In poesia, unità di discorso avente una struttura metrica e un disegno ritmico e delimitata da una pausa virtuale, di solito isolata, nella tradizione grafica occidentale, mediante un a capo o uno spazio.
Il v. è un’entità formata da più piedi avente una struttura metrica e un disegno ritmico; è un’unità indipendente in quanto termina con una pausa, ammette iato con la sillaba iniziale del v. successivo, la sillaba conclusiva è ancipite, elementum indifferens, ossia indifferentemente lunga o breve; il v. eccedente la misura regolare dello schema metrico in cui si trova è detto ipermetro (contrario è ipometro, qualsiasi v. che sia inferiore alla misura ordinaria). La sua autonomia ritmica lo differenzia dal colon o membro, parte definita del v., che consta di una serie completa di piedi o metri (se la serie è incompleta è detto comma), non ha carattere indipendente ed è di durata in genere non superiore alle 18 more.
Il sistema di versificazione greco-latina si basava sulla successione di sillabe lunghe e brevi (diversamente da quello moderno fondato sul numero delle sillabe, l’alternarsi degli accenti, la rima, gli incontri vocalici ecc.) e la forma dei singoli v. presenta significative oscillazioni a seconda dell’ambito in cui erano usati; circa la scansione di essi, non vi sono posizioni univoche tra i metricisti, che ne hanno postulato partizioni differenti.
Il ritmo greco-latino non è rigido e può quindi variare entro certi limiti. Tra le possibili variazioni (tutte di ordine musicale) sono: l’anaclasi, inversione di ritmo che si ottiene trasponendo la sillaba breve al posto della lunga e viceversa; la catalessi, fenomeno per cui un v. si presenta abbreviato nel piede finale di uno o due tempi; nelle serie metriche del genere pari (per es., dattilo, anapesto) si distingue tra catalessi in syllabam e catalessi in dissyllabam, quando l’ultimo gruppo del v. è ridotto, rispettivamente, a una sola oppure a due sillabe; il v. completo si dice acatalettico, quello incompleto catalettico o tronco; la catalessi può trovarsi non solo alla fine ma anche all’interno di serie ritmiche. Un v. di una certa lunghezza comporta nella recitazione almeno una pausa ritmica, uno stacco di voce o di suono che distingue due serie di piedi consecutive e si incontra in v. di almeno 7 sillabe: la cesura, se si trova in fine di parola ma nell’interno di un piede; la dieresi, se cade nello stesso tempo in fine di parola e in fine di piede; la cesura si distingue in maschile, se ricorre dopo il tempo forte del piede; femminile, dopo una sillaba in posizione debole. Emistichio è la parte di un v. prima di una cesura o dopo di essa fino alla fine del verso. Si chiama asinarteto il tipo di v. composto di due membri di natura e andamento ritmico differenti (per es., serie dattiliche unite a serie giambiche).
Rispetto ai v. di cui si compongono, i poemi e i carmi lirici della letteratura greca e latina si distinguono in κατὰ στίχον («a verso a verso») se constano di v. tutti uguali, come i poemi epici in esametri; sistematici o strofici, se determinati v. sono congiunti a formare un sistema, come nei carmi lirici; misti, se si avvicendano parti κατὰ στίχον e parti sistematiche, come nella tragedia e nella commedia. Riguardo al modo in cui venivano eseguiti – recitazione o canto – i sistemi metrici possono distinguersi in puri o recitati (poesia epica, senza accompagnamento musicale, e, in un certo senso, lirica elegiaca e giambica, con leggero sottofondo di aulo) e metrico-musicali o cantati (melica, sia monodica sia corale, con accompagnamento di strumenti a corda o a fiato, o di entrambi). Nella lirica latina prevalgono i sistemi metrici puri, perché nel costume romano la connessione già intima in Grecia della poesia con la musica sembra sia stata più rara, e non è testimoniata al di fuori dei cantica della tragedia e della commedia e di qualche poesia lirica per lo più di carattere religioso (per es., il Carmen saeculare di Orazio): d’altra parte la natura di quella musica e il preciso rapporto tra quantità e melodia sono poco noti.
