(o strofa) Raggruppamento di due o più versi, costituenti un periodo ritmico, che di solito si ripete più volte nello stesso componimento.
S. greca. Periodo ritmico di due o più cola (raggruppamenti di piedi o di metri d’ampiezza di solito non superiore a 18 tempi o more) o versi di genere diverso (la s. è sempre asinarteta, con membri di natura differente). Archiloco compone solo s. di 2 versi, con ricchezza di combinazioni; nella lirica eolica, Saffo e Alceo hanno s. distiche, tristiche, tetrastiche. S. più complesse presenta il partenio di Alcmane, carme di ispirazione religiosa cantato da un coro di fanciulle. A Stesicoro (7°-6° sec.) venne attribuita la divisione del canto corale in triadi (s. e antistrofe, di uguale misura metrica, seguite, in composizione diversa, dall’epodo), schema poi ricorrente nella lirica di Simonide, e costante in Bacchilide e Pindaro che raramente impiegarono il vecchio sistema monostrofico. Mentre nella lirica ionica, e in genere nella lirica monodica, la poesia era accompagnata dal suono della lira, ossia era cantata, la poesia corale poteva essere accompagnata da danze, come negli iporchemi, canti associati a danze turbinose in onore di Apollo, con ritmo per lo più giambico o cretico. La danza era presente di regola nei canti corali del dramma, specialmente negli stasimi che intervallavano gli episodi della tragedia: con la s. i coreuti compivano un semicerchio a destra dell’altare; una seconda evoluzione orchestica, semicircolare, costituiva l’antistrofe, che stava alla s. come una controdanza; l’epodo segnava il ritorno al punto di partenza, con evoluzioni su spazio ristretto. Ogni s., antistrofe ed epodo era verosimilmente cantato secondo una propria melodia, variazione del nucleo melodico preso a base della composizione. Nella grande ricchezza e varietà di elaborazione metrica si può scorgere un’unità di stile, pur differenziato, nei tre tragici Eschilo, Sofocle, Euripide. Alla fine del 5° sec. a.C. la strofica andò gradualmente scomparendo, e la poesia divenne quasi esclusivamente recitativa e perciò stichica, con successione di versi uguali.
S. latina. Nella letteratura latina del periodo arcaico, che pure ha ampia articolazione polimetrica, la maggior parte dei cantica di Plauto è astrofica, come i canti ἀπὸ σκηνῆς della più tarda tragedia greca, eseguiti da uno sulla scena e non dal coro; la forma strofica era data forse da movimenti di danza o da responsione. La strofica ricompare in Roma con i poeti neòteroi nel 1° sec. a.C. e viene usata in modi semplici da Catullo e, successivamente, con maggiore ricchezza da Orazio, che riprende e rende fisse le forme strofiche dei poeti di Lesbo, specie la s. alcaica e saffica, ed elabora vari sistemi di s. archilochea e asclepiadea.
Tipi di strofe. Il distico elegiaco è composto da due versi, un esametro dattilico (schema: ‒́◡̄◡̄‒́◡̄◡̄‒́◡̄◡̄‒́◡̄◡̄‒́◡̄◡̄‒́◡̄) e un pentametro (‒́◡̄◡̄‒́ ◡̄◡̄‒́‒́◡◡‒́◡◡◡̲́). Il più antico esempio è l’elegia di Callino; nella letteratura latina fu introdotto da Ennio; in distici è per lo più l’epigramma greco e latino.
L’epodo è un sistema distico formato, come in Archiloco, da un trimetro giambico e un dimetro giambico (➔ giambo). I grammatici posteriori chiamarono Epodi il libro di iambi («giambi») di Orazio, composto appunto prevalentemente di epodi (nella metrica latina, un senario e un quaternario giambico).
La s. alcaica, frequente nei frammenti di Alceo, è formata da 4 versi: 2 endecasillabi alcaici; un enneasillabo alcaico; un decasillabo alcaico. L’endecasillabo ◡̄‒́◡‒́◡̄‒́◡◡‒́◡◡̲́ è un reiziano di 5 sillabe + una delle due forme normali del docmio; l’enneasillabo ◡̄‒́◡‒́◡̄‒́ ◡‒́◡̲ è un reiziano + un ditrocheo; il decasillabo ‒́◡◡‒́◡◡‒́◡‒́◡̄, frequente come clausola nella lirica corale e nella tragedia, si può considerare composto da un coriambo + un reiziano di 6 sillabe.
La s. archilochea deriva il nome da Archiloco. Nelle odi di Orazio si hanno vari sistemi di s. dette archilochee, quando si ha: l’iterazione del periodo esametro dattilico + tetrapodia dattilica (sistema a. 1°; per es., Odi, I 7), o di un esametro dattilico + pentemimere dattilica (sistema a. 2°; per es., Odi, IV 7), o di un asinarteto archilocheo + trimetro giambico catalettico (sistema a. 3°; per es., Odi, I 4). Inoltre sono detti archilochei, negli epodi oraziani, i sistemi di iterazione di s. composte da un trimetro giambico + un elegiambo (per es., epodo 11), o da un esametro + un giambelego (per es., epodo 13).
La s. asclepiadea è così chiamata da Asclepiade di Samo. Orazio riprese e fissò la forma dell’asclepiadeo minore, con spondeo in principio e schema ‒́‒‒́◡◡‒́‒́◡◡‒́◡◡̲́, usandolo κατὰ στίχον nel 1° sistema asclepiadeo; in s. di 3 asclepiadei minori e un gliconeo, nel 2°; in s. di 2 asclepiadei minori, un ferecrateo e un gliconeo, nel 3°; in s. di un gliconeo e un asclepiadeo minore alternati, nel 4°.
La s. saffica, dal nome della poetessa Saffo, è una composizione tetrastica, costituita da 3 endecasillabi saffici seguiti, come clausola, da un adonio. L’endecasillabo saffico, con schema ‒́◡‒́◡̄‒́◡◡‒́◡‒́◡̲, era probabilmente formato in origine dall’associazione di un ditrocheo e un aristofanio. L’adonio, ritmo caratteristico delle cantilene rituali del culto di Adone, con schema ‒́◡◡‒́◡̲, consta di un dattilo e di un trocheo o uno spondeo, oppure di una dipodia dattilica catalettica in dissyllabam. Ripresa dai poeti ellenistici, la s. saffica fu portata in latino dai neòteroi (Catullo) e largamente usata da Orazio.
Nella tradizione italiana sono presenti s. monometre (o isometriche o omometriche), costituite da versi dello stesso tipo (per es., tutti endecasillabi), e s. polimetre (o anisometriche o eterometriche), costituite da versi di tipo diverso. Il termine polimetro può essere riferito anche a un componimento in cui, contrariamente a quanto avviene normalmente, sono presenti s. di struttura differente, e a un componimento stichico (cioè non strutturato in s.). Secondo il numero dei versi che compongono la s. si parla di distico, tristico o terzetto, quartina o s. tetrastica (o semplicemente tetrastico), s. pentastica, s. esastica, s. eptastica. Alcuni termini originariamente più comuni, come terzina, sestina, ottava, nona rima, decima rima, si sono presto specializzati nel designare strutture strofiche particolari.
Già anticamente molti poeti tentarono di evadere dai confini imposti dalla struttura strofica con soluzioni che vanno dalla polimetria al componimento astrofico. Notevole rilievo ebbe l’imitazione delle s. classiche nell’ambito della cosiddetta metrica barbara (➔ barbara, metrica).