Disciplina che ha per oggetto lo studio della versificazione, fondata su un complesso di norme che variano secondo la natura di ciascuna lingua e le convenzioni che si stabiliscono in rapporto a determinate idee estetiche: se il carattere di una lingua subisce nel corso della storia una modificazione tale da far venir meno gli elementi scelti come criteri di versificazione, anche questa di conseguenza subisce un cambiamento (per es., all’interno del latino, la perdita di senso della quantità che provoca il passaggio dalla m. quantitativa alla ritmica mediolatina e poi romanza). Si distinguono la m. quantitativa, comune alle antiche lingue classiche (greca e latina, ma non esclusiva di queste), se la durata dei suoni è il criterio base per la costituzione del verso, in cui si utilizza l’alternanza di sillabe lunghe e brevi (fondamentale è il concetto di quantità, ossia di durata di un suono, vocalico o consonantico, di un dittongo o di una sillaba, che vige anche nel linguaggio comune); la m. ritmica, se il criterio base è l’accento e si sfrutta l’alternanza di sillabe toniche e atone, nonché il numero delle sillabe, come nelle lingue romanze.
Secondo la tradizione antica, lo studio della m. si distingue in tre branche: prosodia, m. vera e propria, e strofica, che si occupano rispettivamente della quantità delle sillabe, della combinazione delle quantità sillabiche nella versificazione, della combinazione di versi in gruppi strutturati.
La m. greca e la latina, derivando quest’ultima dalla prima, possono dirsi sostanzialmente simili; sono fondate entrambe sulla regolata alternanza di sillabe lunghe e brevi: per ottenere un’alternanza ritmica, le sillabe si riuniscono in gruppi, detti piedi o metri (➔ piede). La differenza tra le due lingue ha tuttavia fatto sì che, nell’adottare i metri greci, i Latini li abbiano originalmente interpretati, sottoponendoli a leggi spesso diverse da quelle greche. Inoltre, le due letterature si estendono per lungo spazio di tempo, con conseguenti mutamenti linguistici e stilistici e loro riflessi sulla m.: l’esametro di Omero non è quello di Nonno, come l’esametro di Ennio non è quello di Claudiano.
Per lunga tradizione si è soliti scandire i versi greci, come i latini, accentuando le sillabe in arsi, il tempo forte del piede (contrapposto a tesi, tempo debole) su cui cade l’ictus metrico (accento nella lettura moderna). Questo tipo di lettura scolastica, introdotto da secoli e basato sull’imposizione di una serie di ictus vocali in determinate sedi del verso (l’arsi interessa la sillaba lunga; la tesi la breve), è una pratica che permette di restituire una certa quadratura ritmica al verso antico, ma non corrisponde alla realtà storica. Gli antichi non leggevano in questa maniera. Nel verso greco era il succedersi delle quantità, non degli accenti, a creare il ritmo e quasi certamente la sillaba in arsi non aveva alcuna particolare intensità dinamica. Dal canto loro i Latini, probabilmente, leggevano i versi come la prosa e le parole non modificavano il loro accento o pronuncia normale per il fatto di essere inserite in un contesto poetico: il ritmo era determinato dalla successione di quantità che, se rispondenti a modelli ideali dei singoli versi, erano riconosciuti come tali, identificati e incasellati nelle diverse varietà di realizzazione di ognuno. La poesia si distingueva dalla prosa per il susseguirsi delle quantità sillabiche secondo ordini e schemi codificati nella cultura letteraria: a tutti poteva accadere, dice Cicerone , di produrre casualmente un verso parlando (Orator, 189). Non riuscendo più a intendere il vero ritmo del verso antico, a percepirne la melodicità e modulazione dei toni, e a sentire la quantità di vocali e sillabe, i metricisti (a partire dal 2° sec. d.C.) con il tipo di lettura accennato hanno tentato di ricrearne uno per differenziare il tracciato fonico della poesia da quello della prosa.
La maggiore differenza qualitativa esistente tra le lingue romanze e le lingue classiche è nella diversa valutazione dell’accento da parte della comunità linguistica antica e moderna: una differente sensibilità di percezione e coscienza del fatto fonico. Per i moderni una sillaba accentata risalta per essere pronunciata con una maggiore intensità, con uno sforzo maggiore nell’emissione d’aria. A essere percepito è l’aspetto dinamico del fenomeno, legato alla maggiore espirazione necessaria a che questo possa prodursi. Tale accento è detto intensivo o dinamico o anche espiratorio. Gli antichi conoscevano un tipo d’accento che noi definiamo melodico, o musicale, o cromatico: la sillaba accentata si evidenziava per essere pronunciata con una tonalità più elevata. Così è presso i Latini, in epoca letteraria, dal 3° sec. a.C.; successivamente, in età imperiale, questa sensibilità cambia e dell’accento comincia a essere predominante l’aspetto intensivo. Per l’accento melodico la terminologia adottata dai Latini è derivata dal greco e appare mutuata dalla sfera del linguaggio musicale: Quintiliano parla di tenores, «detto dagli antichi tonores, dal greco τόνους, o accentus»; Servio scrive: «accentus dictus est quasi adcantus secundum Graecos».
D’altra parte, l’accento greco, musicale, non influiva sul ritmo metrico e, anche quando (nel tardo periodo ellenistico) l’accento prese a farsi, da musicale, dinamico, si continuò a lungo a comporre fondandosi sulla quantità. Se l’ictus vocale come noi lo applichiamo non esisteva in poesia, esisteva invece un ictus meccanico, non vocale, provocato dal battere del piede o del dito o di una bacchetta nella scansione del ritmo: il colpo del piede o del dito (‘battere’ musicale) corrispondeva alla tesi ed era il momento della battuta, l’ictus; il sollevarsi del piede o del dito (‘levare’ della musica) era l’arsi. I Greci chiamarono ϑέσις la parte del piede in posizione forte, ἄρσις quella in posizione debole. I tardi grammatici latini, richiamandosi a un modo diverso di segnare il tempo o anche riferendo i due termini alla voce invece che al piede o al dito che battevano il tempo, scambiarono di valore i termini e intesero con arsi (lat. sublatio, movimento di ascesa) la parte del piede in posizione forte, e con tesi (lat. positio) quella in posizione debole.