In età arcaica, quando il processo di acculturazione da parte dei Romani della più sofisticata cultura greca era in pieno svolgimento, i modelli greci furono adattati con libertà dagli autori latini, anche per convenzioni prosodiche non coincidenti interamente con quelle del greco (imitarono, per es., il trimetro giambico e il tetrametro trocaico del dramma greco; ma l’adattamento in latino trasformò questi metri, chiamati rispettivamente senario giambico e settenario trocaico); in età tardo repubblicana, augustea e imperiale la tendenza fu quella di riprendere i modelli greci in maniera più fedele.
Adonio Membro ritmico e v. (schema ‒́◡◡‒́◡̠: consta di un dattilo + trocheo o spondeo) usato dapprima nella poesia greca lesbica, come clausola della strofe saffica, poi nelle strofe di Pindaro e dei tragici; deriva il nome da un’invocazione cultuale al dio Adone in tale ritmo: ὦ τὸν ῎Αδωνιν.
Alcmanio Serie metrica dattilica così denominata, secondo l’uso alessandrino, dal poeta che se ne riteneva l’inventore: Alcmane (7° sec. a.C.); è una tetrapodia dattilica acatalettica ‒́◡◡‒́◡◡‒́◡◡‒́◡◡, usata con altri metri o in serie continuate nella tragedia classica. Si chiamò anche metro alcmanio la tetrapodia catalettica in syllabam ‒́◡◡‒́◡◡‒́◡◡◡̠ impiegata nei canti drammatici e dai poeti latini come v. continuato. Anacreonteo V. ricorrente in Anacreonte (6° sec. a.C.), costituito da un dimetro ionico a minore; frequente l’anaclasi per cui il dimetro assume l’aspetto: ◡◡‒́◡‒́◡‒́◡̠.
Anapestico V. formato di anapesti, piedi di genere pari e di ritmo ascendente, costituiti da 2 brevi e una lunga (◡◡_); unità minima la dipodia. L’anapesto (termine riconducibile ad ἀνάπαιστος nel senso di «urto, assalto del guerriero» o ad ἀναπαίω «battere» cadenzato) fu largamente usato negli antichi canti di marcia spartani; nella tragedia si hanno sistemi anapestici nella parodo e nell’esodo; anapesti di lamento nei treni lirici. Nella parabasi della commedia attica si incontrano serie di tetrametri anapestici e nella letteratura greca seriore inni in questo metro; presso i Romani l’anapesto è frequente nel dramma arcaico e in Seneca.
Archebuleo V. attribuito dalla tradizione ad Archebulo di Tera (3° sec. a.C.), ma si trova isolato (κατὰ στίχον) già in frammenti di Stesicoro e Ibico; il metricista Efestione (2° sec. d.C.) ne faceva risalire l’uso ad Alcmane. Un carme di Callimaco, Arsinoe, di cui è pervenuto un lungo frammento, era costruito in questo metro; schema: ◡◡‒́◡◡‒́◡◡‒́◡◡‒◡‒́__ formato da un dimetro anapestico + un metro giambico catalettico o, forse, un baccheo.
Archilocheo (o archilochio) Così detto dal poeta Archiloco di Paro (7° sec. a.C.), è un v. asinarteto, composto di una tetrapodia dattilica e di un itifallico: ‒́◡̄◡̄◡̄◡̄‒́◡̄◡̄‒́◡̄◡̄‒́◡‒́◡‒́◡̠ con dieresi fra i due membri. Usato di seguito è raro nella letteratura greca; fra i Latini ne elabora lunghe serie Prudenzio; nelle odi di Orazio si hanno vari sistemi di strofe dette archilochee (➔ strofe).
Aristofanio D’uso frequente in Aristofane (5° sec. a.C.); lo schema ‒́◡◡‒́ ◡‒́◡̠ è un coriambo + un baccheo. Asclepiadeo Nelle due forme di asclepiadeo minore e maggiore prese il nome da Asclepiade di Samo (4°-3° sec. a.C.), ma era stato già impiegato nella lirica di Lesbo. Schema dell’asclepiadeo minore: ◡̠◡̠‒́◡◡‒́ ‒́◡◡‒́◡◡̠; si può interpretare (le partizioni proposte sono varie) come un dodrante + un docmio di 6 sillabe; fu usato κατὰ στίχον, e in strofe misto a gliconei e ferecratei da Alceo, Saffo e Stesicoro. Schema dell’asclepiadeo maggiore: ◡̠◡̠‒́◡◡‒́ ‒́◡◡‒́ ‒́◡◡‒́◡◡̠; può essere inteso come un dodrante + un coriambo + un docmio di 6 sillabe; secondo il metricista Efestione erano scritti in asclepiadeo maggiore e in sistema distico tutti i carmi del 3° libro di Saffo; Orazio, come già Catullo, vi applica sempre la ‘base’ (le prime due sillabe) spondaica.
