Poeta (Sorrento 1544 - Roma 1595). Tra i maggiori poeti italiani del Cinquecento, nelle sue opere appaiono già rappresentate le aspirazioni e le contraddizioni dell'uomo moderno. Dopo la composizione della favola pastorale Aminta (1573), in cui riprese i motivi sentimentali e idillici della tradizione bucolica classica, T. rinnovò il poema cavalleresco con la Gerusalemme liberata (ultimata nel 1575), rielaborazione di un evento storico in cui l'autore inserì temi diversi per presentare la visione di un mondo pieno di conflitti e di contraddizioni, nel quale lottano da una parte le potenze angeliche e il senso cristiano del meraviglioso, dall'altra le potenze infernali e la magia diabolica. T. dedicò gli ultimi anni di vita alla riscrittura delle sue opere e alla composizione di nuovi testi di soggetto religioso.
Figlio di Bernardo e di Porzia de' Rossi, a 10 anni, chiamato a Roma dal padre che vi si trovava in esilio, lasciò la madre, che sarebbe morta nel 1556. Fu quindi a Bergamo, presso la famiglia paterna, e, di nuovo col padre, a Pesaro, Urbino e (1559) a Venezia. Tra il 1560 e il 1565 seguì a Padova (e per due anni a Bologna) studî di diritto e poi di filosofia ed eloquenza; intanto componeva un poema in ottave in 12 canti, il Rinaldo (1562), e versi amorosi per Lucrezia Bendidio e per Laura Peperara. Nel 1565 si stabilì a Ferrara al seguito del card. Luigi d'Este ed entrò subito nelle grazie dei principi, specie di Lucrezia, sorella del duca Alfonso II; intanto lavorava ad alcuni dialoghi e al poema sulla liberazione di Gerusalemme, la cui prima idea risale forse al maggio 1559. Tra il 1567 e il 1570 scrisse i tre Discorsi dell'arte poetica (pubbl. nel 1587). Tra il 1570 e il 1571 andò in Francia col cardinale: frutto del viaggio le acute e realistiche Osservazioni sullo stato di Francia. Nel 1572, lasciato il cardinale, passò tra gli stipendiati di Alfonso, ma senza alcun obbligo se non quello di comporre poesie in onore di casa d'Este.
Dopo il successo dell'Aminta, dramma pastorale da lui stesso fatto rappresentare nel 1573, ebbe ufficio, puramente nominale, di lettore di geometria e della sfera nello Studio; più tardi fu pure nominato storiografo ducale. Sono anni, questi, di vivace fervore, di grande attività artistica: oltre al gran numero di prose e di rime, condusse sino al principio del 2° atto (1574) la tragedia Galealto re di Norvegia, che compirà nel 1586-87 col nuovo titolo di Re Torrismondo (1587); furono soprattutto gli anni della Gerusalemme liberata, finita nel 1575. Ma già in questo anno si hanno i primi sintomi dell'inquietudine e dell'instabilità di propositi che fu propria di T.: avviò trattative per entrare al servizio di casa Medici, andò a Roma per discutervi del suo poema, preso da scrupoli retorici e religiosi. Sottopose la Gerusalemme ad amici e letterati (S. Gonzaga, P. A. da Barga, F. de' Nobili, S. Antoniano, S. Speroni) salvo poi a risentirsi dei loro giudizî. Dubitò della propria ortodossia: si presentò all'inquisitore di Ferrara che lo assolse; ma non se ne acquietò e progettò di appellarsi a Bologna o a Roma: cosa che al duca, figlio dell'eretica Renata, non poteva piacere. Intanto il suo squilibrio psichico si andava accentuando: nel giugno 1577, credendosi spiato, aggredì con un coltello un servo, alla presenza di Lucrezia. Fu allora confinato nelle sue stanze, e in seguito nel convento di S. Francesco; nel luglio 1577 fuggì da Ferrara: solo, senza mezzi, attraversò l'Italia centrale, diretto a Sorrento dalla sorella Cornelia.