Complesso e storicamente differenziato è il rapporto tra m. greca e musica, in particolare per quel che riguarda i metri lirici. Dapprima la musica seguì la m.: il ritmo era imposto dal verso stesso, e la quantità prosodica naturale rimaneva sostanzialmente inalterata, costituendo la base ritmica del μέλος. Poi la musica acquistò maggior autonomia (dal 5° sec. a.C.) e prese a sovrapporsi alla m., sì che la quantità delle sillabe del verso recitato poteva essere variata dal canto: si ebbero allora sillabe più lunghe del normale (una lunga poté contare per 3 o 4 tempi di breve o more). A questa maggior autonomia ritmica della musica corrisponde una maggior autonomia della m. dalla musica: versi un tempo destinati a essere cantati furono scritti per la semplice lettura e recitazione.
La questione delle origini storiche della m. greca è controversa; con essa si mescola la questione dei metri ‘originari’, dai quali gli altri sarebbero derivati. Già nell’antichità si ebbero varie teorie sulla derivazione dei metri da poche (o una soltanto) forme originarie, per es. l’esametro eroico. Si tende oggi a identificare alcune forme m. libere, con sillabe fisse e sillabe mobili, dalle quali a mano a mano, per via di ‘normalizzazione’, si sono fissati metri ben determinati, che hanno poi mantenuto tra loro una relazione più o meno stretta, o addirittura una equivalenza, così da potersi sostituire l’uno all’altro in responsioni strofiche.
Si distingue una m. recitativa e una m. lirica. I versi recitativi (per es., esametro e pentametro dell’epos e dell’elegia, trimetro giambico della tragedia ecc.) erano accompagnati da uno strumento (a corda; flauto) che ne sottolineava il ritmo; i versi lirici erano cantati. La dottrina m., fin dall’antichità, ha analizzato tutti i versi greci identificando una quantità limitata di unità metriche elementari: i piedi (dattilo _◡◡, giambo ◡_, trocheo _◡, anapesto ◡◡_ ecc.). I versi, recitativi e lirici, sarebbero costituiti dalla serie di questi piedi, diversamente combinati, sul fondamento generale del principio convenzionale dell’equivalenza tra una sillaba lunga e due sillabe brevi, e con molta varietà di sostituzioni: applicando tale norma, si ha la possibilità di sostituire due brevi con una lunga e viceversa, e dagli schemi precedenti se ne ricavano molti altri.
In realtà, la divisione in piedi dei versi greci è scolastica e artificiosa; ha un’utilità limitata e, del resto, gli stessi antichi non la intendevano in modo rigido (la fonte più importante sull’argomento è Dionigi di Alicarnasso, vissu;to nella seconda metà del 1° sec. a.C.). Le unità minori metriche sono esse stesse versi, indecomponibili in parti (per es., digiambo ✂✂◡_, adonio ✂◡◡✂✂); anche i versi maggiori, come l’esametro, sono forse storicamente derivati dalla giustapposizione di minori cola (membri, raggruppamenti di piedi o metri), gli stessi che compaiono nella poesia popolare e lirica (hemìepes, enoplio; ➔ verso).
I versi lirici, organizzati in strofe (solo tardi comincia l’uso dei versi lirici sciolti dal vincolo strofico) rappresentano la parte più varia e complessa della m. greca. Lirica è per la maggior parte la m. di Archiloco; a una polimetria sempre maggiore si giunge con Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide, Pindaro (lirica corale); lirica si ha nelle parti cantate del dramma. La lirica corale ha struttura strofica ricca e varia, dalle origini legata alla danza eseguita dal coro: diadica (strofe e antistrofe) o triadica (strofe, antistrofe ed epodo). Struttura astrofica, libera, possono avere certe parti del dramma. Caratteri particolari ebbe la lirica monodica eolica (Saffo, Alceo; anche lo ionico Anacreonte): il verso è assai regolare quanto a numero di sillabe. Notevole regolarità ha anche la struttura strofica, della quale alcune forme (saffica, alcaica) sono divenute famose per l’imitazione dei poeti latini, specialmente Orazio.
Il più antico verso latino, il saturnio (saturnius numerus), era quantitativo e composto di due membri minori; simile, quindi, ai versi greci con i quali aveva forse una parentela. L’allusione al favoloso regno di Saturno e all’Italia (Saturnia tellus) lo designa come autoctono; dopo che Ennio lo sostituì con l’esametro negli Annales, il saturnio scomparve. Livio Andronico, che usò il saturnio come verso epico, imitò anche il trimetro giambico e il tetrametro trocaico del dramma greco; ma l’adattamento in latino trasformò profondamente questi metri (chiamati rispettivamente senario e settenario o verso quadrato).
In tutta la m. latina si fanno sentire alcuni fatti linguistici – come il maggiore significato ritmico dell’accento –, che la differenziano dalla greca; c’è inoltre diversità non solo nelle regole propriamente metriche, ma anche nel diverso modo di comporre nello schema le parole (diverso senso delle pause, ricorrere dell’allitterazione ecc.). D’altra parte, come pare certo per il verso quadrato, usato nella letteratura popolare dai comici e in testi anonimi, nei canti satirici dei soldati durante il trionfo la derivazione dal greco non esclude l’esistenza di una tradizione indigena.