Baccheo (o bacchio) Serie ritmica connessa all’uso cultuale bacchico; costituito da una breve e 2 lunghe con l’ictus sulla prima di queste (◡‒́_), il baccheo ricorre presso i tragici greci in dimetri e tetrametri associati con docmi, giambi, cretici ecc.; presso i Latini si incontra nella commedia e in Plauto è elemento costruttivo della metrica dei cantica.
Coliambo Forma particolare del trimetro giambico, che presenta una lunga irrazionale nella penultima sillaba del v., detto anche scazonte (σκάζων «zoppicante») o ipponatteo, con schema ◡̄‒́◡_◡̄‒́◡_◡‒́‒́◡̄; fu usato nel 6° sec. a.C. da Ipponatte, in età alessandrina da Callimaco, Apollonio Rodio, Eroda, fra i Latini da Catullo.
Coriambo Metro con schema ‒́◡ ◡‒́, consta di un coreo (trocheo) + un giambo. Nella poesia melica si trova in sostituzione di dimetri giambici o trocaici o come elemento di v.; nella tragedia e nella lirica corale anche in serie, con dimetri giambici e ionici.
Cratineo Riportato nel nome al poeta Cratino (5° sec. a.C.), che usò tale v. nella parabasi delle sue commedie: è un doppio dimetro coriambico catalettico con anaclasi nel 2° e 3° metro; schema nella forma pura: àââà âàâà àâàâ àâà.
Cretico Misura metrica di 5 tempi con schema ïâï, forma catalettica di un ditrocheo; nella lirica è spesso associato a giambi, coriambi, bacchei.
Dattilico Composto di dattili, piedi di 3 sillabe (ïââ), di genere pari perché l’arsi (la lunga, di 2 tempi o more) ha durata pari alla tesi (le 2 brevi); se usati in serie possono essere sostituiti da spondei (ïï). I dattili sono talora misurati a monopodie, cioè ogni piede dattilico forma un metro: così l’esametro dattilico è un v. di 6 piedi; talaltra sono misurati a dipodie, come nelle parti liriche di drammi greci. I v. dattilici più usati sono l’esametro e il pentametro; sistemi dattilici, costituiti da vari cola succedentisi senza soluzione di continuità fino alla fine del periodo metrico, si trovano in Euripide; strofe dattiliche in Alcmane, Stesicoro, nella tragedia e commedia greca.
Dimetro Il dimetro giambico (formato da 4 giambi) fu il più frequente, sia associato ad altri v., sia in composizione stichica, fin dai lirici greci più antichi, e spesso nel dramma; fra i Latini si trova nelle tragedie di Seneca e negli inni di Prudenzio; poi fu il v. degli inni della Chiesa. Il dimetro trocaico (4 trochei) fu molto usato, anche con altri metri. Il dimetro coriambico (costituito da 2 coriambi, poiché già il coriambo è un metro, un’unità di 6 tempi) ricorre nei poeti di Lesbo e in Anacreonte, nei tragici e comici (Aristofane), con molte varietà di forme. L’associazione di due dimetri dattilici, che s’incontra nei sistemi dattilici dei lirici greci e dei tragici, è il cosiddetto metro alcmanio. Il dimetro anapestico (4 anapesti) fu preferito dagli Spartani (Tirteo) e usato come canto di marcia nella parodo e nell’esodo della tragedia e nella parabasi della commedia attica. Distico Per distico elegiaco ➔ strofe.
Docmio Ritmo che compare nella tragedia e nella lirica di Simonide e Pindaro in due forme principali: âààâà e àââàâà e in varie altre soluzioni per sostituzioni di lunghe a brevi; nella lirica è un membro fra gli altri, la tragedia costruisce interi v. e strofe docmiaci. Forma secondaria del docmio è l’ipodocmio, con schema àâàâà, usato in greco come v. indipendente, κατὰ στίχον, o unito a v. docmiaci, nelle parti liriche della tragedia, e in latino nei cantica di Plauto.
