Verso tradizionale dell’epopea greca e romana da Omero in poi, usato però anche nella poesia religiosa (oracoli e inni), nella didascalica e, unito con il cosiddetto pentametro elegiaco, nella poesia elegiaca (distico elegiaco). L’e. si trova alternato con il dimetro giambico già in Archiloco e poi in epodi di Orazio.
L’ e. dattilico, o semplicemente e., come già lo chiamò Erodoto, ha lo schema: −′−−∪∪−′−−∪∪−′−−∪∪−′−−∪∪−′−−∪∪−′−∪. È un verso recitativo derivante forse dall’unione di un hemiepes e di un enoplio. Diviene sempre più rigido da Omero ai poeti ellenistici della tarda grecità, specialmente in Nonno di Panopoli. In Omero infatti ha 32 forme (σχήματα) nella ripartizione dei piedi, in Nonno non ne ha più di 9.
Si ebbero vari tipi di e. secondo la disposizione degli spondei rispetto ai dattili; tra i più noti: e. spondaico, se il 5° piede è spondeo; e. periodico, se alterna dattili e spondei; e. saffico, frequente in Saffo, se ha lo spondeo all’inizio e in fine; e. olodattilo, se formato tutto di dattili; e. olospondaico o isocrono, se tutto di spondei. Nell’e. greco le cesure più comuni sono: la cesura pentemimera, la cesura trocaica, la eftemimera; poi la dieresi bucolica (più frequente negli e. della poesia bucolica alessandrina); la cesura tritemimera di solito si accompagna all’eftemimera o alla dieresi bucolica.
L’e. latino, introdotto da Ennio, ha prevalenza di spondei, rigetta la cesura trocaica, preferisce la pentemimera. Con Virgilio l’esametro di stile severo raggiunge la perfezione anche per la tecnica delle regole sulla fine del verso.
Nell’e. medievale la cesura pentemimera diventa quasi esclusiva e spesso viene introdotta la rima.