Carattere legato alle origini popolari ha la m. delle commedie di Plauto, nelle quali è la polimetria più ricca; vi appaiono combinazioni m. e ritmiche talvolta difficili a intendersi. La polimetria plautina scompare rapidamente mentre la letteratura latina si adegua sempre più strettamente ai modelli greci: Ennio accoglie l’esametro come verso epico; la poesia neoterica del 1° sec. a.C., di cui esponente più significativo è Catullo, imita i poeti ellenistici nel distico elegiaco e nei versi della lirica eolica usati senza vincolo strofico (falecio, asclepiadeo ecc.) o nella forma propria di Saffo e Alceo; Orazio codifica questa m. in forme che saranno poi definitive per la tradizione letteraria latina.
Nell’età adrianea (2° sec. d.C.) la ripresa dell’arcaismo fa riapparire una m. lirica più libera, sul tipo dei più arcaici neoteroi, come Levio; ma, scomparendo progressivamente il senso della quantità, gli schemi si fanno sempre più artificiosi e applicati scolasticamente, finché in un poeta come Commodiano (fine 3° sec. d.C.) lo schema quantitativo appare dissolto e il verso costruito soprattutto sugli accenti. L’accento ritmico coincide con quello tonico, la m. quantitativa diventa accentuativa, l’intonazione musicale si perde a favore di un accento di tipo intensivo.
L’inosservanza della quantità diviene un fenomeno generalizzato nei poeti cristiani: se Commodiano ne è l’esempio più evidente, trascuratezze via via più frequenti, pur accampando un formale ossequio verso almeno le più elementari regole prosodiche, mostrano versificatori come Paolino di Pella, Venanzio Fortunato. Venendo meno il senso della quantità e dell’armonia classica, qualunque schema isosillabico (con lo stesso numero di sillabe) ripetuto in forma costante e fortemente scandito in clausola (chiusa ritmica) fu sentito come poetico: da qui la fortuna, in età altomedievale, di una produzione poetica strutturata in base a tipologie ritmiche semplici ed espressive, come gli inni ambrosiani.
La sillaba breve si indica con il segno ◡; la lunga con il segno _. La sede del verso in cui si può indifferentemente trovare una sillaba lunga o breve (ancipite) si indica sovrapponendo i due segni ✂ o ✂: lo stesso per l’equivalenza tra lunga e due brevi ✂ o ✂. Le sedi ‘libere’, come la cosiddetta base eolica, o le sedi delle varie forme di dimetro in cui si trovano indifferentemente una lunga o due brevi (o una sola breve), si indicano solitamente sovrapponendo i segni ✂; ma anche col segno ×. Altri segni sono per la cesura (pausa nel corso del verso, a fine di una parola nell’interno di un piede) ∣; per la dieresi (pausa che cade alla fine di una parola e di un piede) ∥; per la catalessi (fenomeno per cui un verso si presenta abbreviato nel piede finale di uno o due tempi: in syllabam, quando l’ultimo gruppo è ridotto a una sillaba sola; in dissyllabam, quando è ridotto a due sillabe) ⋀; per il ponte (sede del verso dove non si ammette fine di parola) ⋃.
Per le quantità irrazionali (allungate dalla musica) si usano i segni ✂ (lunga di 3 tempi), ⊔ (di 4 tempi), ✂ (di 5 tempi).
Nel Medioevo la conoscenza metrica classica viene dimenticata, insieme al senso delle opposizioni di quantità sillabica e vocalica proprie del latino classico; la ripristinerà l’Umanesimo, ma per vie dotte e libresche. Del resto nel latino parlato, già dai primi secoli d.C., nel sistema delle vocali aveva avuto inizio una trasformazione, conclusasi con il prevalere del timbro e dell’accento intensivo a scapito della quantità vocalica, persa al pari di quella sillabica. Fra tutti gli inni attribuiti dal Medioevo a s. Ambrogio, mentre i pochissimi sicuramente autentici rispettano ancora la m. classica, quelli di fattura posteriore (5° e 6° sec.) mostrano la compresenza del nuovo principio ritmico e dell’antico. Il Salmo abbecedario (intorno al 393) di s. Agostino, insieme all’assonanza, ha il nuovo ritmo. I trattatisti hanno coscienza del fenomeno fino dal 4° sec., quando contrappongono al metro, sempre ritmato e misurato, il rhytmus volgare, popolare, ritmato ma mai misurato: infatti, al posto della misura della quantità, il ritmo nuovo presenta il conteggio delle sillabe, cioè una nuova forma di misura. Beda, che per primo appare consapevole del numerus syllabarum quale nuovo principio informatore, osserva che il rhytmus, di fattura «rustica» presso i poeti volgari, è nobilitato dagli scrittori dotti secondo i metri giambici e trocaici dei classici. Effettivamente, degli schemi classici, una volta scomparso il senso vivo della quantità, non rimaneva nella lettura che quel certo numero o cadenza di arsi o di tesi, con le quali, specie nella chiusa di verso, bastava far coincidere rispettivamente le sillabe accentate e quelle atone per ottenere la nuova ritmica. In tal modo finirono col prevalere alcuni tipi di versi e di piedi finali, e si diffusero, trasformati, in particolar modo gli schemi giambici, trocaici e asclepiadei.
Attraverso l’innografia e il canto liturgico, la ritmica entra nelle scuole ecclesiastiche a far parte dell’insegnamento ufficiale, e a servizio del canto si arricchisce di nuove forme. Nelle composizioni di contenuto laico si riflettono con maggiore risolutezza i modi di una cultura più vicina al tipo popolare. Nella poesia goliardica sono portati a maturità estrema gli elementi del rhytmus: l’accento ritmico, lo schema sillabico, l’assonanza, la rima e la formazione strofica. Con questa ritmica, che si serve ancora del latino, la più antica versificazione romanza presenta non poche affinità, storicamente confortate dall’azione culturale della Chiesa: i primi poemetti in francese riecheggiano ritmi bassolatini. Ma in certe zone tipiche della cultura più propriamente popolare e giullaresca si avvertono forme e schemi risolutamente differenti, che presuppongono un’elaborazione indipendente da quella subita dai ritmi in latino. Mentre dalla m. classica si può giungere a questi ultimi per via evolutiva, prima della versificazione romanza si avverte uno iato profondo, che non si può colmare col solo tramite della ritmica latina medievale. Nella Chanson de Roland e nel Cantar de mio Cid i versi non sono isosillabici, perciò l’elemento accentuativo ha minor rilievo dell’assonanza che è il nesso principale della composizione. Sicché l’isosillabismo sembra soltanto una fase terminale nella storia della versificazione romanza, la quale, essendo alle origini strettamente connessa col canto e la cantilena, doveva compensare ovvero integrare l’anarchia sillabica con il rilievo e la estensione della modulazione musicale, a noi purtroppo scarsamente nota, che la recitazione più tardi verrà a sostituire. Al differenziamento delle versificazioni romanze dovettero contribuire, a parte l’indole e il gusto particolari degli autori, le diversità tra lingua e lingua a proposito della struttura sillabica e accentuativa della parola, cioè lunghezza della parola, collocazione dell’accento su di essa, tipi di sillabe finali e loro frequenza.