Dodecasillabo Dodecasillabo alcaico, v. con schema di due tipi: æàâàæ æàââàâé, che si può considerare composto da un reiziano e un telesilleo; æàâàæ àââàâàæ, interpretabile come un reiziano e un aristofanio.
Dodrante Nome moderno di un colon usato già in Simonide nelle due forme: àâàââà e àââàâà; la prima (dodrante I) insieme al reiziano costituisce il falecio.
Elegiambo V. di 15 sillabe, àââàââà âàâàâàâà, interpretabile come un hemìepes maschile + un dimetro giambico.
Endecasillabo Endecasillabo alcaico, usato nella strofe alcaica (ripetuto e seguito dall’enneasillabo e dal decasillabo) dai poeti di Lesbo, specialmente Alceo, e introdotto nella poesia latina da Orazio; endecasillabo saffico, ripetuto nella strofe saffica 3 volte prima dell’adonio e formato in origine, secondo l’interpretazione più moderna, da un ditrocheo + un aristofanio (➔ strofe); i Latini chiamarono endecasillabo il falecio.
Enoplio In origine, nella Grecia arcaica, ritmo tipico delle danze guerriere, con andamento dattilico e anacrasi (sillaba iniziale d’intonazione, ‘aritmica’, ed esclusa dal conteggio sillabico); poi uno dei metri più usati nella poesia lirica, tragica e comica, in grande varietà di forme sia come v. a sé, sia associato ad altri metri e v.; schema: íàíàíàâ.. Compare per la prima volta in Archiloco e in Alcmane con la forma più comune æàââàââàæ.
Epodo Strofe distica (➔ strofe).
Esametro V. tradizionale dell’epopea greca e romana da Omero in poi, usato anche nella poesia religiosa (oracoli e inni), nella didascalica, e, unito con il pentametro, nella poesia elegiaca (distico elegiaco). L’esametro dattilico, o semplicemente esametro, come già lo chiamò Erodoto, ha schema àëàëàëàëàëàå, cioè 5 dattili, sostituibili con spondei, e una clausola bisillaba con l’ultima sillaba ancipite (spondeo o trocheo). V. recitativo, diviene sempre più rigido da Omero ai poeti ellenistici della tarda grecità, specialmente in Nonno di Panopoli. In Omero ha 32 forme nella ripartizione dei piedi, in Nonno non ne ha più di 9. Si ebbero vari tipi di esametro secondo la disposizione degli spondei rispetto ai dattili: spondaico, se il 5° piede è spondeo; periodico, se alterna dattili e spondei; saffico se ha lo spondeo all’inizio e in fine; olodattilo, se formato tutto di dattili; olospondaico o isocrono, se tutto di spondei. Nell’esametro greco le cesure più comuni sono: pentemimera; trocaica; eftemimera; bucolica, più frequente negli esametri della poesia bucolica alessandrina. L’esametro latino, introdotto da Ennio, ha prevalenza di spondei e preferisce la cesura pentemimera, modello poi seguito da Lucilio e Lucrezio; con Virgilio l’esametro di stile severo raggiunge la perfezione anche per la tecnica delle regole sulla fine del verso.
Falecio (o faleceo) Dal nome del poeta alessandrino Faleco (3° sec. a.C.; se ne hanno epigrammi nell’Antologia Palatina) che lo usò per primo κατὰ στίχον; compare, associato ad altri v., specialmente gliconei e ferecratei, in Alcmane, Saffo, nei tragici e nei comici; fra i Latini, che lo chiamarono semplicemente endecasillabo, Catullo lo adoperò di preferenza e poi Stazio, Marziale, Petronio, Prudenzio. È un v. endecasillabo con schema àæàââà æàâàæ formato da due cola: un dodrante I + reiziano di 5 sillabe (oppure un ferecrateo + ditrocheo: àæàââàæ àâàæ).
