Identità fonetica nella terminazione di due o più parole, a partire dalla vocale tonica, particolarmente percepibile qualora tali parole si trovino a breve distanza in un testo in prosa o in fine di verso in testi poetici. Fanno r. o sono in r. vocaboli come testo : manifesto (r. piana, perché fra parole piane), virtù : tribù (r. tronca), veicolo : ridicolo (r. sdrucciola), biasimano : spasimano (r. bisdrucciola): queste coppie illustrano la r. perfetta. Quando l’identità fonetica dalla tonica in poi non è assoluta, si ha una r. imperfetta, come nel caso dell’assonanza (identità della sola tonica, come in pane : fame, detta anche assonanza tonica), o della consonanza (identità delle sole consonanti che seguono la vocale tonica, come in lente : manto; o anche delle vocali atone, come in more : mare; dette anche rispettivamente assonanza consonantica e assonanza atona).
La parola r. deriva probabilmente dal latino rhytmus «ritmo», che nel Medioevo indicava un verso non metrico, accentato, popolare, quello cioè che col tempo fu fornito di r. (➔ metrica).
Nella poesia latina, in Ennio, Varrone, e poi in Lucrezio, Virgilio, Orazio, Seneca si trovano sporadicamente r., ma dettate da ragioni particolari di stile o d’espressione e in alcuni casi come mero gioco di parole. Alla poesia latina, come alla greca, basata sulla quantità sillabica e non sull’accento, la r. fu sempre estranea.
Solo nel Medioevo, quando nel latino cominciano a riflettersi con forza sempre maggiore gli sviluppi fonetici che stavano portando alla costituzione delle lingue romanze, si afferma una poesia ritmica latina sia sacra sia profana in cui la r. acquisisce una fisionomia e un ruolo via via più definiti. Dalla poesia ritmica latina la r. confluì nella nascente poesia in volgare, in particolare in quella provenzale.
Secondo un’altra ipotesi, che risale a G.M. Barbieri, la r. sarebbe stata trasmessa dagli Arabi che invasero la Spagna e penetrarono nella Francia meridionale. I trovatori provenzali, i primi a comporre in un idioma neolatino, a partire dall’11° sec. usarono la r. in modo raffinato, elaborando diverse configurazioni e sperimentando vari tipi che furono imitati dai poeti della Scuola siciliana e per loro tramite si riversarono nella corrente principale della tradizione poetica italiana. Poesia e r. si fusero a tal punto da divenire quasi sinonimi. L’assonanza compare, a parte le imitazioni delle lasse francesi, solo sporadicamente. Per i provenzali solo suoni identici potevano rimare fra loro. Questo principio fu seguito dai siciliani e da qualche altro antico poeta; ma a partire dall’imitazione dei siciliani fatta da poeti toscani del Due-Trecento, esso si allenta e si insinuano r. imperfette, originate da un adattamento meccanico a sistemi fonetici dialettali differenti o da incertezze dell’ortografia o da entrambi. Così i toscani fecero rimare non solo e aperta con e chiusa e o aperta con o chiusa (per es., effetto : distretto o core : maggiore, r. impossibili nella poesia provenzale), ma talvolta anche e chiusa con i (avere : servire) e o chiusa con u (amorosa : accusa).
A motivo di uno sviluppo dal latino divergente dal toscano, il siciliano non conosce opposizione tra apertura e chiusura di e e o; questi tipi di r., di cui il primo soltanto si è radicato nella tradizione, sono detti siciliani.
Origini analoghe ha la possibilità di rimare s sorda con s sonora (cose : spose) e z sorda con z sonora (prezzo : grezzo); quest’ultima si affermò solo a partire dal 17° secolo. Imperfetta è anche la cosiddetta r. bolognese, più rara, grazie alla quale o chiusa può rimare con u in alcuni casi (come : lume), giacché u compare come o davanti a consonante nasale (m, n) in emiliano, in particolare a Bologna. R. aretina o guittoniana è quella di u con o aperta (bono : ciascuno), che può verificarsi con parole come alcono, ciascono, niono, che in aretino avevano una o.
L’imitazione della poesia in lingua d’oïl produsse alcune r. francesi, del tipo -anza : -enza, e più in generale a con e seguite da due consonanti, la prima delle quali nasale. Quanto alla r. perfetta, la poesia italiana si ispirò ai modelli forniti da quella provenzale, la maggior parte dei quali continuò poi a essere seguita.
È detta r. identica o univoca quella di una parola che rima con sé stessa; non apprezzata dai provenzali, ebbe successo solo in certi tipi di componimenti, come la sestina, costruiti su parole-rima ricorrenti in posizioni fisse. R. equivoca è quella fra due parole foneticamente identiche ma di diverso significato, come ami (verbo) : ami (sostantivo). La r. grammaticale lega due parole aventi la medesima forma grammaticale (sembrava : rimembrava), mentre la r. derivativa o derivata si basa sull’identità del radicale (strugge : distrugge; attendi : intendi).
Se i suoni che costituiscono la r. sono suddivisi in più parole (per es.: chiome : oh me), si parla di r. composta o spezzata o rotta o franta. La r. è spezzata per tmesi (taglio) o anche ipermetra (eccedente la misura normale dello schema metrico) quando solo la prima parte di una parola entra in r. (nell’esempio che segue, differente-), mentre la seconda parte (-mente) è rigettata nel verso successivo: Così quelle carole, differente- Mente danzando, della sua ricchezza Mi facìeno stimar, veloci e lente (Dante, Par. XXIV, 16-18); i versi in cui si riparte la parola spezzata sono detti comiziali.