In Italia, dopo che, sino al 12° sec., i componimenti poetici in latino ebbero osservato o la m. quantitativa classica, oppure la nuova m. latina ritmica e rimata, rimangono, della primissima poesia volgare, componimenti d’incerta m. (ritmo laurenziano, ritmo cassinese, ritmo di Sant’Alessio). Ma la letteratura in volgare della seconda metà del Duecento presenta già molti caratteri metrici che rimarranno costanti: a) presenza di pochi versi fondamentali, fra i quali ne primeggiano due (endecasillabo e settenario); b) scarsa o nulla variabilità dei versi stessi nella struttura esterna; c) presenza di una varietà relativamente maggiore di forme strofiche (terzina, quartina, sestina, ottava) e di componimenti (ballata, canzone, sonetto, madrigale, strambotto, contrasto, sirventese ecc.), tra cui quelle che rimarranno fondamentali si affermano quasi tutte entro la prima metà del Trecento e mutano poi solo nel tono e nell’uso letterario; d) predilezione per la rima e per le forme chiuse, anch’esse destinate a durare con qualche crisi sino alle soglie del 20° secolo.
Verso base della canzone, del sonetto, della terzina ecc., l’endecasillabo si afferma già alla fine del Duecento come il principale dei versi italiani, insieme al settenario, a esso simile per struttura e variabilità melodica, con esso destinato ad armonizzarsi naturalmente nella canzone e, fino a una certa epoca, nel dramma (ha nel Tesoretto di B. Latini un uso narrativo-didattico rimasto isolato). Assai importante sarà anche il suo uso nella melica del 18° e 19° secolo. Il novenario, dopo un abbandono di secoli, piacerà per le singolari possibilità melodiche all’arte metrica libera e dotta insieme di G. Carducci, G. Pascoli e G. D’Annunzio. L’ottonario, il decasillabo, usati alle origini, caddero presto in disuso e furono riesumati dall’aspirazione popolare-medievalizzante dell’Ottocento (G. Manzoni, G. Berchet, Carducci). Nel Duecento anche la ballata (o canzone a ballo) ha notevole importanza quantitativa e qualitativa. La canzone si avvia subito a divenire la forma tipica dell’alta lirica, destinata a esercitare, per le sue possibilità di molteplici variazioni, l’inventiva metrica di poeti tecnicamente dotati.
A metà del Duecento appare il sonetto, anch’esso immediatamente assunto dalla letteratura d’arte, tuttavia non privo, per la sua stessa limitatezza, di un certo carattere intermedio o addirittura vicino a un gusto meno solenne e più comune. Il sonetto costituisce il maggior contributo italiano, insieme con l’endecasillabo (soprattutto nella particolare forma dell’endecasillabo sciolto), alla m. europea. Lo stesso endecasillabo è alla base delle altre due grandi strofe che, affermatesi nella prima metà del Trecento nella letteratura d’arte, percorrono tutta la letteratura italiana fino all’Ottocento avanzato: la terzina e l’ottava.
Legata al nome e al prestigio di Dante, la terzina (o terza rima), forma anch’essa assolutamente isosillabica, strettamente rimata e conclusa, diviene dapprima metro tradizionale del poema allegorico con gli imitatori di Dante, col F. Petrarca dei Trionfi e con G. Boccaccio; è ripresa in tono simile da N. Machiavelli; è adottata per le sue satire di tono conversevole da L. Ariosto (che l’aveva utilizzata anche per l’elegia), e in forma più evidentemente burlesca da F. Berni. Nello stesso Cinquecento, la terzina appare anche in componimenti didascalici, ma non allegorici, come La balia e Il podere di L. Tansillo. Tornerà infine a un tono esteriormente più vicino alle origini dantesche con il settecentista A. Varano, finché V. Monti farà della visione in terza rima la sua forma preferita. Oltre che come cofondatore della lunga tradizione della terzina, Dante rimane nella storia della m. come autore, con il De vulgari eloquentia, di una trattazione metrica (sulla canzone).
A Boccaccio si deve l’affermarsi dell’altro gran metro della poesia italiana, l’ottava. Il carattere schiettamente narrativo dell’ottava (più precisamente legato all’argomento mitologico, cavalleresco e genericamente avventuroso) non si smentisce quasi mai in tutta la sua lunga tradizione: tratta a un tono eroicomico nel Seicento con A. Tassoni e nel Settecento con C. Gozzi e N. Forteguerri, tornò come metro narrativo nell’Ottocento con V. Monti, C. Porta (dove s’incontrò col dialetto e col realismo), T. Grossi.
Il Quattrocento riprende forme strofiche suscettibili di assumere il tono popolareggiante di cui si compiacciono in questo secolo anche i poeti d’arte (ballate, rispetti, strambotti, canzonette ecc.). La più viva novità portata dal secolo consiste nei tentativi di più stretto congiungimento fra poesia e musica in componimenti di cui diviene peculiare la materia idillico-amorosa. Questa tendenza prende forma nei metri sopra citati, ma soprattutto nella caccia, serie di versi di varia e non regolata misura, che è metro interessante in quanto indica la tendenza a una musicalità più pronunciata. Vi furono vari tentativi, coerenti col classicismo cinquecentesco, di trasferimento di elementi della tecnica metrica latina alla m. volgare.