Ferecrateo (o ferecrazio) Il poeta comico Ferecrate (5° sec. a.C.) lo predilesse, ma già prima era molto usato sia come v. singolo sia associato ad altri v., specialmente al gliconeo, di cui si può considerare una forma catalettica; schema: àæàââàæ. Di solito ricorre come clausola a un periodo di gliconei (sono tipiche le strofette gliconiche di Anacreonte chiuse dal ferecrateo); fra i Latini Catullo l’usò con base più spesso trocaica, Orazio (come elemento di una strofe asclepiadea, sistema 3°, ➔ strofe) con base costantemente spondaica.
Galliambo V. con schema ââàïââàïââàïââç: tetrametro ionico a minore catalettico che per anaclasi può diventare: ââàâïâàïââàïââç. Il nome deriva dai Galli, sacerdoti della Gran Madre degli dei, Cibele, nel cui culto il v. era usato, e dall’essere considerato di natura giambica. Se ne hanno esempi in Anacreonte; fra i Latini, in Varrone (Saturae Maenippeae) e Catullo (carme 63, Attis).
Giambelego È un elegiambo invertito e consta di un dimetro giambico e di un hemìepes maschile.
Giambico V. basato sulla successione di metri giambici; fondamentale della poesia greca è il trimetro giambico che, assurto a dignità letteraria per opera di Archiloco, soppiantò presto il tetrametro trocaico nelle parti dialogiche del dramma, sia tragico sia comico. Nella sua forma pura (âàâïâàâïâàâï) non si incontra spesso neppure presso i più antichi e severi poeti, perché numerose sono le sostituzioni e le soluzioni: alla prima breve di ogni dipodia può essere sostituita una lunga ‘irrazionale’ (åàâï); legittimo equivalente del giambo (âà) è il tribraco (âãâ), che può sostituirlo in tutte le sedi del trimetro ecc. Forma particolare del trimetro giambico è il coliambo; presso i Latini al trimetro greco corrisponde il senario giambico.
Gliconeo (o gliconio) Deriverebbe il nome da un ipotetico poeta ellenistico, Glicone, di cui non si hanno ulteriori notizie, ma il suo uso è molto più antico e attestato già in Alcmane. V. tra i più ricorrenti nella poesia greca, e con continuità nel tempo, fu ripreso da Catullo e da Orazio; schema: àæ àââ àâç: consta di una base trocaica o spondaica + un dattilo + una dipodia trocaica catalettica.
Hemìepes Prima metà dell’esametro dattilico, fino alla cesura pentemimera: si distingue un hemìepes maschile àââàââà e uno femminile àââàââàâ, a seconda che termini con posizione forte oppure debole. Si trova in serie liriche della poesia greca, spesso associato all’enoplio, ed è elemento costitutivo di alcuni v. greci: due hemìepe maschili costituiscono il pentametro; un hemìepes maschile + un dimetro giambico, l’elegiambo; un dimetro giambico + un hemìepes maschile, il giambelego.
Ibiceo V. con schema àââàââàâç, deriva il nome dal poeta Ibico (6° sec. a.C.) che lo usò di seguito e unito a v. alcmani; può essere considerato una particolare forma di gliconeo con base dattilica. È detto inoltre metro ibiceo (lat. metrum ibycium) l’esametro dattilico acatalettico che si trova in Ibico e nel dramma greco, e che è distinto dall’esametro eroico, sia perché di solito l’ultimo piede è un dattilo sia perché non è legato come quello alle leggi della cesura.
Ionico Metri ionici, due tipi ritmici considerati già dagli antichi di carattere (èthos) molle e rilassato, probabilmente connessi in origine ai culti asiatici di Bacco e della Gran Madre: ionico a maiore àïââ e ionico a minore ââàï. La distinzione è ellenistica perché di tale età è l’uso dello ionico a maiore come metro a sé, mentre l’uso di quello a minore è arcaico e si trova, oltre che nei lirici, nei tragici (Euripide vi ricorre largamente nelle Baccanti) e nei comici. Lo ionico a maiore fu nel 3° sec. a.C. usato da Sotade nel cosiddetto sotadeo, e dal suo contemporaneo Cleomaco nel cleomacheo. È un dimetro ionico a minore il v. anacreonteo; un tetrametro ionico a minore catalettico il galliambo.
Itifallico V. tipico dei canti fallici, legato in origine alle feste falloforiche di Dioniso. Di schema àâàâàïe andamento trocaico, fu usato stichicamente già da Alcmane e Anacreonte, poi associato a v. affini (enoplio, reiziano, hemìepes, aristofanio).