Nel 1578 andò di nuovo a Ferrara, miraggio per lui di lusso e di gloria; vero "peregrino errante", ne ripartì dopo poco e si recò in varie città; vi ritornò nel febbraio 1579, mentre la corte era in festa per le terze nozze di Alfonso con Margherita Gonzaga. E siccome nessuno badava a lui, diede in clamorose escandescenze contro il duca e la corte. Fu messo, come pazzo, alla catena, e rinchiuso nell'ospedale di S. Anna, dove, trattato più come prigioniero che come infermo, sarebbe rimasto sette anni. A S. Anna continuò a scrivere: la maggior parte dei dialoghi, lettere a tutti quelli che sperava potessero sollecitare la sua liberazione, circa 650 liriche. Questi scritti, diffondendosi per l'Italia, contribuirono al nascere della leggenda di una falsa pazzia, fatta credere al mondo da Alfonso, per punire il poeta del suo amore per la sorella del duca, Eleonora: leggenda che diventò tema poetico per tutto l'Ottocento. A rendere più gravosa la reclusione, speculatori e ammiratori fanatici cominciarono a pubblicare le opere del recluso, prima tra tutte la Gerusalemme liberata, senza il permesso dell'autore, che a S. Anna se ne disperava. Inoltre, divamparono le polemiche sulla Gerusalemme liberata, che ebbe esaltatori ma anche critici fierissimi, tra i quali L. Salviati e B. De' Rossi, soci della neonata Accademia della Crusca. A una prima Stacciata del Salviati rispose lo stesso T. con una pacata Apologia (1584).
La polemica, che includeva la questione se T. fosse superiore ad Ariosto o viceversa, si protrasse sino al principio del sec. 17°: storicamente assai importante, poiché implicava una presa di posizione pro o contro una poesia come quella di T. che, senza che l'autore se ne rendesse conto, rappresentava una svolta rispetto a quella del Rinascimento, il maturarsi d'un gusto nuovo. Quanto alla Crusca, essa non poteva non difendere l'egemonia letteraria fiorentina, alla quale per la prima volta un grande scrittore si sottraeva sia dal punto di vista linguistico, sia da quello del gusto letterario. Risale forse agli ultimi mesi di S. Anna la mediocre commedia Intrichi d'amore (pubbl. nel 1604), la cui attribuzione è però controversa. Finalmente nel luglio del 1586 Vincenzo Gonzaga, cognato di Alfonso, ottenne di condurre con sé il poeta a Mantova. Di lì egli passò a Roma nel 1587, a Napoli nel 1588; ospitato nel monastero di Monte Oliveto, scrisse il primo libro, che resterà senza seguito, in ottave, sulle origini di quella congregazione. Da Napoli tornò a Roma, dove compose il Rogo amoroso, corresse le sue rime, passando da un protettore all'altro, da una dimora all'altra; poi da Roma a Firenze, dove ritrattò, e ne ottenne in cambio una pensioncina, quel che aveva detto contro i Medici e quella città; di nuovo a Roma (1590), quindi a Mantova (dove compose la Genealogia di casa Gonzaga); ancora per un breve periodo a Roma, fu poi a Napoli, ospite di G. B. Manso, che sarà il suo primo biografo. Qui cominciò le Sette giornate del mondo creato; ma presto andò di nuovo a Roma, dove nel 1593 terminò e pubblicò il rifacimento, iniziato nel 1587, della Gerusalemme liberata, la Gerusalemme conquistata, dedicata all'ultimo suo protettore, il cardinale C. Aldobrandini, nipote del nuovo papa, Clemente VIII. Nello stesso 1593 pubblicò Le lagrime di Maria Vergine (25 stanze) e di Gesù Cristo (20 stanze); nel 1594 il dialogo Delle imprese e i 6 discorsi Del poema eroico, amplificazione dei discorsi Dell'arte poetica; negli ultimi mesi completò il Mondo creato (post., 1607). Infine visse in Vaticano, sempre più ammalato; il papa gli concesse un'abbastanza lauta pensione; si fissò la sua incoronazione poetica. Ma aggravatosi nel marzo 1595, si fece trasportare nel monastero di S. Onofrio sul Gianicolo, dove morì il 25 aprile. Fu sepolto nella chiesa del convento.