Il desiderio inconscio di libertà dalla rima e di novità porta alla creazione e affermazione dell’endecasillabo sciolto, la più importante creazione metrica del Cinquecento (trasmessa anche, con grande successo, alla poesia inglese), opera di G.G. Trissino che raggiunge maggior prestigio letterario nella traduzione dell’Eneide di A. Caro, dove si profila più evidente la sua condizione di verso italiano corrispondente all’esametro; infine passa a T. Tasso. Nello stesso tempo si rivela metro adatto al dramma (per la sua linearità sarà poi il metro della tragedia alfieriana) e si affianca alla terzina nella poesia didascalica (G. Rucellai, L. Alamanni ecc.): per questa via giungerà nel Settecento all’alta didascalia del Giorno di G. Parini, e poi dei Sepolcri e delle Grazie di U. Foscolo. Con Tasso si affermano i versi spezzati che entrano l’uno nell’altro, gli enjambements cioè, così cari poi alla poesia moderna.
Il Seicento non manca di dare qualche novità interessante: l’ode pindarica insegna un’audacia di trapassi (evocata anche dalla struttura strofica) che avrà influsso su Parini e Foscolo. L’altro genere di ode, quella oraziana, gnomica e didascalica, rievocata in lingua latina dagli umanisti, viene profondamente italianizzata da G. Chiabrera, che la compone in strofe di versi brevi con sedi fisse per i versi sdruccioli, piani e tronchi, e si prepara anch’essa alla maggior gloria del Settecento e dell’Ottocento (Parini, Monti, Foscolo, fino a G. Carducci, G. D’Annunzio e G. Pascoli). La canzonetta anacreontica, stimolata dall’influsso della Pléiade, riprende il tentativo di un più immediato congiungimento tra poesia e musica, già profilatosi nel Quattrocento. La canzone libera di A. Guidi, di scarso valore in sé, lascia pur nella tradizione qualcosa cui si appiglierà, per approfondirla, G. Leopardi. Privo di grandi novità metriche il Settecento, se si escluda il fallito tentativo di P.I. Martello d’introdurre l’alessandrino francese (doppio settenario) come metro drammatico.
All’inizio dell’Ottocento appare qualche segno di rinnovamento: tra i metri brevi e cantabili si schiera, accanto alla canzonetta, l’inno, che riceve un timbro più vibrato dagli spiriti politici cui si conforma; con Monti, la comparsa di narrazioni in versi, in terzine, in sciolti e in ottave prelude alla narrativa in versi cara al Romanticismo. Quest’ultimo procede in complesso verso forme più sciolte, riesumando la ballata, o meglio dando questo nome, indice di volontà medievalizzante e popolareggiante, a una nuova forma di narrazione fantastica in versi rapidi; crea la romanza, sempre in versi brevi tra cui risalta l’ottonario; non disdegna i polimetri (pressoché ignoti alla m. classica) derivanti anch’essi da un evidente desiderio di drammatizzazione; con la novella in versi, e più particolarmente in ottave, richiama in certo modo le strofe al primitivo tono dimesso e conversativo dei cantari. Il richiamo a moduli metrici tradizionali denuncia un bisogno, pur nel rinnovamento, di ancoramento alla storia.
Da ricerche di metri medievalizzanti (lasse di decasillabi nel coro del Carmagnola e di dodecasillabi nel primo dell’Adelchi) non fu alieno A. Manzoni, che però se ne servì per autentiche necessità poetiche, essendo in grado di condurre alla più alta forma artistica anche l’inno civile e quello sacro, liberamente conformati quanto alla scelta del verso e della strofe.
Ma l’epoca del Romanticismo compì quella che è forse la sua più duratura e coerente innovazione nel campo della m. con G. Leopardi, che conferì prestigio artistico alla canzone libera. Neppure questa è tuttavia staccata dalla tradizione per la presenza di versi classici, come l’endecasillabo e il settenario, di una sistemazione strofica essa pure arieggiante quella classica, e della rima, sia pure sporadica e libera; ma è nuova nell’indeterminata libertà che presiede all’uso di questi elementi, regolato solo da una necessità interna. La volontà innovativa romantica agisce in vari modi: nelle abili ricerche di N. Tommaseo, in quelle estrose di G. Giusti, nelle rinnovate esigenze di musicalità evidenti nei versi di G. Prati e di A. Aleardi. Nuova persistente vitalità al di fuori degli schemi petrarchistici mostra il sonetto, ora capace di legarsi al dialetto e al realismo con G.G. Belli, e poi con R. Fucini e C. Pascarella. L’evoluzione romantica appare inconsciamente continuata da Carducci come nella poesia così nella m. barbara: esperimento apparentemente anch’esso richiamantesi alla tradizione, addirittura a quella classicistica, in realtà espressione di un desiderio di più ampia libertà.
Senza il tentativo di Carducci (che continua d’altra parte a esser largamente fedele agli antichi metri italiani), riuscirebbe difficile spiegare la m. pascoliana, liberamente e variamente spaziante tra forme classiche e medievali, sottoposte a personale rielaborazione e interpretazione. Biforme appare la m. dannunziana: da una parte riesumante, per amor di preziosismo, le forme tradizionali rimate e chiuse, dall’altra protesa al verso libero mutuato da W. Whitman e dai Francesi, adatto per D’Annunzio a seguire il ramificarsi delle metafore e la ricerca di musicalità (soprattutto nelle Laudi). Con D’Annunzio è aperta la strada all’affermazione del verso libero, sbocco nel campo metrico del progressivo processo romantico di liberazione del poeta da ogni schema prestabilito e fisso. In seguito il verso libero acquista una musicalità, rispetto a quella dannunziana, più interna e discreta, anche per effetto della sopravvenuta ricerca di essenzialità secondo l’insegnamento vociano (la corrente letteraria che ebbe espressione nella rivista La voce) e poi ermetico. I frammentisti (➔ frammentismo) tendono per una breve stagione a evitare anche il verso libero, ricorrendo alla prosa lirica; ma le tendenze successive sono invece per forme articolate, distese, o addirittura per il poemetto narrativo, libero però da schemi tradizionali.