Laconico V. legato alla tradizione dorica, costituito da anapesti (ââï) e proprio degli embateri (canti militari di marcia) degli Spartani, con schema ââà ââà ââà ââà//ââà ââàïàæ: è il tetrametro anapestico catalettico, caratterizzato dalla presenza dello spondeo in 7a sede e dalla dieresi fra i due dimetri. Fu usato stichicamente da Epicarmo (6°-5° sec. a.C.) in due commedie e, ancora prima, da Aristosseno di Selinunte (6° sec. a.C.), con frequenti sostituzioni spondaiche; in seguito, si trova adoperato ampiamente nella parabasi della commedia attica.
Messeniaco V. basato su serie anapestiche, analogamente al laconico: è un trimetro catalettico, con possibilità di sostituzione dello spondeo all’anapesto nelle prime 4 sedi; fu usato già da Alcmane.
Pentametro Termine improprio che designa un v. costituito da una successione non di 5, ma di 6 metri. Il pentametro elegiaco (o semplicemente pentametro) è il v. dell’elegia o dell’epigramma, di solito associato all’esametro a formare il distico elegiaco. Lo schema è àëàëà//àââàââé, cioè due hemìepe maschili separati da dieresi (o, come si dice di solito, due tripodie dattiliche catalettiche in syllabam). Non è ammessa la sostituzione dello spondeo al dattilo nel secondo emistichio; alla fine del primo hemìepes la sillaba deve essere lunga, preferibilmente per natura (di rado per posizione), mai ancipite; non è ammesso lo iato fra i due membri del verso, né l’uso di monosillabi alla fine dei due membri. La denominazione πεντάμετρον, che risale al poeta elegiaco greco Ermesianatte di Colofone (3° sec. a.C.), presuppone erroneamente una divisione del v. in 2 dattili + spondeo + 2 anapesti, non tiene conto della dieresi e falsa il ritmo che è di natura dattilica, cioè discendente.
Peone Misura metrica di 5 tempi, distinto in 1°, 2° ecc. in base alla collocazione della lunga (➔ piede); connesso con il cretico è usato da Pindaro e nella commedia del primo Aristofane. Armonia per lo più dorica, solenne, e ritmo peonico-cretico aveva, in origine, il peana, canto liturgico in onore di Apollo o di Artemide.
Pindarico Dal nome del poeta Pindaro (6°-5° sec. a.C.), v. asinarteto ricordato da Efestione: è formato da un reiziano di 5 sillabe + un hemìepes maschile + un reiziano di 5 sillabe: âàâàâ àââàââà ïàâàï.
Quadrato (o settenario) Nella metrica latina, quadratus versus, v. trocaico composto di 7 piedi completi e uno catalettico (corrispondente al tetrametro trocaico catalettico dei Greci), usato soprattutto, oltre al senario giambico, nella commedia e nella tragedia, nei canti satirici dei soldati durante i trionfi e nel Pervigilium Veneris. Lo schema puro è: àâàâàâàâàâàâàâà; valgono per il v. quadrato le stesse regole e libertà che per il senario.
Reiziano Dal nome del filologo tedesco F.W. Reiz (18° sec.), è un versetto lirico formato da due arsi e tre tesi libere, con schema íàíàæ. Di origine popolare e di carattere rituale, si trova, per es., nel χελιδονισμός («canto alla rondine») dei fanciulli rodiesi e, in seguito, solo o associato al ferecrateo e a metri gliconici, coriambici, giambici e trocaici, nella lirica e nel dramma. D’uso più comune è il reiziano di 5 sillabe: æàâàæ; tale forma, successiva al dodrante I, costituisce il falecio.
Ropalico V. in cui le parole procedono crescendo successivamente di una sillaba, come nella clava (ῥόπαλον) cresce progressivamente la circonferenza. Se ne trovano nei componimenti poetici di Porfirio (4° sec. d.C.); ma erano giochi metrici già in uso presso i poetae novelli del 2° sec. d.C. e prima presso i Greci nell’età ellenistica con i carmi figurati di Dosiada e imitatori.
