίδες): in essa, come già nel Prometeo, E. ha accettato la novità del terzo attore, introdotta secondo Aristotele da Sofocle; ma le parti liriche tendono di nuovo a estendersi, e in queste il poeta esprime le sue idee morali e religiose fondamentali. L'Orestea non è solo l'ultima e la più matura delle opere di E., ma è anche l'unica trilogia conservataci per intero di tutto il teatro greco; è quindi l'opera che meglio ci permette di seguire il pensiero eschileo. Già nei Sette a Tebe, dove Eteocle e Polinice muoiono l'uno per mano dell'altro, compiendo la maledizione che pesa su di essi perché figli di Edipo, è posto chiaramente nei suoi termini drammatici il problema delle relazioni tra l'agire del singolo e le colpe della stirpe. Questo problema ritorna e appare più evidente nell'Orestea, nella quale vediamo dibattersi nel gorgo del dolore e della colpa due generazioni della stessa famiglia. È un'eredità tragica che si tramanda di padre in figlio, e ha l'aspetto di una Necessità (ἀνάγκη) ineluttabile. Eppure in quel succedersi di colpe il poeta vuol scorgere anche, e scorge, l'affermarsi di una legge di superiore giustizia. Nelle Supplici il pensiero di E. appare avviato verso una concezione quasi monoteistica, giacché Zeus è per lui onnipotente fra tutti gli dei; e la sua onnipotenza non può avere altro fondamento che la giustizia. Abbandonata la concezione erodotea di una "invidia degli dei" a cui il felice e il potente soggiace solo perché felice e potente, E. crede piuttosto, come Solone, in una τίσις, in una "punizione" mirante a ristabilire l'equilibrio che l'uomo ha spezzato con un atto di volontà con la ὕβρις; vero è che tale "violazione della giustizia" si ripercuote di generazione in generazione, che la ὕβρις chiama altra ὕβρις; ma è anche vero che la colpevolezza del singolo si rinnova di volta in volta: così Agamennone ed Egisto non espiano soltanto le colpe di Atreo e di Tieste ma le proprie; e così Clitemestra e lo stesso Oreste, che uccide in obbedienza al volere di Apollo, e che pure le furie del rimorso perseguitano ugualmente finché gli dei non intervengono a giudicarlo e assolverlo. La volontà umana è libera: l'eredità della colpa non dispensa dalla responsabilità. Questa concezione si riscontra anche nell'unica tragedia di argomento storico, i Persiani, che è un'esaltazione della vittoria di Salamina, ma anche la rappresentazione commossa delle ansie e dei dolori del vinto. Serse, e il suo popolo con lui, sconta le pene di una ὕβρις; dal contingente motivo patriottico la tragedia si eleva così a contemplazione di una eterna vicenda umana. Meno facile a intendersi il significato del Prometeo, tanto che si è giunti persino a metterne in dubbio l'autenticità. Anche rifiutando l'interpretazione romantica che ne esaltò il protagonista come un ribelle alla divinità (Prometeo non è un uomo ma un dio egli stesso), resta sempre che il governo di Zeus appare in quella tragedia violento e tirannico; il che sembra discordare con il concetto che E. mostra di avere altrove della giustizia divina. La risposta si avrebbe forse nelle altre tragedie della trilogia (Prometeo liberato, Prometeo portatore del fuoco) purtroppo perdute: è possibile che attraverso il contrasto e poi la conciliazione tra Prometeo e Zeus il poeta volesse cogliere e rappresentare il sorgere stesso di una legge di giustizia e di moderazione. Dalla profonda coscienza morale e religiosa l'opera di E. trae la sua caratteristica costante: l'intensità e tensione massima del pathos tragico. L'arte di E. è arcaica, ma non rude e inelegante, ed è soprattutto varia, per la grande potenza fantastica che imprime alla lingua e allo stile sempre nuovi splendori, adeguati all'arditezza dei pensieri e delle situazioni tragiche, che si alternano tra scene di passione gigantesca e di delicata soavità. ▭ E. appare, come personaggio, nella commedia Le rane di Aristofane, ov'è l'antagonista di Euripide nella gara letteraria che deve decidere quale sia il più grande tragico che abiti l'Ade. Ma la parodia che Aristofane fa dei versi di E. mostra che la sua arte era sentita già allora come arcaica; rarissime sono le citazioni da E. nei classici, scarso il suo influsso sulla poesia greca e latina soprattutto a paragone di quello di Sofocle e d'Euripide; si può dire che E. sia stato riscoperto nella prima metà del sec. 19°. ▭ Il suo ritratto è stato sicuramente identificato in un tipo noto in più copie, fra cui una doppia erma dove è accoppiato a Sofocle, derivante da un originale idealizzato, risalente forse a quello bronzeo collocato da Licurgo nel teatro di Dioniso ad Atene (340 a. C.).