Solo nella prima fase la versificazione delle lingue germaniche rimase non turbata da modelli stranieri. Le possibilità ritmiche delle antiche lingue germaniche sono legate all’accento intensivo che colpisce la sillaba radicale che è nella maggior parte dei casi anche iniziale. Difatti il ‘verso breve’, che è membro metrico fondamentale dell’antica poesia, si suddivide in due parti, ognuna delle quali comincia con una sillaba fortemente accentuata; ogni battuta a sua volta è riempita ritmicamente con grande libertà nel numero sillabico; e quindi, nel caso di battuta polisillabica, si può sviluppare un accento secondario. L’arsi del verso breve può essere preceduta da un’anacrusi (Auftakt) che può giungere a comprendere fin 5 sillabe. Due versi brevi costituiscono un periodo ritmico: il ‘verso lungo’, che ha dunque il seguente schema:
(−)−̈/−̈//(−)−̈/−̈.
La linea ritmica risulta molto mossa e frastagliata, proprio l’opposto della levigatezza e precisione giambica o trocaica. L’accento intensivo radicale ha favorito l’uso dell’allitterazione (Stabreim) che con la sua enfasi sostiene tutto l’arco ritmico del verso, compensando così la mancanza di altri elementi segnaletici.
Nel verso lungo della versificazione nordica è regola che la prima arsi del secondo verso breve (quella che in islandese antico era detta lettera principale) rimi per allitterazione con una o con entrambe le arsi del primo verso breve (dette appoggi). In sostanza, la m. è essenzialmente accentuativa. Pertanto è osservata rigorosamente la scelta delle parole, in modo che accento di parola e arsi metrica coincidano. Tale coincidenza e la libertà nelle tesi contrassegnano la versificazione germanica.
Passi verso la costruzione di strofe si osservano già nell’antica Islanda, ma la fioritura più ricca si ebbe con il Minnesang tedesco. Strutture sostenute e complesse emersero nella poesia inglese epica e drammatica del tardo Medioevo.
I primi influssi stranieri considerevoli vengono dall’innica latina tarda col dimetro giambico che, adottato da Otfrid (860 ca.), fa dimenticare per la prima volta l’allitterazione e induce alla rima. Con il 12° sec. comincia l’influsso dei metri di Francia. Verso il 1540 giunge in Inghilterra l’endecasillabo sciolto italiano e Olanda e Germania adottano versi madrigaleschi atti al canto. Sul continente domina nell’età barocca l’alessandrino francese, mentre nel Romanticismo si affermano la stanza e il sonetto e dalla Spagna giunge l’ottonario trocaico. Un tipo metrico a parte è costituito dai ritmi liberi, che con i loro forti contrasti di tempi possono rasentare le tendenze espressive del germanico antico.
Nel territorio abitato da popolazioni parlanti lingue slave si possono agevolmente circoscrivere due aree, che presentano caratteri peculiari sia per quanto concerne il tipo della poesia popolare sia per quanto riguarda la posizione dell’accento nella parola. Il quadro complessivo rispecchia la situazione seguente: nell’area sud-orientale, comprendente le terre a lingua serbo-croata, bulgara, ucraina e russa, si nota prevalenza di poesia epica e accento libero e mobile; nell’area occidentale, che abbraccia le sfere linguistiche polacca, ceca, slovacca e lusaziana, alla predilezione per la poesia lirica fa riscontro un tipo di accento fisso (sulla prima sillaba in ceco, slovacco e lusaziano; sulla prima sillaba nei tempi antichi, ma attualmente sulla penultima in polacco). Nelle zone di confine (Slovenia, Bielorussia) si nota la prevalenza di poesia lirica e accento libero e mobile.
Un terzo elemento poetico caratterizza il distacco tra le due parti: il diverso comportamento nei confronti della rima. Mentre nella poesia popolare slava occidentale essa è indispensabile, in quella sud-orientale non solo ha un rilievo del tutto secondario ma, in determinati casi, è addirittura espressamente vietata (composizioni epiche meridionali). Alquanto problematici appaiono pertanto i tentativi miranti a ricostruire un fondo metrico slavo comune. Alcuni studiosi sostengono che la m. slava originaria si basasse sia su versi con numero fisso di sillabe (fenomeno pressoché costante in Occidente) sia su versi con numero imprecisato di sillabe (caratteristici dei poemi epici orientali e, in parte, meridionali). D’altro canto nei diversi paesi slavi i sistemi metrici assunsero assai per tempo aspetti autonomi, determinati non solo da evoluzioni interne, ma anche da influssi di letterature straniere. Risultati più concreti si possono pertanto ottenere attraverso l’analisi delle condizioni riscontrabili presso le singole nazioni. Nell’area sud-orientale la forma metrica più anticamente attestata è quella delle poesie paleoslave, di contenuto sacro, prive di rima e composte da versi di 12 sillabe, di evidente derivazione bizantina: dopo aver avuto una certa fioritura verso il 10° sec., tale sistema metrico andò dileguandosi nell’età successiva.