Saffico Sono detti saffici alcuni metri lirici perché prediletti da Saffo (7°-6° sec. a.C.); in realtà sono metri della lirica eolica, usati poi anche da altri poeti e passati nella poesia latina. Per endecasillabo saffico ➔ strofe. Saffico maggiore: è un endecasillabo saffico aumentato da un coriambo, inserito dopo il ditrocheo, con schema àâàå àââà àââàâàæ.
Saturnio V. così chiamato già dagli antichi (lat. saturnius numerus); l’allusione al favoloso regno di Saturno e all’Italia (Saturnia tellus) lo designa come italico, autoctono. Incerte, tuttavia, sono l’origine e la stessa definizione metrica: si è pensato anche che fosse un v. accentuativo, ma tale ipotesi appare infondata. In realtà i non molti saturni pervenuti si possono dividere in due membri separati da dieresi: il primo è normalmente un dimetro giambico catalettico (âàâïâàæ), il secondo, forse, un itifallico o un reiziano. Le sostituzioni ammesse sono quelle che si riscontrano regolarmente nella poesia greca; meno facile è spiegare e provare l’identità tra il recitativo saturnio e quei metri, propri della lirica greca. Alcuni studiosi (per es., F. Leo) ipotizzano un’origine indipendente da esemplari indoeuropei; per altri (per es., G. Pasquali) il saturnio sarebbe la sintesi romana di membri derivati per via popolare in età remota da poesia greca. Dirozzato, fu adoperato dai primi poeti arcaici, Livio Andronico e Nevio.
Senario V. usato nella poesia drammatica latina, specialmente dai comici, costituito da 6 piedi giambici (detto perciò anche senario giambico). Corrisponde al trimetro giambico dei Greci, che fu adattato all’indole della lingua latina da Livio Andronico, prendendo a modello il trimetro comico. Ciò spiega alcune libertà del senario latino, dove, essendo unità di misura il giambo âï, non la dipodia giambica âïâï come in greco, cade ogni distinzione tra sedi dispari e sedi pari, che ammettono ugualmente lo spondeo (ïï), limitato in greco alle sedi dispari: ogni piede del senario (eccetto l’ultimo, sempre giambo), oltre che essere giambo o spondeo, può quindi, attraverso la soluzione della lunga in 2 brevi, avere anche la forma di tribraco (âââ), anapesto (ââï), dattilo (ïââ). Il senario, d’altro canto, ha certe severità metriche e, quanto a coincidenze tra parola e piede, segue restrizioni ignote al modello greco. Oltre che da Plauto e Terenzio, i senari furono poi usati dai mimografi e in seguito da Fedro, ma senza più osservare la prosodia arcaica; in Catullo, negli epodi di Orazio e nelle tragedie di Seneca sono trattati al modo greco dei trimetri giambici.
Spondaico Formato di spondei, piedi di due sillabe lunghe (ïï), equivalenti al dattilo, all’anapesto e al tribraco, e presenti in serie giambiche o trocaiche dove sia possibile sostituire alla breve la lunga ‘irrazionale’ e in vari altri metri. L’esametro spondaico è un esametro che ha eccezionalmente uno spondeo nella 5a sede (dove sarebbe di regola il dattilo), usato per ottenere particolari effetti espressivi e stilistici: sottolineare la pesantezza e lentezza dell’azione, la solennità o gravità della situazione.
Telesilleo Così chiamato dagli antichi metricologi dal nome della poetessa Telesilla d’Argo (5° sec. a.C.); ma si trova già in Saffo ed è usato anche in Pindaro, in stasimi di tragedie e nelle commedie di Aristofane; con schema æàââàâé, si può considerare una forma del gliconeo cui è spesso associato.
Trocaico Metri e v. composti di trochei, piedi di ritmo discendente formati da una sillaba lunga e una breve (ïâ). La dipodia trocaica (2 trochei) è l’unità di misura del v. trocaico; dimetro, trimetro, tetrametro trocaico sono metri formati rispettivamente da 2, 3, 4 dipodie trocaiche. Il v. principale è il tetrametro trocaico catalettico (àâïâàâïâàâïâàâï), presente già in Archiloco, Solone, e prevalente nelle parti dialogiche del dramma greco più antico, nel quale fu presto soppiantato dal trimetro giambico; nella poesia popolare e nella commedia latina compare come settenario o quadratus versus.