L'"Aminta" e la "Gerusalemme liberata". - Elegantissimo gioco poetico è l'Aminta: nel suo genere, perfetto; appunto per l'eleganza e la perfezione, che la Gerusalemme liberata è ben lontana dal raggiungere, la favola pastorale piacque sempre soprattutto ai raffinati, mentre il poema restò per secoli una delle opere poetiche più largamente popolari della letteratura italiana. Anche se non lo sapessimo per via storica, la stessa bella favola dell'Aminta sarebbe là a dirci che essa fu creata per un'ora di spirituale godimento di una brigata sceltissima, colta e omogenea; che fu opera di getto, tanto salda è la sua costruzione, tanto armoniche le sue proporzioni, tanto il suo tono resta caldo e fermo dal primo all'ultimo verso. Il poeta e i suoi ascoltatori non guardano al mondo pastorale con un sorriso di superiorità distaccata, ma neppure, e tanto meno, con ingenuità e abbandono fantastico. Esso è un dato intellettuale, una convenzione leggera. Lo stesso carattere arbitrario di alcune situazioni, l'illogicità di alcuni trapassi, il sapiente intarsio delle reminiscenze letterarie rendono più gradevole il gioco accentuando il carattere squisitamente artificiale della favola. Qua e là persino qualche venatura comica (le uniche, forse, in T.); e più di un guizzo di sensualità repressa e calda; ma tutto ciò appena accennato. L'Aminta non è un dramma: le situazioni drammatiche, che, conformemente alle convinzioni teoriche del poeta, sono più narrate che rappresentate, sono temperate di grazia, addolcite dal lieto fine dell'amore di Aminta per Silvia, un lieto fine pressoché isolato nell'opera di T., che è presentito sin dal principio.
Tutt'altra cosa la Gerusalemme liberata. Sincera fu la religiosità del T. uomo, ma egli sentì Dio sempre come desiderio, non come possesso; tuttavia non osò cantare il suo slancio spesso vano, la freddezza del dubbio. Invece, volle persuadere sé stesso, prima degli altri, di possedere quel che non aveva: sicché, se non sono da negare assolutamente nella Gerusalemme liberata gli spiriti religiosi, è necessario ammettere che la religione vi si riduce spesso a splendore di riti, diventa formalismo esteriore, o si trasforma in superstizione. Mentre l'Aminta era schietta apologia della naturalità dell'istinto contro tutte le costrizioni, il poema ostenta la moralità più rigida, ma si avverte che T. non ha acquistato, e non acquisterà mai, una salda coscienza morale. T. è un poeta sensuale, e la sua sensualità si esaspera nella costrizione, ed è torbida ed estenuante; e le sta sopra assiduamente l'ombra della morte e del dolore: anticipazione romantica, nella quale T. raggiunge spesso i vertici dell'alta poesia. Come li raggiunge nel dar forma e vita a un motivo che gli è caratteristico: il destino in agguato. I suoi personaggi artisticamente più persuasivi sono appunto quelli che si confrontano con un destino fosco, della cui ineluttabilità sono ben consci. E sono gli amanti sprezzati o ignorati, disperati o persi dietro un sogno: Olindo o Erminia, Tancredi o Armida abbandonata. O sono i guerrieri musulmani, Argante o Solimano, combattenti con energia disperata contro un destino che sanno segnato e invincibile; perciò appunto la simpatia del poeta va irresistibilmente verso di essi. Sono questi, la rinuncia elegiaca e la ribellione forsennata, i due aspetti fondamentali sotto i quali anche la sensibilità romantica raffigurerà assai più tardi i suoi eroi.