Le composizioni popolari epiche russe (byliny o stariny) sono scritte in versi non rimati di varia lunghezza. Dato il carattere essenzialmente recitativo di tali poemi, solo nella parte finale del verso si nota una relativa costanza nel numero e nella posizione degli accenti, mentre, negli altri piedi, si alternano liberamente, fuori di qualsiasi norma, sillabe accentate e sillabe atone. Tra la seconda metà del 18° sec. e la prima metà del secolo successivo, il tipo più frequentemente ricorrente fu quello giambico, ma anche il piede trocaico trovò larghe possibilità di impiego. Attorno alla seconda metà del 19° sec. si diffusero inoltre i piedi dattilici, che, in un primo momento, seguirono rigorosamente lo schema _◡◡ (sillaba accentata + atona + atona), mentre verso il 20° sec. le posizioni brevi cominciarono ad ammettere anche sillabe accentate. Nella produzione novecentesca, accanto ai versi sciolti, registrati in tutta la storia della poesia russa, figurano anche tipi di versificazione nei quali l’unica costante fissa è rappresentata dal numero degli accenti; questi ultimi possono però distribuirsi liberamente sulle varie sillabe.
Le poesie popolari bulgara e ucraina conoscono versi con numeri di sillabe fisse, forniti o meno di cesura. I piedi bisillabici o trisillabici, diffusi dalla poesia ottocentesca russa, furono adoperati anche in Bulgaria e Ucraina dal 19° sec. in poi, alternandosi tuttavia con tipi metrici di ispirazione popolare. Il più comune verso popolare serbo-croato è il decasillabo, che presenta due varietà: con cesura dopo la quarta sillaba (componimenti epici) oppure dopo la quinta (poesie liriche). Esistono tuttavia anche versi più lunghi (bugarštice), che posseggono, in genere, 15 o 16 sillabe, ma possono anche presentare una o due sillabe in più o in meno.
La m. della più antica poesia dotta croata, che ebbe la sua fioritura, tra il 15° e il 17° sec., lungo il litorale dalmata, si ispirò essenzialmente agli schemi popolari. Per influsso di modelli stranieri, generalmente russi, si ebbe, nel 19°-20° sec., qualche tentativo di versificazione fondata sul principio dell’accento in posizioni fisse. La moderna poesia serbo-croata si serve prevalentemente di versi liberi.
L’influenza dei sistemi metrici russi è avvertibile anche nella poesia polacca, nella quale si è tentato di introdurre un tipo di verso basato sulla regolare alternanza di sillabe costantemente accentate e atone. Peraltro, la poesia polacca, dotta o popolare, si attiene a un criterio sillabico oppure a quello del verso libero, tornato in auge specialmente negli ultimi decenni del 20° sec. per effetto di influenze straniere.
Nei canti popolari cechi e slovacchi è avvertibile una certa tendenza a dividere i versi in due o più piedi. Il metro letterario ceco e slovacco presenta d’altro canto caratteri analoghi a quello polacco. Nei tempi più antichi il verso più diffuso fu l’ottonario, impiegato sia in composizioni satiriche e moralistiche sia in poemi epici.
Nell’Oriente anteriore antico, la poesia non presenta sicuri elementi quantitativi o accentuativi: è riconoscibile essenzialmente per l’uso del cosiddetto parallelismo dei membri, cioè per la ripetizione dei concetti in due o più stichi (successione di versi uguali), mediante espressioni sinonimiche o antitetiche. Tale è la natura della poesia egiziana, della sumerica e della accadica che da quest’ultima dipende.
La poesia ebraica s’inquadra nella tradizione ambientale con alcune peculiarità. Il parallellismo dei membri fa sì che la frase si svolga per serie di due versetti, il secondo dei quali ricalca in vario modo l’andamento del primo, con il risultato di una generale simmetria espressiva; il numero delle sillabe è vario. Sono stati compiuti molti studi su un’eventuale presenza di elementi quantitativi e accentuativi nella poesia ebraica: mentre sotto il primo punto di vista non si giunge a risultati soddisfacenti, sotto il secondo si rivela il ripetersi di ritmi di 3+2, 3+3, 3+4, 4+3, 4+4 accenti per coppia di stichi. Una divisione in strofe è possibile, come mostra la presenza di notazioni distintive e di ritornelli.
Una m. più evoluta e definita nei suoi elementi è quella, già medievale, degli Arabi (‛ilm al-‛arūḍ «la scienza della metrica»). Pochi sono i trattati di m. attribuibili all’opera di filologi arabi. Perduto il Kitāb al-‛arūḍ di al-Khalīl (8° sec.), considerato il fondatore della scienza della m., gli studi più antichi conservati vanno dalla fine del 9° sec. all’inizio del 10°. La m. araba si fonda sulla quantità sillabica e presenta un ricco sistema di metri, i cui piedi sono analoghi nel tipo a quelli greci e latini. Il verso più semplice è il ragiaz, un trimetro giambico; gli altri, più complessi, si presentano sempre accoppiati in distici e sono, secondo il sistema tradizionale, di 15 tipi diversi, con varianti entro uno stesso tipo. Altra caratteristica della poesia araba è l’uso della rima, la quale, nella poesia d’arte, è unica per l’intero componimento.
Delle altre poesie del Medioevo semitico, l’etiopica, sempre cantata e legata al rituale ecclesiastico, ha versi di lunghezza variabile, a due o tre arsi fortemente marcate, mentre le sillabe intermedie, anche se lunghe e accentate, possono essere conguagliate nella modulazione del canto; la rima è presente in alcuni tipi, manca in altri.
La poesia siriaca, inizialmente libera nel numero delle sillabe, vede presto l’introduzione di un sistema rigido, fondato su un numero di sillabe da 4 a 7, spesso in distici. Se, oltre al numero sillabico, abbia avuto anche elementi accentuativi o quantitativi, è questione non risolta con certezza; la rima vi appare in tardi esempi.
Le più antiche forme metriche documentate sono quelle degli inni vedici, basate sul numero delle sillabe. La strofe (re) si compone di 3 o 4 versi (pāda), che contengono un numero fisso di sillabe (4, 5, 8, 11 o 12), in base al quale si distinguono i vari tipi di strofe; quelli di uso più frequente sono la gāyatrī (3 ottonari), l’anuṣṭubh (4 ottonari), la triṣṭubh (4 endecasillabi) e la jagatī (4 dodecasillabi). La prima parte del verso segue una prosodia libera, nella seconda predomina un ritmo giambico.