Si può anche avere una r. per l’occhio, quando le parole coinvolte hanno la stessa terminazione grafica ma non fonetica a causa di una diversità d’accento, come in partìre : màrtire. Quanto alla qualità dei suoni in r. ovvero alla loro frequenza nella lingua, si suole distinguere tradizionalmente tra r. ricche o care o rare o difficili da un lato, e r. facili dall’altro.
Nella tradizione provenzale e francese sono dette r. femminili quelle fra parole che presentano una sillaba che segue quella tonica (fête : tête; battre : quatre) e r. maschili quelle fra parole ossitone, con accento sull’ultima sillaba (aimé : regardé). La r. svolge nella tradizione poetica una funzione fondamentale nella strutturazione e spesso nella stessa identificazione di molte specie testuali diverse.
I tipi di disposizione fondamentali sono, a partire dai più generali: r. baciata o accoppiata, quando procede per coppie, con schema AA.BB; r. alterna o alternata, se le rime si alternano, con schema AB.AB; r. incrociata o abbracciata o chiusa, se una coppia abbraccia un’altra coppia, con schemi ABBA o ABA.ABA; r. invertita, se tre o più coppie si presentano con i componenti disposti in ordine inverso, con schema ABC.CBA; r. ripetuta o costante o replicata, quando i componenti di tre o più r. ritornano nello stesso ordine, con schema ABC.ABC; r. incatenata, come nella terzina dantesca, che ha schema ABA.BCB.CDC.DED. Quando uno di questi schemi mostra la ripetizione, una o più volte, di una r., si parla di r. rinterzata: per es., AAB.AAB o AAAB.AAAB; in quest’ultimo caso si usa anche l’espressione r. caudata. Quando una parola in fine di verso rima con una all’interno si produce una r. interna oppure una rimalmezzo. Nei sistemi strofici, soprattutto nella canzone, s’incontra la r. irrelata: un verso non trova corrispondenza con nessun altro nel testo, e i versi che occupano la stessa posizione in tutte le strofe sono parimenti privi di corrispondenza; se invece un verso non rima nella strofa bensì con i versi che occupano la stessa posizione nelle strofe successive, si ha una r. dissoluta.
Più complessa la disposizione a retrogradazione diretta, in cui le medesime r. ritornano in tutte le stanze, ma retrocedendo di un posto, come nello schema ABBA.AcccA BCCB.BaaaB CAAAC.CbbbC (per la retrogradazione incrociata ➔ sestina). La disposizione a r. cicliche presenta lo schema ABCDE EABCD DEABC ecc., fino a compimento del giro.
Altri ordinamenti sono peculiari ai vari tipi di componimento (➔ ballata, canzone, sonetto).
La dissociazione tra r. e poesia avvenne solo a partire dal Rinascimento, quando l’esigenza d’imitare i versi classici latini indusse a sperimentare nuove soluzioni strutturali. I componimenti furono così liberati dal vincolo imposto dagli schemi delle r. e i versi perciò detti sciolti s’insediarono nella tradizione italiana, rafforzati dalla stagione del classicismo fra il 18° e il 19° secolo. Tuttavia la r. continuò a essere ampiamente utilizzata fino a tutto l’Ottocento: le correnti romantiche che si dedicarono allo studio e alla rivalutazione della civiltà medievale suscitarono in molti la passione per gli stampi poetici dominati dalla r. propri di quell’età. Del resto, l’abbandono novecentesco della r. è più apparente che reale: se sono entrate in crisi le strutture poetiche chiuse, costruite con moduli tradizionali rigidamente prestabiliti (strutture che d’altro canto vengono rivivificate da autori che mirano al loro recupero), la r. è però presente in molti dei maggiori poeti contemporanei con una nuova fenomenologia che la rende duttile, velata (con sfruttamento della r. interna o della r. imperfetta), non più prevedibile, ma proprio per questo aspetto arricchita di senso.
Al di fuori della poesia la r. è diffusissima, talora da lunga data, in altri generi testuali, come nei proverbi, nelle canzoni folcloriche e popolari, nei testi composti per il melodramma o, più recentemente, per essere accompagnati dalla musica leggera, negli appelli pubblicitari, negli slogan politici ecc.
Si chiama rimario il repertorio in cui sono raggruppate le parole che rimano insieme, e i vari gruppi sono disposti secondo l’ordine alfabetico delle rime. Si hanno rimari di tutta una lingua, che sotto ciascuna r. registrano senza limitazioni le parole usate o usabili, disponendole per lo più in ordine alfabetico, diretto o inverso; e rimari di determinati autori o di determinate opere, che sotto ciascuna r. registrano in ordine alfabetico le parole effettivamente usate da quegli autori o in quelle opere. Per la lingua italiana, il primo rimario di questo secondo tipo fu il Rimario di tutte le cadentie di Dante e Petrarca, di F.P. Morato (1528); i r. che ebbero più larga fortuna (fino alla metà del 19° sec.) furono quelli di G. Ruscelli (Del modo di comporre in versi nella lingua italiana ..., 1559) e di G. Rosasco (Rimario toscano di voci piane, sdrucciole e tronche tratte dal Vocabolario della Crusca, 1763).