Lo stesso che poesia lirica, nei due distinti significati, di poesia che in origine, presso i Greci, veniva cantata con l’accompagnamento del suono della lira, e di poesia affettiva, nella quale prevale l’espressione della pura soggettività del poeta.
Nella tradizione greca l’aggettivo lirico, affermatosi in età alessandrina con riferimento a quei componimenti che più anticamente erano chiamati μέλη (sing. μέλος), non indicò un particolare aspetto dell’espressione poetica che si contrapponesse al narrativo e al rappresentativo (narrativa è spesso anche la l., specialmente la corale, giacché il mito fu considerato dai Greci come elemento essenziale di ogni creazione poetica, e alcune forme liriche, quali il nomo e il ditirambo, hanno aspetti drammatici che le accostano alla tragedia), anzi, a stretto rigore, non designò un vero e proprio genere letterario, ma servì a indicare piuttosto una forma d’arte composita, nascente dal concorso simultaneo di poesia e musica, opera di artisti che creavano insieme i versi e la melodia. Non rientrano dunque nel concetto greco di l., quale appare fissato anche nei canoni alessandrini, forme che sarebbero liriche per noi, come l’elegia, il giambo, l’epigramma, perché in esse l’espressione poetica non si risolve nel canto, nel μέλος. Nella l. i filologi alessandrini e la successiva tradizione scolastica distinsero due correnti diverse: la l. (o melica) corale, destinata al canto di un coro (Terpandro, Alcmane, Arione, Ibico, Stesicoro, Simonide di Ceo, Bacchilide, Pindaro), e la l. (o melica) monodica, da cantarsi a una voce (Alceo, Saffo, Anacreonte), denominazioni abbandonate successivamente, preferendosi parlare semmai, rispettivamente, di una scuola dorica e di una eolica.
Caratteristica della l. corale o dorica è una molteplicità di forme legate a particolari occasioni, spesso feste religiose, a cui tutta la città partecipava e in cui il coro, opportunamente istruito, si esibiva cantando e accompagnando il suo canto con movimenti di danza. Sono queste: l’encomio (canto celebrativo), l’epicedio (o treno: canto funebre), l’epinicio (canto per vittorie negli agoni), l’epitalamio e l’imeneo (canti nuziali), l’inno (canto in onore di dei o semidei), l’iporchema (canto per danze mimiche), il partenio (coro di fanciulle), il peana (canto in origine in onore di Apollo, poi canto di guerra, di vittoria, di salvezza), il prosodio (canto processionale), lo scolio (canto del banchetto). Altre, quali il nomo (la forma più antica di l. corale) e il ditirambo (canto in onore di Dioniso), avevano aspetti drammatici; probabilmente al ditirambo (certo a una forma di l. corale) si riconnette l’origine della tragedia; le parti cantate della tragedia, del dramma satiresco, della commedia si collocano senza dubbio nella tradizione di questa lirica. Dal punto di vista linguistico, caratteristico di essa è il dialetto dorico (anche solo una coloritura, come nelle parti cantate della tragedia); metricamente, essa si distingueva per la libertà degli schemi metrici (l’ampia triade strofica articolantesi in strofe, antistrofe ed epodo; nelle cantate della tragedia si ha più spesso una partizione binomia di strofe e antistrofe), libertà che di volta in volta trovava norma e limitazione nelle esigenze del canto e della danza.
La poesia monodica o eolica (eolici in realtà Saffo e Alceo, ionico Anacreonte), come aveva carattere di maggiore immediatezza, quindi di liricità nel senso che diamo noi a questa parola, così metricamente si articolava in brevi strofe, per lo più tetrastiche, a struttura fissa (per es., la strofa alcaica e la saffica, identiche in Alceo e in Saffo). Questa costanza di forme ritmiche, mentre fa ritenere possibile l’esistenza di schemi melodici tradizionali, su cui i poeti adattavano di volta in volta nuove parole, sembra per ciò stesso preludere al distacco della poesia dalla musica. Certo le forme della l. eolica poterono rivivere più tardi presso poeti (come i latini Catullo e Orazio) decisamente lontani da ogni attività musicale: quando Orazio si augurava d’essere annoverato tra i lirici (Odi I, 1,35), tale parola aveva all’incirca il valore che avrebbe presso i moderni.
Soltanto dal Rinascimento italiano in poi si tentò di costituire la l. in genere letterario autonomo, soprattutto come espressione diretta, per lo più di breve estensione, dell’individualità, della passionalità dell’autore, in contrapposizione con l’epica e la drammatica, nelle quali il poeta oggettiva il suo sentire attraverso la narrazione di eventi e rappresentazione di personaggi. La quale distinzione ha un indubbio valore empirico e orientativo, per quanto, ovviamente, anche i poeti epici e drammatici esprimono solo sé stessi. Comunque, s’intende bene come per i romantici, che concepivano la poesia come pura e quanto più possibile diretta e immediata effusione dell’anima, la l. fosse l’unica forma pienamente legittima di poesia. Erede in ciò dell’estetica romantica, B. Croce riconobbe nella liricità il carattere essenziale e distintivo di ogni poesia. Ma anche ad assumere il termine l. nel suo significato più ristretto, è impossibile tracciare, per i tempi moderni, una storia di essa. Nessun metro, nessun soggetto o tono possono essere considerati specificamente lirici; i soggetti e i toni della l. possono essere i più diversi, dai mistici ai giocosi. D’altra parte, accenti anche spiegatamente lirici si trovano in qualsiasi componimento, anche nel dramma, nell’epica, nella prosa, e persino nella prosa scientifica, come, per es., in alcune pagine di Galileo.