In epoca posteriore, nella poesia classica ed epica, si afferma un principio sillabico-quantitativo, o interamente sillabico. I metri postvedici, detti dai grammatici ‘profani’ (laukika), sono divisi tradizionalmente in tre gruppi: matrachandas, cioè metri (chandas) il cui numero di more (sillabe brevi: mātrā) è determinato, variabile solo per fusione di more fra loro; gaṇachandas, il cui elemento costitutivo è il gaṇa, piede di 4 more che può variare numericamente secondo moduli prestabiliti; akṣarachandas, dove il numero di sillabe (akṣara) e la loro quantità rispondono a uno schema fisso. Dall’anuṣṭubh vedico discende il vaktra o śloka, il metro epico per eccellenza, che è un akṣarachandas viṣamavṛtta, cioè con versi tutti diseguali fra loro.
La letteratura vedica tarda, e soprattutto i testi esegetici derivati dai Veda, detti Vedāṅga «membra dei Veda», contengono già elementi di teoria metrica notevolmente sviluppati: una corretta recitazione degli inni non poteva prescindere dalla perfetta conoscenza delle regole metriche. Il Chandaḥsūtra («Aforismi sulla metrica») di Piṅgala (2° sec. a.C.) diede avvio a una vasta letteratura sull’argomento.
Il testo dell’Avesta, il complesso dei libri sacri dello zoroastrismo, ci è giunto in condizioni che non consentono di distinguere sempre le parti versificate da quelle prosastiche, né di individuare con sicurezza la struttura metrica delle composizioni certamente in versi come le Gatha e gli Yasht; in queste si ravvisa una m. somigliante a quella vedica: s’incontrano strofe di 3 versi di 16 o 15 sillabe, strofe di 5 versi di 11 sillabe, strofe di 4 versi di 11 o 12 sillabe ecc. Negli Yasna prevale un verso di 8 sillabe. Ancora maggiore incertezza si ha sulla m. mediopersiana. Quella neopersiana segue gli schemi m. della poesia araba.
La m. cinese, in base alla struttura monosillabica della lingua, esclude sia il principio quantitativo (distinzione tra vocali lunghe e brevi) sia quello accentuativo (distinzione tra sillabe toniche e atone): il ritmo si fonda sull’alternarsi di parole più o meno accentate, corrispondendo ogni parola, ossia ogni sillaba, a un piede. La lunghezza del verso varia: 2-4-8 sillabe negli antichi canti dello Shijing; 5-7 presso i lirici d’epoca Tang (618-907 della nostra era); si usano la rima e il raggruppamento strofico.
Il principio dominante è quello sillabico; la naga-uta consta di una serie di versi di 5 e 7 sillabe alternati; la tanka ha lo schema fisso di 31 sillabe, distribuite in versi secondo il ritmo 5-7-5-7-7; la haikai si limita allo schema 5-7-5; è assente la rima. Nella versificazione ricorre l’uso raffinato delle parole-guanciale (affini all’epiteto omerico) e delle parole-perno, che hanno un duplice scopo o significato.
È una particolare funzione, detta anche distanza, definita nell’insieme A×A e avente valori reali positivi o nulli; in altre parole è una legge che associa un numero reale d(a, b) positivo o nullo a ogni coppia (a, b) di elementi di A. Le particolarità di questa funzione sono in primo luogo la ‘simmetria’, vale a dire che deve sempre risultare d(a, b)=d(b, a); poi la validità della disuguaglianza triangolare espressa dalla formula
d(a, c) ≥ d(a, b)+d(b, c)
e così chiamata con riferimento al caso elementare in cui A è il piano euclideo e si consideri il triangolo di vertici a, b, c; infine deve risultare d(a, b)=0 nel solo caso a=b; se invece si esclude quest’ultima condizione, cioè se si consente che possa essere d(a, b)=0 anche se a e b sono distinti, si parla di pseudometrica. Un insieme qualsiasi A nel quale si sia introdotta una m. diviene uno spazio topologico.
Se l’insieme A prima considerato è, in particolare, una varietà differenziabile Vn, di dimensione n, allora a ogni punto x di V si possono attribuire n coordinate x1, ..., xn, e la m. su V si assegna prescrivendo il cosiddetto elemento d’arco o elemento di lunghezza, ossia una forma quadratica
formula [1]
che esprime, per così dire, la distanza infinitesima tra il punto x di V e il punto prossimo x+dx. Da tale posizione seguono le espressioni di vari concetti metrici quali lunghezza, angoli, aree, volumi, curvature ecc.
Fra i tipi di m. che si possono presentare in una varietà differenziabile, la m. riemanniana è relativa a una forma quadratica [1] definita positiva.
La m. euclidea, il caso più semplice di m. riemanniana; si ottiene quando la [1] si riduce a una somma di quadrati. La somma degli angoli di un triangolo è un angolo piatto. Si ha, in particolare, una m. euclidea su tutte le superfici a curvatura totale nulla, cioè, oltre che sui piani, sui cilindri, sui coni e sulle superfici rigate sviluppabili.
La m. ellittica è un caso particolare di m. riemanniana, in cui la somma degli angoli di un triangolo è sempre maggiore di un angolo piatto. Un esempio di tale m. si ottiene considerando una superficie convessa, per es. una superficie sferica, e definendo in essa come distanza di due punti la lunghezza del più piccolo arco di geodetica che li unisce (nel caso della sfera si tratta di un arco di cerchio massimo).
La m. iperbolica è un altro caso particolare di m. riemanniana, in cui la somma degli angoli di un triangolo è sempre minore di un angolo piatto.
La m. indefinita è una m. non riemanniana, nel senso che la forma quadratica [1] non è più definita positiva ma indefinita.
La m. proiettiva è un tipo di m. che si può introdurre in uno spazio proiettivo in modo da renderlo uno spazio metrico.