Una grande stanchezza incombe su T.; nel poema che narra tante morti, la morte non è mai rappresentata come qualcosa di desiderabile. La poesia invece o sbocca nel vagheggiamento di un mondo idilliaco, lontano dalle "inique corti", cioè lontano da quel mondo che era per T. il suo proprio, quello dove soltanto poteva vivere la sua vita in pienezza di godimento e di gloria; o si rifugia nel desiderio della quiete, dell'annichilimento, del "non pensare": supremo desiderio del "peregrino errante", che è anch'esso un presentimento della poesia moderna. Dalle moderne esperienze poetiche risulta altresì illuminato un altro dei caratteri della poesia tassesca, rilevato già dai primi critici, la scarsa concretezza fantastica; quella di T. è una poesia sfumata, fluttuante, che non plasma figure rigorosamente coerenti, non situazioni di plastica evidenza: carattere anche questo che anticipa da lontano esperienze romantiche e anzi decadenti. Torquato è ravvisabile in Olindo e in Tancredi, come lo si può riconoscere in Sveno o in Rinaldo o in Solimano: insegue, nelle vesti di quelli, il suo sogno d'amore impossibile; si esalta, opera, muore con questi per il sogno di una gloria impossibile. Un anelito verso l'altezza; un desiderio di primato assoluto; il tentativo di trascendere la realtà, la meschina vita quotidiana; il bisogno di spezzare le catene, di seguire l'istinto imperioso contro ogni legge; la coscienza dell'impossibilità di tutto ciò; l'evasione nello spettacolo coreografico, nell'idillio, nel fantasticare la bella avventura in paesi lontani, nell'immaginarsi protagonista di sovrumane prodezze; il ripiegarsi per piangere di sé stesso con femmineo accoramento; l'ombra della morte su tutto: questo canta l'autobiografica Gerusalemme liberata. La stupenda poesia di Ariosto non poteva avere storicamente sviluppo; era il frutto saporoso e ultimo di una civiltà e di una sensibilità poetica al loro tramonto; e infatti al di là di essa non vi fu che Tassoni, che rinnegò fino a beffarlo il mondo cavalleresco e avventuroso. Ma al di là della poesia di T., con tutte le sue manchevolezze, ci sarà, sì, il secentismo, che svilupperà alcuni dei caratteri negativi di essa, specialmente stilistici (contrapposizioni, sgambetti, come diceva Galilei; insomma, "concetti"); ma ci sarà anche la grande poesia romantica di tutta Europa, che ne svilupperà i positivi.
Le altre opere. - Nei 26 Dialoghi, che con le lettere (circa 1700) rappresentano la sua più importante produzione prosastica, T. vuol persuadersi e persuadere, su questioni morali, o estetiche, o di vita cortigiana; e se talvolta indulge al sofisma e scambia magari una freddura verbale per valido argomento, per lo più è ordinato, serrato, nitidissimo. T., trascinato alla polemica dagli eventi, oggetto di secolari polemiche, non è un polemista: tutta la sua vita, d'uomo e di scrittore è, all'opposto, nel tentativo di trovare la via media tra opinioni altrui, di conciliare tendenze e convincimenti suoi, in contrasto tra loro nel suo petto. Oscilla dunque tra il platonismo del Rinascimento e l'aristotelismo della Controriforma, e non giunge neppure a un personale eclettismo; s'illude, in particolari problemi, di mettere d'accordo tesi contrastanti. L'arte dei Dialoghi è data dalla gioia del ragionatore che si compiace della sua lucidità e persuasività; dagli abbandoni sentimentali e descrittivi, dalle appassionate confessioni autobiografiche. Queste sono le qualità prime anche delle moltissime Lettere; quando non ragionano, esse imprecano o chiedono o pregano o adulano; con un'assenza tale di veli, che, sapendo quanto anche nello scrivere il più piccolo biglietto T. tenesse d'occhio il gran pubblico al quale lo sapeva o sperava destinato, può sembrare, più che schiettezza, assenza d'intimo pudore. Maggiore importanza del pensatore ha naturalmente il teorico di poesia (Dell'arte poetica; Del poema eroico).
Il Rinaldo è già un compromesso; la sua azione è unica, ma solo "per quanto i presenti tempi comportano"; obbedisce ai precetti aristotelici, ma solo a quelli "i quali non togliono diletto". Allo stesso modo, il poeta canta, e sono gli accenti più persuasivi del poema, la bellezza del corpo umano, la sensualità irrompente e irrefrenabile o ripiegantesi in languore, il lusso stupendo delle feste cortigiane: e premette a tutto ciò spiegazioni allegoriche. Ma la freschezza e l'impeto fanno del poema la cosa migliore che T. ci abbia lasciato se si escludono l'Aminta e la Gerusalemme liberata, dei quali anticipa motivi e movenze.
Per le sue numerosissime liriche encomiastiche, amorose e religiose, il poeta partì dall'ammirazione piena per il letteratissimo monsignor Della Casa, suo autore prediletto di gioventù; nella massima parte esse non testimoniano altro che la sua bravura di esperto artefice di versi. Poesia culta quanto altra mai, tutta la lirica di T.: la parte più viva di essa è nel vagheggiamento cupido o sereno della bellezza femminile, nella sapiente ingenuità dei madrigali, nell'abbandono melico, infine in quel caratteristico procedere per interrogazioni trepide o esclamazioni sbigottite, nelle quali il poeta esprime la sua angosciata meraviglia che il mondo sia così diverso da quello splendido e facile che egli si ostina a sognare sin quasi alla vigilia della morte.