Nella poesia italiana la struttura metrica è definita dal numero delle sillabe metriche, mentre il disegno ritmico è determinato dalla sequenza delle arsi e delle tesi, oltre che dall’insieme dei fattori prosodici, sintattici e semantici; si possono avere, pertanto, v. metricamente uguali ma ritmicamente diversi; dalla tensione tra metro, ritmo e sintassi scaturiscono fenomeni quali la cesura o l’enjambement: v. endecasillabi, decasillabi ecc.; v. parisillabo, imparisillabo, secondo che sia composto da un numero di sillabe metriche pari o dispari; v. accoppiato o doppio, composto da due v. metricamente uguali; v. rimati, v. sciolti, secondo che due o più v. siano collegati o no dalla rima; v. piano, tronco, sdrucciolo, secondo che finisca con parola piana, tronca o sdrucciola. Il plurale è spesso usato per indicare una composizione o un insieme di composizioni poetiche.
Verso libero Verso indipendente da ogni schema metrico tradizionale, nel quale il poeta rende il proprio individuale respiro ritmico. Vari nei secoli passati i tentativi di liberazione del poeta dalle leggi metriche fisse. La denominazione viene dalla Francia, dove vers libre indicò nel 18° sec. il v. sciolto. Nel 19° sec. si affermò la teoria romantica della libertà assoluta dell’artista e dell’irripetibilità del fatto poetico. Le esperienze di S. Mallarmé, A. Rimbaud, P. Verlaine prepararono l’avvento dei poeti simbolisti, teorizzatori del vers libre nell’accezione moderna. Lo usò J. Laforgue, ma fu G. Kahn il primo ad adoperarlo in modo programmatico (Les palais nomades, 1887). Seguirono F. Vielé-Griffin (Joies, 1889) e H. de Régnier. In Italia fu importato agli inizi del 20° sec. da D. Gnoli, E. Thovez, G.P. Lucini e G. D’Annunzio. L’influenza maggiore fu esercitata da quest’ultimo, che impiegò il v. libero in In memoriam delle Odi navali, poi nella Laus vitae, dove si riconnette al v. barbaro carducciano, quindi nelle odi di Alcyone (La pioggia nel pineto, Il novilunio ecc.). Sulla scorta di questi esempi e ancor più di quelli d’oltralpe il v. libero assurse rapidamente a una posizione dominante nell’ambito della poesia novecentesca.
Elemento direzionale su una curva (in particolare su una retta). Precisamente, preso un punto P su una curva, si può immaginare di muoversi su quest’ultima dirigendosi verso un altro punto P′ immediatamente prossimo a P o allontanandosi da esso: nel primo caso ci si muove in un v. (o senso), nel secondo in v. (o senso) opposto. Uno dei due v., convenzionalmente, viene considerato positivo, l’altro negativo: così, all’ascissa curvilinea (o rettilinea) di ciascun punto resta attribuito il segno + o − a seconda che per raggiungere il punto in esame ci si debba muovere, a partire dall’origine delle ascisse, nel v. fissato come positivo o nel v. opposto. Essendo disegnata la retta o la curva, il v. positivo viene indicato con una freccia. Un segmento (rettilineo) sul quale sia fissato un v. positivo di percorrenza è un segmento orientato. Nello spazio l’insieme degli ∞3 segmenti orientati aventi una data lunghezza, una data direzione e un dato v. individua un vettore; così, il v. viene a essere uno degli elementi caratteristici del vettore. Il termine non è pertanto sinonimo, come spesso accade invece nel linguaggio comune, di direzione: su ogni direzione sono possibili due v. opposti. La direzione e il v. (di un vettore, di un segmento o di una retta orientati), insieme rappresentabili mediante un versore, danno, insieme, l’orientamento (del vettore, del segmento o della retta).
Nella descrizione dei rotoli di papiro e degli antichi codici, la parte posteriore di un papiro, di una pergamena o di una carta (contrapposto a recto, la parte anteriore); abbreviato in v, è spesso affiancato al numero d’ordine della carta in opere manoscritte o anche a stampa numerate per carte e non per pagine. Nell’uso librario il v. è la pagina segnata con un numero pari (nelle arti grafiche volta, in opposizione a bianca).
Nella liturgia cattolica, v. (o versetto), il breve inciso, cui segue una risposta ugualmente breve, che si canta o si recita in determinate occasioni e ore liturgiche.