Il giovane T. aveva lasciata incompiuta la tragedia di Galealto; la riprese e completò negli ultimi anni (mutandone il titolo in Re Torrismondo), desideroso di cimentarsi anche nell'altro grande genere di poesia; ma è freddo e impacciato, anche se il tema fondamentale è sempre quello che, dal Rinaldo in poi, lo aveva ispirato, il conflitto degli istinti con la regola: qui, con la legge dell'amicizia che Torrismondo viola, possedendo la donna destinata al suo amico Germondo. Quando poi si scopre essere quella donna, Alvida, sua sorella, l'orrore dell'incesto non è sentito dai due protagonisti, che si uccidono l'una perché si crede abbandonata, l'altro perché non può più vivere senza di lei. L'infelicità di Torrismondo non consiste, come nei Greci che T. imitava, nell'aver trasgredito alla legge morale, ma nel non poter godere della sua felicità: delusione di edonista, non rimorso di uomo morale. La Gerusalemme conquistata è il documento supremo e penoso dello sforzo tassesco di conciliazione. Soppressi gli episodî di Olindo e Sofronia, di Erminia tra i pastori, ecc., nei quali meglio nella Gerusalemme liberata si era espresso, maggior posto è lasciato alla religione formale, all'allegoria, all'imitazione omerica e virgiliana; tutto è levigato da un freddo processo di razionalizzazione e di regolarizzazione.
Quanto più T. procede negli anni, quanto più la vita gli nega quello che ha aspettato, quanto più aspre si fanno le sue traversie e gli si palesa l'impossibilità di trovare quaggiù un approdo, tanto più si volge a Dio. Ma la sua religiosità resta sempre quel che era nella Gerusalemme liberata: bisogno, non sentimento e possesso di Dio. Egli passa dallo scetticismo sereno e areligioso dell'Aminta alla Liberata, al formalismo della Conquistata, ai molti componimenti religiosi degli ultimi anni, al Monte Oliveto, al Mondo creato, un De rerum natura cattolico; ma le "cangiate rime" si fanno sempre più letterarie e fredde; e solo le avviva il senso sempre più desolato della caducità di tutte le cose. L'unica raccolta completa delle Opere di T. è quella curata da G. Rosini (33 voll., 1821-32). Tra le edd. successive si segnalano (con l'indicazione dei curatori in parentesi): la raccolta delle Lettere (5 voll., 1852-55, C. Guasti); l'ed. della Gerusalemme conquistata e del Rinaldo (1934 e 1936, L. Bonfigli); le edd. critiche del Mondo creato (1951, G. Petrocchi), della Gerusalemme liberata (1957, L. Caretti), dell'Aminta (1957, B. T. Sozzi), dei Dialoghi (3 voll., 1958, E. Raimondi), dei Discorsi dell'arte poetica (1964, L. Poma).
La leggenda degli infelici amori di T. con Eleonora d'Este ispirò varî scrittori del 18° e 19° secolo, che videro in T. il prototipo del poeta solitario, infelicemente innamorato, vittima dell'ambiente in cui è costretto a vivere, incompreso e deriso dai potenti, oggetto di invidia: il prototipo dell'artista che, per essere tale, non può non essere infelice. Sul tema del T. scrissero C. Goldoni (la commedia T. T., 1755), G. Compagnoni (Le veglie del T., 1799-1800), G. Byron (il poemetto The lament of T., 1817), A. Nota (il dramma T. T., 1834), P. Giacometti (la tragedia T. T., 1856), ecc. Tra le opere musicali si ricordano il melodramma T. T. di G. Donizetti (1833), su libretto di I. Ferretti, e il poema sinfonico di F. Liszt T., lamento e trionfo (1849). Ma fra tutte queste interpretazioni della figura di T. eccelle quella che, con potenza di analisi psicologica e di rappresentazione drammatica, J. W. Goethe tracciò col dramma T. T. (1807).